«No alle scuole, sì ai bar»
Le Regioni contro Draghi. Temono il virus per gli studenti, ma non per i locali aperti fino alle 23. Il Recovery al CDM, si aspettano le Camere. Casaleggio rompe? Biden convoca i big sul clima
Oggi, come ogni venerdì, aspettiamo i nuovi colori delle Regioni, dopo i dati aggiornati dell’Istituto Superiore di Sanità. I giornali ne parlano poco, ma praticamente tutta l’Italia è avviata a diventare zona gialla. Dovrebbero riaprire, tra l’altro, anche se con misure di sicurezza e numeri degli spettatori sotto controllo, cinema e teatri. I dati aggiornati sulla vaccinazione fanno ben sperare. Dalle 6 di ieri mattina alle 6 di stamattina sono state fatte 412 mila 943 somministrazioni di vaccino. E tuttavia a tenere alta l’attenzione dei giornali stamattina è ancora lo scontro tra i Presidenti di Regione e il Governo. Due le materie della contesa: la scuola e il coprifuoco alle 22. Sul primo punto i Presidenti sono ferocemente chiusuristi, sul secondo vorrebbero a tutti i costi aprire fino alle 23. Mattia Feltri su La Stampa ironizza sulla mancanza di logica. Non viene rispettato il principio di non contraddizione. Il Giornale propone sul coprifuoco un derby interno fra Sallusti e Porro.
Sui giornali esteri, giustamente, si parla dell’Italia quasi solo per il nostro Pnrr, il Recovery Plan. Il Financial Times ha notato ieri in prima pagina che siamo il Paese europeo con i maggiori investimenti con un titolo cubitale sui 221 miliardi di euro stanziati per le riforme. Da leggere e conservare le pagine del Sole 24 Ore di oggi, che illustrano le 318 pagine. Oggi se ne occupa il Consiglio dei Ministri che però aspetta la discussione parlamentare prima di approvarlo (dopo eventuali modifiche suggerite dal dibattito).
Per la politica italiana c’è un doppio caso Grillo: il primo riguarda la politica e la mancanza di leadership nel Movimento proprio nelle ore cruciali dello scontro con Casaleggio. Il secondo ancora il caso giudiziario. Drammatica la denuncia del deputato Andrea Romano sul figlio non ancora sepolto a Roma, dopo due mesi dalla scomparsa. Ieri tutti i grandi della terra si sono alternati in un eccezionale summit digitale convocato dal presidente Usa Biden sull’emergenza globale del clima. Impegni e promesse. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Due gli argomenti: le riaperture, con tanto di polemica su scuole e coprifuoco, e il Recovery Plan, con sullo sfondo la Giornata della Terra. Il Corriere della Sera vede uno scontro fra Presidenti e Palazzo Chigi: Aperture, Regioni all’attacco. La Stampa ha un’anticipazione: Draghi: dal 17 maggio coprifuoco alle 23. Avvenire sposa la causa dell’evidenza scientifica: Regioni senza ragione. Quotidiano nazionale oggi sembra Libero: Così il coprifuoco uccide la ripresa. Invece il vero Libero fa il titolo che forse avevano composto per il giornale di ieri ma va sempre bene: Salvini fa la guerra a Draghi. Il Fatto propone una domanda retorica: Sicuri di aprire? Mentre La Verità sostiene: GIOCANO AL COPRIFUOCO, TANTO CI BRUCIAMO NOI. Fra i giornali che scelgono di titolare sul Recovery ecco la Repubblica: Il piano verde di Draghi. «Così crescerà l’Italia». Il Sole 24 Ore che dedica un dossier all’argomento: Recovery, più fondi a scuola e ricerca. Il Messaggero è angosciato per il ridotto stimolo all’edilizia: Recovery, tagli al superbonus e meno opere al Centro Italia. Il Domani sintetizza così: Il Recovery di Draghi dà più fondi alla ricerca e meno a tutto il resto. Tema libero per Il Giornale, sempre attento ai guai della giustizia italiana: Il super-giudice scroccone si dimette per la vergogna. Mentre il Manifesto dedica la prima pagina al clima surriscaldato nel globo, che ieri ha mobilitato i capi di Stato e di Governo in occasione della Giornata mondiale della terra: Febbre a 40.
RIAPERTURE, LE REGIONI CONTRO DRAGHI
Dunque le Regioni, guidate ora dal Presidente del Friuli-Venezia Giulia Fedriga si schierano contro il Governo per l’ultimo Decreto sui divieti anti Covid.
«Le Regioni convocano una riunione quasi di emergenza, scrivono al governo esprimendo «amarezza» e chiedono un ampio ventaglio di modifiche al decreto appena approvato: estendere i servizi di ristorazione anche al chiuso, prorogare «l'orario di inizio del coprifuoco dalle 22 alle 23»; aprire, «fin dal 26 aprile, le palestre al chiuso per le lezioni individuali»; inserire «un'apposita previsione per la riapertura delle piscine al chiuso»; consentire «la ripartenza del settore wedding»; «anticipare l'apertura dei parchi tematici e dei mercati» e «uniformare le date di riapertura degli spettacoli all'aperto e degli eventi sportivi all'aperto». (…) Alle Regioni ha risposto il ministro degli Affari regionali Mariastella Gelmini, che in queste settimane ha sempre cercato un punto di equilibrio fra le esigenze e le posizioni diverse: «Il fatto che nel testo del decreto appena varato non sia stato riprogrammato il coprifuoco - ha detto il ministro di Forza Italia -, non significa che durerà fino al 31 luglio. Questa è una lettura distorta del provvedimento. Sono assolutamente certa che presto il coprifuoco sarà solo un brutto ricordo. È lo stesso decreto a dirlo, precisando che il Consiglio dei ministri potrà intervenire nelle prossime settimane, con tagliandi periodici al dl, modificando sia le regole per le riaperture che gli orari del coprifuoco». Ma non solo, il ministro Gelmini assicura anche che se le Regioni non saranno in grado di assicurare le quote degli studenti in presenza decise dal governo «potranno anche derogare, stiamo lavorando per trovare un'intesa». E fonti di governo aggiungono che le regioni potranno derogare al massimo al 50%, mai al di sotto. Fra i presidenti di Regione si è distinto Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, che pensa si possa posticipare il coprifuoco, se i dati lo consentiranno, «ma è il governo a dover scegliere, e in questo momento polemizzare confonde solo le idee».
Mattia Feltri nella sua rubrica in prima pagina su La Stampa nota acutamente un comportamento palesemente contraddittorio delle Regioni. Per i Presidenti di Regione la scuola, riaprendo, fa circolare il virus. Mentre bar e ristoranti, aperti fino alle 23, non creano problemi.
«Ieri i presidenti delle Regioni hanno scritto a Mario Draghi per sollevare due problemi la cui soluzione è vitale. Primo problema, riaprire le scuole superiori col settanta per cento di alunni in presenza è impossibile, perché sommamente pericoloso. Secondo problema, riaprire i ristoranti col coprifuoco confermato alle 22 è inammissibile, perché sommamente dannoso. (…) Da un anno ci spacchiamo la testa sul dilemma del contemperare la tutela della salute con quella dell'economia, e lo stratagemma ha del prodigioso: le scuole no sennò riparte il Covid, i locali sì sennò non riparte il lavoro. Fra l'altro l'ingegnosa soluzione era sotto gli occhi di tutti, è infatti da inizio pandemia che le Regioni si dichiarano disarmate se si tratta di riavviare la scuola, ma sono armate fino ai denti se si tratta di riavviare i pub. Un animo vile e meschino potrebbe sospettare che studenti e insegnanti protestano per modo di dire, non bloccano le autostrade e soprattutto non votano, mentre i ristoratori sì, le autostrade le bloccano e poi votano. Ma io ho un animo squisito e nobile e mi sdilinquisco davanti al genio».
Il retroscena di Francesco Verderami racconta di un Draghi meno interessato allo scontro Speranza-Salvini e molto all’iter del Pnrr.
«Il caso per Draghi è chiuso. Così riesce a tenere separati due mondi: da una parte la politique d'abord , con le tattiche dei partiti e le diatribe quotidiane; dall'altra l'azione del governo e la strategia d'intervento su quelle che considera le uniche priorità. È sul piano vaccinale e sul Pnrr che il premier concentra le energie, conscio dei molti rischi e del poco tempo a disposizione. Infatti, quando gli propongono scenari troppo proiettati sul futuro, interrompe la discussione e dice sorridendo: «Di questo parleremo un'altra volta. Anche perché non si sa mai, non vorrei che tra qualche giorno mi ritrovassi immerso nel pantano». Per evitarlo deve trasformare il Recovery plan da pensieri in opere senza omissioni. Ieri si è compiaciuto per la bozza «complessa e fatta molto bene», che si regge su due pilastri: la digitalizzazione e la transizione ecologica. «È importante - ha commentato al termine del vertice - che emerga il disegno di ripartenza e crescita del Paese». Se oggi il Consiglio dei ministri discuterà il progetto senza votarlo, non è solo perché il premier attende di verificare eventuali richieste di implementazione da parte dei rappresentanti di governo. È anche per una forma di attenzione e di rispetto verso il Parlamento, che la prossima settimana esaminerà il Pnrr nelle Aule di Camera e Senato. Sull'altro fronte, il piano vaccinale, Draghi continua a essere rassicurato sulla piena riuscita dell'operazione che sta completamente nelle mani del generale Figliuolo. Su questo punto con le Regioni c'è stato ormai un definitivo chiarimento, se è vero che la struttura commissariale ha inviato la direttiva sulle vaccinazioni accompagnandola con la sentenza della Consulta dello scorso febbraio, lì dove viene spiegato che «spetta allo Stato determinare le misure necessarie al contrasto della pandemia» provocata dal virus cinese. Piuttosto è sul rifornimento delle dosi che prosegue una battaglia quotidiana. (…) Ecco cosa interessa davvero a Draghi per evitare “il pantano”».
Il Corriere ha anche un retroscena di parte leghista. Marco Cremonesi spiega che Salvini torna “allo stile Pierino” ma stando al Governo.
«L'insistenza sulla lealtà al governo dipende dal fatto che il segretario leghista è consapevole di quale sia la domanda del giorno: Salvini ricomincerà con le montagne russe, al governo e all'opposizione, su e giù tra popolo e Palazzo? Ripeterà la «modalità Papeete» quando dalle spiagge tirava a palle incatenate su Palazzo Chigi (salvo poi partecipare a Consigli dei ministri i cui provvedimenti «salvo intese» poi non sempre si materializzavano)? La domanda è inevitabile, e lo è anche nella Lega. Il decreto approvato mercoledì sera, infatti, era stato preceduto da un lavoro istruttorio non superficiale: una riunione della «cabina di regia» a cui aveva partecipato il capo delegazione Giancarlo Giorgetti. E poi, l'incontro di tutti i partiti con il premier Mario Draghi della scorsa settimana. Avrebbe dovuto partecipare Salvini, ovviamente, ma lui però aveva dato forfait per stare qualche ora in famiglia. Un'assenza che, a posteriori, prende tutta un'altra suggestione, come se il capo leghista avesse voluto tenersi le mani libere. Ma chi lo conosce spiega che il figlio sia rimasto molto colpito dal recente rinvio a giudizio del padre, il quale aveva dunque deciso di trascorrere un po' di tempo con lui. (…) Certo, la tattica resta quella imparata sui social: l'engagement , il suscitare coinvolgimento fosse anche negativo. Ma nel caso del coprifuoco e di alcune incongruenze del decreto, il leader leghista si sente assolutamente in sintonia con l'opinione diffusa. Un fatto utile per contrastare la tendenza ribassista dei sondaggi: «Matteo sa bene che se lasciasse il governo dopo meno di tre mesi, i danni alla sua credibilità non sarebbero recuperabili, con Giorgia Meloni arrembante». Senza contare che il leader leghista si sente in qualche modo in credito per i frequenti attacchi subiti dalla componente giallorossa del governo: «Non ci siamo espressi sulla mozione di sfiducia a Speranza, insistono con il ddl Zan che non hanno approvato quando al governo erano loro, stressano i miei rapporti con Giancarlo Giorgetti e la mediazione promessa sulle cartelle esattoriali è scomparsa», avrebbe detto a un suo sostenitore. Detto tutto questo, «se sperano che noi rompiamo tutto per farsi un'altra maggioranza Ursula, sbagliano di grosso».
Nell’editoriale su Avvenire Walter Ricciardi, già consulente di Speranza ed esperto, spesso al centro di polemiche controverse, attacca la linea “aperturista”: si ignora l’evidenza scientifica.
«Mancanza di coesione e ignoranza dell'evidenza scientifica sono gli elementi che stanno spalancando le porte a un'ulteriore ondata epidemica. Gli stessi mali che hanno colpito la stragrande maggioranza dei Paesi europei e, da ultimo, con effetti disastrosi, l'India. Che cosa hanno in comune Paesi come la Nuova Zelanda e Taiwan, il Ruanda e l'Islanda, l'Australia e il Vietnam, Cipro e la Thailandia? Poco o niente dal punto di vista geografico, culturale, economico e sociale e però sono tutti Paesi in cui la vita oggi scorre più o meno normalmente grazie alla scelta di non convivere con il virus, ma di arrestarlo e, se possibile, eliminarlo. Hanno fatto scelte coraggiose: lockdown mirati e tempestivi, numerosi test e tracciamento inesorabile, limitazione della mobilità, rafforzamento dei servizi sanitari. E hanno bloccato il virus prima ancora di avviare la vaccinazione di massa. Cosa hanno in comune l'India e l'Italia, la Germania e gli Stati Uniti, la Francia e i Paesi est-europei? La scelta di pensare di poter convivere con il virus e/o di pensare che una singola arma, la campagna vaccinale di massa, possa riportare l'epidemia a livelli sopportabili. Non sarà così: (…) I sociologi conoscono bene i cedimenti che molti governi stanno praticando: 'imperativo democratico', così definiscono l'azione di un governo che fa cose sbagliate perché lo chiedono gruppi importanti di cittadini. È quello che ha fatto il governo indiano cedendo alle pressioni degli induisti di non rimandare la cerimonia di purificazione che si svolge periodicamente, consentendo loro di ammassarsi in prossimità di grandi corsi d'acqua. Il risultato, ineluttabile, è stata un'esplosione di casi e di morti (…) Pressato da forze politiche al suo interno e da settori della società esasperati dalle perdite economiche il governo italiano sta riaprendo pezzi significativi di attività in presenza di un'ampia circolazione del virus, una forte pressione sui servizi sanitari, un sistema sanitario sofferente per carenza di personale, un personale mediamente anziano e provato fisicamente e psicologicamente e coperture vaccinali non ancora soddisfacenti. Il governo attuale è nato sull'idea di coesione nazionale per affrontare la pandemia. Il successo della sua azione sarà possibile solo se, appunto, sarà coeso e se baserà le sue decisioni, anche impopolari, sull'evidenza scientifica. Ogni deroga all'una o all'altra sarà causa di infelicità ravvicinate. Facciamo in modo che non sia così».
COPRIFUOCO, COPRIFUOCHINO…
Le somme record del Recovery italiano a cui Financial Times dedica la prima pagina? La giustizia? I diritti delle donne? No, in Italia si discute davvero su un tema molto più importante: se l’orario del coprifuoco debba scattare, come la mezzanotte di Cenerentola, alle 22 o alle 23. Il Giornale mette a confronto Sallusti e Porro in prima pagina. Perché sì, perché no. Cominciamo dal Direttore.
«Morale, si riapre ma solo fino alle 22, il che - più che accontentare qualcuno - scontenta tutti i partiti. Si poteva fare diversamente? Politicamente forse no, ma non mi pare un grosso problema. Primo perché se la situazione dei contagi migliorerà è già deciso che le maglie si allenteranno, secondo perché siamo di fronte a una regola sostanzialmente inapplicabile. Io, per età e ruolo, farò il possibile per ubbidire all'ordine, ma escludo che alle 21,30 le città popolate da migliaia di persone in giro per ristoranti, bar e locali aperti, con cielo e aria primaverile, come per incanto si spopoleranno. Non accadrà, ci scommetto, e non ci sarà controllo in grado di riportare ordine e disciplina: lo Stato, al di là di qualche azione dimostrativa a favore di telecamera, non ha uomini e mezzi per farlo e comunque il compito della polizia è di proteggerci dai criminali, non da noi stessi».
Ed ecco Nicola Porro che sulla metafora del 22 imbastisce un paragone ardito con la dittatura mussoliniana.
«Il coprifuoco è la più odiosa delle manovre governative. Per questo il contorto hashtag (quelle paroline che girano in modo virale on line) #ioil22nonlovoglio è stato il più cliccato dalla rete. Il 22 non è solo l'orario del coprifuoco, che fino a decisione contraria si trascinerà fino a fine luglio, ma è anche l'anno della marcia su Roma. L'Italietta liberale allora pensò, complice il sovrano, che la marcia non si dovesse fermare. E piano piano, il fascismo come un cancro si insinuò nelle nostre deboli istituzioni. Nessuno pensa che oggi si stia instaurando una dittatura. Ciò che succede è quasi peggio».
RECOVERY PLAN SENZA 110% DOPO IL 2022?
A differenza della stampa estera, pochi approfondimenti seri della stampa italiana sulla proposta del Pnrr, 318 pagine, oggi in Consiglio dei Ministri. Il Messaggero, fatalmente attento al settore dell’edilizia, dove è in prima linea il suo editore Caltagirone, critica fortemente il fatto che dopo il 2022 non viene riconfermato il super bonus del 110 % per le ristrutturazioni.
«È ancora il superbonus ad accendere la polemica sulla versione quasi finale del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che il governo approverà oggi (ma l’approvazione slitta dopo l’esame del Parlamento ndr) per poi portarlo all'inizio della prossima settimana in Parlamento. Ma anche la distribuzione territoriale delle risorse per le infrastrutture appare al momento sbilanciata, a sfavore del Centro Italia. L'impegno finanziario complessivo, distribuito sulle sei missioni, arriva a 221,5 miliardi includendo i circa 30 del Fondo complementare, ovvero risorse nazionali da utilizzare con le stesse regole di quelle europee. Proprio sotto questa voce sono stati spostati circa 8 miliardi (su un totale di 18,5) destinati a compensare il minor gettito della detrazione del 110 per cento per i lavori di riqualificazione energetica e prevenzione sismica. Ma non c'è la proroga della super-agevolazione, che quindi è destinata ad esaurirsi nel corso del 2022: un'assenza che ha già provocato la reazione di Confindustria. Il vicepresidente Emanuele Orsini parla di «gravissimo errore che danneggerebbe il settore delle costruzioni, volano dell'economia e ad altissima intensità di occupazione». Alla richiesta di una proroga che arrivi a coprire tutto il 2023 si sono uniti i rappresentanti di varie forze di maggioranza, da Forza Italia al Pd al Movimento Cinque Stelle».
Il Sole 24 Ore approfondisce di più le novità del Piano. Titolo di una doppia paginata da conservare: Il Recovery di Draghi punta su riforme, ricerca e formazione. Leggiamo uno stralcio:
«Riforme, ricerca, e un riequilibrio che spinge di più verso i progetti nuovi e riduce i fondi destinati a finanziare interventi già previsti nei tendenziali di finanza pubblica. Scorrono su queste tre direttrici gli elementi di novità dello schema di Recovery Plan del governo Draghi, che oggi in Consiglio dei ministri avrà solo un primo esame. Il via libera finale slitta alla prossima settimana, nel tentativo di trovare un'intesa politica più solida. Sui numeri, e sui meccanismi di governance che dovrebbero essere basati sul centro di controllo al Mef, «interlocutore unico» della commissione per le verifiche sull'attuazione, e su una cabina di regia politica a Palazzo Chigi la cui composizione finale è ancora al centro delle discussioni fra i partiti. Il confronto fra i due documenti deve considerare il cambio di architettura del Piano targato Draghi, fondato sui 191,5 miliardi della Recovery and Resilience Facility (erano 196,5 in base ai dati disponibili a gennaio) e sui poco più di 30 miliardi del fondo "complementare" finanziato con lo scostamento di bilancio approvato ieri dalle Camere (che spalma poi l'altra quota da oltre 40 miliardi, interessi compresi, sul 2027-2032). Ma due dati sono evidenti: la parte di risorse comunitarie utilizzata in chiave sostitutiva, cioè per coprire programmi già esistenti, scende a 53 miliardi dai 65,7 scritti nelle bozze di gennaio. E la missione 4 dedicata a istruzione e ricerca sale da 23,2 miliardi a 31,9 (24,1 nuovi e 7,8 sostitutivi). L'alleggerimento della parte sostitutiva è dovuta prima di tutto al tramonto del cashback (quasi 5 miliardi) dall'orizzonte del programma comunitario. La sua uscita di scena dipende anche dallo scarsissimo entusiasmo incontrato a Bruxelles dall'idea di finanziare con il Next Generation Eu un incentivo generalizzato alle transazioni elettroniche; ma offre un argomento forte ai tanti che in Italia, nella maggioranza oltre che in Fratelli d'Italia, chiedono di ridurre o abbandonare la misura da luglio per recuperare tre miliardi da girare agli aiuti diretti all'economia. (…) Ma è sul piano politico che il Recovery di Draghi è più "nuovo" rispetto a quello del Conte-2. Perché prendono forma riforme come quelle sulla giustizia e sulla Pa, che nel caso della Pubblica amministrazione entrano anche nelle tabelle con i finanziamenti. I loro costi, contenuti, quasi scompaiono nel mare del Recovery, ma le tabelle cominciano a offrire l'identikit di un intervento dettagliato su reclutamento e formazione del personale e sulla semplificazione delle procedure in chiave digitale».
Per Repubblica il Pnrr di Draghi è un Piano Verde. Roberto Mania.
«Il premier Mario Draghi ha accettato di chiamarla "la rivoluzione verde". C'è un intero capitolo del Recovery plan dedicato alla transizione ecologica, ed è quello che assorbirà la quota più importante di risorse europee, quasi 70 miliardi da qui al 2026. Il "verde" e il digitale sono i motori per disegnare l'Italia del post Covid-19, le leve su cui agire per colmare i gap strutturali che da decenni ci spingono in fondo alla classifica continentale per tasso di produttività, per quota di partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, per livello di occupazione tra i giovani. «Uscire dalla pandemia non sarà come riaccendere la luce», ha detto più volte il premier. L'Italia sarà un'altra. Ed è questa l'idea della ricostruzione che ha in mente Draghi. Sulla realizzazione de Pnrr (il Piano di ripresa e resilienza o Recovery plan) si gioca la sua credibilità innanzitutto in Europa, che per la prima volta ha messo in campo una forma di condivisione del debito. I 221,5 miliardi a disposizione, tra i 191,5 del Next generation Eu e i 30 del fondo nazionale complementare, sono davvero un'occasione storica, irripetibile. Quei soldi, però, vanno spesi bene, altrimenti non arriveranno».
GRILLO 1. CASALEGGIO ROMPE
Potrebbe essere oggi il giorno della rottura ufficiale all’interno del Movimento 5 Stelle. È scaduto infatti l’ultimatum di Davide Casaleggio e Conte non ha ancora trovato la quadra. Lo spiega bene Il Fatto con Luca De Carolis.
«Oggi, a ultimatum inutilmente scaduto, l'erede strapperà l'ultimo filo che lo lega alla sua storia, al Movimento. Dopo mezzanotte, al massimo in mattinata, dirà addio tramite post, su quel blog delle Stelle che da mesi è una sua riserva personale. E forse sarà scissione. "Davide Casaleggio si caricherà tanti fuoriusciti, finalmente proverà a farsi il suo partito" scandiscono come un anatema i Cinque Stelle, alla vigilia del distacco con la piattaforma e l'associazione Rousseau. Ieri, giovedì 22 aprile, era l'ultimo giorno per provare a rimettere assieme i cocci del rapporto con l'ex casa madre di Milano, che chiedeva al M5S versamenti arretrati per 450 mila euro e garanzie, sul suo ruolo nel Movimento che verrà. "Qualora i rapporti pendenti non verranno definiti entro questa data - scriveva l'associazione Rousseau un paio di settimane fa - saremo costretti a immaginare per Rousseau un percorso diverso, lontano da chi non rispetta gli accordi e vicino, invece, a chi vuole creare un impatto positivo sul mondo". Ma ieri di segnali e soprattutto di soldi da Roma non se ne sono visti. "Rousseau? Non so, provate a chiamare voi" rispondeva al Fatto il reggente Vito Crimi a metà pomeriggio in Senato. Il M5S ormai ha in mente già un'altra strada. In questi giorni il rifondatore Giuseppe Conte ha visionato vari progetti per una piattaforma alternativa. Per capirsi, "sul modello di quelle già adoperate da alcune grandi aziende" raccontano. L'ex premier riflette su "metodi gestionali alternativi" a Rousseau, che per il M5S non era solo una piattaforma, ma anche l'associazione che preparava e filtrava le liste, nonché una scuola (virtuale) di formazione, e molto altro. Funzioni che Conte vuole riportare a Roma, anche fisicamente, puntando sulla sede individuata in piazza del Parlamento. Nell'attesa, si profila lo scontro in tribunale. Alcuni giorni fa l'ex premier aveva incaricato un avvocato di sua fiducia di cercare un'ultima mediazione con Casaleggio. Però il rischio che si finisca a carte bollate ormai è altissimo, anche perché il Movimento pretende i dati degli iscritti, tuttora in possesso solo di Rousseau. Li ha già richiesti con una diffida, pare. E se non arriveranno novità in tempi brevi i 5Stelle sono pronti a chiederli di fronte a un giudice. Così oggi, salvo sorprese a cui non crede nessuno, sarà frattura».
Marco Imarisio sul Corriere commenta: nel momento più difficile della rifondazione dei 5 Stelle, l’unico vero capo è fuori dai giochi.
«Beppe Grillo non è mai stato così lontano dal Movimento 5 Stelle. Neppure quando a mesi alterni recitava il suo lungo addio. Gli effetti politici dell'orrendo video postato in difesa del figlio Ciro sono già visibili in tutta la naturalezza che consegue alle reazioni per le sue inaccettabili parole. L'unico vero capo è fuori dai giochi. Non conta più, o conta meno. Per il M5S, una entità nata per essere guidata, che predicava la democrazia diretta ma per statuto non prevedeva la democrazia interna, sono sempre e solo esistite due voci. L'unica rimasta adesso sarà costretta al silenzio, nel momento in cui più ci sarebbe bisogno di una voce forte. Nel mezzo di una ennesima mutazione con l'arrivo di Giuseppe Conte, imposto dall'ormai ex Elevato. E nel pieno di una lotta fratricida che oppone i Cinque Stelle non tanto a una piattaforma online, ma a Davide Casaleggio, e quindi a un cognome pesantissimo. L'unico mediatore possibile in una battaglia tra il passato glorioso e autoritario del M5S e un presente ancora incerto, era lui. Nessuno, ma proprio nessuno all'interno dei Cinque Stelle, poteva immaginare che Grillo si mettesse da solo in una posizione di autoisolamento dettata da quella vicenda personale che a suo dire veniva gestita con tempi lunghi proprio per isolarlo. Ma è successo, l'autorità suprema è indebolita. Adesso il Movimento è se possibile ancora più nel caos. Ogni giorno che passa rafforza Davide Casaleggio. Perché risulta sempre più chiaro quanto la posizione di Rousseau e del Movimento siano intrecciate, e distanti al tempo stesso. (…) La sua idea era di accontentare Casaleggio figlio facendolo rimanere come fornitore esterno di servizi, alla cifra che chiedeva, magari limata. Non c'era altro modo, per fare partire la nuova fase di Conte e per uscire da una paralisi politica che vede il M5S, per altro azionista di maggioranza dell'attuale governo, completamente latitante, scomparso da ogni dibattito che non sia quello ombelicale sul proprio destino. Senza la mediazione di Grillo, nessun vero accordo sarà possibile. E proprio Conte rischia di essere il principale sconfitto di quella partita interna che ritiene non lo riguardi affatto, sbagliando di molto. L'ex presidente del Consiglio ora è obbligato al confronto con Davide Casaleggio, dal quale lo divide tutto, storia, direzione da prendere, interesse. Appena un mese fa, dopo aver ricevuto l'investitura da Grillo come futuro capo del Movimento, si era rifiutato di rispondere a una sua ambasciata. Ora è lui che deve cercarlo, e trovarsi non sarà facile, perché Davide riconosce un solo interlocutore. Alla mezzanotte di ieri è scaduto l'ultimatum sull'utilizzo della piattaforma Rousseau. Se i parlamentari non pagano i debiti, nascerà qualcos' altro in contemporanea e in concorrenza al nuovo M5S che doveva essere di Conte, e di Grillo. Anche questo spiega le difese giunte fuori tempo massimo dai nomi grossi di M5S. Senza una nuova legittimità politica, al momento lontana, visto che i contenuti del famigerato video lo inseriscono di diritto nella schiera degli impresentabili, Grillo perde credibilità e autorità. Non solo all'esterno, come dimostra il clima da fine impero che si è instaurato all'interno del Movimento negli ultimi giorni, facendo subito tramontare il moderato ottimismo indotto dall'avvento di Conte. Che disastro. E ha fatto tutto da solo».
GRILLO 2. GIUSTIZIA E POLITICA
Non si spengono i riflettori sulla vicenda giudiziaria che coinvolge suo figlio Ciro, accusato di stupro, sollevata dallo stesso Beppe Grillo nel famoso video. Carlo Galli, già deputato prima del Pd, poi di Articolo Uno scrive fra l’altro su Repubblica, in un commento in cui paragona le difficoltà parallele ad accettare il processo fra Salvini e Grillo stesso:
«I commenti più benevoli su Grillo ne circoscrivono la reazione all'ambito privato: lo sfogo rabbioso di un genitore che protegge con ogni mezzo il figlio minacciato. Eppure, questa presunta dimensione privata dell'ira del padre implica la rivendicazione di una sorta di potere patriarcale sovrano che si mette in proprio, che si sostituisce alla giustizia pubblica: la famiglia diventa l'orizzonte della vita associata, la fonte della legittimità. La diffidenza populista verso il diritto, verso la regolazione normativa impersonale ed extra-familiare dei rapporti umani, della quale si mette sempre in dubbio l'imparzialità, si manifesta, qui, su base apertamente e deliberatamente privatistica. Di un "privato" arcaico, che si pone come il potere di un'istanza fortemente politica ma non pubblica: il diritto è il dovere del patriarca di sottrarre un membro del gruppo alla violenza esterna, che per quanto si presenti con le ragioni universali del diritto è anch'essa particolare, espressione di una tribù ostile.».
Marco Travaglio cerca di dirottare la polemica in chiave politica sulla scorta dell’uscita di una sottosegretaria alla Giustizia dei 5 Stelle, l’avvocato Anna Macina, che ieri ha accusato la Lega di strumentalizzare l’inchiesta penale, entrando a gamba tesa nel merito di un processo in corso.
«Se qualcuno sta politicizzando quel processo, è la legale della presunta vittima Giulia Bongiorno, ultima bandiera del partito trasversale degli "onorevoli avvocati" che si dividono fra le aule di giustizia e quelle parlamentari se non addirittura governative (lei, nel Conte-1, era financo ministra). Se Grillo, per i motivi appena illustrati, non è in grado di intimidire i giudici di suo figlio, non si può dire altrettanto della sen. avv. Bongiorno, responsabile Giustizia della Lega e legale di Salvini. Il quale ha subito chiesto "le dimissioni di Grillo dalle sue cariche" (quali?) e detto la sua sul processo di Tempio Pausania. Il sospetto lanciato dal M5S che sappia qualcosa di troppo è del tutto infondato: il Cazzaro Verde esterna solo quando non sa di cosa parla, altrimenti tace. Il vero scandalo è il conflitto d'interessi dei parlamentari eletti per "rappresentare la Nazione" e poi ridotti a rappresentare tizio o caio».
Sullo stesso tema Maurizio Belpietro su la Verità:
«La parlamentare di cui ignoravo, come credo molti di voi, l'esistenza (si riferisce ad Anna Macina ndr), in pratica finge di non sapere che tutto questo can can non ci sarebbe stato se un signore di nome Beppe Grillo, ossia l'Elevato che ci ha dato il governo Conte e che sostiene il governo Draghi, non si fosse sfogato contro la magistratura e contro una ragazza che sostiene di essere stata violentata, dicendo che nel video si vedono «solo quattro c con il pisello fuori». Se non avesse detto che la presunta vittima era una bugiarda, in quanto aveva denunciato lo stupro otto giorni dopo e aveva fatto kitesurf. A strumentalizzare il caso non sono stati gli avversari politici di Grillo, ma Grillo stesso, il quale ha fatto chiaramente capire che le accuse al figlio sono rivolte contro di lui. «Arrestate me», ha detto, «non lui». Come ho scritto fin dal primo giorno, si capisce che un padre voglia difendere il proprio figlio. Ma il capo dei 5 stelle non ha fatto questo: ha attaccato la Procura, che non avrebbe fatto il proprio dovere archiviando il caso, e una ragazza, dicendole che era consenziente, aggiungendo che nel video si vede che i ragazzi si divertono. Come no? Un vero divertimento: in quattro su una giovane. Capisco che Anna Macina tenga allo strapuntino che ha conquistato da meno di due mesi: sottosegretaria alla prima legislatura, dopo solo tre anni in Parlamento. Tuttavia, se la sua voleva essere un'arringa a favore di Grillo, diciamo che le è venuta male. Perché se il primo ad aver politicizzato la vicenda è stato il capo del Movimento, la seconda è proprio lei, con l'idea di contrapporre Salvini al leader pentastellato pur di salvarlo dalle critiche. Se questa è la sua idea di giustizia, caro onorevole avvocato, povera giustizia».
A ROMA MORTI SENZA SEPOLTURA
Gli antichi erano convinti che i morti non sepolti non potessero riposare davvero, creando inquietudine anche per i vivi. Avevano ragione perché la storia dei cadaveri non tumulati a Roma ci mette profondamente a disagio. È stato Andrea Romano, deputato del Pd, a raccontare il collasso dei cimiteri della Capitale. Lo racconta Claudio Bozza sul Corriere della Sera.
«Oggi sono due mesi che mio figlio Dario non è più con la sua mamma, con i suoi fratelli, con me. Due mesi che non riusciamo a seppellirlo: Ama non dà tempi di sepoltura degni di una città civile. Anzi, non dà alcun tempo. Sindaca Virginia Raggi, la tua vergogna non sarà mai abbastanza grande». È lo sfogo di Andrea Romano, deputato del Pd. Un dolore enorme, che il parlamentare e la sua famiglia hanno tenuto riservato per lungo tempo: «Poi basta, non ce l’ho fatta più», racconta al Corriere. «Dario se ne è andato serenamente», aveva confidato Romano agli amici e ai colleghi più vicini. E poi: «Il nostro ragazzo aveva una grave malattia fin dall’infanzia...». Due mesi fa se ne è andato. L’ultimo desiderio della famiglia era di salutare Dario con un funerale ristretto, poi la sepoltura. Ma ciò non è stato possibile. «Da due mesi attendo assieme a Costanza, la mamma di Dario, di poter rendere l’ultimo saluto a nostro figlio, ma non possiamo nemmeno accedere al deposito del cimitero di Prima Porta, dove sono accatastate le sue ceneri — racconta ancora Romano —. Ero assai restio, vista la mia carica politica, a rendere pubblica la vicenda. Ma poi ho deciso di denunciare questo dramma, perché è lo stesso che stanno vivendo centinaia di famiglie romane».
BIDEN RIUNISCE IL MONDO SUL CLIMA
L’occasione è stato un summit digitale senza precedenti in occasione della Giornata mondiale della Terra. I Grandi del mondo si sono confrontati sull’emergenza ambientale del globo. Per una mezza giornata le tensioni internazionali su Navalny, sugli Uiguri, sul Venezuela sono finite in secondo piano. Paolo Mastrolilli su La Stampa.
«Per qualche ora almeno, il clima è riuscito a mettere i leader del mondo sempre più diviso intorno ad un tavolo. Digitale, ma comunque occasione di dialogo. E questo è già un successo, vista la retorica infuocata degli ultimi mesi tra il presidente americano Biden, il rivale cinese Xi, e quello russo Putin. Poi staremo a vedere quante promesse fatte ieri per contrastare i cambiamenti climatici verranno mantenute, ma tra il nuovo impegno degli Usa a dimezzare le emissioni, quello della Cina ad abbandonare il carbone, e quello del premier italiano Draghi ad usare il G20 per avanzare i finanziamenti della transizione ecologica, qualche novità concreta è emersa. Il padrone di casa ha aperto il Leaders Summit on Climate avvertendo che questo «è il decennio decisivo, dobbiamo agire». Combattere i cambiamenti climatici «è un imperativo morale», perché «i segnali sono inconfondibili, la scienza è innegabile, e i costi dell'inazione crescono». (…) Quindi Biden ha ammonito: «Incontrarsi ora va oltre l'obiettivo di preservare il pianeta, significa anche offrire un futuro migliore a tutti noi». Lui vede gli investimenti nella transizione ecologica come un'opportunità per rilanciare l'economia e creare posti di lavoro, e questo è un segnale di politica interna per convincere gli americani e piegare le resistenze degli avversari. Il primo scopo del Summit però era riaffermare la leadership Usa nella lotta al riscaldamento globale, dopo la parentesi Trump, e il presidente lo ha perseguito raddoppiando gli impegni presi da Obama con l'accordo di Parigi. Ora Washington punta a ridurre le sue emissioni di gas tra il 50 e il 52% entro il 2030. Gli Stati Uniti però vogliono aiutare i Paesi più poveri a contribuire, perché pur essendo il secondo inquinatore mondiale dopo la Cina, anche se annullassero il loro 15% di emissioni globali non basterebbero a salvare il pianeta. (…) Xi ha lanciato un segnale di apertura anche solo intervenendo, ed evitando di citare gli altri punti di attrito aperti nella sfida geopolitica epocale con Washington. Invece ha detto che «vogliamo lavorare con la comunità internazionale, inclusi gli Usa». Ha ribadito l'impegno di zero emissioni entro il 2060, e ha aggiunto che vuole «limitare strettamente l'aumento del consumo di carbone» nei prossimi cinque anni, ed eliminarlo nei cinque successivi. È importante, perché a settembre aveva promesso che Pechino avrebbe toccato il picco nel 2030, senza però spiegare come ci sarebbe arrivato e come sarebbe sceso. Anche Putin ha evitato lo scontro, dopo che Biden lo aveva definito un killer, annunciando impegni anche più stringenti della Cina. Persino Bolsonaro ha promesso di fermare la deforestazione in Brasile, pure se in cambio aveva chiesto un miliardo di dollari a Biden. Draghi, oltre ad affermare che «insieme vinceremo questa sfida», ha assicurato che userà la presidenza del G20 per la questione dei finanziamenti. È un punto chiave, perché nel briefing preparatorio con i giornalisti, una fonte della Casa Bianca aveva risposto così alla domanda della Stampa su cosa vorrebbero nell'agenda del vertice di Roma: «Sarà cruciale avere una discussione più approfondita riguardo la finanza del clima, le ambizioni dei partner, il ruolo dell'energia pulita e l'adattamento». (…) Greta Thunberg già dice che non basta. Vedremo ora se il mondo saprà davvero riunirsi, su questa emergenza che riguarda tutti».
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Oggi doppio appuntamento: un’intervista da non perdere e la Versione del venerdì.