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Niente pace al Colosseo

alessandrobanfi.substack.com

Niente pace al Colosseo

Gli ucraini criticano la presenza silenziosa di una donna russa sotto la Croce del Venerdì Santo. Putin chiarisce gli obiettivi: Donbass, Mariupol e Crimea. Kiev non vuole i tedeschi e incalza la Ue

Alessandro Banfi
Apr 13, 2022
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Niente pace al Colosseo

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Sotto la Croce del Colosseo non c’è spazio per la pace. Il mondo è già diviso in due, in modo feroce. Non accetta una logica diversa. È comprensibile umanamente che gli ucraini, vittime della violenta “de-ucrainizzazione” dell’esercito russo a base di uccisioni di civili e di stupri, si sentano a disagio di fronte all’appello del Papa. Che pure ha convocato solo due donne, già amiche fra loro, l’ucraina Irina e la russa Albina, a portare, in silenzio ma insieme, la Croce. Come scrive Marco Tarquinio, sulla prima pagina dell’Avvenire: “Se neanche davanti alla croce di Cristo, nel Venerdì Santo, allora dove?”. Sorprende semmai che il commento più duro venga proprio dall'arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina, Sviatoslav Shevchuk. Come può un uomo di Dio ignorare lo scandalo evangelico dell’amore al proprio nemico? La Croce è più che mai segno di contraddizione per l’umanità.

Un’umanità che non sembra cercare una soluzione diversa al conflitto che non sia il riarmo e la guerra stessa. Cecilia Strada sul Fatto osserva che “per aiutare chi giustamente si difende io devo valutare se ho un'altra opzione oltre all'invio delle armi. E se ce l'ho e mi sembra più produttiva, devo farla mia con convinzione”. Gustavo Zagrebelsky in un bell’intervento su Repubblica nota: “I potenti della terra non fanno che evocare valori. Quando fanno finta d'essere in cielo, sono truffatori. Più si sale verso il cielo, più si perde di vista l'umanità. Non c'è guerra, non c'è violenza, non c'è sopraffazione che non cerchino di giustificarsi, un tempo attraverso la santificazione, oggi attraverso la ideologizzazione”.

Ieri Vladimir Putin, in visita in Bielorussia, è sembrato chiarire i nuovi obiettivi dell’invasione russa. Secondo Gian Micalessin e il Giornale, titolo Il piano segreto di Putin, Mosca punterebbe a Mariupol, Donbass e Crimea. E rinuncerebbe ad Odessa e a Kiev. Ma basterà all’Ucraina? In questo modo i termini del possibile compromesso sarebbero quelli di prima del conflitto, e poi ancora simili ai dieci punti emersi dal tavolo di Ankara. In entrambi i casi fu Volodymyr Zelensky a non accettare la soluzione negoziale. Sicuramente incoraggiato da Washington e Londra. È come se l’Occidente volesse forzare (indirettamente) la mano di Putin: se Mosca usasse armi chimiche o nucleari, il conflitto inevitabilmente si allargherebbe…   

Dopo un mese e mezzo di guerra il mondo, l’Europa e l’Italia sono già profondamente cambiati. Anche se facciamo finta non sia così. Come nota Domenico Quirico sulla Stampa. E non solo dal punto di vista politico e culturale, ma anche da quello economico. Le prospettive di sviluppo sono diventate previsioni negative. Oggi Il Sole 24 Ore rivela che il gas liquido statunitense ci potrebbe costare il 50 per cento in più di quello russo.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine di oggi ritrae l’inquietante attacco alla metropolitana di New York, accaduto ieri. Un uomo con una maschera antigas e un gilet verde ha cominciato a sparare sui passeggeri partendo dalla terza carrozza nella stazione della 36esima strada, nella zona di Sunset Park a Brroklyn. Erano le 8.30 del mattino, rush hour, ora di punta e di affollamento. Almeno diciotto i feriti, cinque di questi sono in condizioni critiche ma nessuno è in pericolo di vita. L’attentatore ha usato fumogeni e non è ancora stato catturato.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il presidente russo ha parlato ieri dalla Bielorussia e così molti titoli sono per lui. Il Corriere della Sera annuncia: Putin marcia sul Donbass. Avvenire sottolinea le parole sulla presunta messinscena di Bucha: La realtà ribaltata di Putin. Il Domani svela un disegno di destabilizzazione economica: Putin scommette sull’inflazione per logorare Europa e Stati Uniti. Il Fatto mette insieme anche le dure prese di posizione di Zelensky: Putin: niente tregua. Kiev: no al Papa e alla Germania. Il Foglio chiede carri armati e cannoni: L’Ucraina? Meno lacrime, più armi. Il Giornale è lievemente più ottimista: Il piano segreto dello Zar. Il Quotidiano Nazionale: Bombe chimiche per piegare Mariupol. Il Manifesto gioca con le parole e accosta la foto di un bambino ucraino orfano alla lettera simbolo dell’invasione russa: Generazione Z. Il Mattino spiega: L’obiettivo è il Donbass. Il Messaggero annuncia: Il centro di Mariupol ai russi. Per La Repubblica è: Il pugno di Putin. La Stampa rilancia la richiesta di Kiev alla Ue: Zelensky: fermate il gas di Putin. La Verità tematizza le critiche di Kiev al Venerdì santo di pace: L’Ucraina trascina in guerra pure Gesù. Il Sole 24 Ore si occupa del 110%: Cessione bonus, stop delle banche. Libero si distrae con la politica italiana e sogna il “vero” matrimonio del Cav: Voglia di Forza-Lega.

KIEV: NO A BERLINO, POLEMICA SUL VENERDÌ SANTO

Il Cremlino sostiene che gli ucraini hanno spinto le trattative in un vicolo cieco. Intanto Kiev non accoglie il presidente della Germania che voleva andare in visita, mentre Zelensky vorrebbe che la Ue rinunciasse al gas russo. Polemica con il Vaticano e il Papa per la preghiera comune di una russa e di un’ucraina sotto la Croce del Venerdì santo al Colosseo. Giampiero Gramaglia sul Fatto fa il punto della situazione.

«Mentre si chiude la settima settimana di guerra aperta, l'offensiva russa si sviluppa lungo due fronti: sul terreno, c'è l'occupazione della regione di Donetsk, che passa attraverso la presa di Mariupol e poi di Popasna e l'avanzata in direzione di Kurakhove; al tavolo dei negoziati, c'è, invece, una sorta di stallo, quasi un arroccamento. Tutta colpa di Kiev, sostiene Mosca: l'Ucraina non avrebbe rispettato i patti con la Russia fatti il 28 e 29 marzo a Istanbul; e l'Occidente la userebbe come strumento per raggiungere i propri obiettivi, "indipendentemente dagli interessi del popolo ucraino". Il Cremlino dice: "Gli ucraini hanno spinto le trattative in un vicolo cieco... e ora le operazioni militari andrà avanti finché non ci saranno condizioni di negoziato accettabili". Lo stato maggiore delle forze armate di Kiev pubblica su Facebook i piani di guerra russi, ammesso che siano veri. E il presidente ucraino Volodymyr Zelensky va di nuovo in pressing sull'Europa: senza uno stop al gas russo, non si potrà costringere alla pace il presidente russo Vladimir Putin. "Occorre -dice -garantire che la risposta dell'Europa all'aggressione russa sia veramente forte e veramente solida. Devono essere fissate scadenze specifiche per ogni Stato Ue perché efficacemente o almeno limiti in modo significativo il consumo di gas e petrolio" russi. La Bild scrive che Zelensky avrebbe "stoppato" una visita a Kiev del presidente tedesco Frank Walter Steinmeier, nell'ambito di una delegazione europea, a causa di stretti contatti, in passato, tra Steinmeier e Putin. Invece, è giunto ieri sera a Kiev l'elemosiniere di Papa Francesco, cardinale Konrad Krajewski, latore del dono di un'ambulan za: il cardinale resterà in Ucraina tutta la settimana santa. Ma la guerra divide i cristiani: la decisione vaticana di fare portare la croce a una famiglia russa e a una ucraina insieme nella via crucis del Venerdì Santo al Colosseo, sotto gli occhi del Papa, trova l'opposizione dell'ambasciata di Kiev presso la Santa Sede ed è definita "inopportuna" dall 'arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina. L'intelligence britannica prevede che l'attacco russo nel sud-est tocchi l'apice fra due/tre settimane, la Cnn segnala colonne di blindati avanzare nel Donbass. Mariupol resta l'epicentro degli scontri ed è ancora contesa, a giudizio del Pentagono: lì, un tank russo ha distrutto la sede locale della Caritas (sette i morti); e lì e pure a Zaporizhzhia i russi avrebbero usato "munizioni al fosforo" e diffuso con droni sostanze chimiche, causando malesseri fra i militari ucraini. Sono prime informazioni pervenute e non confermate, specialisti americani e britannici fanno accertamenti, il Pentagono esprime preoccupazione; ma Dan Kaszeta, un esperto Usa, ipotizza che si tratti degli effetti della contaminazione con tossine chimiche delle aree industriali bombardate. Kiev denuncia il ritrovamento, nelle aree liberate, di fosse comuni e continua a registrare e indagare i crimini di guerra attribuiti ai russi. Parlando al Parlamento lituano, Zelensky elenca gli orrori: "Migliaia di vittime, centinaia di casi di stupri e di brutali torture, cadaveri in tombini e scantinati, corpi legati e mutilati, centinaia di orfani". È stato pure creato un elenco dei traditori: i nomi sarebbero già un centinaio. Solo a Bucha sono stati finora trovati 403 corpi di civili uccisi durante l'occupazione, ma il numero crescerà - sostiene il sindaco Anatoliy Fedoruk -: è troppo presto perché i residenti fuggiti nelle tornino nelle loro case. Borodyanka, la città più distrutta dopo Mariupol, potrebbe scomparire. E ci vorranno dieci anni -si stima- per ricostruire il porto sul Mar d'Azov, che i russi vogliono rendere un "mare loro"; secondo la Tass, l'Ucraina avrebbe espropriato dieci navi russe nel porto di Odessa».

GLI UCRAINI CONTRARI ALLA VIA CRUCIS

Non piace affatto agli ucraini l’idea che nella Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo due donne - una ucraina e una russa - portino la croce insieme. Ecco la cronaca per Avvenire di Mimmo Muolo.

«Mentre il Papa torna a implorare la pace, non va giù agli ucraini la decisione che nella Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo due donne - una ucraina e una russa - portino la croce insieme. Non piace all'ambasciatore presso la Santa Sede Andriy Yurash, in carica dallo scorso dicembre, che lo fa sapere con un tweet. E soprattutto all'arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina, Sviatoslav Shevchuk, che con un duro comunicato definisce «questa idea inopportuna e ambigua che non tiene conto del contesto di aggressione militare russa contro l'Ucraina». Il caso diventa palese nel primo pomeriggio di ieri, quanto arriva il 'cinguettio' del diplomatico. «L'ambasciatore Andriy Yurash - si legge nel suo tweet - capisce e condivide la preoccupazione generale in Ucraina e in molte altre comunità sull'idea di mettere insieme le donne ucraine e russe nel portare la croce durante la Via Crucis di venerdì al Colosseo. Ora stiamo lavorando sulla questione cercando di spiegare le difficoltà della sua realizzazione e le possibili conseguenze». Parole che farebbero pensare a una qualche forma di pressione, di certo irrituale, persino sulla Santa Sede. Comunque una doccia fredda, alla quale in serata si aggiunge l'inequivocabile comunicato di Shevchuk. «Per i greco-cattolici dell'Ucraina - afferma il capo della comunità di rito bizantino in comunione con Roma -, i testi e i gesti della XIII stazione di questa Via Crucis sono incomprensibili e persino offensivi, soprattutto in attesa del secondo, ancora più sanguinoso attacco delle truppe russe contro le nostre città e villaggi. So anche che i nostri fratelli cattolici del rito latino condividono con noi questi pensieri e preoccupazioni». Il Primate della Chiesa greco-cattolica dice di aver già trasmesso alle autorità della Santa Sede «le numerose reazioni negative di molti vescovi, sacerdoti, monaci, monache e laici, convinti che i gesti di riconciliazione tra i nostri popoli saranno possibili solo quando la guerra sarà finita e i colpevoli dei crimini contro l'umanità saranno condannati secondo giustizia». E conclude: «Spero che la mia richiesta, la richiesta dei fedeli della nostra Chiesa, la richiesta dei fedeli della Chiesa cattolica latina in Ucraina vengano ascoltate». Parole di una durezza senza precedenti. Dalla Santa Sede, fino a tarda serata nessuna reazione. Ma dopo il tweet dell'ambasciatore, padre Antonio Spadaro, in un post su Facebook, aveva notato: «Occorre comprendere una cosa: Francesco è un pastore non un politico. Agisce secondo lo spirito evangelico, che è di riconciliazione anche contro ogni speranza visibile durante questa guerra di aggressione definita da lui "sacrilega". Per questo ha pure consacrato insieme #Ucraina e #Russia al Cuore di Maria». «Le due donne, Albina e Irina, nel venerdì santo porteranno la Croce - sottolineava il direttore di Civiltà Cattolica -. Non diranno una parola. Neanche una richiesta di perdono o cose del genere. Niente. Sono sotto la Croce. Scandalosamente insieme. È un segno profetico mentre le tenebre sono fitte. Ed è una invocazione a Dio perché ci dia la grazia della riconciliazione. La loro presenza insieme - proseguiva il post - è una preghiera scandalosa per chiedere una grazia che solamente Lui può dare. La profezia si incunea nei cuori e nelle ombre della storia». Il gesuita concludeva: «La domanda per il credente resta: che cosa significa oggi in questa situazione "amare il nemico" (che è il cuore del Vangelo)? E il Papa è pastore universale. Per lui vale quel che ha appena scritto in un tweet: "Il Signore non ci divide in buoni e cattivi, in amici e nemici. Per Lui siamo tutti figli amati". È terribile e scandaloso. Ma è questo il Vangelo di Cristo». Il turno di Albina e Irina a portare la Croce sarà in corrispondenza della XIII stazione, quando Gesù muore subito dopo aver gridato «Dio mio, perché mi hai abbandonato. E su questo insiste anche la meditazione scritta a quattro mani. «Dove sei Signore? Dove ti sei nascosto? Vogliamo la nostra vita di prima. Perché tutto questo? Quale colpa abbiamo commesso? Perché ci hai abbandonato? Perché hai abbandonato i nostri popoli? Perché hai spaccato in questo modo le nostre famiglie? Perché non abbiamo più la voglia di sognare e di vivere? Perché le nostre terre sono diventate tenebrose come il Golgota?». Domande che preludono a una preghiera di riconciliazione. «Signore dove sei? Parla nel silenzio della morte e della divisione ed insegnaci a fare pace, ad essere fratelli e sorelle, a ricostruire ciò che le bombe avrebbero voluto annientare». Preghiera tanto più necessaria alla luce delle prese di posizione di ieri».

Repubblica ha ripreso dall’Osservatore Romano la testimonianza delle due donne: l’ucraina Irina e la russa Albina, già amiche fra di loro, chiamate insieme alla Via Crucis del Colosseo.

«La famiglia di un'infermiera ucraina, Irina, che lavora a Roma al Centro di cure palliative "Insieme nella cura" della Fondazione Policlinico universitario Campus bio-medico. E quella di una studentessa russa, Albina, del corso di laurea in Infermieristica sempre dell'Università Campus bio-medico. Sono le due voci, quotidianamente vicine a chi soffre, che sono state chiamate dal Vaticano a dare testimonianza assieme durante la Via Crucis di papa Francesco al Colosseo dopodomani. Entrambe scelgono in queste ore il silenzio, anche se poche ore prima che il mondo istituzionale e religioso ucraino s' indignasse pubblicamente, hanno accettato di raccontare la propria esperienza sull'Osservatore Romano . Racconta Irina: «La nostra amicizia nasce all'interno del reparto di cure palliative "Insieme nella cura". Il nostro incontro è avvenuto proprio in questo luogo molto delicato. Dal primo momento, il nostro legame è stato molto naturale. È nata questa amicizia in modo spontaneo. E quindi, ogni volta che ci incontravamo, era una emozione. Quando ci siamo incontrate poco dopo l'inizio della guerra, Albina è venuta nel reparto. Io ero di turno. È bastato il nostro sguardo: i nostri occhi si sono riempiti di lacrime». Irina ricorda l'emozione quando Albina ha cominciato a chiederle scusa: «In quel momento era veramente inconsolabile - dice - Non riuscivo a consolarla. Lei si sentiva in colpa e mi chiedeva scusa. Io la rassicuravo che lei non c'entrava niente in tutto questo». Irina è convinta che «insieme» russi e ucraini potrebbero «fare tanto». «L'umanità si deve unire insieme per cercare di trovare la pace e una soluzione a tutto quello che sta accadendo». Il Venerdì Santo, alla Via Crucis, «sicuramente pregherò con tutto il mio cuore per la pace, per tutti gli esseri umani, per tutti quelli che soffrono e per le persone che hanno perso la vita senza poter avere accanto i loro cari».

SE NON SOTTO LA CROCE, DOVE?

Il commento del direttore Marco Tarquinio sulla prima pagina di Avvenire.

«Se neanche davanti alla croce di Cristo, nel Venerdì Santo, allora dove? Dove i russi e gli ucraini, fratelli per storia e fede, e ora in feroce guerra perché il fratello ha aggredito il fratello, possono chiedere a Dio con una sola voce: «Liberaci dal male»? Eppure uomini di diplomazia e persino uomini di Chiesa ragionano sull'inopportunità che a Roma, seguendo Gesù nella salita al Calvario e accanto al Papa che a tutti e per tutti continua a chiedere tregua e pace, si intreccino le voci di una famiglia ucraina e una russa che sono parte del gruppo a cui Francesco ha affidato i testi della Via Crucis al Colosseo. Si preme perché queste famiglie, amiche e ferite dalla guerra e dall'odio che la guerra sempre genera e alimenta ma non preda dell'odio, non meditino e non preghino insieme davanti agli occhi del mondo. Bisogna inchinarsi a ogni dolore e a ogni dubbio scatenati dal massacro d'umanità che la guerra, stavolta questa «abominevole» accesa da Vladimir Putin, sempre ricomincia. Ma nessuno dovrebbe arrivare a pensare che è inopportuno che i cristiani s' inchinino insieme, davanti al Figlio crocifisso e chiedano, a Lui, la pace che noi quaggiù non sappiamo fare».

MARIUPOL, I MILIZIANI DI AZOV ACCUSANO I RUSSI

Mariupol: ora i miliziani neo nazi di Azov accusano gli invasori russi di "usare armi chimiche". Al momento mancano prove certe. Il ministero della Sanità ucraino nelle scorse settimane si è fatto inviare 200 mila dosi di atropina, utile contro gli agenti nervini. Daniele Raineri per Repubblica.

«Da ieri i canali ufficiali del reggimento Azov tentano di dare sostanza all'allarme lanciato lunedì sera: un drone avrebbe sganciato un non meglio identificato attacco con armi chimiche contro una zona di Mariupol, la città assediata che potrebbe capitolare da un momento all'altro dopo quarantadue giorni di bombardamenti brutali e di scontri casa per casa. Quelli di Azov - di ideologia neonazista - fanno parlare davanti a una telecamera tre persone colpite, che raccontano di debolezza improvvisa, difficoltà a respirare, bruciore agli occhi, secchezza delle fauci e tachicardia. Una donna anziana dice di avere perso conoscenza e di non riuscire più a camminare, un uomo sdraiato di avere sentito un'esplosione e di avere visto del fumo bianco, non molto fitto, un terzo uomo si è già ripreso. Due uomini di Azov nel video spiegano che è difficile investigare quello che è successo perché la zona è sotto i bombardamenti russi «per coprire i loro crimini» e anche che non è possibile fare un esame tossicologico perché l'attacco è avvenuto in una zona che è sotto assedio. I portavoce del reggimento Azov contattati per avere più informazioni non rispondono. Non si sa molto per adesso e il vuoto che resta lo riempiono le supposizioni. Un ex comandante di Azov, Maksym Zhorin, che ora guida un'altra fazione di destra, dice che i russi hanno lanciato una bomba al sarin. È un agente nervino molto potente, con una letalità altissima, che tra il 2013 e il 2017 è stato usato contro i civili in Siria dal regime del presidente Bashar al Assad appoggiato dalla Russia. Ma Zhorin non era nella città assediata. Da settimane si parla della possibilità di un attacco con armi chimiche a Mariupol per accelerare la vittoria finale, che sta costando troppi combattenti e mezzi ai russi. Ne parlano gli assedianti frustrati, ci dicono fonti locali, e lo aveva persino dichiarato in pubblico il portavoce della cosiddetta Repubblica indipendente di Donetsk, Eduard Basurin, come arma necessaria a vincere senza perdere altri uomini: bloccare gli ingressi dei sotterranei e poi usare i gas «per snidare le talpe dalle loro tane». Proprio questa dichiarazione è stata citata ieri dal presidente ucraino Zelensky, che ha detto di prenderla sul serio. L'Amministrazione Biden per ora dice di non poter confermare o smentire l'uso di armi chimiche in Ucraina. Dan Kaszeta, un esperto americano autore di un libro sull'uso degli agenti nervini "dalla Siria alla Russia di Putin", al telefono prova a fare ordine e a mettere in guardia: i sintomi denunciati a Mariupol non sono compatibili con il sarin e il fumo tossico potrebbe essere stato sprigionato - per ipotesi - da qualche altra sostanza colpita nei bombardamenti. C'erano aspettative. Uno dei tre colpiti intervistati nel video del reggimento Azov, che è un combattente, dice che lui e gli altri durante l'attacco hanno indossato la maschera antigas - e se erano così equipaggiati è perché sospettavano che potesse succedere. Il ministero della Sanità ucraino, secondo il Wall Street Journal di tre giorni fa, si è procurato 220 mila fiale di atropina, che serve da antidoto contro gli agenti nervini. Gli agenti nervini in questi anni sono stati associati alle operazioni più nere dell'apparato di sicurezza putiniano: i russi in questi anni hanno coperto e aiutato gli alleati siriani in ogni modo dopo ogni attacco chimico e gli stessi servizi russi hanno usato il novichok (un agente nervino sofisticato che appartiene alla stessa famiglia del sarin) in almeno tre tentativi di assassinio mirato: contro l'ex agente dell'intelligence russa Serghei Skripal che viveva vicino a Londra, contro l'esportatore di armi bulgaro Emilian Gebrev (che rifornisce di armi l'Ucraina) e contro Alexey Navalny, il volto più noto dell'opposizione politica contro Putin. Tutti e tre sono finiti in coma e una passante inglese che non c'entrava nulla è morta. Venerdì 25 marzo, senza preavviso, il presidente americano Joe Biden ha minacciato un intervento diretto della Nato in caso di attacchi con armi chimiche in Ucraina. È verosimile che l'intelligence americana abbia intercettato e ascoltato molte conversazioni russe e dei separatisti che menzionano il possibile uso di armi chimiche. Il sarin eccita l'opinione pubblica internazionale e attira l'attenzione molto più dei colpi d'artiglieria e dei bombardamenti aerei».

Ma il video è una prova sufficiente? Il direttore del Quotidiano Nazionale Michele Brambilla mette in guardia dalle possibili falsificazioni.

«In una telefonata a Orbán, ieri Putin ha detto che la strage di Bucha è un falso della propaganda ucraina. Non entriamo nel merito: tutti hanno una propria propaganda, e comunque Putin è responsabile di avere scatenato la guerra. Punto. Tuttavia la diatriba su Bucha offre l'occasione per una riflessione su come viene comunicato questo conflitto. Mai come adesso, infatti, abbiamo avuto tante immagini e tanti filmati su una guerra. Mai. Viviamo praticamente in diretta tutto ciò che succede in Ucraina. Ma queste immagini sono anche "prove" di ciò che realmente accade? Vien da dire: ma certo. C'è perfino il filmato! Quale prova più convincente? Un bravo regista bolognese, Paolo Muran, mi ha però fatto presente che nel film The Revenant, del 2015, c'è una scena in cui Leonardo DiCaprio viene sbranato da un orso. «È di un realismo pazzesco», dice Muran: «Nulla fa dubitare che sia tutto vero, se non il fatto che quella persona è sicuramente Di Caprio, il quale risulta ancora vivo. Insomma solo la consapevolezza che è un film ci assicura che quanto vediamo, nella realtà, non è successo». Continua Muran: «Quella scena è stata girata in digitale, e con il digitale puoi fare qualsiasi cosa. Quando ho visto, dall'Ucraina, il video di un carro armato che schiacciava un'automobile ho pensato subito a un montaggio digitale, tanto più che veniva affermato che l'automobilista ne era uscito indenne, cosa assolutamente impossibile. La verità è che mai come oggi le immagini possono essere manipolate». Tutto questo non per dar fiato alla Commissione Dubbio e Precauzione, nella quale milita anche qualcuno che sostiene la tesi di una fiction ucraina gabellata per guerra. No, non c'è dubbio (ovviamente...) che la guerra ci sia e che al di là delle possibili esagerazioni della propaganda di Zelensky i russi stiano facendo massacri. Se così non fosse, non avremmo milioni di profughi. Ma appunto: che cosa sono i profughi se non "testimoni"? Se non esseri umani? L'ho pensato anche riguardando i video girati dal bravissimo Salvatore Garzillo, che scrive per noi dall'Ucraina. I video possono anche essere manipolati, ma lui - Garzillo, come molti altri inviati - è là, ha visto quanto succede e lo può testimoniare. E vengo al punto. Nell'era del culto del dio Tecnologia resta determinante, per conoscere la verità, la presenza umana. Carne e ossa e cervello e cuore che vedono e raccontano. Con buona pace di chi sostiene che, grazie all'Intelligenza Artificiale, si potrà fare a meno dei giornalisti, visto che basterà inserire le informazioni in una macchina che produrrà il servizio. (Chi poi le raccoglierà, le informazioni da inserire, non si sa)».

LE TESTIMONIANZE DEGLI STUPRI

Stupri etnici per strada ma anche violenze organizzate in modo scientifico durante l’occupazione, come il caso delle 25 donne segregate per giorni dai soldati russi, nove di loro sarebbero incinte. Brunella Giovara per Repubblica:

«Lui le ha detto: «Sei solo una puttana nazista». Lei si è arresa, davanti alla canna del fucile, e tutto è successo in mezzo alla strada. Si può dire che questo è troppo, da ascoltare e sopportare. Ma non sappiamo ancora la completa verità sui fatti di Bucha, quindi non è ancora troppo. Sapevamo che alcune ragazze e donne sono state violentate dai soldati russi, a Bucha e in altri centri intorno a Kiev, oggi sappiamo che sono stati stupri etnici, come è successo in Bosnia, in Kosovo, in Ruanda. Lo dicono i testimoni, oltre ai funzionari incaricati di raccogliere la documentazione sui crimini di guerra. Lo dicono le prime autopsie sui cadaveri di donne violentate per giorni, a volte sopravvissute, a volte no. Morte straziate, o uccise, talvolta seppellite nel tentativo di nascondere il reato, o forse solo perché quei corpi cominciavano a imputridire, negli ultimi giorni di marzo. Liudmyla Denisova, difensore civico presso il parlamento ucraino, ieri ha dichiarato che «25 donne, di età tra i 14 e i 24 anni, sono state violentate per 25 giorni dai russi. È successo nel seminterrato di una casa privata, dove erano prigioniere». Una specie di bordello che i soldati si sono costruiti a Bucha, una volta occupata la città, rastrellando le vittime per strada e abusandone quando ne avevano voglia, riducendole in fin di vita, traumatizzandole per sempre. «Nove di queste donne sono ora incinte », ha spiegato Denisova. Disperate, tanto che ieri il sindaco Anatoliy Fedoruk ha detto di «non voler aggiungere dettagli, perché è una vicenda delicata, e bisogna rispettare la sensibilità delle persone coinvolte». Alcune hanno reso la loro testimonianza, raccontando la brutalità, il disprezzo, gli insulti, l'umiliazione. Il dolore fisico, anche, visto che centinaia di uomini sono entrati in quel seminterrato, e il tutto è andato avanti quasi un mese. Denisova: «I russi dicevano a queste donne che le avrebbero violentate al punto che non avrebbero mai più voluto avere un rapporto sessuale, per impedire loro di avere figli ucraini». Ma russi. La massima vergogna. Venire stuprate e poi partorire il figlio del nemico. Ieri il Servizio di sicurezza ucraino (Sbu) ha pubblicato sul suo sito una intercettazione in cui una donna russa parla con il marito soldato in Ucraina. Lei: «Vai e violenta le ucraine, ma dopo non raccontarmi niente, non voglio sapere niente, capito?». E lui: «Allora mi dai il tuo permesso?». Lei: «Sì, ma ricordati di usare il preservativo». Se è così, è una prova da usare in tribunale, quando arriverà il momento dei processi. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha tenuto una sessione straordinaria proprio sulle violenze contro donne e bambini. Sima Bahous, direttore esecutivo di UN Women e appena rientrata da una viaggio in Ucraina, ha detto che «la combinazione di un massiccio sfollamento, l'ampia presenza di coscritti e mercenari» nelle truppe di occupazione, e «la brutalità contro i civili ucraini, ha fatto sollevare tutte la bandiere rosse», intendendo l'allarme estremo «per gli stupri e le violenze sessuali di cui sentiamo parlare sempre più spesso». Quindi ha chiesto «un'indagine indipendente per garantire la giustizia e trovare i responsabili». Ma sarà difficile. Qualcuno sarà anche morto, nel frattempo. Ieri Zelensky ha di nuovo parlato dei crimini di guerra, «sono stati denunciati centinaia di stupri, tra cui ragazze minorenni, bambini molto piccoli, persino neonati». Bisogna trovare le prove, perciò molti esperti in indagini forensi stanno arrivando in Ucraina, ieri ad esempio a Bucha c'era una squadra di francesi che aiuterà i medici locali nelle autopsie. Una sarà quella sulla donna trovata proprio a Bucha, nella cantina di una casa privata, il giorno dopo la partenza dei russi. Aveva addosso una pelliccia, niente altro. Segni evidenti di stupri ripetuti, il corpo coperto di lividi, e un colpo alla testa per finirla. Chi è stato? «Io sono stata violentata da un ragazzo ceceno, che mi ha portato via da casa minacciandomi con il fucile», ha raccontato una donna ucraina di 50 anni alla Bbc. Era il 7 marzo, in un Paese a 70 chilometri da Kiev. «Spogliati o sparo», e lei si è spogliata. Dopo, sono arrivati altri soldati che hanno portato via il compagno. Ha trovato la forza di tornare a casa, lì c'era il marito moribondo, gli avevano sparato nella pancia. Chi era quel giovane ceceno? Lo stesso che ne aveva aggredita un'altra, nella stessa strada. «Torturata da ignoti, seppellita da soldati russi», così stava scritto nella casa della vittima, una scritta fatta con il rossetto sullo specchio. Seppellita malamente in giardino, e non per pietà».

CHERNOBYL, I RUSSI INVASORI INCONSAPEVOLI

Qui Chernobyl. Visita in uno dei luoghi più pericolosi della Terra: gli ucraini si sono arresi per evitare il disastro, gli invasori sembravano non capire dove si trovavano. Il racconto di Lorenzo Cremonesi per il Corriere.

«Brutalità, ignoranza, disprezzo del nemico, ma anche di sé stessi e dei propri soldati, vista la maniera sconsiderata e autolesionista in cui si sono comportate le forze d'invasione russe nella regione radioattiva della centrale nucleare devastata dal disastro del 1986: sono le conclusioni che s' impongono ascoltando le ultime cronache da Chernobyl. Visitare in compagnia dei tecnici ucraini la «zona di esclusione» attorno al gigantesco «Sarcofago», che l'intera comunità internazionale contribuì a costruire per arginare le particelle avvelenate del reattore fuso, porta inevitabilmente a toccare con mano gli aspetti più tragicamente assurdi di questa guerra nelle terre d'Europa. «Lo so che sembra incredibile e inizialmente anche noi tecnici che lavoriamo alla centrale abbiamo cercato di avvisare gli ufficiali russi che occorreva fare molta attenzione. Non dovevano smuovere la terra fuori dalle strade asfaltate o i sentieri tracciati. Del resto, sta scritto su tutti gli avvisi per i visitatori qui attorno. E soprattutto non dovevano toccare il materiale radioattivo senza protezioni. All'inizio pareva che avessero capito e fossero disposti ad ascoltarci. Ma, quando poco più di un mese dopo si sono ritirati, hanno saccheggiato e devastato senza riflettere sulle conseguenze. Ho visto soldati mettersi nella tasca dell'uniforme alcuni ionizzatori e altri oggetti pericolosi rubati dai laboratori che mai avrebbero dovuto maneggiare. Sono certo che adesso sono già all'ospedale affetti da dosi eccessive di radiazioni: se non si curano subito potranno sviluppare forme cancerogene in pochi anni», racconta Maxim Chevchuk, 41 anni e da due vicedirettore dell'intero impianto che ieri ci ha condotto nella zona. Colonne blindate Roslan, uno degli ufficiali di guardia dove sino al 23 febbraio i visitatori venivano controllati, ammette che per le colonne blindate russe catturare Chernobyl fu relativamente facile. «Il confine con la Bielorussia si trova ad appena 25 chilometri da qui. Con noi avevamo circa 170 soldati della Guardia nazionale dotati unicamente di armi leggere. Le colonne blindate russe attaccarono all'alba del 24 febbraio e prima di mezzogiorno oltre 50 tank stavano nel piazzale di fronte ai nostri uffici con i cannoni puntati. Le grandi battaglie per fermarli sarebbero avvenute nei giorni seguenti alle porte di Kiev, un centinaio di chilometri più a sud. Fu allora deciso di arrendersi per due motivi principali: i nostri soldati sarebbero stati inutilmente massacrati e soprattutto si voleva evitare qualsiasi danno alla centrale nucleare, che avrebbe potuto causare una tragedia anche peggiore rispetto a quella del 1986», ricorda. Per i russi il solo nome di Chernobyl rappresenta un'onta, una macchia da lavare: assieme alla debacle afghana degli anni Ottanta fu tra le cause maggiori del crollo finale dell'Urss. «Non pensavamo che i russi avrebbero voluto occuparci tanto in fretta», ammette Roslan. Lui coi suoi uomini stanno correndo ai ripari: è il motivo per cui oggi non ci fanno visitare le aree sensibili, trincerano le zone a nord della centrale, i genieri fanno saltare le mine lasciate dai russi e costruiscono fortificazioni. Il futuro Per ora l'attenzione dei comandi è spostata su Mariupol e sul Donbass. Ma qui impera la convinzione che Putin riproverà nel futuro a prendere Chernobyl per poi tornare a puntare su Kiev. Tuttavia, in un primo tempo il rapporto con i tecnici ucraini era stato di cooperazione. «Non voglio dire che non ci fossero tensioni. I russi avevano catturato i nostri soldati e di loro non sappiamo più nulla. Però, oltre cento dei nostri tecnici sono rimasti a supervisionare che l'impianto non subisse danni. Gli ufficiali russi parevano consapevoli del disastro di 36 anni fa e non interferivano. Le loro colonne corazzate transitavano senza fermarsi. Erano certi di poter vincere in pochi giorni, sembravano ottimisti», specifica ancora Maxim. Ma le cose degenerarono man a mano che le perdite russe aumentavano e le loro colonne s' impantanavano: la rabbia russa crebbe con la frustrazione. Iniziò allora la persecuzione dei civili: agli occhi dei soldati russi ogni ucraino era un pericoloso nemico. «Il primo allarme scattò attorno al 5 marzo, quando l'assenza di carburante rischiò di fare saltare il pompaggio dell'acqua per il sistema di raffreddamento del reattore. I russi cooperarono poco, non ci dettero neppure un goccio della loro benzina», dicono i tecnici. Intanto però scattarono gli arresti. I russi scavarono trincee nella terra radioattiva, i loro carri armati sollevavano nuvole di polvere radioattiva. «Quelli che dormivano nei bunker scavati di fresco avranno vita corta», dice sorridendo il 68enne Vasily Davrdenko, che da 30 anni si occupa dell'oasi faunistica cresciuta nella zona chiusa. Le crudeltà dei soldati «Sparavano a cerbiatti e uccelli rari. Non avevano rispetto di nulla. Fermavano gli uomini giovani e li facevano spogliare per vedere se avevano tatuaggi nazionalisti o ferite di guerra. Quando poi verso gli ultimi giorni di marzo hanno capito che si sarebbero ritirati è iniziato il saccheggio», commenta. In poche ore i russi rubano tutti i computer, compresi quelli che monitorano i sensori di controllo della radioattività, portano via persino i vestiti e le valigie dei tecnici ucraini. Nel bottino ci sono anche 133 componenti di materiali radioattivi che pesano oltre 700 chili. Gli ufficiali russi lasciano fare, i soldati diventano predoni. «Erano per lo più ceceni, oppure reclute giovani delle province orientali, molti avevano fattezze asiatiche - ricordano ancora i tecnici -. Sembravano ignoranti delle conseguenze. Ma erano violenti, lasciammo fare. Meno di tre ore dopo l'ordine di evacuare erano tutti spariti».

MOSTRATO IN MANETTE L’OPPOSITORE DI ZELENSKY

L’oppositore di Zelensky, amico di Putin, l’ucraino Viktor Medvedchuk era fuggito a febbraio dalla detenzione domiciliare. È accusato di tradimento, ieri è stato catturato e mostrato in manette. Proposto uno scambio di prigionieri. La cronaca di Corrado Zunino per Repubblica.

«L'oligarca ucraino che sussurrava a Putin è stato trovato e arrestato dai servizi segreti di Kiev e, poi, mostrato al mondo in manette. Il presidente Volodymir Zelensky ha postato su Telegram la foto di un uomo scarmigliato e, forse l'ultimo travestimento necessario per nascondersi, con la divisa militare delle forze ucraine indosso: è lui l'oligarca Viktor Medvedchuk, 67 anni, avvocato nato al centro della Russia da un padre ucraino nazionalista e antisovietico, da tempo accerrimo nemico di Zelensky e finanziatore delle attività indipendentiste e filo-russe nel Donbass. E Zelensky ha proposto ai russi di scambiare l'oligarca arrestato con i prigionieri di guerra ucraini in mano alle forze russe. Per il suo sostegno alla separazione dell'Est Ucraina dal resto della nazione, il motivo esatto per cui Vladimir Putin sta per sferrare l'attacco decisivo a oriente, dal 13 maggio 2021 Medvedchuk era agli arresti domiciliari per tradimento e tentato saccheggio di risorse nazionali nella Crimea. La misura era stata prorogata quattro volte, forzando la stessa legge ucraina, ma l'avvocato putinista era fuggito a fine febbraio, nei primi giorni dell'invasione russa in Ucraina. Il suo legale aveva assicurato, dopo la fuga: «È in un posto al sicuro a Kiev». Probabilmente non ha mai lasciato il Paese. Imprenditore con interessi nei media e nell'energia, Viktor Medvedchuk era uno dei leader del partito "Piattaforma di opposizione per la vita", le cui politiche sono ispirate dal Cremlino. La confidenza con Putin è dimostrata dal fatto che il presidente russo, nel 2004, ha tenuto a battesimo la figlia dell'avvocato, Daryna, e con lui, «un caro amico», era solito trascorrere le vacanze. Medvedchuk era uno degli uomini, insieme all'ex presidente Viktor Yanukovich, a cui Putin aveva pensato per sostituire Zelensky se il Blitzkrieg da due giorni, la presa immediata di Kiev da parte dell'esercito russo, avesse avuto successo. Lo stesso avvocato di Pochet aveva convinto il capo del Cremlino a scatenare la guerra in Ucraina, convinto che la resistenza nazionale sarebbe stata facilmente controllata e l'odiato presidente Zelensky sarebbe fuggito. Il Consiglio di sicurezza e difesa di Kiev ha incluso Medvedchuk e la moglie, Oksana Marchenko, nell'elenco delle persone che finanziano il terrorismo pro-Mosca. L'Agenzia per la prevenzione della corruzione lo ha inserito tra i cento traditori della nazione. Il Cremlino non commenta l'arresto: «Serve una conferma».

IL PIANO SEGRETO DI PUTIN

Gian Micalessin per Il Giornale analizza le condizioni dello Zar per concludere il conflitto: il Donbass più Mariupol e la Crimea e rinuncia ad Odessa. «Eliminati» i fedelissimi Beseda e Surkov, teorici del trionfo facile.

«Ora una fine s' intravvede. Non è dietro l'angolo e costerà molte altre vite, ma prenderà forma se Vladimir Putin potrà rivendicare la riconquista di tutti i territori delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk ancora in mano ucraine. Certo pace e guerra, si fanno in due. E a volte anche in tre. Dunque va capito se il possibile obbiettivo finale, abbozzato dal presidente russo durante l'incontro di ieri con l'omologo bielorusso Alexander Lukashenko, sia accettabile anche per Kiev e gli alleati di Washington. La novità è, però, indiscutibile. Per la prima volta in 48 giorni di guerra Putin tralascia gli accenni alla necessità di «denazificare» l'Ucraina, ovvero rimuovere Volodymyr Zelensky e il suo governo, per concentrarsi su obbiettivi molto più limitati sintetizzati nell'«aiutare la gente del Donbass». Mosca, insomma, potrebbe avviare negoziati non appena terminata la conquista delle città di Sloviansk e Kramatorsk nell'oblast di Donesk e di quella Slevierdonetsk nell'oblast di Lugansk. Sloviansk, Kramatorsk e Slevierdonetsk sono - assieme alla martoriata Mariupol - le città su cui si va chiudendo in queste ore la morsa delle unità russe posizionate sul quadrante nord orientale di Izrum e di quelle in movimento dai territori del Donbass, a Sud e ad Est. Ma perché ridimensionare la portata dell'Operazione Speciale? Per capirlo bisogna guardare non solo al costo delle sanzioni e alle dolorose perdite subite sul campo di battaglia, ma anche al deciso «repulisti» in corso a Mosca dove stanno cadendo da giorni, le teste di tutti quei fedelissimi a cui Putin aveva delegato la gestione del dossier Ucraina. Fedelissimi pronti, pur di compiacerlo, a sottostimare le capacità di Kiev e a promettere successi facili e veloci quanto quello della Crimea nel 2014. Non a caso si sussurra dell'arresto di Sergei Beseda, il responsabile del Quinto Direttorio dei servizi segreti dell'Fsb responsabile degli affari ucraini. E in carcere, o agli arresti domiciliari, sarebbe anche l'ex-eminenza grigia Vladislav Surkov, inventore a suo tempo del concetto di «democrazia gestita» e consigliere sull'Ucraina dal 2014 fino al 2020. Preso in mano il dossier Kiev e resosi conto degli errori Putin si sarebbe imposto il duplice obbiettivo di una vittoria minimamente accettabile e di una rapida via d'uscita da un'operazione capace di compromettere non solo la stabilità della Russia, ma il suo stesso potere. Proprio per questo il bottino potrebbe limitarsi agli oblast di Donetsk e Lugansk e al corridoio che congiunge Mariupol con i territori della Crimea. Un bottino da scambiare con i territori già conquistati intorno a Kherson e a Kharkiv. Mosca rinuncerebbe, insomma, sia alla presa di Odessa, sia di quei territori a Est del fiume Dniepr considerati indispensabili inizialmente per creare una zona cuscinetto con l'Ucraina filo occidentale e rivendicare la riconquista dell'originaria Novorossya zarista. Una rinuncia imposta anche dalla consapevolezza che il controllo di quei territori richiederebbe il dispiegamento di decine di migliaia di soldati impegnati in uno sfiancante conflitto a bassa intensità con delle forze insurrezionali fedeli a Kiev e armate dalla Nato. In cambio di queste rinunce la Russia chiederà il riconoscimento della piena sovranità russa su Crimea, Lugansk e Donetsk. Un obbiettivo che Zelensky e gli alleati della Nato potrebbero però non concedergli. Secondo le stime dell'intelligence statunitense Mosca ha perduto a oggi il 15% della sua forza combattente e dovrà affrontare l'offensiva nel Donbass senza alcuni dei suoi reparti migliori. Dunque l'esito dei negoziati dipenderà dall'esito delle prossime battaglie. Se l'esercito russo riuscirà a dare incisività alla propria superiorità numerica avanzando più velocemente di quanto non abbia fatto a Mariupol e dintorni, Kiev e Washington potrebbero decidere di chiudere la partita. Se l'avanzata russa resterà lenta e faticosa qualcuno potrebbe convincere Zelensky che l'obbiettivo più allettante non è una pace imminente, ma un nemico in ginocchio».

ESISTE UN’ALTRA OPZIONE OLTRE ALLE ARMI?

Il Fatto intervista con Antonello Caporale Cecilia Strada, figlia di Gino, fondatore di Emergency.

«"Non raccogliamo margherite, non abitiamo sulla luna. L'idea che il pacifista sia una persona un po' singolare è frutto della falsificazione sistematica della realtà".

Il pacifista è visto come il beautiful loser, splendido perdente di ogni guerra.
Si parte da un dato alterato e bugiardo: la Russia di Putin ha invaso e dunque a noi non resta che sostenere l'Ucraina nella resistenza armata all'invasore. Chi non arma è disertore.

Cecilia Strada, vi chiamano il popolo dei né né.
Rispondo tra un attimo a quest 'ultima considerazione. Mi faccia dire prima che per aiutare chi giustamente si difende io devo valutare se ho un'altra opzione oltre all'invio delle armi. E se ce l'ho e mi sembra più produttiva, devo farla mia con convinzione.

E quale sarebbe la soluzione alternativa?
Cosa fa l'Onu? Cosa sono i caschi blu? L'Onu è un'organizzazione disarmata politicamente e impaurita, evanescente. E perché non decidere che invece era questo il momento di rivitalizzarla? Perché l'Europa non si è battuta per comporre truppe di interposizione?

Perché era una battaglia persa, risponderebbero.
Intanto bisognerebbe farla la battaglia. Invece niente. L'Europa ha deliberatamente evitato di dare impulso a questa strategia, non un minuto si è battuta per chiedere la riunione in seduta permanente dell 'assemblea generale.

La Russia ha posto il veto.
Diciamo la verità: la strada segnata era quella delle armi. Armare sempre e di più l'Ucraina.

Obiezione interventista: avrebbe preferito la resa?
Se si arma un'altra nazione lo si deve fare nell'idea che possa vincere il confronto con l'aggressore. In questo conflitto questa eventualità è assolutamente esclusa. Quindi la si arma per cosa?

Di nuovo siamo alla bandiera bianca?
L'Occidente non ha investito un euro nei negoziati. Biden e gli Usa stanno alla larga da ogni ipotesi. Ma se non tratti sai cosa combini?

Cosa?
Moltiplichi il massacro di Bucha per dieci, forse per cento. Allunghi la catena dei morti, rendi ancora più enorme la carneficina. Non tieni viva l'Ucraina, la fai sventrare.

Ma è il popolo che dice no all 'invasore.
Anch' io sono contro l'invasore ma nego che si stia facendo del bene in questo modo a chi è sotto attacco. Mi fanno ridere coloro che dicono che è una guerra criminale, oltre i limiti.

La guerra non ha limiti.
Non c'è decenza. C'è solo disumanità, ferocia. Un enorme falò di ogni possibile cattiveria.

Né con Putin, né con Kiev.
Falsificazione pura. L'agnosticismo non ci appartiene. È chiaro che vorremmo vedere davanti al tribunale dell'Aia Vladimir Putin. Ma intanto che ci va cosa facciamo? Entriamo in guerra? Risolviamo con la più terribile delle evidenze la nostra incapacità.

Ma la Russia rifiuta ogni negoziato.
Lei pensa che finora sono state avviate trattative serie?

Eppure per la prima volta i governi europei hanno trovato identità di vedute proprio sulle armi: il principio opposto della vostra tesi politica.
Sono pacifista e disarmista. Ricordo che le armi accumulate da Gheddafi le abbiamo ritrovate in ogni angolo dell'Africa. Mandare armi senza possibilità di governarne il traffico allarga oltre ogni dimensione territoriale la capacità di fuoco.

L'Europa ha diritto all'ingerenza. Il conflitto la riguarda. Lei quando raccoglie in mare i profughi decide un intervento immediato e urgente per salvare quelle vite. Non è che guarda e analizza.

D'accordo, certo. Ma questa sua domanda contiene in qualche modo il portato di una falsificazione dell'attività e dell 'immagine del pacifista: non siamo agnostici, semplicemente pensiamo che la strada del riarmo sia la peggiore. La più pericolosa, la più inefficace, la più dolorosa».

IL MONDO È GIÀ CAMBIATO. IN PEGGIO

Analisi amara di Domenico Quirico per La Stampa: dopo un mese e mezzo di guerra, il mondo è profondamente cambiato. Anche se facciamo finta che non sia così.

«Mi faccio volontario per una constatazione sgradevole, sommamente impopolare: in Italia non abbiamo ancora preso coscienza della gravità di quanto sta accadendo in Ucraina e delle conseguenze «globali», si dice così, sul mondo che verrà. Siamo immersi, dopo quaranta giorni di guerra furibonda, ancora nel nostro confortevole e immobile mondo di ieri. Che è già defunto, sconvolto da ininterrotte scosse vulcaniche proprio in questa terra europea, murato nelle tenebre. Eppure ogni giorno abbiamo davanti le immagini per comprendere, basta aggiungere le didascalie. Nel Donbass urti di uomini e di mezzi corazzati quali non si vedevano dalla battaglia di Kursk tra tedeschi e russi nella Seconda guerra mondiale (è luogo per combinazione non lontano dalla geografia di questo conflitto, stesse pianure infinite, stesse isbe povere, stesso selvaggio furore); sono già in campo le armi di tutti i contendenti compresi quelli che per ora sembravano stare alla finestra; le possibilità di tregua sono scomparse, sono funebri rimorsi. Il mondo che verrà sarà feroce, coperto di ferro, diviso da muri di avversioni profonde, l'Asia russo cinese contro l'Occidente americano, con le rispettive dipendenze, e coloro che guideranno il nuovo «impero del male» non saranno tipi alla Breznev e come il manieroso Xi Jinping ma assomiglieranno a Kadyrov il ceceno e a Kim Jong-un, il coreano delle Bombe. La globalizzazione è già materia da trasferire agli storici, nasceranno economie belliche ferocemente concorrenti con cui bisognerà fare i conti, ognuna con la sua moneta, fortilizi autarchici in cui non si potrà entrare con i vecchi grimaldelli del «made in». La cultura indosserà la maschera dell'odio, ci sono già i segni, e non sarebbe purtroppo la prima volta. I musei degli uni e degli altri saranno purificati dai «prodotti del nemico», «decadenti» o «immorali», le partiture musicali censurate, i libri divisi in patriottici e pericolosi, gli autori espunti dal passato comune. Dimenticatevi che si canteranno le stesse canzoni o si guarderanno gli stessi film. Se già da qualche tempo aveste controllato la produzione media, di massa della cinematografia russa e cinese avreste avuto delle sorprese: «peplum» storici stile kolossal con le eroiche vittorie sugli invasori stranieri e i traditori autoctoni, o «action» con rambo versione locale. Un mese fa pensavamo fosse una guerricciola ancora abbastanza lontana dai confini, non si sentivano le cannonate in fondo, in poche settimane tutto sarebbe finito e si poteva riprendere la solita monotona Storia. Un abbaglio allora comprensibile. Perché «da noi» è ancora così? Di chi la colpa? Ascolto i giornali radio: c'è una frattura che toglie il fiato tra le notizie abbondanti, terribili della guerra, le minacce ormai aperte tra Russia e Occidente, e quello che segue che dà conto della politica italiana. Siamo testimoni di inaudite metamorfosi mondiali ma il governo nei suoi massimi rappresentanti, il premier e i due ministri degli Esteri, quello vero e l'amministratore delegato di Eni, è impegnato in un affannato tour per sedurre e riempire di soldi alcuni discutibili Paesi africani alla ricerca di petrolio e gas. I contratti vengono salutati come vittorie campali sull'esercito di Putin. I partiti intanto, a casa, si dedicano con furore vichingo allo scontro sul problema quasi secolare della separazione delle carriere dei magistrati. Tutti sanno che poi tanto si «troverà la quadra» come si dice con italiano orribile. Il dibattito sull'aumento delle spese militari che pure era una fondamentale occasione non solo di una riflessione politica sul riarmo ma anche sulla preparazione dell'esercito in caso di necessità, è affondato nell'astuto stratagemma italiano, in uso dalla proclamazione del regno nel 1861: rinviare il tutto alle calende greche, diluire, assumere ma in modo omeopatico. Tutti felici contenti del si vedrà. Tra poco soldati italiani saranno schierati alle frontiere della Russia nell'esercito della Nato. Non è la solita operazione di peacekeeping con il casco blu in qualche savana o deserto per distribuire sacchi di farina. È la cosa più pericolosamente vicina alla guerra dal 1945. Se ne parla politicamente come se fosse una delle tante esercitazioni. Si può sperare che la Terza guerra mondiale non divampi in modo esplicito. Ma chi comanderà la economia, i rapporti politici, la diplomazia della nuova guerra fredda nel nostro campo? Americani e inglesi? E l'Unione europea? I tedeschi con il loro nuovo possente esercito, che segna la fine dei rimorsi del 1945? E ancora siamo pronti agli urti innumerevoli nel terzo mondo, spazio aperto per la guerra parallela, per il controllo dei poveri, delle materie prime, delle piccole tirannidi con cui fino ad ora abbiamo continuato a sfruttarlo? Ebbene lì partiamo svantaggiati, azzoppati dall'accusa spesso fondata di sfruttatori indifferenti, di amici disinvolti e bugiardi dei tiranni. In Francia dopo il primo turno delle presidenziali ci si interroga su quel trenta per cento, forse più, di elettori che hanno votato per partiti che si sono schierati con la Russia. La quinta colonna? Che faranno quando lo scontro sarà aperto, diretto? In Italia si fa la conta litigando di quanti sono gli arruffapopoli più o meno titolati che vanno in tv a recitare la parte dei dissidenti. I partiti con tentazioni putiniane in 24 ore si sono allineati, salvando la faccia e l'anima con dichiarazioni francescane di pacifismo e di ragionevolezza. Occupiamoci del gas… È compito della politica dire la verità, con chiarezza, su cosa è in gioco, e sui sacrifici, giusti e indispensabili, per fermare l'aggressore, non trincerarsi dietro il minimalismo dei termosifoni. Le nostre generazioni, al contrario di quelle dei nostri padri, hanno avuto in occidente la possibilità di restare in disparte, di esimersi dalle guerre degli altri. Eravamo il posto in cui rifugiarsi, eravamo la pace conquistata. Ebbene non sarà più così. Non saremo più il mondo della sicurezza. Prima parlavamo di pace e di guerra ma molti non sapevano di cosa stessero parlando. La pace con la globalizzazione e la cultura senza frontiere era una abitudine, era l'aria che ognuno respirava senza pensarci. La guerra era una parola, un concetto puramente teorico. Ora affrontiamo lo choc di questa rivelazione, apertamente».

ZAGREBELSKY: I POTENTI DELLA TERRA E I VALORI IN GUERRA

Interessante articolo del giurista Gustavo Zagrebelsky sulle colonne di Repubblica. Le giustificazioni ideali della guerra, proposte dai potenti, sono sempre astratte e truffaldine.

«I morti ammazzati dai viventi sono sulla terra, anzi sotto terra; i valori sono in cielo. I morti chiedono compassione. Non sanno che farsene, dei valori. I potenti che ammazzano dove stanno? Sulla terra o in cielo? Evidentemente in terra, saldissimamente in terra, perché altrimenti non sarebbero potenti. Eppure, non fanno che evocare valori. Quando fanno finta d'essere in cielo, sono truffatori. Più si sale verso il cielo, più si perde di vista l'umanità. Non c'è guerra, non c'è violenza, non c'è sopraffazione che non cerchino di giustificarsi, un tempo attraverso la santificazione, oggi attraverso la ideologizzazione. La violenza ha bisogno di "valorizzarsi". Tanto più alto è il valore al quale ci si attacca, tanta più è la violenza cui ci si sente autorizzati. Per sua natura, "il valore deve valere", cioè deve essere imposto con ogni mezzo. Il valore è astratto e puro e, come tutte le astrazioni, non è interessato al concreto. Anzi, lo disprezza perché nel concreto si annida la varietà, la relatività, l'impurità. Per realizzarsi, ogni ostacolo può, anzi deve essere spazzato via. Trasformata in valore anche la pace può giustificare la guerra, la "guerra giusta" o la guerra preventiva, per esempio ( si vis pacem ecc.) Perfino la vita come valore può giustificare la morte ( mors tua ecc.). Questa è la logica perversa del pensare per astrazioni. Ripeto, a scanso di equivoci: i valori possono essere cose bellissime ma, maneggiati dai potenti, spesso fanno paura. In nome della promessa ad Abramo fatta dal "dio geloso" degli Ebrei, furono sterminate le popolazioni della terra di Canaan; in nome di Allah si proclama il Jihad offensivo contro gli infedeli; "Dio lo vuole" è il motto d'ogni "guerra santa", d'ogni "crociata", d'ogni sterminio degli eretici. Yahweh, Allah, il Dio cristiano degli eserciti hanno in comune l'assolutismo del valore. Chi potrebbe opporsi a chi parla e agisce in nome d'un dio? L'appello diretto, esplicito, a un dio di questa fatta, nel mondo secolarizzato odierno non fa più presa come un tempo. Le religioni, anzi, hanno fatto passi avanti verso la reciproca comprensione e il "dialogo interreligioso", per essere possibile, deve rinunciare non ai propri valori, ma alla loro assolutizzazione. Ma, hanno trovato dei validi succedanei secolarizzati altrettanto astratti e pericolosi. Tutte le "visioni del mondo", le Weltanschauung (parola del nazismo) hanno parlato di "missioni" al servizio dell'umanità, o della civiltà, e si sono inevitabilmente risolte in razzismo, imperialismo, invasioni, stragi, partiti unici. Le guerre coloniali erano giuste per civilizzare i popoli primitivi, erano dunque un regalo. Lo stesso, gli sterminî degli indios per convertirli al cristianesimo. Il "destino manifesto" attribuito dalla Provvidenza agli americani chiamava i governanti di Washington al compito di espandere la libertà e la democrazia, tanto per incominciare con la cruentissima annessione del Nuovo Messico e con l'espansione in Arizona, Colorado, Nevada e Texas a spese dei popoli autoctoni. Napoleone conquistò l'Europa e invase la Russia al prezzo di milioni di vittime in nome degli inviolabili valori della Rivoluzione. I nazisti e i fascisti si credevano in pieno diritto nel voler conquistare il proprio "spazio vitale" a danno dei popoli di "razza inferiore". I dirigenti comunisti non dicevano certo di agire per sete di potere, ma per la felicità del popolo finalmente senza classi. Così, i valori, nelle mani dei potenti della terra, sono sempre stati armature ideologiche di politiche di potenza, fantasmi che si aggirano tra le genti con lo scopo di reciproche distruzioni. Questa è la sorte di tutte le dottrine universalistiche in mano alle potenze della terra, anche di quelle apparentemente più nobili e benevole. Il fatto, poi, che esse siano usate selettivamente, per intervenire qua e non là, secondo convenienze, dice tutto sul valore dei valori. E oggi? Con quali fantasmi abbiamo a che fare? Da una parte c'è l'ininterrotta presunzione della Russia d'essere destinataria d'una missione universale, che sia la "Santa Russia" imperiale o la "liberatrice dei popoli" o la patria della spiritualità ortodossa insidiata dal materialismo occidentale. Viene in mente l'immagine potente, meravigliosa agli occhi degli slavofili e terrificante per tutti gli altri, che conclude Le anime morte di Gogol: la troika che attraversa il mondo come un uragano, davanti alla quale tutti i popoli piegano il ginocchio. Dall'altra parte, si erge l'Occidente, amministratore della civiltà dei diritti umani, della libertà, della democrazia: tutte bellissime cose che spesso, però, valgono soprattutto per rinfacciarne agli altri la violazione. Ma, queste sono per l'appunto cose che stanno in cielo. Quando scendono in terra nelle mani dei potenti si trasformano in appropriazione monopolistica della legittimità. Servono le guerre, non la pace. Nella migliore delle ipotesi, i rapporti possono "congelarsi" temporaneamente, come nei decenni della "guerra fredda". Abbiamo creduto in un "disgelo" che, in fondo, non ha mai sconfitto la politica di potenza, l'estensione delle "zone d'influenza", la lotta per l'affiliazione o la dominazione dei popoli poveri e deboli che, per loro sfortuna, vivono nelle terre ricche. Anche in quegli anni non c'era la pace, sebbene la guerra sembrasse improbabile nell'equilibrio del terrore. Improbabile non vuol dire impossibile e oggi ce ne rendiamo pienamente conto guardando la tragedia dell'Ucraina che, in fondo e per ora, sembra solo un foruncolo, ma forse è l'escrescenza su un'infezione che non è stata curata. Il che non diminuisce l'orrore, ma l'accresce. I potenti che in tempo di guerra brandiscono una superiorità morale brandendo i loro valori si espongono a facili ironie e, soprattutto, non favoriscono la pace. Alzano barriere, armano i confini, creano incomunicabilità e ostilità. Alimentano il fanatismo, il conformismo, i "partiti unici" e comprimono le intelligenze. Si rialzano le frontiere. Si allontanano le speranze in un futuro in cui i nostri figli possano sentirsi membri d'una famiglia umana non divisa da vecchi e nuovi nazionalismi, possano viaggiare liberamente, possano stringere amicizie e coltivare amori con chi e come vogliono. Questa crisi, qualunque ne sia la fine, quando e se se ne verrà fuori, lascerà una scia di odio, di risentimenti, di desideri di rivincita, di altre violenze. Già ora si stanno distruggendo in un colpo solo i tanti fili economici, culturali, politici, giuridici e sociali che nei decenni sono stati faticosamente intessuti principalmente in Europa. Poiché, poi, la crisi dà fiato ai nazionalisti, consolida oligarchie, avvantaggia demagoghi e produttori di armi d'ogni tipo, è probabile che, al di là della propaganda e degli sdegni esibiti, vi sia chi ne trae vantaggio. Con questa regressione dovremo fare i conti. Smascherando l'uso dei valori che stanno in cielo, guardando i morti e le sofferenze che stanno in terra. Qui, non là, sta la verità. Accogliendo profughi senza distinzioni. Intessendo e potenziando relazioni, non interrompendole. Salvaguardando la dignità e l'universalità della cultura. Fornendo, nell'immediato, gli aiuti necessari a chi ne ha bisogno per vivere, sopravvivere e difendersi. La guerra c'è, e ci sono gli aggressori e gli aggrediti. Questa è l'unica certezza su cui non sono consentiti dubbi. Ma, una cosa è aiutare le vittime promuovendo la pace; altra cosa è attizzare cattive passioni. Dunque non aizzare i fanatici dell'Occidente, i nazionalisti, i sovranisti che oggi hanno l'occasione di mostrarsi come i suoi più efficaci difensori. Aiutare, ma contrastare le idee aggressive che prefigurano un futuro altrettanto o, forse, peggiore e, comunque, allontanano la prospettiva di un'intesa che metta fine alla guerra. Sobrietà e spirito critico, non per negare l'evidenza, ma per evitare il peggio».

PAPA FRANCESCO E LA PACE

Il Corriere e l’Avvenire anticipano brani del libro di papa Francesco Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace (Solferino - Libreria Editrice Vaticana), in vendita da domani. Il testo, inedito, presenta nelle parole del Papa il dialogo come arte politica, la costruzione artigianale della pace e il disarmo come scelta strategica. Ecco lo scritto del Papa scelto da Avvenire.

«L'odio, prima che sia troppo tardi, va estirpato dai cuori. E per farlo c'è bisogno di dialogo, di negoziato, di ascolto, di capacità e di creatività diplomatica, di politica lungimirante capace di costruire un nuovo sistema di convivenza che non sia più basato sulle armi, sulla potenza delle armi, sulla deterrenza. Ogni guerra rappresenta non soltanto una sconfitta della politica, ma anche una resa vergognosa di fronte alle forze del male. Nel novembre 2019, a Hiroshima, città simbolo della Seconda guerra mondiale i cui abitanti furono trucidati, insieme a quelli di Nagasaki, da due bombe nucleari, ho ribadito che l'uso dell'energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l'uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L'uso dell'energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche. Chi poteva immaginare che meno di tre anni dopo lo spettro di una guerra nucleare si sarebbe affacciato in Europa? Così, passo dopo passo, ci avviamo verso la catastrofe. Pezzo dopo pezzo il mondo rischia di diventare il teatro di una unica Terza guerra mondiale. Cui si avvia come fosse ineluttabile. Invece dobbiamo ripetere con forza: no, non è ineluttabile! No, la guerra non è ineluttabile! Quando ci lasciamo divorare da questo mostro rappresentato dalla guerra, quando permettiamo a questo mostro di alzare la testa e di guidare le nostre azioni, pèrdono tutti, distruggiamo le creature di Dio, commettiamo un sacrilegio e prepariamo un futuro di morte per i nostri figli e i nostri nipoti. La cupidigia, l'intolleranza, l'ambizione di potere, la violenza, sono motivi che spingono avanti la decisione bellica, e questi motivi sono spesso giustificati da un'ideologia bellica che dimentica l'incommensurabile dignità della vita umana, di ogni vita umana, e il rispetto e la cura che le dobbiamo. Di fronte alle immagini di morte che ci arrivano dall'Ucraina è difficile sperare. Eppure ci sono segni di speranza. Ci sono milioni di persone che non aspirano alla guerra, che non giustificano la guerra, ma chiedono pace. Ci sono milioni di giovani che ci chiedono di fare di tutto, il possibile e l'impossibile, per fermare la guerra, per fermare le guerre. È pensando innanzitutto a loro, ai giovani, e ai bambini, che dobbiamo ripetere insieme: mai più la guerra. E insieme impegnarci a costruire un mondo che sia più pacifico perché più giusto, dove a trionfare sia la pace, non la follia della guerra; la giustizia e non l'ingiustizia della guerra; il perdono reciproco e non l'odio che divide e che ci fa vedere nell'altro, nel diverso da noi, un nemico. Mi piace qui citare un pastore d'anime italiano, il venerabile don Tonino Bello, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, in Puglia, instancabile profeta di pace, il quale amava ripetere: i conflitti e tutte le guerre «trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti». Quando cancelliamo il volto dell'altro, allora possiamo far crepitare il rumore delle armi. Quando l'altro, il suo volto come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non ci è permesso sfregiarne la dignità con la violenza. Nell'enciclica «Fratelli tutti» ho proposto di usare il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari per costituire un Fondo mondiale destinato a eliminare finalmente la fame e a favorire lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa. Rinnovo questa proposta anche oggi, soprattutto oggi. Perché la guerra va fermata, perché le guerre vanno fermate e si fermeranno soltanto se noi smetteremo di 'alimentarle'».

MELONI RISPONDE A LETTA SULL’EUROPA

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia e presidente del Partito dei conservatori e riformisti europei (Ecr), ha scritto per il Foglio una risposta al segretario del Partito democratico, Enrico Letta, che aveva presentato un manifesto in sette punti per provare a disegnare l'Europa del futuro. Ecco alcuni passaggi (l’integrale è nei pdf).

«Ho deciso di rispondere, perché amo il confronto e soprattutto non sopporto i pregiudizi e le etichette che consentono troppo spesso a chi ha argomenti deboli di non confrontarsi nel merito. Ne sappiamo qualcosa noi di Fratelli d'Italia, troppo spesso etichettati come un partito antieuropeista. Noi che siamo assoluti protagonisti in una storica famiglia politica, quella dei Conservatori europei (Ecr) che guidiamo a livello di partito, di gruppo parlamentare europeo e presto anche di Comitato delle regioni dell'Ue. Insomma, non si può dire che in questi anni il nostro ruolo in Europa sia stato quello di chi gioca al "tanto peggio, tanto meglio". Sarebbe stato persino facile farlo, evidenziando ogni giorno le tante storture di un'Unione che per troppo tempo non ha saputo rappresentare un valore aggiunto per i propri cittadini. E invece abbiamo scelto la strada dell'approfondimento, come spesso ci capita di fare, e dell'affermazione di un'idea di Europa alternativa rispetto a quella che l'Ue ha costruito finora. Un'Europa confederale, rispettosa della sussidiarietà e delle sovranità nazionali, che faccia meno cose ma le faccia meglio. La stupirà leggere che apparentemente c'è più di un punto di contatto tra il pensiero di Enrico Letta e il mio. (…) Ma prima di entrare nel merito dei punti sollevati da Letta mi permetta di sgomberare il campo da un equivoco che, per amor di propaganda, la sinistra continua ad alimentare. Se l'Europa il 24 febbraio si è presentata all'appuntamento con la storia senza una politica estera e una difesa comuni, quasi totalmente dipendente sul piano energetico e delle materie prime, con catene del valore troppo lunghe e in buona parte delocalizzate, impreparata nella gestione umanitaria e divisa sulla tempistica delle sanzioni, non è per responsabilità dei pericolosi conservatori o dei terribili sovranisti. La responsabilità è del duopolio popolari-socialisti che ha fin qui governato l'Europa, consegnandola all'irrilevanza, e delle élite autoproclamatesi "europeiste" che lo hanno assecondato. Per noi le origini di questa irrilevanza sono chiare: il processo di integrazione ha tradito lo spirito originario perché ha messo al centro i mercati e la finanza e non le persone, ha puntato a livellare le identità dei popoli anziché valorizzarle. L'Ue ha abbracciato l'agenda politica globalista, ultra-ambientalista e arcobaleno. In un continente sempre più vecchio e in declino dal punto di vista demografico, invece di mettere al centro la famiglia e la natalità, sostenendo per davvero le donne, l'Ue continua a travalicare i limiti delle sue competenze cercando di intromettersi in temi che dovrebbero rimanere esclusiva competenza degli stati membri come il diritto di famiglia e l'educazione dei figli».

“CHI VOTA LE PEN VOTA PUTIN”

La guerra e il futuro dell’Europa nelle urne francesi del secondo turno delle presidenziali. Adriana Cerretelli per il Sole 24 Ore analizza la situazione dopo il primo turno.

«Chi vota Le Pen vota Putin». No, non è Emmanuel Macron a lanciare nell'arena il teorema incendiario. A farlo con chiarezza lapidaria è un rumeno, Siegfried Muresan, eurodeputato socialdemocratico, uno dei tanti spettatori interessati all'esito del duello francese che tiene l'Unione e il mondo con il fiato sospeso. Se il 24 febbraio 2022 l'invasione russa dell'Ucraina ha fatto saltare ordine e sicurezza europea del secondo dopoguerra, il 24 aprile prossimo deciderà il vincitore dell'Eliseo ma sarà anche il giorno del giudizio per l'Europa, la sua democrazia e la sostenibilità del futuro di entrambe. «Il nemico dell'Europa non è solo a Mosca ma anche a Parigi, è in tutti i progetti di estrema destra che minano le fondamenta della coesistenza», avverte il premier spagnolo Pedro Sanchez. Attende con i nervi scoperti, l'Unione, l'esito di una partita che la riguarda fin troppo da vicino in questi tempi di democrazie fragili, di autocrazie che sgomitano fuori e dentro casa. Il rapporto 2022 sulla democrazia nel mondo, appena pubblicato dall'Istituto V-Dem, la fotografa in discesa sui livelli del 1989, con le dittature che ormai controllano il 70% della popolazione globale (49% nel 2011) e le liberal-democrazie scese al 13% nell'ultimo decennio, da 42 a 34 paesi. Nell'Unione sono 6 su 27 quelli in deriva più o meno autoritaria: Polonia, Ungheria, Cechia, Croazia, Slovenia e la stessa Grecia. Oltre a Serbia e Turchia ai confini.
Ai casi patologici di repressione della società civile, di indipendenza delle istituzioni, libertà di espressione, allergie al pluralismo politico, si aggiunge il mal sottile che consuma anche le democrazie ufficialmente più solide. Non c'è solo Viktor Orban a stravincere a Budapest e Aleksandar Vucic a Belgrado che festeggia accogliendo, primo paese dei Balcani, il sistema missilistico cinese HQ-22
: entrambi leader ostentatamente putiniani, entrambi confermati con risultati record. Entrambi uomini dell'Est. C'è anche la collaudata democrazia francese nel cuore della vecchia Europa: al primo turno delle presidenziali gli estremismi di destra e sinistra hanno totalizzato insieme, mai accaduto nella storia repubblicana, il 56% dei voti contro il 39 del partito di Macron e povere schegge dei partiti tradizionali avviati, pare, all'estinzione. Certamente non è sola nei suoi tormenti, l'Italia fa parte del club, ma la Francia oggi è il paradigma di malanni e rischi esistenziali che scuotono istituzioni, modelli e scelte strategiche in tutta Europa. Sullo sfondo il travagliato confronto tra i pacati schemi liberali di Governo e civile convivenza e l'isterica democrazia degli aut-aut, delle contrapposizioni anti-sistema spesso più confuse che ragionate. Pro-Putin contro Putin, amici contro nemici degli ucraini, Sì-Vax contro No-Vax, europeisti contro nazional-sovranisti, atlantisti contro autonomisti come ieri liberisti contro protezionisti, cibo-Frankenstein contro bio, etc. etc. Fosse un derby. Invece è polarizzazione tossica fatta strategia politica attraverso la sistematica demonizzazione dell'interlocutore, la disinformazione a tappeto, il tramonto del pluralismo, pilastro di libertà e viver civile. Dietro l'involuzione, anche i fiumi di denaro con cui la Russia putiniana ha foraggiato negli anni partiti e movimenti negazionisti per fiaccare le democrazie europee. E non solo. Marine Le Pen e le sue truppe sono stati tra i tanti beneficiari. Come l'Afd in Germania. La Lega in Italia e i tanti altri movimenti anti-Ue e anti-sistema. Per questo la battaglia di Francia si intreccia inevitabilmente con la guerra ucraina e va ben oltre lo scontro Macron-Le Pen: è una battaglia europea dove l'Unione si gioca la permanenza o meno di Parigi tra le sue colonne portanti, il destino della sua democrazia e la tenuta del proprio futuro. Probabilmente Macron ce la farà a restare all'Eliseo scongiurando il terremoto della subdola Frexit predicata da Le Pen: niente divorzi eclatanti come gli inglesi ma un'uscita metodica dalle politiche comuni, agricola, energetica o industriale, in contrasto con l'interesse nazionale. In breve, fine del mercato unico. E dell'Unione. Per questo con la riconferma del presidente non spariranno d'incanto le tante ammaccature di una Francia che oggi appare un grande paese "separato in casa", lacerato come altre democrazie mature da profonde fratture sociali, rancori tra chi ha troppo e chi troppo poco, vecchie e nuove generazioni, chi lavora e chi no, chi si integra nella società e chi rifiuta, chi è garantito e chi abbandonato a sé stesso. Non sarà facile curare la sindrome francese, specchio di quella europea, in un clima tanto divisivo con società contagiate dopo il Covid dal virus putinista, economie in frenata strapazzate dai contraccolpi di guerra e sanzioni, inflazione e perdita di potere di acquisto, crisi e rincari energetici, interruzione delle catene del valore e deglobalizzazione, aumento dei tassi di interessi e incerta sostenibilità dei debiti. Dalla nuova era di paure e insicurezze diffuse, esasperate da una guerra che, comunque andrà, cambierà i connotati dell'ordine continentale. Più durerà la tragedia ucraina e più precaria potrebbe diventare l'unità europea che finora ha tenuto contro l'aggressione russa. E contro i pronostici. Riusciranno i 27 a continuare a deludere le aspettative di Mosca? In questa crisi è in gioco l'identità europea: posta troppo alta per scherzarci sopra o, peggio, svenderla al miglior offerente».

IL GAS AMERICANO CI COSTERÀ IL 50 % IN PIÙ

Il gas Usa è decisamente più caro di quello russo: ci costerà almeno il 50% in più. Un carico di Gnl costava a dicembre oltre 30 milioni con trasporto e rigassificazione. Sissi Bellomo per il Sole 24 Ore.

«Importare gas dagli Stati Uniti? Un paracadute indispensabile oggi come oggi, ma anche costoso per l'Europa: chi ha comprato Gnl «made in Usa» a dicembre ha speso almeno il 50% in più rispetto a chi si è rifornito dalla Russia. Ma qualcuno ha sborsato anche il quintuplo di quanto avrebbe pagato con Gazprom, se invece di importare direttamente da produttori Usa si è rivolto a un intermediario, ad esempio Shell, Vitol o Trafigura, colossi del commercio globale di gas liquefatto. Il confronto emerge da un'analisi del Sole 24 Ore, che ha cercato di mettere a fuoco le dimensioni della sfida - anche economica - per ricostruire il nostro sistema di approvvigionamenti energetici evitando la dipendenza da Mosca. Una filiera lunga e complessa Che il Gnl, in generale, sia più caro delle forniture via gasdotto è intuitivo: dai giacimenti il gas dev' essere trasferito a impianti speciali, dove viene liquefatto a una temperatura di 162 gradi sotto zero che ne riduce il volume di circa 600 volte, poi c'è il trasporto su navi metaniere e infine, una volta a destinazione, bisogna rigassificare il carico. Ma in tutto quanto si spende? Non c'è una risposta univoca che possa chiudere la questione, perché ci sono troppe variabili in gioco: dipende da quando e da come si effettua l'acquisto di gas, se si compra in modo occasionale (sul mercato spot) o con un contratto pluriennale: una sorta di abbonamento, che può durare anche 20-30 anni e che a sua volta può avere condizioni molto diverse, a seconda del fornitore e del cliente. I dettagli - soprattutto la formula di calcolo che ogni mese aggiorna i prezzi - sono coperti in modo più o meno fitto da segreto commerciale, anche se il governo italiano ha da poco ottenuto che i contratti vengano trasmessi in via riservata all'Arera. «Abbiamo cercato di avere cognizione sui contratti di importazione di gas e non siamo riusciti - si è sfogato il premier Mario Draghi - Sono comportamenti non più tollerabili». Fermo immagine L'analisi del Sole 24 Ore ha cercato un rigore metodologico, impiegando solo dati ufficiali: di qui la scelta di concentrarsi su dicembre 2021, l'ultimo mese che offre elementi di comparazione sufficienti. Il risultato - occorre chiarirlo subito - non è una fotografia da mettere in cornice: piuttosto è un fotogramma che ritrae una singola scena di un film denso di azione. La realtà è molto complessa, oltre che poco trasparente. Russi e americani non sono gli unici protagonisti, né esiste solo il gas, che compete con altre fonti, rinnovabili e non. Con queste premesse, per gli Usa abbiamo usato le cifre del dipartimento dell'Energia (Doe), che registra l'esportazione di 111 carichi di Gnl a dicembre, per un totale di 345 miliardi di piedi cubi (Bcf) a un prezzo di vendita - liquefazione inclusa specifica il Doe - di 9,26 dollari per milione di British thermal units (MMBtu). Bisogna districarsi nella giungla delle unità di misura, sempre molto fitta quando si parla di gas (il che non aiuta a dissipare malintesi e propaganda politica). Ma si evince che un carico di Gnl Usa è stato venduto in media per 28,7 milioni di dollari. Quello però è il prezzo Fob (Free on board o franco a bordo): tutto il resto si paga a parte. Un calcolo necessariamente approssimativo porta a stimare un conto di 35,3 milioni di dollari (32,5 milioni di euro). Sono 415,3 $ per 1.000 metri cubi di gas immesso in rete, contro i 273 $ che Gazprom ha dichiarato di aver ottenuto - sempre a dicembre - per il gas esportato "Far Abroad", ossia fuori dall'area ex sovietica. Un paio di conversioni, per chiarezza e non pedanteria: si tratta di 34,5 euro per Megawattora (11 $/MMBtu) per il gas Usa e di 22,6 /MWh (7,2/MMBtu) per quello russo. A dicembre, quando il gas in Europa già macinava record, il prezzo medio al Ttf è stato 116,2 /MWh o 37 $/MMBtu, contro appena 3,75 $/MMBtu all'Henry Hub americano. Extra profitti anche in Cina Comprare Gnl a stelle e strisce è stato ancora più oneroso per chi non si è rivolto direttamente ai produttori (in Italia solo Enel, attraverso Endesa, ha un contratto per rifornirsi dall'impianto texano di Corpus Christi di Cheniere Energy): da un intermediario i carichi spot si comprano a prezzi di mercato e il riferimento europeo è il Ttf, che a dicembre indicava valori cinque volte più alti dei prezzi praticati da Gazprom. Il conto saliva a più di 120 milioni per una metaniera Usa, di cui un centinaio finivano in tasca all'intermediario: a volte anche utility giapponesi o cinesi, che ci "aiutavano" girandoci qualcuno dei loro carichi contrattuali. Aberrazioni figlie di un mercato impazzito. «Il prezzo al Ttf è ormai completamente dissociato dai costi produttivi del gas - commenta Massimo Nicolazzi, docente di Economia delle risorse energetiche all'Università di Torino - L'attuale meccanismo di formazione dei prezzi risente del costo crescente delle coperture dei trader, che alimenta la spirale rialzista». Strategie di vendita a confronto I russi hanno costi di estrazione tra i più bassi del mondo (poco più di 1 $/MMBtu) e politiche commerciali molto diverse dai produttori Usa. Gazprom vende quasi tutto via gasdotto con contratti pluriennali che prevedono un volume minimo di forniture da pagare anche se non vengono ritirate: il famoso "Take-or-Pay", che peraltro ci farebbe violare i contratti in caso di embargo o tagli troppo rapidi dell'import da Mosca. Il prezzo del gas russo, un tempo indicizzato al petrolio, oggi per l'80% delle vendite è agganciato almeno in parte al Ttf, ma ne riflette l'andamento con un mese di ritardo o più: il "time lag" a volte lo rende super conveniente, altre induce a comprare solo i volumi obbligati. Il Gnl Usa è molto più flessibile, non solo perché viaggia per mare: anche quello "contrattualizzato" non ha padroni forti, perché non ci sono clausole di destinazione e basta pagare una penale, oggi di 11-12 milioni di dollari, per liberare un carico in modo da dirottarlo altrove. Così le forniture tendono a spostarsi dove vengono pagate meglio: oggi per il 70% arrivano in Europa, ma in futuro chissà, probabile che dovremo contenderci i carichi con l'Asia e un tetto ai prezzi del Ttf rischierebbe di renderci un mercato poco appetibile. A meno che non firmiamo qualche contratto, che ci impegni «almeno fino al 2030» specifica la Casa Bianca. Il peso delle spese extra Il gas Usa non è caro quando sale a bordo di una metaniera: i contratti di vendita di solito riflettono il prezzo all'Henry Hub con un ricarico del 15% più il costo di liquefazione (che Bank of America stima tra 2 e 3,25 $/MMBtu). Ma al conto, come si diceva, bisogna aggiungere gli extra. In Italia per scaricare il Gnl, rigassificarlo e immetterlo in rete si pagano circa 4 milioni di euro per una nave spot da 150mila metri cubi liquidi, che allo stato gassoso diventano 90 milioni (poco più di quanto importiamo in un giorno dalla Russia). Più complesso valutare il trasporto marittimo dagli Usa. Fanno altri 2,8 milioni di euro usando la media dei noli spot degli ultimi 12 mesi moltiplicata per 29 giorni (andata e ritorno, perché la nave torna vuota, più i tempi di caricazione). «I noli delle metaniere - spiega Enrico Paglia, analista di Banchero Costa - sono sempre molto volatili e legati alla stagionalità: salgono d'inverno e calano a primavera, seguendo i consumi di gas nell'emisfero nord, ma negli ultimi mesi ci sono state oscillazioni estreme sul mercato spot con picchi oltre 250mila dollari tra novembre e dicembre, seguiti da un crollo, addirittura brevemente su valori negativi, poi una risalita di recente verso 40mila dollari al giorno. La media degli ultimi 12 mesi è di 77mila dollari al giorno».

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