La Versione di Banfi

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"Non c'è stata trattativa"

alessandrobanfi.substack.com

"Non c'è stata trattativa"

Il Ministro degli interni insiste: il padrino catturato grazie alle indagini. Scoperta la casa nell'entroterra di Mazara. Ma è il "vero covo"? Mosca vuole un milione e mezzo di soldati. Calo cinese

Alessandro Banfi
Jan 18
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"Non c'è stata trattativa"

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Nessun covo nascosto, non un casolare di campagna come per Bernardo Provenzano, ma un’abitazione borghese in un paese di diecimila abitanti. Negli ultimi mesi l’ormai ex latitante Matteo Messina Denaro viveva in una casa comprata da un mafioso prestanome, che era poi lo stesso che gli aveva fornito l’identità per farsi curare: Andrea Bonafede. Lo ha spiegato il vero Bonafede agli inquirenti. Pochi misteri e nessuna “carta mafiosa”, almeno per ora, in questo alloggio allestito solo nell’ultimo periodo. Si trova in una zona semicentrale di Campobello di Mazara, provincia di Trapani, 15 chilometri da Mazara del Vallo, 80 da Palermo. Un palazzetto anonimo, che i Carabinieri hanno circondato e setacciato. È stato riferito che nell’appartamento c’erano oggetti di valore. Se non proprio di lusso. Il resto è coperto dalle indagini. L’impressione generale è che Matteo Messina Denaro non si sia fatto trovare impreparato all’arresto. Forse aveva avvertito che i carabinieri erano ormai sulle sue tracce. Ma i misteri sulla trentennale latitanza restano eccome. Chi ha aiutato il boss? Il timbro sulla carta d’identità era autentico. Le operazioni chirurgiche, cui è stato sottoposto, sono state almeno due. Non ha cambiato connotati, in alcun modo. Secondo Giovanni Bianconi “il vero covo” non è la casa di Campobello.

Poi ci sono le domande sull’arresto.  “Non c’è stata nessuna trattativa” insiste con La Stampa e col Corriere il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, che aveva annunciato il colpo grosso della cattura. E Antonio Polito, sul Corriere, invita a non aderire alla setta di “Dietrology” e di proclamare: viva lo Stato, quando arresta il Re di Cosa nostra. Basta con i sospetti. La ex Pm Teresa Principato, in un’intervista a Repubblica, ipotizza che ad aiutare la latitanza trentennale del boss sia stata la Massoneria deviata: una reta interna e internazionale. Il Procuratore Maurizio De Lucia parla di una “borghesia mafiosa” che avrebbe aiutato Messina Denaro. Vedremo se le indagini sull’alloggio di Campobello porteranno nuovi elementi.

Sul piano politico, il ministro Carlo Nordio ha confermato che le intercettazioni non saranno affatto limitate in indagini sulla mafia e che semmai si contrasterà l’abuso di questo strumento in altre inchieste. Il governo non vuole dare certo l’impressione di stare un passo indietro, rispetto alla lotta alla mafia. Del resto la strumentalizzazione dell’arresto con la rissa dei giornali fra destra e sinistra non fa onore al nostro dibattito. E neanche al nostro giornalismo.

Veniamo alla guerra in Ucraina. A Dnipro, dove un missile russo ha sventrato un condominio, non si scava più alla ricerca delle vittime. I morti sono 44, i feriti 79, i dispersi 20. Si è dovuto dimettere un consigliere di Volodymyr Zelensky, che aveva ipotizzato responsabilità della contraerea ucraina. Luigi De Biase sul Manifesto racconta che Mosca sta pensando di portare l’esercito russo a un milione e mezzo di unità e che Vladimir Putin ha promosso una legge per cancellare i trattati della Russia con l’Europa.

Per il resto sui giornali ci sono molti resoconti sul Forum economico di Davos. In quella sede Henry Kissinger ha rilanciato la necessità di un cessate il fuoco, cui si potrebbe si potrebbe arrivare «lungo le linee di prima dell'invasione», dunque concedendo l’occupazione russa della Crimea e di parti del Donbass. Mentre gli ucraini sono tornati in pressing sui tedeschi per avere i carri armati. Da parte sua la Germania, sempre nel Forum, ha ammesso di aver provocato il rialzo del prezzo del gas, la scorsa estate, facendo incetta della risorsa sui mercati. Ursula von der Leyen è tornata poi ad affrontare la grande questione degli aiuti alle economie del nostro continente. La competizione economica con gli Usa sta mettendo la Ue in una posizione di sudditanza, su questo punto tutti concordano: si discute però su come arrivare all’obbiettivo.

L’altro nodo difficile da sciogliere e che sarà sul tavolo al prossimo Consiglio del 9 e 10 febbraio è quello dei migranti. Ieri nuovo segnale distensivo nei rapporti fra Parigi e Roma. C’è stata una lunga telefonata tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron. Scrive il Corriere: «La premier è convinta che occorra «uno strumento europeo per garantire il controllo delle frontiere» e vuole arrivare «con urgenza» a un'intesa tra i 27 Paesi Ue che tenga insieme la difesa dei confini, lo stop agli sbarchi e una strategia di politica economica congiunta sugli Stati di origine delle migrazioni». A proposito di Europa, l’ex europarlamentare del Pd, poi passato ad Articolo Uno, Antonio Panzeri ha deciso di collaborare alle indagini sul Qatargate.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae la bara in legno, posata in terra nella Cattedrale di Palermo per i funerali avvenuti ieri di Fratel Biagio Conte, il missionario dei poveri morto a 59 anni. “Fratel Biagio era laico cristiano, un mite potente lottatore”, ha detto l’arcivescovo Corrado Lorefice.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Avvenire mette in apertura la persecuzione dei cristiani nel mondo: Il prezzo della fede. Mentre il Manifesto si concentra su un milione e mezzo di russi chiamati sotto le armi: Armata grossa. Tanti ancora i titoli sul boss mafioso arrestato. Il Corriere della Sera va sugli sviluppi delle indagini dopo la cattura: Caccia ai segreti del padrino. Il Fatto sostiene che ci sono stati: Tanti protettori di MMD dalla Sicilia alla Calabria. Il Quotidiano Nazionale sottolinea l’autoscatto coi medici: Il selfie del boss. Il Mattino tematizza: La rete di protezione del boss. Il Messaggero auspica nuove rivelazioni: Si pente il prestanome del boss. Per La Repubblica l’alloggio nel trapanese è: La tana dei segreti. La Stampa intervista il ministro Matteo Piantedosi che promette: “Il carcere duro non si tocca”. Libero, su una foto di Roberto Saviano e Marco Travaglio, torna a polemizzare: Arrendetevi. Il Domani si occupa dei migranti: Appello di Amnesty al parlamento: «Fermate il decreto contro le ong». Il Giornale punta sul Qatargate: Panzeri parla, il Pd trema. Il Sole 24 Ore ci aggiorna sull’inflazione: Effetto Bce, tassi sui prestiti oltre il 3%. Carovita all’8,1%, ai massimi dal 1985. La Verità torna sull’'inchiesta  per la visita de leghista Gianluca Savoini a Mosca: La vera storia del Metropol.

SULLE TRACCE DEI COMPLICI DEL PADRINO

Cominciano le indagini per capire come abbia fatto Matteo Messina Denaro a vivere la sua trentennale latitanza. Il sospetto è che il “vero covo” non sia l’alloggio di Campobello di Mazara. Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera.

«Finita l'indagine per arrivare alla cattura, comincia l'altra sui complici del boss. Che parte da quelli «di prossimità», cioè coloro hanno aiutato Matteo Messina Denaro nella vita quotidiana e clandestina a Campobello di Mazara, che l'ha protetto fino a lunedì mattina, ma punta molto più in alto. Perché nessuno crede, o si rassegna, all'idea che all'ultimo padrino stragista di Cosa nostra sia bastata la protezione di un vecchio amico d'infanzia o un paio di conoscenti compiacenti per garantirsi la latitanza. A partire da quell'Andrea Bonafede che ha accettato di prestare la sua identità al capomafia, e ora si ritrova indagato per associazione mafiosa, con gravi indizi a suo carico. O il medico Alfonso Tumbarello, che ha rilasciato prescrizioni a due Bonafede nati lo stesso giorno e con la stessa tessera sanitaria, ma tutt' affatto diversi e con problemi di salute differenti. O quel Giovanni Luppino che è stato l'ultimo autista del boss. E poi? Chi altro ha garantito la sua vita clandestina? Con chi è stato in contatto per continuare a gestire gli affari da capomafia e il patrimonio occulto da cui ha continuato ad attingere i soldi per vivere, negli ultimi otto mesi a Campobello ma pure - negli anni precedenti - altrove? E soprattutto: dov' è e chi copre il vero covo di Messina Denaro? Oltre ai complici ancora occulti, è questo il vero obiettivo della Procura. Perché, dal poco che filtra su un'inchiesta appena avviata e ovviamente segreta, che ha bisogno di tempo per essere sviluppata, di «carte mafiose» nell'appartamento di vicolo San Vito non sarebbe stata trovata traccia. O comunque solo alcune, da verificare se attribuibili al boss o ad altre persone, anche con perizie calligrafiche in corso. La caccia a pizzini o altra corrispondenza con «uomini d'onore» o presunti tali, insomma, per ora non ha dato i frutti sperati. Ci sono scatoloni o contenitori vari con altra documentazione risalente all'ultimo anno. Di diverso genere. Si tratta soprattutto di referti, analisi mediche e riscontri di visite specialistiche, oncologiche e oculistiche, effettuate in strutture diverse dalla clinica La Maddalena di Palermo. Carte che aprono nuove prospettive d'indagine su altri medici e professionisti che hanno aiutato il latitante anche prima che approdasse a Campobello. Ma il fatto che siano datate 2022 o poco prima è un altro elemento che fa sospettare l'esistenza di un «deposito» dove il boss potrebbe avere conservato il resto del materiale. Se l'ha conservato. Perché la vita segreta di Matteo Messina Denaro è cominciata non uno ma trent' anni fa, e perché di messaggi sulle sue mosse e sulla gestione di alcuni affari il latitante ne avrebbe ricevuti e inviati almeno fino alla primavera scorsa, secondo quanto risulta da altre attività investigative. All'appartamento di Campobello, gli investigatori dell'Arma sono arrivati attraverso le chiavi di un'Alfa Romeo 164 contenuta nel borsello che Messina Denaro aveva con sé. Quella chiave ha un codice, dal quale si è risaliti alla targa dell'auto, e inserendo numeri e lettere nel sistema informatico di sicurezza urbana collegato con le telecamere che presidiano il territorio, si è risaliti ai movimenti della macchina. Che hanno portato i carabinieri all'indirizzo dove viveva il boss. Permettendo di trovare immagini di lui che sale o scende dall'auto, trasporta le buste della spesa.
Comportamenti normalissimi che poco si addicono a un capomafia divenuto il ricercato numero 1 per tutte le forze dell'ordine italiane; come pure i selfie scattati in clinica, durante le sedute terapeutiche, con infermieri o altri pazienti. Una «visibilissima invisibilità» che lascia perplessi inquirenti e investigatori, e che però potrebbe corrispondere a una precisa strategia: apparire come se non ci fosse niente da nascondere, per evitare di attirare l'attenzione.
L'appartamento - modesto ma ben tenuto, arredato con gusto e pieno di capi firmati, dalle camice alle scarpe ai profumi, che confermano l'attrazione del boss per l'abbigliamento alla moda e una certa eleganza da ostentare - è intestato al vero Bonafede, così come la 164. Ed è emerso che ad acquistarlo al prezzo di circa 20.000 euro, a maggio dell'anno scorso, in coincidenza con l'operazione al fegato nella clinica palermitana, sarebbe stato proprio Bonafede con soldi prelevati dal proprio conto, dove precedentemente aveva versato i contanti consegnatigli da Messina Denaro. Un'altra occasione in cui ha prestato il proprio nome al latitante, ben sapendo chi fosse, per far transitare il denaro del padrino necessario a comprare il suo ultimo rifugio «ufficiale». Le verifiche degli investigatori si estenderanno anche alla banca dove sono avvenuti i versamenti e da dove sono partiti i bonifici, per cercare di capire se non ci siano state complicità anche in quei movimenti finanziari che avrebbero potuto suscitare qualche sospetto. Luppino e il dottor Tummarello, invece, sono indagati per favoreggiamento o procurata inosservanza della pena, e per l'autista ci sarà oggi l'udienza di convalida del fermo ordinato dalla procura dopo l'arresto del boss.
Ma il vero obiettivo sono complici di più alto livello. Quelli che hanno consentito al primo ricercato d'Italia di vivere una latitanza quasi alla luce del sole, nell'ultimo anno ma forse anche prima. Per esempio chi, nell'amministrazione comunale o negli uffici pubblici di Campobello, gli ha consentito di ottenere nel 2016 una carta d'identità con il timbro autentico sulla foto di un'altra persona. Nel 2001, quando Provenzano dovette procurarsi un documento falso per andare a operarsi a Marsiglia, utilizzò la complicità del futuro pentito Francesco Campanella, presidente del Consiglio comunale dì Villabate, che fece mettere un sigillo ufficiale sulla foto del ricercato. L'indagine mira a scoprire se a Campobello è accaduto qualcosa di simile. Come pure per la patente utilizzata dal boss. Altri indizi per smascherare le relazioni e gli appoggi del latitante potranno venire dall'analisi dei due cellulari utilizzati da Messina Denaro e delle schede telefoniche trovate nell'appartamento. Negli appunti scritti su un'agenda e altri fogli non si parlerebbe di attività riconducibili a Cosa nostra bensì di riflessioni generiche e su vicende personali del boss, come i rapporti piuttosto tesi con la figlia Lorenza, madre di un bambino di un anno e mezzo, il nipote del boss. E gli altri segni trovati sono relativi alla sua sfera privatissima, da un calendario con le immagini di donne nude a profilattici o pillole per aiutare l'attività sessuale. Ma anche i rapporti del capomafia con le donne (più d'una, a quanto pare) vengono ora vagliati dai carabinieri, che stanno controllando l'appartamento dove viveva (ristrutturato di recente) sulle pareti e fin dentro i muri alla ricerca di impronte o nascondigli, a caccia di ogni indizio che possa aiutare a ricostruire la vita segreta del boss. Quella privata, ma soprattutto quella del capomafia, che dopo la sua cattura appare più misteriosa di prima».

“NESSUNA TRATTATIVA”

Intervista al Ministro degli Interni Matteo Piantedosi che assicura: “Nessun accordo con il boss, c'è chi vuole inquinare il dibattito La lotta alla mafia non è affatto finita, lo Stato non può dare vantaggi alla criminalità”. Federico Monga per La Stampa.

«Ministro Matteo Piantedosi, una settimana fa lei aveva detto: «Spero di essere in carica al ministero dell'Interno quando cattureremo Messina Denaro». Una coincidenza, una profezia, o l'operazione era già in corso?

«Era una speranza fondata. Era alimentata da sentimenti di ottimismo che coglievo da tempo».

Non si è corso il rischio di compromettere l'operazione?
«L'operazione si è sviluppata nel rispetto della riservatezza assoluta che richiedeva. Sono stato avvisato al momento dell'arresto».

Perché è importante questo arresto?
«Perché l'ultimo boss mafioso stragista è stato assicurato alla giustizia. Perché si è dimostrato che non c'è impunità per i criminali anche dopo molti anni. Perché adesso si apre una straordinaria opportunità per poter fare ulteriore luce su alcune pagine buie di un periodo storico del nostro Paese».

Si può parlare di vittoria dello Stato?
«Assolutamente sì. È la vittoria dello Stato con un valore fortissimo anche dal punto di vista simbolico. Non può esistere impunità. Rappresenta anche uno storico successo per tutti coloro che sono impegnati nella lotta alla mafia con determinazione e coraggio. Ma la guerra contro la mafia non è vinta. Le infiltrazioni criminali sul territorio ci sono ancora e c'è ancora molto da fare per contrastare una mafia che ha cambiato aspetto privilegiando ora una azione silente di aggressione alla nostra economia».

Ci sono voluti trent' anni, non sembra un grande successo.
«Si è trattato di un lavoro investigativo lungo e paziente da parte della magistratura e delle forze di polizia per assicurare alla giustizia un boss che probabilmente ha potuto godere di un'articolata rete di protezione. E proprio per questo il successo dello Stato è ancora più importante».

Possibile che in clinica nessuno sapesse chi era Andrea Bonafede?
«Lo accerteranno i magistrati. Eventuali responsabili ora potranno essere individuati e perseguiti. D'altronde negli ultimi anni molti fiancheggiatori della latitanza di Matteo Messina Denaro sono già stati presi dagli investigatori».

Quanto sono forti oggi in Sicilia le complicità tra la società civile, la buona borghesia, e Cosa Nostra?
«Purtroppo sono complicità che esistono, come ha denunciato il procuratore De Lucia. Vanno spazzate via, proprio utilizzando il patrimonio di conoscenze connesso a questo arresto e anche favorendo l'affermazione di nuovi modelli culturali».

E quelle con la politica?
«In questi anni gli esponenti politici collusi sono ricorsi ai clan con frequenza, spesso per ottenere in cambio voti. Anche su questo fronte mi pare che il lavoro di magistrati e forze di polizia sia molto puntuale e porti a risultati continui».

Il giudice Giovanni Falcone sosteneva che la mafia come tutti i fenomeni è destinata a finire. A che punto siamo?

«Sono ottimista. La comunità nazionale è molto unita al fianco di magistrati e forze dell'ordine per sconfiggere la mafia. Rispetto agli anni ottanta e novanta siamo in una fase in cui cogliamo risultati e segnali positivi anche dal punto di vista culturale. La mafia è un cancro che si alimenta anche di una narrazione fuorviante, sul potere dei boss. Il fatto che anche l'ultimo grande boss di mafia sia finito dietro le sbarre contribuisce a sfatare questo mito. Chi sceglie la criminalità prima o poi finisce in galera».

Dall'agenda rossa di Borsellino ai segreti del covo di Riina, che cosa può raccontare Messina Denaro della stagione delle stragi?
«Anche se molti ne dubitano, potrebbe e dovrebbe raccontare molte cose per comprendere meglio questi ultimi quaranta anni di storia. Ho piena fiducia nei magistrati siciliani sul fatto che possano sfruttare al meglio questa occasione».

Crede che si sappia tutto delle connivenze di quegli anni tra lo Stato e le cosche?
«È augurabile che si faccia piena luce su quegli anni e quegli avvenimenti drammatici. Ma la ricostruzione si deve sempre basare su fatti concreti e verificati. In giro ci sono dei professionisti del retroscena che inquinano il dibattito con tesi spesso strampalate e ricostruzioni forzate, prive di riscontri».

Ieri il capo della Procura di Palermo, Maurizio De Lucia, ha detto che senza le intercettazioni questo arresto non sarebbe stato possibile. Il vostro governo vuole restringerle.
«Le intercettazioni per i reati di mafia rappresentano uno strumento fondamentale e nessuno le ha mai messe in discussione. Né ha espresso intenzione di limitarle. La lotta alla criminalità è al primo punto dell'agenda politica del governo Meloni».

Due mesi fa il Salvatore Baiardo, ex gelatiere e factotum dei fratelli mafiosi Giuseppe e Filippo Graviano, disse al giornalista Massimo Giletti che Messina Denaro era malato e si sarebbe consegnato alle autorità in cambio di cure e di un accordo sull'ergastolo ostativo. Sorprendente, no?
«A parlare sono solo i fatti! Il Governo Meloni ha dato un segnale chiarissimo contro la mafia proprio con le misure sull'ergastolo ostativo. Tutto il resto sono soltanto ricostruzioni fantasiose».

Davvero non c'è stata alcuna trattativa prima dell'arresto?

«L'arresto è avvenuto grazie al lavoro lungo e costante degli uomini e delle donne delle forze dell'ordine con metodi di indagine tradizionali e caparbi. Tutto il resto e fantasia senza argomenti».

Il presidente del consiglio Giorgia Meloni ha ribadito che l'ergastolo ostativo non si tocca.

«Una scelta giusta e chiara contro la mafia».

La Costituzione, però, prevede che la pena debba essere anche riabilitativa.

«Lo Stato ha ingaggiato una guerra contro la mafia che non può concedere al nemico dei vantaggi. Alla luce di questo vanno effettuate anche le valutazioni di ordine costituzionale».

Matteo Messina Denaro sta morendo?

«Questo non lo so. La malattia lo ha esposto contribuendo alla cattura. Certamente, come ogni cittadino, libero o detenuto, avrà accesso alle cure».

Ha sentito le vittime delle stragi degli anni '90, dalla vedova Schifani alla sorella di Falcone?

«Ho incrociato alcuni di loro e ne ho colto la pacata soddisfazione che in ogni caso non può alleviarne il dolore».

Il giudice Di Matteo, in un'intervista a La Stampa, ha detto: non possiamo escludere che questa mafia possa tornare quella delle stragi. Condivide?

«Nel tempo le organizzazioni criminali hanno attuato diversi tipi di strategie a seconda dei territori in cui operavano e delle varie fasi storiche. È corretto mantenere sempre alta la guardia. Anche se non esiste alcun elemento che rende ragionevole questa previsione».

LO STATO HA VINTO, NIENTE DIETROLOGY

Editoriale di Antonio Polito sul Corriere della Sera che, pur ammettendo i dubbi sul caso, invita a non cercare dietrologie, né trattative segrete sull’arresto di Matteo Messina Denaro.

«Il dubbio sistematico è l'abito mentale dell'Occidente, da Cartesio in poi. È un metodo che ci induce a sottoporre al vaglio della ragione qualsiasi verità, fosse pure matematica, prima di accettarla come vera. Allo stesso modo, nelle società aperte lo scetticismo è il dovere deontologico della stampa libera; così come il potere di inchiesta e controllo è la funzione democratica del Parlamento, e in esso delle opposizioni. Vogliamo perciò sapere ogni cosa, non appena sarà possibile e senza pregiudicare le operazioni di polizia, dell'arresto di Messina Denaro, delle indagini che l'hanno preceduto, delle condizioni in cui è avvenuto. È peraltro comprensibile non accontentarsi mai della versione ufficiale, perché la storia della Repubblica purtroppo abbonda di notti ancora avvolte nel mistero. Ma bisogna riconoscere che, forse proprio a causa di questa tradizione di opacità, in ampi settori dell'opinione pubblica si è diffuso, al posto del dubbio, un pregiudizio di sfiducia sistematica nei confronti dello Stato e dei suoi apparati. Che ha trasformato spesso l'ansia di verità in presunzione di menzogna da parte delle autorità. Riforniti a getto continuo di presunti complotti da quella che potremmo definire una vera e propria setta, Dietrology, anche stavolta molti italiani si sono subito chiesti se non ci stanno mentendo sull'arresto del boss, se in realtà si sia consegnato, oppure sia stato tradito (il che non inficerebbe comunque la vittoria dello Stato); o peggio ancora se non sia stato immolato sull'altare di una nuova trattativa dei vertici mafiosi al fine di ottenere benefici per chi è in galera e concessioni per la mafia che verrà. Così, mentre in tutto il mondo dicono «gli italiani hanno preso il capo della mafia», molti italiani si chiedono perché solo ora, se era così facile. I precedenti nel nostro Paese - l'abbiamo detto - inducono a dubitare. Ma anche tanti anni di teorie del «doppio Stato», di giochi di parole su «chi è Stato», di sospetti lanciati su servitori dello Stato fedeli, compresi quelli che presero Totò Riina, hanno scavato alla lunga un solco tra cittadini e istituzioni non sempre giustificato; creato un senso comune, un riflesso condizionato, per cui dietro ogni scena ci deve essere un retroscena, dietro ogni fatto una trama, e dietro ogni evento un puparo. Questo stato di cose è al tempo stesso effetto e causa della mancata identificazione di ampie sezioni della società italiana nello Stato democratico. Un po' perché alcune componenti se ne sono sempre sentite estranee, e dunque ne hanno contestato fin dall'inizio la legittimazione. Un po' perché la grande frattura della fine della Prima Repubblica è avvenuta nelle aule giudiziarie, contribuendo così a fare dell'inquisizione l'atto fondativo della Seconda e il motore della storia successiva. Un po' perché un po' alla volta la denigrazione ha preso il posto della politica nella lotta per il consenso, generando addirittura grandi e nuovi partiti di massa. Fatto sta che quel solco non si colma nemmeno nei momenti di gioia che dovrebbero essere comuni, nel momento del successo dello Stato. Ha preso insomma piede una cultura politica che prima di chiedersi «che cosa giova» al Paese, si chiede «a chi giova». E che deforma la storia della Repubblica italiana come un mero gioco di specchi, un coacervo di intrighi shakespeariani, una vicenda di apparati e poteri, nella quale spariscono non solo le masse e il loro ruolo, ma anche i risultati conseguiti da quello stesso Stato che viene presentato come infido e nemico. La Repubblica italiana, in 77 anni di vita, ha sofferto molti misteri, ha visto molte deviazioni e subito molti attentati. È stata più volte sull'orlo della catastrofe. Ma alla lunga ha sconfitto nemici mortali come la «strategia della tensione», fermando i manovali neri delle bombe e impedendo una svolta autoritaria. Ha prevalso su quello che è stato un vero e proprio tentativo di insurrezione armata, condotto nel sangue dalle Brigate Rosse. E ha chiuso i conti almeno con quella Cupola mafiosa che credeva possibile piegarla con le stragi, impedendo che diventasse vano il sacrificio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, e di tanti magistrati, poliziotti, carabinieri, uomini politici, che non facevano trame, non ordivano complotti, ma anzi hanno reso fino in fondo il loro servizio alla Repubblica. Altre mafie e altri mafiosi da combattere arriveranno, lo sappiamo che non è finita qui. Ma, forse, pur con tutte le sue magagne e debolezze, lo Stato democratico merita almeno una presunzione di innocenza, quando arresta il Re di Cosa Nostra»

PRINCIPATO: LO HA AIUTATO LA MASSONERIA

Repubblica intervista la ex Pm Teresa Principato, oggi in pensione, che si dice convinta dell’aiuto massonico al boss durante la sua latitanza.

«Ero veramente convinta che non si sarebbe mai fatto prendere. Ora sono molto contenta, perché la cattura di Matteo Messina Denaro è un risultato ottenuto da persone con le quali ho lavorato, come il procuratore aggiunto Paolo Guido, e perché oggi la Procura di Palermo è guidata da una persona che stimo come Maurizio de Lucia. Ma al tempo stesso mi sento turbata», dice Teresa Principato, magistrata oggi in pensione che, quando era a Palermo, ha indagato a lungo sulla latitanza dell'ultimo stragista di Cosa nostra. Durante la sua fuga, afferma Principato, il padrino di Castelvetrano ha potuto contare «su una rete di copertura di carattere massonico che lo ha protetto in tutto il mondo ».

Perché è «turbata» dall'arresto del boss, dottoressa Principato?
«Da quello che ho potuto verificare con le mie indagini, arrivate fino al 2017, Messina Denaro era proprio inafferrabile. Non stiamo parlando di una persona nascosta in un casolare, che mangiava pane e ricotta come Bernardo Provenzano. Tutt' altro. Oltre ad essere abbastanza colto, amava la bella vita, era un maniaco del lusso. E non rimaneva troppo a lungo fermo nello stesso luogo. Ha viaggiato molto, anche all'estero».

Dove?
«Dalla Sicilia al Venezuela, dall'Inghilterra alla Spagna. Attraverso le rogatorie abbiamo trovato tracce della sua presenza, purtroppo non lui».

Come faceva a non essere mai scoperto?
«In Venezuela, ad esempio, c'è una larghissima, intricata, realtà massonica e sicuramente gli ambienti frequentati da Messina Denaro, siciliani trapiantati che gestivano un negozio di mobili molto fiorente, erano massonici. In Inghilterra, la massoneria è addirittura uno status. In Spagna invece ho qualche dubbio sul carattere massonico dei rapporti intrecciati da Messina Denaro con coloro che lo hanno ospitato. Ma c'è dell'altro».

Che cosa?
«Un collaboratore di giustizia massone ha parlato di una loggia coperta costituita proprio da Messina Denaro che si chiamava "La Sicilia". Ci sono altri esempi di logge coperte, come la "Scontrino", di cui facevano parte persone di ogni livello sociale. Lo stesso si può dire per "La Sicilia". Questi suoi rapporti, ne sono convinta, lo hanno messo al riparo dal pericolo di essere rintracciato».

Dunque, se si vuole scoprire chi ha protetto la latitanza di Messina Denaro bisogna scavare nella massoneria coperta?
«Da quel che ho potuto desumere dalle mie indagini sì, è così. Ho sempre pensato che una rete di carattere massonico lo proteggesse in tutto il mondo. Ma devo anche dire che il procuratore dell'epoca non era affatto convinto di questa pista massonica».

Perché?
«Il collaboratore non era ritenuto credibile. Non lo era su molti versanti, ma la sua qualita di massone, il fatto che fosse stato cooptato in una delle logge di Castelvetrano mi fa ritenere più che attendibili le sue dichiarazioni su questo aspetto».

L'attuale procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, ipotizza che a proteggere il latitante sia stata la "borghesia mafiosa".
«Posso parlare solo di quello che ho verificato nelle mie inchieste. Può darsi che abbiano acquisito ulteriori elementi nel corso di questi anni. Naturalmente la protezione non può essere stata esclusivamente massonica, anche perché Messina Denaro, per il territorio, rappresentava una gallina dalle uova d'oro: i suoi affari andavano dalla grande distribuzione alle pale eoliche».

Ci sono stati momenti nei quali siete stati a un passo dal prendere il padrino?
«Quando sono state, di fatto, stoppate le mie indagini. È una vicenda che ho già riferito al Csm e alla commissione parlamentare Antimafia. Tra il 2016 e il 2017, Messina Denaro aveva ripreso i suoi rapporti con un vecchio sodale, Leo Sutera, condannato per associazione mafiosa, che era stato scarcerato.
Sentivamo di essere a poca distanza dal risultato finale, ma l'allora procuratore ritenne di far arrestare Sutera in un'altra indagine».

Alla fine, l'inafferrabile si curava in una clinica nel centro di Palermo.
«L'aggravarsi delle sue condizioni di salute ne ha certamente rallentato l'azione. Ma per fare una scelta del genere, evidentemente, doveva avere le sue certezze e le sue conoscenze».

Cosa nostra ha già scelto il successore?
«No. Uomini della caratura e dello spessore criminale dei corleonesi non se ne sono più visti. Credo che si sia chiusa un epoca».

Lettera al boss in carcere. Don Maurizio Patriciello su Avvenire dice di avere gioito per l’arresto ma poi si rivolge direttamente al Padrino mafioso, suggerendogli un vero esame di coscienza.

«La giusta via del vero uomo d'onore: pentirsi del male fatto e chiedere perdono Ero a Palermo, lunedì, quando Matteo Messina Denaro è stato arrestato. Finalmente! Anche a me è sfuggito un grido di gioia. Della tua vita di spietato mafioso, caro fratello Matteo, si sa tutto, o quasi. A noi, però - per quanto ti possa sembrare inverosimile - interessi anche tu, il mistero che ti porti dentro, gli anni che avrai da vivere, la tua salute, la tua coscienza. Da tanto tempo ci chiediamo come sia stato possibile che voi mafiosi, nostri fratelli in umanità, battezzati nel nome della santissima Trinità, abbiate potuto fare tanto male a voi stessi, ai vostri cari, alla vostra gente, alla vostra terra. Oggi siamo contenti, è vero. Siamo contenti di sapere che il caro popolo siciliano, e non solo questo popolo, ha fatto un altro passo avanti nel cammino di liberazione dalla mafia, che, come una mannaia, da anni incombe su di esso. Una lama affilata che ne ha condizionato e mutilato l'economia, il carattere, la fiducia nel prossimo e nelle istituzioni persino la fede in Dio. Una maledizione che ha costretto tanti giovani a emigrare in cerca di una vita normale. Siamo rimasti inorriditi davanti alla crudeltà che ha scandito le vostre vite, fino a portarvi alla diabolica decisione di sequestrare, tenere prigioniero per 779 giorni un bambino, per poi strangolarlo e scioglierlo nell'acido. Non ti sei mai accorto, Matteo, che l'acido da voi usato per annientare gli altri, lentamente, andava consumando anche la vostra umanità? Abbiamo notato che al momento dell'arresto i carabinieri ti hanno portato via con gentilezza e senza le manette. Vogliamo ringraziarli. Hanno mostrato, a noi e a te, che l'Italia civile non infierisce sul reo. Avrai saputo della morte di fratel Biagio Conte. A ben guardare qualcosa vi accomuna. Ambedue caparbi e intelligenti. Biagio e Matteo, due siciliani che non si sono accontentati del poco che la vita offriva loro. Volevano di più. Desideravano di più. Incontentabili. Ingordi. Due uomini che, però, hanno imboccato strade diametralmente opposte. Il primo ha spogliato sé stesso per arricchire gli altri, e ha trovato la gioia; il secondo - tu - ha umiliato, ucciso, affamato, strangolato gli altri per ammassare - inutilmente - oro, palazzi e conti in banca, senza poterseli mai godere appieno. Non trovandola mai, la gioia. A tutte le vittime innocenti, ai loro cari, va il nostro più caloroso abbraccio e la nostra preghiera. Non m' incuriosisce sapere a quanto ammonti il "tuo" patrimonio. So solo - e mi fa rabbia - che per sottrarlo ai legittimi proprietari hai sprecato e insozzato la tua unica vita. Dimmi, fratello Matteo, quale demone ti ha tenuto prigioniero? Quello della quantità? Del potere? Del piacere? Perché ti scrivo? Perché so che la scintilla divina dentro di te, per quanto tu abbia tentato di sopprimerla, non si è mai del tutto spenta. Una fiammella, fioca, ha continuato a bruciare anche quando il freddo gelido del delirio di onnipotenza ti schiacciava. Adesso, nel silenzio della cella, dove ci hai costretto a rinchiuderti, se vuoi puoi ascoltare l'urlo muto della tua coscienza. Fallo. Non è facile, lo so, ma è possibile. La Chiesa - italiana, siciliana - non perde la speranza. Con te esce di scena l'ultimo mafioso vecchio stile. Uno stile spietato e sanguinario. Quasi tutti i tuoi amici e rivali mafiosi che hanno terrorizzato l'Italia sono stati uccisi o sono finiti al carcere duro. Qualcuno ha collaborato con lo Stato. Spero lo abbia fatto per un vero bisogno interiore. Oso chiederti: vuoi permettere a Gesù di liberare il tuo cuore dai tormenti e dai rimorsi che l'opprimono? Vuoi iniziare ad assaporare la gioia vera che da sempre hai cercato e mai trovato? Vuoi smettere di barare con te stesso, gettare la maschera, liberarti dal personaggio, e chiedere perdono a Dio e al prossimo cui hai fatto tanto male? Vedi, sarebbe facile e comodo per noi, dopo averti rinchiuso, riprendere il cammino e dimenticarci di te. Non sarebbe il meglio, però. Il fuoco non si spegne con il fuoco. All'assetato - chiunque sia - va offerto un bicchiere di acqua. Matteo, noi ci siamo. Gesù: « Non sono venuto per i giusti ma per i peccatori». Quindi anche per me, anche per te. Non aver paura. Apriti alla speranza. Il vero uomo d'onore non è colui che indurisce il cuore e non rinnega il suo passato, ma quello che sa pentirsi del male fatto, chiede perdono, espia le sue colpe e si impegna per il bene. Che la lunga schiera dei giusti caduti nella lotta alla spietata mafia ti aiuti a ritrovare la giusta via».

ARMATA GROSSA

Veniano alla guerra in Ucraina. La strategia del Cremlino punta ad un impatto massiccio delle truppe. Il ministro della Difesa Sergei Shogu vuole portare l’esercito russo ad un milione e mezzo di soldati. Luigi De Biase per il Manifesto.

«A Mosca il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, porta avanti una riforma che è destinata ad avere profonde ripercussioni non solo sulle forze armate, ma sull'intera società russa. Il piano prevede due nuovi distretti militari, uno a Mosca, l'altro a San Pietroburgo; un corpo d'armata nella Repubblica della Carelia, al confine con la Finlandia; e l'autosufficienza per le quattro regioni ucraine che il capo del Cremlino, Vladimir Putin, ha annesso con un decreto lo scorso settembre: Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson. Per raggiungere gli obiettivi Shoigu intende portare il numero di uomini in servizio attivo da un milione a un milione e mezzo modificando i canoni della leva. Tutto questo nel volgere dei prossimi tre anni. Le linee guida della riforma sono state discusse ieri con il capo di stato maggiore, Valery Gerasimov, e con il comandante del distretto orientale, Rustam Muradov, durante l'ispezione che il ministro ha compiuto al quartier generale del gruppo di combattimento "Vostok" in territorio ucraino. Si tratta della seconda visita al fronte dopo quella compiuta lo scorso luglio.
Shoigu dice: «Possiamo garantire la sicurezza del nostro paese e delle nuove regioni solamente rafforzando le strutture chiave dell'esercito». È possibile, quindi, immaginare investimenti sulla marina, sulle forze aerospaziali e sul comparto nucleare. La discussione arriva in un momento decisivo della guerra in Ucraina. La scorsa settimana il presidente russo, Vladimir Putin, ha modificato la struttura di comando delle operazioni, affidandone la guida a Gerasimov. A Kiev i servizi segreti ritengono che Gerasimov abbia ricevuto l'ordine di chiudere la conquista del Donbass entro il mese di marzo. Nelle ultime settimane i russi sembrano riusciti a compromettere una delle linee di difesa che gli ucraini hanno costruito nella parte orientale del paese. Proprio ieri il ministero della Difesa russo ha confermato di avere ottenuto il pieno controllo di Soledar, una cittadina mineraria a metà strada fra il territorio di Lugansk e quello di Donetsk, che è stata al centro di violenti scontri con migliaia di vittime. Al momento, tuttavia, i russi non sembrano in grado di rispettare l'ipotetica scadenza di marzo. Da Putin molti attendono un nuovo ordine di mobilitazione che dovrebbe riguardare mezzo milione di riservisti dopo i trecentomila richiamati in autunno. Il suo portavoce, Dmitri Peskov, ha fatto, però, sapere che non ci sono annunci del genere in vista. Peskov ha fornito anche una lettura politica della riforma su cui Shoigu lavora: «La decisione di aumentare il numero delle truppe è dettata dal conflitto per procura che l'occidente conduce contro la Russia», un conflitto, ha detto sempre Peskov, «che comprende diversi elementi: partecipazione diretta e indiretta alle ostilità, guerra economica, guerra finanziaria, guerra legale e così via». Insomma, oltre all'Ucraina, i vertici del potere russo sembrano impegnati in una profonda opera di militarizzazione della Russia, nella prospettiva di un confronto lungo con l'Europa e con gli Stati Uniti. Questa opera passa necessariamente per la riforma dell'esercito e per una inclusione sempre più ampia dei cittadini nei meccanismi delle forze armate. Nel giro di pochi mesi Putin e la sua élite radicale sembrano riusciti a bloccare in modo definitivo lo sviluppo di carattere liberale che la società russa, fra contraddizioni e difficoltà, pareva comunque avere abbracciato. Quella fase storica è terminata con la guerra in Ucraina. C'è un altro segnale che conferma la tendenza. Ieri Putin ha presentato alla Duma un provvedimento di iniziativa presidenziale per interrompere ogni trattato internazionale con il Consiglio d'Europa. Il testo si trova già sulla scrivania dello speaker della Duma, Vyacheslav Volodyn. La Russia era entrata a far parte dell'organismo nel 1996. È stata sospesa all'indomani dell'invasione dell'Ucraina. Lo scorso settembre Mosca si è ritirata anche dalla Convenzione europea dei Diritti dell'uomo».

GUERRA E DIPLOMAZIA A DAVOS

Henry Kissinger torna a prospettare una tregua, mentre gli ucraini sono in pressing sui tedeschi. Accade tutto al Forum economico di Davos. Federico Fubini per il Corriere.

«A un certo punto Yulia Svyrydenko, vicepremier e ministro dell'Economia dell'Ucraina, si alza dopo un dibattito del World Economic Forum di Davos e per pochi secondi si sfoga in privato: «Ho parlato con Robert Habeck stamattina», dice riferendosi al ministro tedesco dell'Economia. «Gli ho chiesto quando la Germania ci farà avere i tank di cui abbiamo bisogno. E sa cosa mia ha risposto? "Things are moving"», riferisce Svyrydenko con un mezzo sorriso, "le cose stanno evolvendo". In quel momento arriva Jörg Kukies, segretario di Stato alla cancelleria di Berlino, e la vicepremier ucraina non perde un secondo: «Quando ci fate avere i tank Leopard?», chiede a Kukies, «ne abbiamo bisogno». Kukies ascolta, allarga un sorriso enigmatico e risponde: «Things are moving». Svyrydenko a quel punto se ne va scherzandoci sopra. «Dicono tutti così, che sosterranno l'Ucraina e che la situazione evolve». Non vuole aggiungere altro, non ha bisogno di ripetere che intanto la Russia bombarda ogni giorno e che i civili muoiono nelle loro case. Ma in senso stretto Habeck e Kukies potrebbero non avere del tutto torto: da ieri il governo tedesco ha davvero un nuovo ministro della Difesa. Il cancelliere Olaf Scholz ha sorpreso l'intero establishment berlinese e ha nominato un ministro socialdemocratico della Bassa Sassonia, Boris Pistorius, per rimpiazzare la dimissionaria Christine Lambrecht. Pistorius avrà una delle posizioni più difficili, venendo da un partito in passato molto legato alla Russia e in un Paese comunque riluttante ad esportare armi in un'area di guerra. Di certo la guerra non sembra avvicinarsi a una tregua, anche se ieri Henry Kissinger a Davos ha cercato di indicare una strada in quella direzione. Secondo l'ex segretario di Stato Usa, oggi 99enne, a un cessate il fuoco si potrebbe arrivare «lungo le linee di prima dell'invasione», dunque con un'occupazione russa della Crimea e di parti del Donbass. Solo a quel punto secondo Kissinger potrebbero iniziare veri e propri «negoziati di pace» ma - ha continuato - «l'idea che l'Ucraina rimanga un Paese neutrale non ha più alcun significato: l'ingresso nella Nato sarebbe l'esito più giusto». Niente di tutto questo sembra per il momento a portata di mano. Ieri a Porta a Porta Volodymyr Zelensky ha cercato di far capire come l'esito del conflitto abbia un impatto che va ben oltre l'Ucraina. «Se non fermiamo Putin, altro che Unione europea. Ci sarà la terza guerra mondiale - ha detto il presidente ucraino - perché quando la Russia invaderà la Polonia o gli Stati baltici, nessuno riuscirà a fare più nulla e tutti entreranno in guerra. Anche l'Italia, la Francia, gli Stati Uniti o la Gran Bretagna». Per l'immediato però Zelensky si prepara alla visita a Kiev di Giorgia Meloni. Ha detto ieri della premier: «Aspettiamo molto Giorgia. Ho visto in lei un primo ministro estremamente concreto. C'era chi sosteneva che il suo governo sarebbe stato più filo-russo: ma lei è filo-italiana e schierata a sostegno dell'Ucraina». Anche all'interno del governo ucraino tuttavia non mancano forti tensioni. Ieri si è dimesso Oleksij Arestovych, uno dei consiglieri di Zelensky stesso. Nei giorni scorsi aveva ricevuto un'ondata di critiche per aver sostenuto che il missile caduto sabato su un palazzo di Dnipro, uccidendo 43 civili, era stato deviato da un razzo dei sistemi di difesa ucraini. Arestovych ha ritrattato e si è scusato».

CARO GAS, LA GERMANIA SI AUTO ACCUSA

Le parole del ministro dell'Economia Robert Habeck sul caro gas: “La scorsa estate abbiamo distrutto il mercato per fare le scorte”. Sempre da Davos Andrea Greco per Repubblica.

«Gli speculatori dell'estate scorsa sul gas naturale, quando le bollette italiane salirono anche oltre il 500% e quelle della luce pure, ancora non sono saltati fuori. Ma al World Economic Forum è uscito allo scoperto un grande sospettato: la Germania. Lo ammette il vicecancelliere tedesco Robert Habeck. «È vero, ad agosto abbiamo distrutto il mercato del gas - ha detto Robert Habeck, parlando a Bloomberg Tv. Ma la nostra missione era di riempire gli stoccaggi e certo così facendo abbiamo fatto salire i prezzi fino a 350 euro a megawattora, ma credo che abbiamo fatto la cosa giusta. Se non l'avessimo fatto e ora avessimo riserve insufficienti, ci chiederebbero tutti perché non ci abbiamo pensato prima».
Dalla metà dello scorso giugno, i Paesi maggiori consumatori del gas russo (Germania in primis, seguita dall'Italia) iniziarono a fare incetta della materia prima sulla piattaforma europea Ttf, comprando a qualsiasi prezzo per riempire gli stoccaggi nazionali. Un'operazione massiccia che, in nemmeno due mesi, fece schizzare i prezzi da meno di 100 euro a MWh ai 342,86 euro del 26 agosto. Molti dei governanti, all'epoca - compreso l'allora ministro italiano della Transizione ecologica Roberto Cingolani - tuonarono contro la speculazione. Ma ieri Habeck ha ammesso candidamente che a "distruggere" il mercato non furono gli speculatori, ma i compratori pubblici. L'anomalia di allora portò il Ttf molto al disopra dei prezzi degli hub regionali, compreso l'italiano. E produsse, per l'energia elettrica italiana che deriva per circa metà dal gas, identici balzi. Nello stesso periodo, tra l'altro, la Germania teneva fermo il "price cap", tetto al prezzo del gas perorato dal governo Draghi, ma introdotto dall'Ue, e con formula lasca, solo un mese fa. Sul mercato, per norma, le incette passibili di alterare i prezzi vengono "coperti" con semplici tecniche di trading, ad esempio gli acquisti "a fermo" con limite di prezzo: se la quotazione sale ci si ferma, quando scende si riprende a comprare. Ma la modalità degli acquisti diretti messe a punto dai governi per riempire al culmine gli stoccaggi non hanno consentito forme di copertura, e al momento di vendere quel gas produrranno perdite rilevanti. Perdite che il nuovo governo ristorerà a Snam e Gse, incaricate di comprare sei mesi fa. In Germania la società fornitrice di gas Uniper nei primi nove mesi 2022 ha perso 40 miliardi, ed è stata nazionalizzata dal governo. Ieri sul listino Ttf il prezzo del gas complice il clima mite è sceso ancora, sotto i 50 euro per MWh, minimi dal 2021. Habeck ha aggiunto, a Davos, che la Germania valuta un «patto di solidarietà trilaterale» con Italia e Svizzera, per fornire supporto reciproco in caso di carenze di gas, per proteggere i clienti più vulnerabili. Pare passato un secolo dal picco dell'agosto scorso».

LO SCONTRO VERO È SUGLI AIUTI DI STATO DELLA UE

La presidente della Commissione Ursula von der Leyen vuole reagire alle mosse degli americani. Berlino spinge per ridurre i vincoli sui sussidi pubblici, Roma e Parigi per il fondo comune. Per La Stampa Fabrizio Goria.

«Al World economic forum si accende lo scontro sugli aiuti di Stato. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen va all'attacco degli Usa e lancia l'adeguamento delle norme sui sussidi governativi per le imprese Ue, per «velocizzarle e semplificarle». Di pari passo, la numero uno dell'Ue annuncia il fondo sovrano comunitario e propone un "NetZero Industry Act" sulla falsariga del Chips Act statunitense. Non tutti sono d'accordo. Il ministro del Tesoro, Giancarlo Giorgetti, le risponde a distanza sugli aiuti statali: «Non è una soluzione». Posizione che allontana Roma da Berlino. E rischia di scontentare tutti i Paesi, come la Francia oltre all'Italia, che hanno margini di bilancio più ridotti, quindi meno capacità di spesa per sostenere le imprese nazionali. Mentre Berlino potrebbe usare quest' arma per attrarre investimenti e proteggere il proprio tessuto industriale. Nella seconda giornata del Wef va in scena una dura querelle sull'asse transatlantico. L'Ue non vede di buon occhio l'Inflation reduction act (Ira) a stelle e strisce e prepara le contromosse. L'obiettivo, dice Von der Leyen scuotendo Davos, è preciso: «Per mantenere l'attrattiva dell'industria europea, è necessario essere competitivi con le offerte e gli incentivi attualmente disponibili al di fuori della Ue». Vale a dire «procedure più semplici e approvazioni accelerate». Come? «Ad esempio, con modelli semplici per le agevolazioni fiscali. E con aiuti mirati per gli impianti di produzione nelle catene del valore strategiche della tecnologia pulita, per contrastare i rischi di delocalizzazione dovuti ai sussidi esteri». Soluzione ostica, come ammette Von der Leyen: «Sappiamo anche che gli aiuti di Stato saranno solo una soluzione limitata che solo pochi Stati membri potranno utilizzare». Gli occhi sono puntati a chi ha spazio fiscale. Come la Germania. Più di metà degli aiuti approvati dall'Ue nell'ambito dell'attuale crisi è stata notificata da Berlino, per un controvalore pari al 9,24% del Pil tedesco. Solo il 24% da Parigi (il 5,13% del Pil), il 7,65% da Roma (2,6% del Pil). A farsi promotore della risposta dell'Italia, condivisa anche dalla Francia, è il ministro Giorgetti. «Va bene rispondere all'Ira ma attenzione a fare autogol in Europa. Servono regole comuni», ha spiegato alla riunione dell'Ecofin a Bruxelles sull'Ira. «Dovremmo stare attenti a non replicare all'interno della Ue - ha aggiunto Giorgetti - le stesse dinamiche di agguerrita competizione che l'Ira ha determinato tra Usa ed Europa». Il titolare del Tesoro fa riferimento esplicito a «l'efficacia di strumenti comuni come Next Generation Eu e Sure, che possono essere replicati con successo nel contesto dell'attuale crisi». Problemi noti anche a Von der Leyen, che ha una possibile risposta. «Per evitare un effetto di frammentazione sul mercato unico e per sostenere la transizione verso tecnologie pulite in tutta l'Unione, dobbiamo anche aumentare i finanziamenti della Ue», ha detto. A tale scopo, a medio termine, sarà presentato un fondo sovrano nell'ambito «della revisione intermedia del nostro bilancio». Entro la fine dell'anno. Questo, secondo Von der Leyen, porterà a «una soluzione strutturale per aumentare le risorse disponibili per la ricerca a monte, l'innovazione e i progetti industriali strategici fondamentali per raggiungere lo zero netto di emissioni». Resta, tuttavia, lo squilibrio di fondo. L'annuncio di Von der Leyen ha lasciato ampi strascichi a Davos. Appena finito l'intervento della numero uno di Bruxelles la delegazione dei senatori statunitensi, primo fra tutti il rappresentante della West Virginia Joe Manchin, si è recata a colloquio con l'ex vicepresidente John Kerry nella lounge dedicata ai top speaker del World econmic forum. E poche ore dopo le parole di Von der Leyen, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha tentato di smorzare i toni: «Sono sicuro che non ci sarà guerra commerciale fra Europa e Usa».  Sulla questione interviene anche il presidente di Confindustria Carlo Bonomi in un'intervista al Tg1. «Ci troviamo di fronte a due colossi, Usa e Cina, che stanno non solo cambiando le regole del gioco ma stanno proprio cambiando il gioco» avverte il numero uno degli imprenditori, che invoca una soluzione e chiede all'Ue di intervenire. «Non possiamo pensare di rispondere solo come Italia: la risposta deve arrivare dall'Europa e tenere dentro tutti i temi, sostenibilità, semiconduttori, intelligenza artificiale, green». Di fronte agli economisti di Davos che suggeriscono ai governi di migliorare il loro tasso di tecnologia e sostenibilità per consentire un rientro da recessione e inflazione, Bonomi ricorda che nel nostro Paese «l'accelerazione dei prezzi è una inflazione importata, causata dalla fiammata del costo delle materie prime». Come dire che la minaccia è forte ma che, se gestita con sapienza rigore, un ritorno della variazione dei prezzi su livelli più accettabili può non essere lontano».

MIGRANTI, DISGELO FRANCIA-ITALIA

L’altro grande nodo, oltre l’inflazione, è la questione migranti. Ieri ci sono state prove di disgelo tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron. Palazzo Chigi al lavoro per un tour in Europa. Monica Guerzoni sul Corriere.

«Una telefonata definita «lunga e cordiale» da Palazzo Chigi segna un altro passo verso il disgelo tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron, dopo lo scontro d'autunno sui migranti. Il 26 novembre era stato il presidente francese a chiamare la premier italiana, per esprimere solidarietà e sostegno dopo la tragica frana di Ischia. La conversazione di ieri invece era programmata da giorni, concordata dalle diplomazie di Roma e Parigi. I due leader, che continueranno a confrontarsi in vista del Consiglio Ue straordinario del 9 e 10 febbraio, hanno parlato di Ucraina, dei «principali temi al centro dell'agenda europea e internazionale», di industria, energia e questioni migratorie. A Palazzo Chigi ritengono «molto positiva» la conversazione, che si è svolta tutta in francese, eppure l'invito ufficiale all'Eliseo non risulta ancora arrivato. La scarsa empatia tra i due è nota, così come le diffidenze reciproche e pregresse che risalgono ad anni passati. Ma nello staff della presidente non si esclude che, prima di Bruxelles, Meloni possa partire per «un giro di alcune capitali europee», in cui spiegare la posizione italiana su migrazioni ed economia. La Svezia ha la presidenza di turno e di certo la premier farà tappa a Stoccolma. I giorni della tempesta scatenata dal mancato approdo sulle nostre coste della nave Ocean Viking sono lontani, ma la distanza politica e diplomatica deve essere ancora in larga parte colmata. Per accorciare le distanze e chiudere le incomprensioni di novembre, nella nota di Palazzo Chigi si sottolinea che l'accoglienza dei migranti è una delle tematiche «largamente condivise» dalla premier italiana e dall'inquilino dell'Eliseo. I due presidenti hanno ribadito la reciproca volontà di «contrastare l'immigrazione illegale attraverso un effettivo controllo delle frontiere esterne dell'Unione europea». La leader della destra continua a invocare una «risposta europea» a un problema che, insiste, non può essere scaricato interamente sul nostro Paese. «L'Italia ha smesso di accettare supinamente qualcosa di inaccettabile e ha alzato la testa», disse nei giorni della crisi con la Francia. La premier è convinta che occorra «uno strumento europeo per garantire il controllo delle frontiere» e vuole arrivare «con urgenza» a un'intesa tra i 27 Paesi Ue che tenga insieme la difesa dei confini, lo stop agli sbarchi e una strategia di politica economica congiunta sugli Stati di origine delle migrazioni. Macron e Meloni hanno parlato anche di Kiev, del «sostegno militare, umanitario ed economico che l'Europa garantisce all'Ucraina contro l'aggressione della Russia». Come si legge nella nota dell'Eliseo, i due leader hanno ribadito la loro determinazione a sostenere «pienamente» la causa del popolo ucraino, «fino a quando sarà necessario». Nel colloquio anche la ricerca di soluzioni per contenere l'aumento dei prezzi dell'energia e l'individuazione di strumenti per sostenere l'economia europea. Se Parigi insiste sui «meccanismi per rafforzare l'investimento e il sostegno ai progetti industriali strategici», Roma ritiene urgente individuare «soluzioni efficaci per sostenere la competitività delle imprese». Vale a dire, una risposta all'Inflation Reduction Act da 370 miliardi varato negli Usa dall'amministrazione Biden».

QATARGATE, PANZERI SI PENTE

Cambia l’atteggiamento dell’ex europarlamentare, prima del Pd e poi di Articolo Uno, Antonio Panzeri. Ieri ha formalizzato la sua collaborazione alle indagini sul Qatargate. Antonio Massari per Il Fatto.

«Un anno di carcere e la confisca di un milione: l'ex europarlamentare Antonio Panzeri ieri ha formalizzato la sua collaborazione con la Procura federale. Sarà importante capire, da oggi i poi, quali altri nomi e dettagli fornirà agli inquirenti. Aveva già detto qualcosa di importante il 10 dicembre scorso, raccontando agli inquirenti che, nell'iniziativa di "lobbying" destinata all'europarlamento, si cercavano "parlamentari disponibili" ad appoggiare "posizioni in favore del Qatar". C'era chi si faceva portatore di queste posizioni per convinzione personale oppure perché invitati a rifletterci su da lui e Francesco Giorgi, assistente dell'europarlamentare Andrea Cozzolino e compagno dell'ex vicepresidente Eva Kaili. "Ma non tutti sono d'accordo", racconta Panzeri. Poi spiega quel che, a suo dire, sarebbe avvenuto con il deputato belga Marc Tarabella: "È stato ricompensato per un importo totale tra i 120 e 140 mila euro". Denaro che avrebbe consegnato in "contanti", in più tranche (a volte accompagnato da Giorgi), in "luoghi diversi" e con i soldi consegnati in "sacchi di carta". "Il contatto in generale veniva creato da me e qualche volta da Giorgi", spiega Panzeri che parla di tranche di circa 20 mila euro a distanza di due o tre mesi: "L'ultima consegna" è di "sei mesi fa". Le dichiarazioni di Panzeri e Giorgi rappresentano il motivo principale che ha spinto la Procura belga a chiedere all'Europarlamento la revoca dell'immunità per Tarabella e Cozzolino. Su quest' ultimo nessuno riferisce di aver versato del denaro anche se Giorgi lo considera "indirettamente" corrotto. Per quanto riguarda Tarabella, poi, gli inquirenti individuano una condotta sospetta: aveva elogiato la situazione dei lavoratori migranti in Qatar sostenendo che "il dato di 6.500 morti" fosse "sovrastimato" e ribadendolo in un dibattito del novembre 2022. Strano, sottolineano gli inquirenti, poiché Tarabella in passato era tra i politici più "avversi" alla politica del Qatar sui diritti dei lavoratori". Meno dettagliate, ma ugualmente importanti, le dichiarazioni rese da Giorgi il 13 dicembre 2022. L'assistente spiega che, più del Qatar, il suo vero ruolo riguardava la promozione del Marocco. E rivela un dettaglio interessante: "Proponevamo risoluzioni contro l'Algeria che è il nemico numero uno del Marocco". Poi invita gli inquirenti a visionare il fascicolo "meeting e activities" promettendo di rivelare ogni dettaglio sul "ruolo" di "tutte le persone interessate". In un altro passaggio racconta di aver egli stesso portato il denaro da Parigi a Bruxelles: una volta in auto e un'altra in treno. "Era più che altro lui (non è chiaro a chi si riferisca, ndr) a venire a Bruxelles, ma non c'era un luogo particolare". Giorgi racconta che "la cooperazione" col Marocco inizia ai primi del 2019 e che, con l'ambasciatore di Rabat in Polonia, Abderrahim Atmoun, si discuteva del "controllo dei dibattiti in Parlamento", degli "attacchi" dell'Algeria e di altre "questioni geopolitiche tese"».

I CATTOLICI E IL PD

Antonio Socci su Libero interviene nel dibattito sull’identità cattolica del Partito democratico, rivendicata recentemente da Pierluigi Castagnetti.

«Nell'Europarlamento, alla disastrosa direttiva europea sulla "casa green", si oppongono insieme Partito popolare europeo e partiti conservatori. È il primo segnale di una diversa maggioranza possibile, nella Ue, che manderà la sinistra all'opposizione? A dire il vero non è il primo segnale. E, curiosamente, a lanciare l'allarme in Italia nei giorni scorsi non sono stati esponenti post-comunisti, ma uno storico dirigente della Dc della prima repubblica: Guido Bodrato. Infatti, il 10 gennaio, con un tweet polemico, ha attaccato il «vertice Ppe, che ha radici nella Dc di De Gasperi, Adenauer e Schuman» perché oggi «sembra tentato di "fare maggioranza" nell'Unione europea, con la destra nazional-sovranista». Strana critica, dal momento che la sinistra Dc in Italia ha fatto non solo un'alleanza, ma addirittura un partito unico con i (post)comunisti e oggi il Pd non aderisce al Ppe, ma al Pse. La coerenza con De Gasperi non si vede. Del resto l'idea del partito unico con i (post)comunisti - dopo la fine della prima repubblica- era ritenuta assurda anche dagli stessi diccì che poi sono andati nel Pd. Il 10 gennaio sul Foglio è uscita un'interessante ricostruzione storica di Ortensio Zecchino (già parlamentare Dc, ministro e docente un universitario). Iniziava con le parole che Gerardo Bianco pronunciò, nel gennaio 1997, chiudendo il congresso del Partito Popolare italiano (nato sulle ceneri della Dc) di cui Bianco era segretario: «Abbiamo deciso di non morire democristiani, ma non abbiamo deciso di morire socialisti». Alternativi? Quello di Bianco, spiega Zecchino, «volle essere un ammonimento a non dissolvere la cultura e l'esperienza democristiana in quella alternativa della sinistra». Del resto «l'alternatività della Dc alla sinistra era punto fermo anche nel pensiero di Moro». Non solo. Zecchino cita per esempio Andreatta che nel "fatidico 1989" indicava in Sturzo (opposto alla sinistra) la via da seguire in una futura democrazia dell'alternanza. Pure Pietro Scoppola, nello stesso anno, diceva: «In un sistema di alternanza la Dc è chiamata dalla sua storia e dalla sua naturale base elettorale ad essere partito alternativo allo schieramento di sinistra». Eppure di lì a poco confluiranno nell'Ulivo e poi si dissolveranno addirittura nel Pd e sarà proprio Scoppola a scrivere, con Reichlin, la «Carta dei valori del Pd». Stando alla ricostruzione di Zecchino fu Prodi a "forzare", nel corso degli anni, in direzione del partito unico con i (post)comunisti (al tempo della segreteria Marini, Franceschini, che era suo vice, fu un «fiero avversario della strategia prodiana»). Ancora nel 2000 Marini ribadiva che il «partito unico» è «un fantasma» che «non esiste» e perfino De Mita definitiva «un errore» il «partito unico ulivista». Perfino Castagnetti il 3 gennaio 2001 negava, in una lettera a Zecchino, l'approdo al partito unico: «Conosco i tuoi timori sullo sbocco cui potrebbe portare la strada intrapresa, ma tu conosci la mia buona fede e il mio impegno perché tali timori siano smentiti». Complessi d'inferiorità Zecchino si dice certo della buona fede di Castagnetti, ma «purtroppo» commenta oggi «finirono per essere trascinati un po' dagli eventi «e un po' dal «complesso d'inferiorità verso la sinistra, denunziato con forza da Sturzo poco prima di morire». Il 14 ottobre 2007 nasce il Pd che il 1° marzo 2014 «approda nella famiglia socialista europea». Oggi - nelle fasi congressuali del 2023 - risulta evidente che i «Popolari» (o ex diccì) sono diventati del tutto irrilevanti. Al punto che Arturo Parisi - il prodiano teorico dell'Ulivo e del Pd - accusa: «Stanno riportando il Pd nella casa le cui fondamenta sono state messe a Livorno nel 1921» (allude alla fondazione del Pci). Di fatto si realizza oggi, con i "Popolari" nati nel 1994 dalle ceneri della Dc, la "profezia" che Antonio Gramsci fece (sbagliando) sui Popolari fondati da Sturzo nel 1919: «Il cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida». Augusto Del Noce, in un suo libro, citava queste parole di Gramsci perché vi vedeva già la strategia del compromesso storico: «È infatti a partire dall'idea del "suicidio" che si intende quella del "compromesso" nel suo senso e nella sua origine gramsciana». Ma il «compromesso storico» suicida che non fu fatto negli anni Settanta, perché la Dc aveva una più accorta dirigenza e per motivi internazionali, è stato poi realizzato con l'Ulivo (prima) e compiuto poi con il Pd. Nel Pd è totalmente sparita la cultura politica della Dc e dei cattolici. La loro identità si è dissolta. Infatti oggi sia Parisi che Castagnetti esternano il loro mal di pancia per quello che il Pd sta diventando. Come ha scritto sul Corriere della sera Massimo Franco, «l'amalgama tra reduci dell'epoca comunista e cattolici di sinistra di colpo si mostra improponibile». La polemica assemblea del mese scorso, con cui Castagnetti ha "riesumato" i "Popolari" (nel luogo in cui fu rifondato il Partito Popolare nel 1994) è stato un campanello d'allarme, tanto che l'altroieri Goffredo Bettini è corso ai ripari con una pagina su Repubblica per lanciare (a parole) ramoscelli d'ulivo ai vecchi diccì. Ma la virata del Pd verso sinistra è evidente. Anche le candidature alla segreteria lo provano. Tuttavia c'è pure un altro problema. Per Zecchino, Castagnetti non vede che il Pd è ormai diventato - secondo la formula delnociana - un «partito radicale di massa», respingendo pure i contenuti dell'attuale papa "progressista". Fra i cattolici e gli altri del Pd c'è un'«abissale distanza su concezioni e questioni fondamentali». E sono valori che - sottolinea Zecchino - alla nascita del Ppi erano indicati come essenziali sia da Martinazzoli che da padre Sorge (centralità della persona umana, sacralità della vita, famiglia e pluralismo scolastico). «Castagnetti che ha dissolto il Ppi nel Pd», scrive Zecchino «non vede che in questo partito i menzionati "grandi temi"» sono assunti «in opposizione rispetto alla cultura popolare e sturziana? E non ritiene di trarre da ciò le debite conseguenze?». Vedremo. Giorni fa Castagnetti ha lanciato un curioso tweet: «La Destra scopre i grandi politici della sinistra Dc. Mercoledì 18 gennaio alla Camera e al Senato sono organizzate due iniziative per ricordare il partigiano Albertino Marcora e lo statista Riccardo Misasi, con presenze massicce di esponenti della destra. Interessante». Non si è accorto di un segnale ben più forte: la Meloni, nel suo discorso di insediamento, ha citato Enrico Mattei come l'esempio da seguire. Ma i diccì hanno dimenticato Mattei?».

LA CINA È IN CALO DEMOGRAFICO

Pechino resta indietro nello sviluppo della popolazione. Non succedeva da 40 anni e la circostanza accresce le preoccupazioni anche sul fronte dell’economia globale. Gianluca Modolo per Repubblica.

«Il dato peggiore dal 1961, da quando cioè il gigante asiatico usciva dalla tremenda carestia provocata dal furore rivoluzionario del Grande balzo in avanti voluto da Mao. Nel 2022 appena concluso, per la prima volta in più di sessant' anni, la popolazione cinese ha iniziato a calare: i morti superano i nati. E d'ora in avanti la discesa sarà continua. Dato non inaspettato - visto il numero dei bebè che da 6 anni continua a scendere - ma arrivato in anticipo rispetto alle previsioni: alla fine dello scorso anno la Cina contava 1,41 miliardi di persone, 850mila in meno rispetto al 2021. Nonostante gli incentivi per incoraggiare le coppie ad avere più figli, i nuovi nati sono stati 9,56 milioni, in calo rispetto ai 10,62 dell'anno precedente. I morti 10,41 milioni (lieve aumento rispetto ai 10,14 del 2021, anche se non è chiaro se i dati sulla popolazione abbiano risentito dell'ultima ondata di Covid visto che la Cina è stata accusata di sottostimare i morti causati dal virus). Una discesa che preoccupa la leadership comunista e che potrebbe tirare il freno a mano alla crescita di cui il Dragone ha bisogno, mettendo a rischio pure l'ambizione di Xi Jinping di superare gli Usa. Un calo che potrebbe avere conseguenze a lungo termine per l'economia sia nazionale sia globale, visto che il Paese è risorsa cruciale di manodopera e di domanda che alimenta la crescita della Cina e del mondo intero. Un declino, inoltre, che potrebbe far perdere al Paese lo status di nazione più popolosa: quest' anno dovrebbe registrarsi, infatti, il sorpasso dell'India. Da anni il Partito-Stato cerca di rimediare al crollo demografico e ai matrimoni in picchiata. Problemi che l'Occidente conosce bene ma un trend che qui ha le radici nella politica del figlio unico portata avanti per decenni (abbandonata dal 2016) e che ha causato squilibri di genere pazzeschi: oggi in Cina ci sono oltre 30 milioni di uomini in più rispetto alle donne. Donne che, visto il livello di istruzione che cresce, spesso di accasarsi e figliare ancora non ci pensano affatto. Una bomba demografica che va ricercata anche nel costo crescente dell'educazione per i bambini che le famiglie devono sostenere. Tutti fattori a cui si è aggiunta la pandemia e le incertezze che ha portato nelle esistenze di milioni di cinesi. Il sogno di Xi Jinping del "ringiovanimento nazionale" entro il 2049 deve fare i conti con un Paese che all'anagrafe, invece, sta già diventando anziano: un invecchiamento che ridurrà la forza lavoro facendo impennare i costi del welfare. "Wei fu xian lao", "diventare vecchi prima di diventare ricchi": questa l'espressione che riassume bene le paure dei cinesi. Il 62% della popolazione è in età lavorativa, in calo rispetto al 70% di un decennio fa. Una carenza di manodopera che ridurrà anche il gettito fiscale e i contributi a un sistema pensionistico già sottoposto a enormi pressioni. Entro il 2035, si prevede che 400 milioni di persone avranno più di 60 anni. La Cina sta seguendo una traiettoria familiare a molti Paesi e questo calo storico non era inaspettato. L'anno scorso Pechino ha ammesso che si era sull'orlo di un declino che sarebbe probabilmente iniziato entro il 2025. È già arrivato. «La popolazione cinese ha iniziato a diminuire 9-10 anni prima rispetto alle proiezioni, il che significa che la vera crisi demografica va oltre ogni immaginazione e che tutte le passate politiche economiche, sociali, di difesa ed estere erano basate su dati errati», sostiene Yi Fuxian, esperto di demografia all'Università del Wisconsin, in un report condiviso con Repubblica . Sul fronte economico sono arrivati anche i dati del Pil. I peggiori da 40 anni, se si esclude il 2020 pandemico. Una crescita nel 2022 del 3%, ben al di sotto del target annunciato del 5,5%, ma che ha retto grazie ai risultati del quarto trimestre dell'anno appena concluso, migliori del previsto, che fanno sperare. «I dati sono ancora molto deboli ma prevediamo una solida ripresa nel 2023», scrivono gli analisti di Bloomberg. Il vicepremier Liu He, da Davos, prova a rassicurare: «Se lavoriamo sodo, la crescita tornerà al suo trend normale».

LA PERSECUZIONE DEI CRISTIANI, IL PREZZO DELLA FEDE

Dopo gli ultimi episodi in Africa, un rapporto di Porte aperte/Open doors denuncia che 360 milioni di cristiani rischiano la vita nel mondo per la loro fede. Lucia Capuzzi per Avvenire.

«Nostra Signora dell'Assunzione è un cumulo di macerie carbonizzate. La chiesetta di Chan Thar, costruita dai missionari cattolici nel 1894, è stata rasa al suolo dalle forze armate al potere da quasi due anni in Myanmar. Queste ultime "puniscono" la Chiesa per la sua difesa dei diritti umani e civili nel Paese. È solo l'ultimo, tragico esempio di una persecuzione che dilaga, a macchia di leopardo, nel pianeta nei confronti dei cristiani. Modalità, dinamiche e obiettivi variano da contesto a contesto. Per questo, spesso, il quadro complessivo sfugge agli osservatori. Il minimo comune denominatore è, però, l'accanimento nei confronti di chi cerca di seguire il Vangelo. A tracciare una mappa complessiva del fenomeno è l'ultimo rapporto di Porte aperte/Open doors, organizzazione che, da tre decenni, monitora la situazione dei battezzati nel mondo. L'anno appena trascorso è stato il peggiore per i fedeli. Il numero assoluto di quanti soffrono gravi forme di discriminazione e abusi non è cambiato: 360 milioni ovvero un cristiano su sette. A crescere, però, è il punteggio degli indicatori nei cinquanta Paesi a rischio. Al primo posto nella World watch list 2023, c'è, di nuovo, la Corea del Nord, a causa della "legge contro il pensiero reazionario" che ha portato a un aumento degli arresti e delle chiusure di chiese. Pyongyang, nel precedente studio, era stata sostituita dall'Afghanistan. Quest' ultima nazione è scesa al nono posto. Non si tratta, però, di una notizia positiva. Il calo è dovuto al fatto che gran parte dei cristiani presenti è fuggita. Tra loro Nasiry, protagonista di "Figlio di una serva", libro di Cristian Nani, pubblicato da Porte Aperte. Il profugo è stato intervistato dall'autore in un luogo segreto per ovvie ragioni di sicurezza. La conversione dall'islam a un altro credo è punita con la morte fin dai tempi della Repubblica. Se, tuttavia, questa era tollerante verso i convertiti, i taleban perseguono con ferocia «l'apostasia». La piccola comunità cristiana d'Afghanistan, dunque, vive clandestina. Una Chiesa primitiva, con liturgie scarne e costretta a esprimere la fede nell'ombra. Le minacce e la violenza dei taleban non sono riuscite comunque a impedire alla minoranza di crescere. A preoccupare Open doors/Porte aperte è, però, soprattutto l'Africa subsahariana dove l'oppressione ha raggiunto un'intensità senza precedenti. Lo abbiamo visto nei giorni scorsi: domenica, nel giro di ventiquattro ore un sacerdote è stato arso vivo in Nord Kivu, nell'Est del Congo, e una bomba ha massacrato 14 persone in una chiesa pentecostale in Nigeria. Papa Francesco ha voluto esprimere il proprio dolore per le vittime innocenti e ha espresso «compassione e vicinanza a tutte le famiglie fortemente colpite da questo dramma», si legge nel telegramma inviato. Il Pontefice, che fra due settimane si recherà proprio in Congo e in Sud Sudan, ha implorato per il «dono della pace» per l'Africa dilaniata da conflitti dimenticati. I cristiani sono colpiti due volte dalla guerra mondiale a pezzetti in corso, per parafrasare Francesco. Come il resto della popolazione, subiscono le conseguenze dell'instabilità politica e del continuo innalzamento della diseguaglianza. La loro azione a protezione dei più fragili a motivo del Vangelo, a loro volta, li porta ad essere discriminati o uccisi dai potenti di turno. In termini assoluti, le uccisioni di cristiani sono in lieve calo: 5.621 vittime rispetto alle 5.898 del 2022. Diminuisce anche di oltre la metà la cifra delle chiese attaccate o chiuse: poco più di duemila, l'anno prima erano state oltre cinquemila. Cruciale, in questo senso, la riduzione in Cina: mille casi contro i precedenti 3mila. In drastico aumento, invece, i rapimenti dei fedeli, passati da 3.829 a 5.259. Di questi, quasi cinquemila si concentrano in tre nazioni: Nigeria, Mozambico e Congo. Sono decine di migliaia poi i cristiani aggrediti, quasi 30mila casi. Solo in India, dove il governo del radicale indù Narendra Modi ha compresso i diritti degli esponenti delle altre fedi, in 1.750 sono stati arrestati senza processo. Alla vessazione aperta si somma una pressione strisciante, fatta di abusi quotidiani sul lavoro, a scuola, nei servizi. Episodi difficili da quantificare ma che hanno un forte impatto sulle comunità. Sono sempre di più i fedeli che, non reggendo la pressione, decidono di fuggire, trasformandosi in sfollati interni o profughi. Fenomeno particolarmente evidente in Medio Oriente ma anche nel Sahel a causa della violenza jihadista, in Iran e Myanmar. Lo sfollamento è una strategia deliberata di persecuzione volta a cancellare la presenza cristiana in molti Paesi. Ancor più crudele la condizione delle cristiane. Migliaia sono obbligate a matrimoni forzati o subiscono violenze sessuali. Il rapporto riesce a registrare appena una manciata di casi di quelli realmente esistenti: oltre 2mila stupri e 717 nozze obbligate. Troppo spesso, però, per ragioni culturali e sociali, questo tipo di abusi non viene denunciato. Per questo, Open doors/ Porte aperte ha deciso di potenziare la ricerca sulla violenza di genere».

PROSPERI (CL)  INCONTRA PAPA FRANCESCO

Il presidente della Fraternità di Cl scrive una lettera a tutti i membri per raccontare un recente incontro con papa Francesco. Andrea Galli per Avvenire.

«Condivido con voi la gioia di essere stato ricevuto in udienza privata da papa Francesco lo scorso venerdì 13 gennaio». Così inizia una breve lettera scritta da Davide Prosperi, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, a tutto il movimento. Prosperi, 50 anni, professore ordinario di biochimica e direttore del Centro di nanomedicina dell'Università Bicocca, a Milano, guida dal 27 novembre 2021 la realtà ecclesiale fondata da don Luigi Giussani. A lui la Santa Sede ha affidato il compito di condurre Cl lungo un percorso di rinnovamento resosi necessario dopo tensioni interne che hanno portato prima alla nomina di un delegato speciale del Papa, l'arcivescovo emerito di Taranto Filippo Santoro, a capo dell'associazione dei Memores Domini, i laici consacrati di Cl, poi alla fine del governo della Fraternità di Cl da parte di don Julián Carrón, il sacerdote spagnolo che Giussani, morto nel 2005, aveva indicato come successore. «Ho potuto raccontargli il percorso che abbiamo fatto in questi mesi dopo la giornata in piazza San Pietro che tutti ricordiamo bene» continua Prosperi parlando di Francesco e dell'udienza del Papa al movimento lo scorso 15 ottobre. «Il Santo Padre ha confermato la stima che nutre per la nostra esperienza, ricordando in particolare il suo primo incontro con don Francesco Ricci e di come già allora rimase entusiasta della lettura degli scritti di don Giussani, comprendendo che si trattava di una "spiritualità per il nostro tempo". Ha poi detto di apprezzare il lavoro che abbiamo svolto sui contenuti del suo discorso e ci invita a proseguire il cammino intrapreso, assicurando la sua disponibilità a sostenerci». Quindi Prosperi rimanda a un'iniziativa che si terrà venerdì: «L'ho inoltre informato del gesto che faremo a Roma il prossimo 20 gennaio a favore della pace in Ucraina assieme a monsignor Paul Richard Gallagher [segretario per i Rapporti con gli Stati, il "ministro degli esteri" della Santa Sede ndr ]e al direttore di Avvenire Marco Tarquinio. A questo riguardo, come già ci aveva detto il 15 ottobre, mi ha ribadito di contare molto sul nostro supporto alla sua "profezia per la pace". Infine, il Papa ci chiede di continuare a pregare per lui e per la sua missione». Dei nomi citati in questa missiva non a tutti sarà familiare quello di don Francesco Ricci, che il Papa cita come persona che gli fece conoscere da vicino Cl. Don Ricci, morto nel 1991, nacque a Faenza nel 1930, ma crebbe in diocesi di Forlì, dove venne ordinato presbitero. Negli anni '60 conobbe don Giussani ai convegni romani della Gioventù di Azione cattolica. Portò quindi a Forlì l'esperienza di Gioventù studentesca, poi Cl. Nel 1965 fu invitato da Giussani a partecipare a un pellegrinaggio in Slovacchia: fu l'inizio di un grande lavoro con la Chiesa del silenzio, nei Paesi al di là della Cortina di ferro, da cui nacque il Centro Studi Europa Orientale (Cseo). Negli anni '80 don Ricci si dedicò per conto di Cl all'America Latina. In Argentina fondò due periodici, contribuì a preparare il viaggio apostolico di Giovanni Paolo II nel 1987, ed entrò in contatto sia con il vescovo Antonio Quarracino (dal 1982 al 1987 presidente del Celam, dal 1990 arcivescovo di Buenos Aires e dal 1991 cardinale) sia con il gesuita Jorge Mario Bergoglio, che nel 1992 diventò vescovo ausiliare di Buenos Aires e braccio destro di Quarracino».

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Articoli di mercoledì 18 gennaio

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