Non piace la pace cinese
No dell'Occidente al piano di pace cinese accettato da Mosca. Metterebbe Pechino in una situazione favorevole. Si prepara la battaglia di primavera. Meloni delusa dalla Ue. Acqua, Italia colabrodo
L’Occidente non è pronto per la pace. I presidenti di Russia e Cina l’hanno messa giù così. Ma non è che, al di là della propaganda di Vladimir Putin e di Xi Jinping, si possa dire il contrario. Il disprezzo e l’insofferenza per i “piani di pace” spira da Washington come un vento sulle nostre opinioni pubbliche europee. Oggi anche i giornali italiani si entusiasmano per le bombe all’uranio impoverito, promesse dai soliti inglesi agli ucraini, e che sollevano “l’ira di Mosca”. Come se fossero l’ultimo tassello per distruggere l’odiato nemico. Qualsiasi cessate-il-fuoco è presentato come una resa senza condizioni allo Zar. Ci sono due considerazioni di Gustavo Zagrebelsky in un’intervista al Fatto di oggi che vanno accostate alla cronaca di queste ore. La prima è una citazione di Karl Kraus: “Quando suonano le trombe dei generali, arrivano le trombette dei commentatori che si mettono al seguito”. La seconda è un commento al mandato di cattura della Corte dell’Aja: “Quando si usano le armi lo strumento per farle tacere è il negoziato”.
Nella cruda analisi geopolitica, ha però ragione Lucio Caracciolo, direttore di Limes, quando nota stamane sulla Stampa che La Cina è in realtà un “mediatore di parte”, con ambizioni di predominio sul globo post americano. E che per gli Usa “la guerra deve finire declassando la Cina, più ancora che la Russia. O non deve finire”. Ecco perché la mediazione cinese non sembra avere grandi prospettive: tutela ingombrante per l’alleato russo, ipoteca preoccupante per il competitore americano. Realisticamente è difficile immaginare uno spazio per il cessate-il-fuoco in questa fase. Ammesso che avverrà come per la Corea del 1953, che sarà cioè congelata la situazione territoriale quando cesseranno le armi, sia la Russia che l’Ucraina sperano ancora nell’offensiva di primavera, per strappare altri chilometri quadrati al nemico. Oggi a Kiev ci sono 9 gradi e a Mosca 5. La guerra sul terreno sta per ripartire.
Giorgia Meloni ieri ha affrontato il dibattito in vista del vertice europeo di domani e dopodomani. Ha incassato forti critiche del senatore leghista Massimiliano Romeo, che sono piaciute ai 5 Stelle. Mentre gli Stati maggiori della nostra Difesa chiedono almeno altri 30 miliardi di spese militari in più. Quanto ai migranti, il rischio è che la Ue non accetti neanche la discussione chiesta dall’Italia. Mentre Frontex, in un’audizione ufficiale, torna ad incolpare Roma sul naufragio di Cutro. Papa Francesco continua ad insistere sul “diritto dei migranti a restare” nei propri Paesi, offrendo ancora al governo italiano un’importante sponda di riflessione sull’aiutarli a casa loro.
Domani è la Giornata mondiale dell’acqua (vedi Foto del Giorno) e il nostro governo è alla vigilia di decisioni d’emergenza sulla siccità. L’Istat ha pubblicato, nell’occasione, una statistica preoccupante: il 40% delle nostre risorse idriche vanno sprecate. E comunque gli italiani sono fra i più grandi consumatori mondiali di acqua.
Bella intervista della femminista storica Francesca Izzo, fondatrice del movimento “Se non ora quando”, ad Avvenire, nella quale spiega che non usare il termine “utero in affitto” è un’ipocrisia. Per il già citato Zagrebelsky la pratica in questione è da condannare. Dice: “Non ci deve essere nessun corrispettivo economico, perché altrimenti si finisce per commercializzare il corpo della donna”. Già Karl Marx, a metà dell’Ottocento, criticava la riduzione degli esseri umani a merce. L’attuale segretaria del Pd Elly Schlein è forse contraria al Manifesto del 1848? Almeno dovrebbe dirlo chiaramente.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine simbolo viene da Venezia, dove si è registrato un picco di bassa marea, con il livello dell'acqua a -65 centimetri, un fenomeno usuale per il periodo ma mai così prolungato nel tempo. Alla vigilia della Giornata mondiale dell’acqua e di un Consiglio dei Ministri che si deve occupare dell’emergenza siccità, la città lagunare è l'immagine plastica del clima impazzito.
Foto ANSA
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera guarda ancora al vertice di Mosca e annuncia: Putin si affida al piano di Xi. La Stampa tematizza il dibattito nel nostro Parlamento: Armi all’Ucraina, il gelo della Lega. Per il Quotidiano Nazionale il vero tema è la corsa al riarmo del governo: La sfida di Meloni: più soldi per armi. E anche Avvenire punta sullo stesso tema: Nuovo asse, vecchie armi. Il Manifesto gioca con la foto di Putin e Xi, alludendo al dibattito sui genitori gay: Coppia di fatto. Il Domani si schiera: Altro che piano di pace. L’abbraccio fra Putin e Xi è una guerra all’occidente. La Repubblica sottolinea i dati preoccupanti diffusi ieri dall’Istat: Acqua, il grande spreco. Il Messaggero suggerisce l’intervento militare sulle migrazioni: Migranti, la Nato in campo. Mentre Il Giornale decide di andare sulle raccomandazioni di Bruxelles a proposito dei figli di coppie omogenitoriali: Diktat europeo sulle famiglie gay. Stesso tema per La Verità, che denuncia: Al mercato dell’utero in affitto c’è pure il neonato di ricambio. Il Fatto prosegue nella campagna contro il Rottamatore: Soldi da governi esteri: il Pd&C. salvano Renzi. Mentre Libero si esalta per l’aggressività della premier: Schlein copre gli ecoteppisti. Meloni schiaffeggia i grillini. Il Sole 24 Ore ci riporta alla realtà della difficile attuazione del Piano europeo: Pnrr, assunzioni flop negli enti locali.
PUTIN ACCETTA IL PIANO DI PIACE CINESE
La Russia è disposta ad accettare la proposta di pace di Pechino. “Ma l’Occidente non è pronto”. Accoglienza imperiale al Cremlino: lo Zar esulta per le intese sul gas. Gli Usa temono l’alleanza: “Vogliono imporre le loro regole”. A Kiev Zelensky riceve il leader giapponese Kishida.
«Trattamento imperiale per Xi Jinping nella coreografia ideata dal Cremlino. Grande elogio russo per la sua «proposta costruttiva ed equilibrata» sulla crisi ucraina. E il leader cinese risponde invitando a Pechino Vladimir Putin. La stampa russa si è affrettata a lanciare la notizia, che in altri tempi sarebbe stata scontata: il cerimoniale tra capi di Stato prevede reciprocità e quindi l’invito a restituire presto la visita è la norma. Però, ora lo zar è inseguito da un mandato d’arresto della Corte penale internazionale dell’Aia. La Cina non riconosce il Tribunale, come non partecipano Stati Uniti, Russia e anche Ucraina: ma ospitare a casa sua un ricercato per crimini di guerra è un gesto di forte sostegno da parte di Xi. Putin potrebbe andare a Pechino per il terzo Forum sulla Belt and Road Initiative, il piano per le nuove Vie della Seta caro a Xi. L’evento dovrebbe svolgersi in primavera. L’appuntamento sulla Via della Seta dà anche il senso economico dell’abbraccio tra i due leader. Putin ha detto a Xi che le imprese cinesi devono prendere il posto di quelle occidentali in Russia. Ha annunciato che il «Power of Siberia 2» porterà in Cina 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno: «Abbiamo concordato i parametri», ha esultato. Il megaprogetto è in discussione da anni. Il totale del gas siberiano pompato in Cina nel 2030 salirà a 98 miliardi di metri cubi all’anno, e in più saranno esportati 100 milioni di tonnellate di gas liquefatto. Così Putin trova uno sbocco per colmare il vuoto lasciato dagli europei. Il rapporto commerciale sempre più stretto, che lega e subordina la Russia alla superpotenza cinese, è stato messo in secondo piano in questo vertice dall’attenzione mondiale concentrata sulla questione ucraina. Putin e Xi ieri hanno «discusso approfonditamente» la proposta cinese per una soluzione politica. Molti dei 12 punti del piano (che parte da un cessate il fuoco che terrebbe i russi sulle posizioni conquistate) «sono in sintonia con l’approccio russo e possono essere presi come base per un regolamento pacifico», ha detto Putin. Ma «non vediamo al momento che gli occidentali e Kiev siano pronti». Lo zar sostiene che l’Ovest «vuole combattere fino all’ultimo ucraino». Xi al suo fianco professa «la neutralità cinese». Nel documento congiunto i due leader sono d’accordo che «non ci sono vincitori in una guerra nucleare e dunque non va mai combattuta». La Cina «non ha una posizione imparziale sulla guerra, dovrebbe sollecitare la Russia a mettere fine al conflitto», ha replicato il portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale americana John Kirby. Russia e Cina — ha aggiunto — «vogliono vedere il resto del mondo giocare con le loro regole». Se vorrà mostrarsi credibile, Xi dovrà consultare Volodymyr Zelensky. Gli ucraini dicono che non c’è ancora niente di concreto sull’ipotesi del primo colloquio tra i due: «Aspettiamo una risposta alla richiesta, ci lavoriamo». Il presidente ucraino ieri ha ricevuto la visita del premier giapponese Fumio Kishida, l’ultimo dei leader del G7 ad andare in missione di solidarietà a Kiev, ha parlato di ricostruzione delle città devastate, ma la sua scelta di campo è un colpo anche alla Cina. Le sale del Cremlino usate per il vertice ispirano suggestioni politiche. Il grande Banchetto di Stato si è tenuto nel Palazzo delle Faccette (Granovitaya Palata). Lo zar Ivan il Terribile vi festeggiava le conquiste territoriali in Asia, Pietro il Grande celebrò lì la vittoria del 1709 sulla Svezia a Poltava, che oggi è in territorio ucraino. Gli storici della politica ricordano che nel Palazzo delle Faccette, correva l’anno 1988, il presidente Ronald Reagan brindò con Michail Gorbaciov, levò il calice «all’arte della persuasione amichevole, allo spirito di pace, alla speranza di trovare un modo migliore per regolare le cose». Impossibile che Xi Jinping rivolga anche in privato parole simili all’amico del cuore Vladimir Putin».
LONDRA FORNIRÀ PROIETTILI ALL’URANIO
Londra annuncia che fornirà proiettili all’uranio a Kiev. La dura risposta di Mosca: «Avvicinano lo scontro nucleare, reagiremo». Intanto i droni ucraini colpiscono una base in Crimea. Il punto della situazione è di Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«Settimana dopo settimana, addirittura giorno dopo giorno, i segnali dell’approssimarsi della già annunciata «controffensiva ucraina di primavera» si fanno più evidenti. E sono ormai talmente predominanti che hanno praticamente soppiantato quelli della tanto sbandierata «offensiva russa», che comunque tra dicembre e febbraio scorsi dominava le cronache della guerra. Vista da Kiev, e facendo la tara all’inevitabile nebbia della propaganda, la spiegazione più evidente è quella per cui i russi ci hanno già provato, ma non sono andati da nessuna parte. «I comandi di Mosca hanno perso centinaia di tank e blindati nelle campagne di Vuhledar ai primi di febbraio. Poi la loro fanteria non è riuscita ad avanzare da Kreminna verso Kharkiv e adesso sia i mercenari della Wagner che il meglio delle ultime unità d’assalto dell’esercito regolare continuano a dissanguarsi per serrare l’assedio attorno alla cittadina di Bakhmut, senza peraltro ottenere grandi risultati», ci spiegava l’altro giorno un alto ufficiale dell’intelligence ucraina nel Donbass. Sembra invece che il capo di Stato maggiore ucraino, Valery Zaluzhny, stia ancora una volta muovendosi con grande discrezione, cercando di rivelare molto poco sulle sue prossime mosse. Uno dei segnali che i commentatori locali seguono con attenzione è stato l’annuncio una settimana fa di chiudere la zona di Kherson alla stampa. Voci non confermate parlano di unità speciali che si muoverebbero nelle aree liberate a novembre con pontoni mobili per attraversare il Dnipro, dove forse i russi meno se lo aspettano. Un’altra mossa rilevante è stata lunedì sera colpire con nuovi modelli di droni ad alta autonomia le difese dell’aeroporto militare di Dzhankoi e soprattutto il suo scalo ferroviario, dove erano fermi alcuni vagoni carichi di Kalibr, i missili a lunga gittata che montati sulle navi della Flotta del Mar Nero causano caos e terrore in tutta l’Ucraina. L’importanza strategica di Dzhankoi è ben nota: si tratta della base militare russa più rilevante della Crimea settentrionale, da cui partono i convogli verso le zone occupate di Kherson e Melitopol. Come sempre avviene per i blitz sia in Crimea che nel territorio russo, anche ieri gli ucraini non hanno rivendicato la paternità del raid, ma per una volta il ministero della Difesa a Kiev ha sottolineato che sono stati distrutti i Kalibr. Ad alimentare le aspettative per la controffensiva è il continuo flusso di armi e munizioni del fronte alleato, che di recente ha visto una notevole accelerata. Nelle ultime ore l’annuncio del ministero della Difesa britannico di voler inviare proiettili all’uranio impoverito ha provocato la reazione rabbiosa di Mosca, che denuncia Londra di «avvicinare lo scontro nucleare». «Se l’Occidente iniziasse ad usare armi con componenti nucleari, la Russia sarebbe costretta a reagire», ha minacciato in serata lo stesso Putin. Intanto, ancora Londra raddoppia a una trentina i tank Challenger per Kiev. Gli americani promettono di mandare al più presto i loro Abrams ultrasofisticati (si credeva dovessero arrivare a fine estate) e lo stesso fanno gli europei con il sistema antimissile Patriot. Sembra siano, nel frattempo, già arrivati ben oltre cento carri armati Leopard di fabbricazione tedesca, ma inviati dagli arsenali soprattutto polacchi, cechi e dei Paesi baltici».
“GLI USA NON PERMETTERANNO LA PACE CINESE”
Analisi del vertice di Mosca di Lucio Caracciolo, direttore di Limes, sulla Stampa.
«Il rumoroso rientro della Cina sulla scena internazionale, dopo tre tristi anni di letargo da Covid e di arroganti scomuniche inflitte al resto del mondo, potrebbe inavvertitamente prolungare e inasprire il conflitto in Ucraina. L'esibizione di Xi Jinping fra stucchi e ori del Cremlino, in relativa sintonia con Putin, ha infatti due facce fra loro incoerenti. Xi si ostenta onesto sensale nella guerra ucraina sulla base del suo "piano di pace", apprezzato solo in parte da Putin, che in realtà è il manifesto della geopolitica globale cinese. Manifesto che comunque induce Zelensky a proporre al leader cinese un incontro virtuale, previsto nei prossimi giorni. Allo stesso tempo, Xi stringe il rapporto speciale con la Russia, ridotta a junior partner nel cosiddetto "partenariato strategico globale di coordinamento dei due Paesi per la nuova èra" – leggi: Cina e Russia alla testa del vagheggiato fronte anti-occidentale. Nasce così una peculiare figura da ombre cinesi, quella del mediatore di parte. Nulla di straordinario nell'arte politica, incurante del principio di non-contraddizione. È però evidente che gli Stati Uniti mai consentiranno alla Cina di intestarsi la pace in Ucraina. Comunicazione subito girata da Biden a Zelensky. La guerra deve finire declassando la Cina, più ancora che la Russia. O non deve finire. Il presidente ucraino ne ha preso nota, ma non per questo rinuncia a esplorare la pista cinese, considerando anche i notevoli interessi e investimenti sinici nel suo Paese. Certo il "piano di pace" di Xi non è in grado di avviare la sedazione del conflitto che per lui non sarebbe mai dovuto cominciare. Lo stesso vale per gli altri tentativi di stabilire un cessate-il-fuoco, cominciati subito dopo l'invasione russa. Colloqui informali e segreti a medio livello fra russi e ucraini sono finora inutilmente in corso su binari diversi e paralleli, per esempio a Ginevra con la facilitazione svizzera. Anche fra Mosca e Washington i canali restano aperti, non solo per evitare lo scontro militare diretto causa incidente. In teoria, la tregua potrebbe essere facilitata dalla duplice pressione dell'America sull'Ucraina e della Cina sulla Russia. Gli americani da mesi segnalano non troppo riservatamente a Kiev che prima o poi si dovrà arrivare al congelamento del conflitto in stile coreano: impregiudicati i confini di Stato perché nessuno può cedere qualcosa all'altro, si traccerà una linea divisoria presidiata da contingenti internazionali e garantita dalle maggiori potenze. Tutto ciò dopo un'offensiva ucraina che consentisse di recuperare parte dei territori annessi da Putin, altrimenti Zelensky non potrebbe nemmeno accennare il negoziato. Resta da dimostrare che la Russia sia disposta a questa soluzione. Putin spera di poter spingersi ancora più avanti nella conquista del Donbass e prepara una nuova mobilitazione. Comunque il concetto di vittoria è mobile. Vale per entrambi i contendenti. Ma la guerra in Ucraina non è questione a sé. È ricompresa al grado strategico nello scontro Stati Uniti-Cina per il primato mondiale. Washington e Pechino differiscono su quasi tutto, non nella consapevolezza della posta in gioco. E nella priorità del teatro indo-pacifico rispetto all'ucraino. Tanto che al Pentagono non vedrebbero poi male l'invio di armi cinesi alla Russia, perché sarebbero sottratte al quadrante di Taiwan e dintorni. Quelle forniture che invece gli americani offrono agli ucraini, a scapito del flusso di armi agli amici e alleati asiatici impegnati nel contenimento delle ambizioni oceaniche di Pechino. Ciò spiega le recenti pressioni dei militari americani sui colleghi di Kiev perché chiudano la partita entro l'estate. La priorità è la Cina, non la Russia. Per Pechino, scottata dal fallimento del colpo di Stato a Kiev promesso da Putin come fosse passeggiata di salute e preoccupata dall'espansione dell'Alleanza Atlantica verso l'Indo-Pacifico, è il momento della revisione tattica. All'insegna della diplomazia e della asserita volontà di pace. Di cui il leggero abbassamento di tono su Taiwan, dopo anni di martellamento militaresco, è l'espressione più eloquente. Xi vorrebbe quindi che Putin chiudesse rapidamente l'avventura ucraina. Soprattutto, non può permettersi la sconfitta e magari la disintegrazione della Russia, su cui deve poter contare nell'allestimento del teatro anti-americano di sapore terzomondista. In questa guerra di attrito decisivo è stabilire a chi giovi il prolungarsi del conflitto. Chi ha il tempo dalla sua? I russi, forti di una superiorità netta in uomini, risorse e armamenti, sono convinti di poter resistere un minuto più degli ucraini. I quali invece sperano di farcela grazie al sostegno americano e di alcuni Paesi europei, Polonia in testa, da cui dipendono. Micidiale tiro alla fune, che lascerà comunque il "vincitore" più debole e instabile di quanto fosse il 22 febbraio. Ma questa è la (il)logica di guerra, cui noi europei ci eravamo illusi di esserci per sempre immunizzati. Oggi il fronte è quasi in stallo. Non durerà molto a lungo. Né Putin né Zelenski pensano di poter spacciare per vittoria ciò che hanno preso o perso finora. Nelle variabili future bisognerà considerare che in assenza di cessate-il-fuoco il conflitto potrebbe degenerare e connettersi ancora più palesemente al fronte indo-pacifico, a rischio d'incendio. L'inerzia della guerra non spinge alla pace».
“LA GUERRA FINISCE SOLO COL NEGOZIATO”
Sul Fatto Silvia Truzzi intervista Gustavo Zagrebelsky, il cui intervento apre oggi a Torino la Biennale della Democrazia.
«Il test d’ingresso a questa intervista che ha per tema la libertà (che poi è il tema della Biennale Democrazia che si apre oggi a Torino) è dantesco. “Libertà, va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Chi dice queste parole a chi? Virgilio a Catone (ma quale Catone? Il censore o l’Uticense? Il secondo), nel primo canto del Purgatorio. “Tutta la struttura della Commedia è un cammino verso la libertà, fino al Paradiso”, spiega Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia. “Dante, ancora nel Purgatorio, parla della fanciulla che ‘piangendo e ridendo pargoleggia’; quell’anima ‘semplicetta’ nulla conosce, tutto ha da apprendere”.
La libertà non è una condizione di partenza?
È il compimento di un viaggio: quando si nasce non si è ancora completi. Questo assunto è il contrario di quello che alcune Costituzioni (la Dichiarazione d’Indipendenza americana; la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e del cittadino della Rivoluzione francese) dicono, non senza superficialità: gli uomini (allora erano proprio i maschi) nascono liberi e uguali. Invece no: il bimbo che nasce in una baraccopoli non è uguale a quello che viene al mondo in una delle nostre cliniche private. Ma non vorrei che si pensasse che durante la Biennale ci si occuperà di letteratura. Gli argomenti saranno ben concreti: tra i primi incontri c’è una conferenza sulla Turchia, “come nasce una dittatura”, e l’ultimo appuntamento è una rievocazione del processo ad Andrej Sinjavskij e Julij Daniel’, due scrittori russi che sfidarono il regime sovietico, pubblicando i loro libri in Occidente.
La dichiarazione d’indipendenza americana sancisce il diritto alla felicità di ogni individuo. Come si muove la libertà tra l’“io” e il “noi”?
Quando, nel 1776, le tredici colonie della Costa atlantica dichiararono l’indipendenza dall’Impero britannico, avevano alle spalle il Far West, che consideravano uno spazio vuoto: ciascuno poteva andare a cercare la propria felicità in terre vuote. Noi sappiamo che non lo erano affatto, perché erano popolate dai nativi, considerati nullità o al massimo tribù primitive da rinchiudere nelle riserve (uno dei grandi crimini dell’Occidente europeo). Oggi non ci sono più spazi liberi, tutto lo spazio della Terra è stato occupato: la libertà di ognuno di noi deve fare i conti con la libertà degli altri. Mentre l’individualismo americano si affermava anche costituzionalmente, l’Europa, già tutta occupata, ha elaborato lo Stato sociale. Se non si tratta propriamente di felicità, almeno di benessere sì. Ma qui, nello spazio pieno, non è ammissibile che ciascuno (i più potenti) faccia quel che vuole: occorre l’intervento regolativo dello Stato. Su questo punto, anche nella mentalità comune, c’è ancora adesso una grande distanza tra Europa e Stati Uniti.
Nella presentazione di questa edizione di Biennale, si accenna alla pandemia. Esperienza in cui abbiamo toccato con mano i limiti – e le limitazioni – di libertà prima date per scontate. Cosa abbiamo imparato?
Che la nostra libertà è strettamente legata all’ambiente in cui viviamo. Non solo siamo esposti ad altri pericoli globali per la vita e la salute, ma soprattutto sentiamo la pressione crescente della carenza di risorse vitali, come il cibo, l’acqua, l’aria respirabile, eccetera. Ci stiamo mangiando la natura. A ciò si aggiunga l’esplosione demografica a livello globale. Le risorse si riducono. Ciascuno di noi, volente o nolente, si troverà nella necessità di ridurre i propri spazi di libertà per far posto a tutti. La prospettiva più umana è che le popolazioni privilegiate s’inducano a ridurre il loro benessere a favore dei meno fortunati. Compito immane, a fronte degli egoismi che popolano le società benestanti. Il caso della pandemia presenta analogie, la riduzione della libertà dei “sani” è stato necessario imporla a favore di coloro che erano esposti alla malattia: tutti, in realtà, anche se molti si ritenevano scioccamente immuni o inutilmente perseguitati dalle misure restrittive adottate.
La grande rottura dell’ultimo anno è stata la guerra.E qui siamo noi chiamati in causa: mandiamo le armi in nome della libertà del popolo ucraino, ma quanto teniamo conto dei nostri princìpi?
Secondo Montesquieu “non c’è parola che abbia ricevuto un maggior numero di significati diversi, e che abbia colpito gli spiriti in tante diverse maniere, come quella di libertà”. E che varia a seconda dei punti di vista: tornando agli Stati Uniti, durante la guerra di secessione gli imprenditori degli Stati del Nord combattevano per la libertà degli schiavi, i proprietari delle piantagioni di cotone del Sud per la libertà di avere gli schiavi.
Allora, libertà è parola vuota, che ciascuno riempie come vuole?
Non direi così. Se la privazione della libertà deriva da una violenza, la lotta per la libertà dovrebbe essere concepita e gestita come battaglia contro la violenza, tutte le violenze. Se si vuole contrastare la massima violazione della libertà, che è la guerra, bisognerebbe far sì che le persone siano libere di pensare, a cominciare dai soldati, spediti a morire a centinaia di migliaia da coloro che decidono non di “fare la guerra”, ma di “farla fare”. Karl Kraus in Gli ultimi giorni dell’umanità ha detto che quando suonano le trombe dei generali, arrivano le trombette dei commentatori che si mettono al seguito. Il nostro, e non solo il nostro, dibattito pubblico è tristemente impregnato di retorica bellicista. Dovremmo, per esempio, occuparci del commercio delle armi nel mondo: le grandi compagnie di produttori di armi condizionano i governi. Il maggiore azionista di Leonardo è il ministero dell’Economia. Quale intreccio d’interessi esiste tra loro? Sono queste le cose di cui dovremmo discutere. Invece non succede: mi pare ci sia una convergenza di interessi che mira alla continuazione della guerra.
Che cosa pensa del mandato d’arresto per Vladimir Putin spiccato dalla Corte dell’Aja?
Con tutta l’umiltà di chi guarda questa vicenda da fuori, dico che mi pare un’iniziativa dissennata. Mi ricorda la favola di Fedro, quella della rana che, invidiosa del bue, si gonfia a dismisura e poi esplode. Qui a gonfiarsi sono i giuristi, che pensano che l’aggressione russa possa essere contrastata con un’azione giudiziaria: si è perso il senso delle proporzioni. Non solo per via del brocardo latino (“Silent leges inter arma”), ma perché quando si usano le armi lo strumento per farle tacere è il negoziato. Mi auguro che la Corte dell’Aja processi i criminali, Putin e non solo, ma dopo la pace: come si può arrivare a una pace se una delle parti, ancorché si tratti dell’invasore, sa che pende su di lui la minaccia di finire in carcere? Quest’iniziativa, a guerra in corso, innescherà un irrigidimento, in direzione contraria alla pace e alla diplomazia. Putin sa che non può perdere, deve per forza vincere. La Corte penale internazionale, mi pare, s’è fatta strumento, intenzionalmente o inavvertitamente, d’una mossa a favore dell’inasprimento del conflitto.
Ultimo capitolo, i diritti civili. Che pensa della gestazione per altri?
Non si può vendere un rene, ma si può donarlo. Se una donna vuole consapevolmente donare la propria maternità, dovrebbe poterlo fare. Ma non ci deve essere nessun corrispettivo economico, perché altrimenti si finisce per commercializzare il suo corpo. È una distinzione fondamentale che non mi pare difficilissima da comprendere.
Si vogliono bloccare le registrazioni dei bimbi figli di famiglie omogenitoriali. Che ne pensa?
La Corte costituzionale, tempo fa, ha emesso una sentenza in una causa che riguardava i diritti dei “figli incestuosi” (si chiamavano così, pensi alla crudeltà del linguaggio, anche di quello dei giuristi) in paragone con i maggiori diritti dei “figli legittimi” e dei “figli naturali” (come se i “legittimi” non fossero anch’essi “naturali”). La ratio della sentenza è addirittura ovvia: la colpa dei genitori (l’incesto) non può ricadere sui figli, soggetti del tutto incolpevoli. Pensi che ci fu addirittura un giudice che non partecipò alla decisione per non “sporcarsi” contribuendo ad “aprire all’incesto”. Su queste questioni spesso prevale l’ideologia o il pregiudizio e non si guarda alla realtà. E la realtà è fatta di bambini e bambine che non devono essere discriminati in conseguenza di come sono e di ciò che hanno fatto gli adulti».
MELONI E IL DIBATTITO IN VISTA DEL VERTICE UE
Nel dibattito sul Consiglio europeo, i distinguo del Carroccio sulle spese militari vengono apprezzati da Conte. La premier invece difende la linea atlantista. E sulla strage di Cutro attacca: “Io sono una madre”. Emanuele Lauria per Repubblica.
«Ho applaudito con convinzione... ». A seduta conclusa l’ex ministro grillino Stefano Patuanelli non riesce a trattenere, con il sorriso fra le labbra, l’apprezzamento per le parole appena pronunciate dal capogruppo leghista Massimiliano Romeo. A Palazzo Madama si materializza, d’improvviso, l’ombra del vecchio asse gialloverde. Una tenaglia, per Giorgia Meloni, alla vigilia del consiglio europeo di Bruxelles. Una riprova sempre più chiara di quanto la Lega, sul conflitto in Ucraina, sia distante dalle posizioni della premier. Mentre il confronto con i 5Stelle, i più espliciti nel no all’invio alle armi, è durissimo. E rischia di diventare rovente oggi alla Camera, nel secondo tempo delle comunicazioni della presidente del Consiglio, quando a parlare ci sarà Giuseppe Conte. Giornate di passione, per Meloni. Che tiene il punto sull’atlantismo: «È una menzogna dire agli italiani che se non fornissimo armi all’Ucraina si potrebbero aumentare le pensioni o ridurre le tasse», afferma. Inviarle serve a «tenere la guerra lontana dal resto d’Europa e da casa nostra ». Il governo non cela l’intenzione di aumentare gli stanziamenti militari, anzi: «Ci metto la faccia», scandisce la premier, «perché la libertà ha un prezzo. E non bado - aggiunge all’impatto sul consenso della sottoscritta ». I sistemi di difesa aerea forniti dall’Italia, il cuore del sesto pacchetto, servono a «proteggere la vita dei civili», il resto è «propaganda». L’attacco è ai 5Stelle, e in particolare al suo presidente: «Ho sentito dire che andrei a prendere ordini in Europa. Ma io preferisco dimettermi, piuttosto che presentarmi al cospetto di un mio omologo europeo con i toni con i quali Giuseppe Conte andò da Angela Merkel, a dirle che il M5s era composto da ragazzi che avevano paura di scendere nei consensi ma alla fine avrebbero fatto quello che l’Europa chiedeva». Quando dice queste cose Meloni probabilmente non immagina che la replica più dura, o almeno più imbarazzante, arriverà dalla sua maggioranza. Dalla Lega. L’“ariete”, in Senato, è sempre Romeo. Quando prende la parola, non c’è alcun rappresentante del Carroccio fra gli scranni del governo. Segnale preciso. E il capogruppo fa diretto riferimento proprio alle parole della Meloni: «Signora presidente del Consiglio, lei il 14 dicembre disse che l’unica possibilità di arrivare a un negoziato è sostenere l’Ucraina per arrivare a un equilibrio tra le forze in campo. È assolutamente condivisibile. In questi tre mesi un po’ di stallo c’è stato, ma ben pochi sono stati i passi in avanti sul fronte del cessate il fuoco e anche della tregua». Ma non si ferma qui, Romeo. Denuncia «una corsa ad armamenti sempre più potenti, con il rischio di un incidente da cui non si possa più tornare indietro. Siamo certi che un’escalation del conflitto riuscirà a tenere lontana la guerra dall’Europa e dal nostro Paese?». Una frase con cui il capogruppo leghista mette apertamente in dubbio quanto affermato da Meloni. Non a caso, quando Romeo cessa di parlare, non arrivano applausi dai banchi di Fdi. «Romeo? Non ci è parso un intervento eccezionale», dirà più tardi un ministro di Fratelli d’Italia. È il gelo. La risoluzione di maggioranza comunque passa. E la premier, sul tema dei migranti, in serata ottiene al telefono dalla presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen la rassicurazione sull’impegno ad agire in modo «rapido e coordinato». Si consola così, anche se nel Consiglio - pare - l’immigrazione sarà argomento marginale. Per Meloni è sempre bruciante la memoria dei fatti di Cutro. «Criticate ferocemente il governo - dice alle opposizioni - ma, vi prego, fermatevi un secondo prima di danneggiare l’Italia». Il clou arriva quando la senatrice pd Tatiana Rojc, a proposito del naufragio, cita Pasolini: «Sappiamo, ma non abbiamo ancora le prove ». La premier si infervora: «Non c’è e non ci sarà alcuna prova che lo Stato poteva fare di più». Fino all’improvviso ritorno a un suo inciso di successo: «Io sono una madre!», urla. Chissà se la Camera, oggi, sarà più benevolente».
L’ITALIA CON L’ELMETTO: SERVONO 30 MILIARDI DI “ARMI EXTRA”
Su Repubblica Gianluca Di Feo illustra le richieste degli Stati maggiori della Difesa italiani al governo: servono 30 miliardi per le “armi extra”.
«L’onere delle armi invocato dalla premier Giorgia Meloni rischia di essere molto impegnativo. Perché l’invasione dell’Ucraina impone anche alla nostra Difesa di rivedere tutto, numeri e mezzi, preparandosi a scenari di guerra totale dimenticati da trent’anni. Così i vertici delle forze armate sono stati ascoltati dalle Commissioni delle Camere e hanno presentato il loro elenco delle priorità: una lista della spesa che richiede investimenti straordinari per oltre trenta miliardi e implica scelte industriali rilevanti. È una situazione che stanno vivendo tutte le democrazie occidentali, dalla Germania alla Francia, dove la questione del riarmo è al centro del dibattito parlamentare. Da noi invece la discussione è stata relegata nelle riviste di settore, come se i partiti politici siano disinteressati al tema della sicurezza nazionale. Eppure non ci sono segreti militari: audizioni e documenti sono online, accessibili a chiunque. Il più preciso è stato l’ammiraglio Enrico Credendino, numero uno della Marina, che ha descritto le nuove minacce nel Mediterraneo testimoniate dall’attivismo della flotta russa. La distruzione del Nord Stream ha reso impellente la protezione di quello che c’è nei fondali – i gasdotti e le reti a fibra ottica – dal moltiplicarsi di battelli subacquei, non solo di Mosca. Per questo l’ammiraglio Credendino ha prospettato di aumentare le fregate Fremm antisommergibile – da tre a sei in più – e aggiungere due sottomarini U212 NFS. Un gap significativo è l’assenza di aerei specializzati per scovare i sottomarini: «Oggi siamo costretti a chiedere agli Stati Uniti, quando abbiamo l’esigenza, di fornirci un loro pattugliatore marittimo di quelli stanziati a Sigonella». L’elemento più costoso è la seconda portaerei, da affiancare alla Cavour, e gli ulteriori due caccia Ddx, le nostre unità da guerra più potenti. Queste richieste tengono conto di un elemento fondamentale: tra manutenzione e riposo dei marinai, è operativa una nave su tre. E con le scorribande russe davanti alle nostre coste l’impiego è stato intensificato: le fregate Fremm restano in missione per 4200 ore l’anno contro le tremila previste, «andando incontro a una grande usura a cui riusciamo a rispondere, ma soprattutto con una grande usura degli equipaggi». L’organico è una nota dolente, condivisa da tutti i comandanti: ci sono 29.500 donne e uomini in Marina, mentre ne servirebbero come minimo 35 mila. Questo problema è ancora più sentito dall’Esercito, che dovrebbe passare da 89 mila a 110 mila militari. Numeri comunque insufficienti per affrontare conflitti su larga scala, tanto che il generale Pietro Serino ha sottolineato l’urgenza di creare una riserva mobilitabile in tempi rapidi, prevista dalla legge ma mai concretizzata. La lezione più impellente che arriva dai campi di battaglia ucraini riguarda le forze corazzate. Oggi siamo messi malissimo ed è iniziato un programma per aggiornare 125 carri armati Ariete mentre ci sono solo 200 cingolati da combattimento Dardo, entrambi concepiti negli anni Ottanta. Ma sul mercato non ne es istono di nuovi e quindi in attesa di lanciare un progetto europeo si sta valutando un “tappabuchi”: acquistare un centinaio di Leopard 2 tedeschi e, forse, altrettanti CV90 svedesi. Quello che accade nel Donbass spinge a domandare pure altri strumenti: lanciarazzi multipli come gli Himars; munizioni d’artiglieria con guida laser e gps; droni killer; droni da ricognizione piccoli e grandi; sistemi per fermare i velivoli telecomandati; armi contraeree portatili. Più cari gli elicotteri anti-tank che sostituiranno i Mangusta: il prototipo è pronto, i finanziamenti latitano. E il generale Serino ha invocato uno stanziamento straordinario: «Un maxi fondo che sommi almeno tre delle attuali annualità, associate anche a norme di semplificazione amministrativa e contabile». Infine l’Aeronautica. Il generale Luca Goretti pensa che sia necessario riportare le dotazioni a quanto deciso prima della stagione di pace e di tagli, puntando sugli aerei più avanzati, «soprattutto operando in scenari di conflitto in cui potremmo essere chiamati a contrastare un avversario ben equipaggiato e fortemente determinato ad imporsi». Il primo punto sono gli F-35, i cacciabombardieri “invisibili ai radar”, e il generale domanda di tornare ai 131 esemplari inizialmente previsti contro i 90 attuali. Poi, secondariamente, gli Eurofighter, ridotti da 121 a 96: sono gli intercettori, a cui spetta la difesa dei cieli italiani. Si tratta in totale di 66 velivoli hi-tech, a cui aggiungere dotazioni adeguate di missili e bombe “intelligenti”: le riserve disponibili sono minuscole, sufficienti a ritmi ucraini per un paio di settimane. Il generale Goretti ha anche parlato del rafforzamento del trasporto a lungo raggio «soprattutto considerando la prospettiva che il continente africano e lo scacchiere indo-pacifico, quest’ultimo introdotto nel nuovo concetto strategico della Nato, possano divenire zone di intervento nei prossimi venti, trenta anni». Il quadro temporale è proprio questo: le scelte che verranno fatte adesso determineranno la sicurezza dei nostri figli. E, ovviamente, pure il costo degli armamenti extra da acquistare sarà a carico di un’intera generazione».
MIGRANTI 1. LA UE DELUDE L’ITALIA
L'Europa nega al governo la discussione sui profughi. La nostra premier chiama al telefono la Von der Leyen e si lamenta: “Non sono soddisfatta”. Intanto Frontex scarica ufficialmente Roma: a Cutro barca in difficoltà, segnalati i profughi, si doveva agire. Ilario Lombardo per La Stampa.
«La presidente della Commissione e la presidenza svedese ci offriranno un breve aggiornamento sull'argomento». Punto. Solo «un breve aggiornamento». Niente di più. A questo si ridurrà la discussione sui migranti nel Consiglio europeo di domani e venerdì. Il presidente Charles Michel ha relegato il tema alla fine della lettera con cui ha formalizzato l'invito a Bruxelles ai leader europei. I punti all'ordine del giorno sono il sostegno all'Ucraina, le misure economiche sulla competitività, il commercio, l'energia, e poi i profughi, nella formula così scritta: «Short debrief». Giorgia Meloni aveva chiesto di più. «C'è un cambio di paradigma ma non possiamo ancora dirci soddisfatti», la premier lo ha dichiarato in Aula, in Senato, e lo ha ribadito durante la telefonata con Ursula Von der Leyen. È lei, la presidente tedesca della Commissione Ue, la principale sospettata. L'Italia si aspettava «un cambio di passo», dopo il Consiglio informale di febbraio, quando Meloni rivendicò come un successo gli impegni espressi nelle conclusioni. Si aspettava che la Commissione avrebbe tradotto in proposte ufficiali le vaghe promesse strappate ai capi di Stato e di governo, così come avvenuto per i tedeschi e l'allentamento dei vincoli sugli aiuti di Stato alle imprese, considerato vitale dalla cancelleria di Berlino. Un mese dopo, invece, per l'Italia poco è cambiato. Dopo il colloquio telefonico con Von der Leyen, in serata, da Palazzo Chigi filtrava un filo di ottimismo in più. Le parole della leader tedesca tentano di tamponare i malintesi. Definisce la telefonata «fruttuosa» e conferma «la necessità di agire in maniera rapida e coordinata» e di «sostenere i partner nordafricani, di prevenire le partenze irregolari e le perdite delle vite umane». Meloni, però, vuole garanzie che le dichiarazioni si traducano in misure concrete. Chiede che qualcosa venga anticipato al Consiglio di domani. «Condividiamo un'urgenza» ha detto a Von der Leyen, ora servono i fatti. Meloni non è tranquilla. Le pressioni della diplomazia italiana hanno prodotto poco. Il tema dei migranti è rimasto in coda, appena toccato da Michel. E anche per questo ieri, in Senato, durante l'informativa sul vertice europeo, la presidente del Consiglio ha alzato nuovamente i toni e sfoderato il repertorio di sempre dei sovranisti italiani. È tornata ad attaccare le Ong: «Gli Stati che li finanziano devono assumersi le responsabilità che il diritto del mare assegna loro. Le operazioni Sar non possono gravare solo sugli Stati di approdo». E ha polemizzato con la sottovalutazione, percepita tra i partner, dell'«enorme problema» della Tunisia: «Il commissario all'Economia Paolo Gentiloni, che aveva immaginato già a inizio mese di recarsi là per affrontare la vicenda, poi ha rimandato». Il rischio di default del Paese, secondo la premier, non può essere affrontato finché il Fondo monetario internazionale non sblocca i finanziamenti destinati a Tunisi. È quello il primo banco di prova, agli occhi della premier. L'Europa può dimostrare di condividere la strategia italiana che prevede di aumentare il denaro verso i Paesi di transito del Nord Africa. Quando, in Aula, Meloni viene incalzata dall'opposizione ancora una volta sulla tragedia di Cutro, è all'Unione che rimanda, alle sue responsabilità. «Non possiamo aspettare inermi il prossimo naufragio». La premier continua a respingere le accuse sui mancati soccorsi e chiede, di nuovo, di contenere i toni del dibattito, ricordando ai parlamentari di essere una madre. «Ho la coscienza a posto. Lo Stato non poteva fare di più». La tesi è la stessa delle ultime settimane ma contrasta con la ricostruzione di Frontex, offerta ieri dal direttore esecutivo dell'agenzia europea, Hans Leijtens, in audizione al Parlamento europeo: «Noi abbiamo assolto al compito di segnalazione alle autorità italiane (attraverso le immagini, ndr)di un'imbarcazione che in quel momento non era in pericolo ma che sollevava interrogativi. La decisione - conclude - se fare intervenire la Guardia di Finanza o istituire un'operazione Sar spettava a loro».
MIGRANTI 2. IL PAPA: DEVONO ESSERE LIBERI DI SCEGLIERE SE RESTARE O PARTIRE
Il Papa interviene sul tema: Liberi di scegliere se migrare o restare. E’ l’ argomento della Giornata del migrante e rifugiato del 24 settembre prossimo: “Il diritto a rimanere è precedente, riguarda la possibilità di vivere in dignità e chiama alla corresponsabilità internazionale”. Gianni Cardinale per Avvenire.
«Liberi di scegliere se migrare o restare» è questo il tema scelto da papa Francesco per il Messaggio che invierà in occasione della 109ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebrerà domenica 24 settembre di quest’anno. Ieri l’annuncio fatto con un comunicato dal Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. L’intenzione è quella di « di promuovere una rinnovata riflessione su un diritto non ancora codificato a livello internazionale: il diritto a non dover emigrare, ossia - in altre parole - il diritto a poter rimanere nella propria terra». Nella nota stampa il Dicastero osserva che «a natura forzata di molti flussi migratori attuali obbliga ad una considerazione attenta delle cause delle migrazioni contemporanee». E sottolinea che «il diritto a rimanere è precedente, più profondo e più ampio del diritto ad emigrare». Esso infatti include «la possibilità di essere partecipi del bene comune, il diritto a vivere in dignità e l’accesso allo sviluppo sostenibile, tutti diritti che dovrebbero essere effettivamente garantiti nelle nazioni d’origine attraverso un esercizio reale di corresponsabilità da parte della comunità internazionale». E proprio per favorire un’adeguata preparazione alla celebrazione di questa giornata, il Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale annuncia che avvierà «una campagna di comunicazione finalizzata a favorire una comprensione approfondita del tema del Messaggio attraverso sussidi multimediali, materiale informativo e riflessioni teologiche». Come ricordato di recente dal cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, la Chiesa italiana negli ultimi anni è stata in prima linea per aiutare i migranti «a partire » nella speranza di un futuro migliore, ma anche «a restare» nei Paesi d’origine. Lo ha fatto anche con l’iniziativa che richiama da vicino il tema scelto da Francesco per la prossima Giornata mondiale. La Cei infatti nel 2017 ha lanciato la campagna “Liberi di partire, liberi di restare”. Grazie alla quale, in tre anni, sono stati avviati 130 progetti per un totale di oltre 27 milioni di euro. Sono stati 110 gli interventi promossi in Italia per circa 15 milioni (di questi 29 sono quelli voluti da associazioni, istituti religiosi e cooperative e 81 dalle diocesi). Sette sono stati i progetti finanziati nei Paesi di transito – Marocco, Albania, Algeria, Niger, Tunisia e Turchia – per una somma di oltre 4 milioni, mentre Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Senegal, Gambia, Guinea sono i Paesi di partenza dei flussi migratori in cui sono state avviate 13 iniziative per uno stanziamento complessivo di 8,3 milioni di euro. Nel 2020, al termine della campagna, il cardinale Gualtiero Bassetti, allora presidente della Cei, ha messo in evidenza come questa iniziativa straordinaria della Chiesa italiana abbia «promosso uno sviluppo umano integrale, per tutti gli uomini e tutto l’uomo, a livello familiare e comunitario», permettendo e anche «di sperimentare nuove piste di azione, di favorire una maggiore consapevolezza del dramma delle migrazioni, di realizzare iniziative concrete in diversi settori, come l’educazione, la formazione professionale, l’inclusione lavorativa, la tutela dei minori». Si è trattato insomma «di un lungo cammino di condivisione di storie e di iniziative che hanno cercato di gettare uno sguardo e porgere l’aiuto possibile sul vasto fenomeno delle migrazioni, che interessa da sempre il bacino del Mediterraneo, ma che ormai è divenuto un fenomeno planetario, con milioni di persone in tutto il mondo che sono alla ricerca di una vita migliore».
LE VITTIME DI MAFIA 1. CORTEO A MILANO
Libera e Avviso pubblico ricordano con un corteo le 1069 vittime innocenti della mafia, con 70 mila persone a Milano. «È possibile» dire no alle mafie. La cronaca è di Francesco Moscatelli per La Stampa.
«È possibile» ricordare le 1.069 vittime innocenti delle mafie. Milano ieri lo ha fatto. Alla manifestazione nazionale organizzata da Libera e da Avviso Pubblico hanno marciato in 70 mila: dai giardini di Porta Venezia, poco lontano dal luogo in cui trent'anni fa le bombe di Cosa Nostra uccisero cinque persone, a piazza Duomo, dove la segretaria del Pd Elly Schlein ha abbracciato don Luigi Ciotti. Un corteo colorato e giovane, animato da studenti, scout e associazioni. Guidato da 500 famigliari delle persone che hanno perso la vita. Fra di loro ci sono anche Giovanni e Francesca, i genitori di Domenico «Dodò» Gabriele, morto nel settembre del 2009. «Aveva 11 anni e stava giocando a calcetto con alcuni amici, quando qualcuno ha cominciato a sparare - raccontano - . A ucciderlo sono stati due ragazzi di 19 e 25 anni. Per conto di una cosca di ‘ndrangheta dovevano punire un ragazzino che non aveva saputo piazzare una partita d'erba in Germania». Non nascondono la rabbia: «Si sente spesso parlare di levare l'ergastolo ostativo. Per noi è una detenzione giusta. Non possiamo pensare che un giorno potremmo prendere un caffè in un bar e trovarci di fianco gli assassini di nostro figlio». A pochi metri da loro sfilano anche Flora e Vincenzo Agostino, sorella e padre di Antonino, il poliziotto ucciso a Carini il 5 agosto 1989. Quel giorno, Vincenzo, che oggi ha 85 anni, decise di non radersi e di non tagliare più i capelli finché i killer del figlio non fossero stati condannati. «Adesso forse qualche pelo lo posso togliere» dice, mostrando orgoglioso la gigantografia di Antonino che spunta sotto la sua lunga barba bianca. «Dopo aver ottenuto un ergastolo per uno degli assassini, a fine marzo dovrebbe esserci l'udienza conclusiva del processo per il secondo», spiega. Dietro lo striscione con lo slogan «È possibile» sfilano anche politici del centrosinistra e leader sindacali. Assenti, invece, esponenti di primo piano del centrodestra e del governo Meloni. Ma pure quelli del Movimento Cinque Stelle. «Milano è ancora al centro di tanti interessi economici e ciò è un bene, ma questo attirerà anche tanti malintenzionati - la riflessione del sindaco Beppe Sala - . Gli anticorpi che ci siamo fatti in questi anni, attraverso errori e incertezze del nostro percorso, adesso ci aiuteranno». Per il segretario della Cgil Maurizio Landini è importante che «la memoria non vada mai persa». Presenti anche l'ex presidente del Senato Pietro Grasso, l'ex ministro Fabrizio Barca, il sindaco di Bologna Matteo Lepore, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi e il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. Per Elly Schlein, alla sua seconda piazza milanese in pochi giorni dopo il sit-in di sabato per le famiglie arcobaleno, la manifestazione è anche l'occasione per proseguire il dialogo con Sala in vista di un prossimo faccia a faccia a partire dal «tema centrale della casa». In molti la fermano e si scattano foto con lei. Deborah Cartisano e Stefania Grasso, partite dalla Locride per commemorare i loro padri assassinati dalla ‘ndrangheta, le ricordano che «quello che è successo può succedere ancora». Davanti ai microfoni la segretaria dem ribadisce l'importanza «di lottare insieme alle famiglie delle vittime per la verità» e «di rafforzare gli strumenti per contrastare le infiltrazioni delle mafie nell'economia legale». «Purtroppo non li stiamo vedendo» prosegue Schlein, criticando alcuni provvedimenti dell'esecutivo. «Serve uno sforzo in più da parte delle istituzioni e della politica tutta, non alzare il tetto del contante o indebolire le tutele della legalità nel codice degli appalti». Dopo la lettura dei nomi di tutte le vittime, scandita dalla tromba di Raffaele Kohler sulle note di Imagine, don Luigi Ciotti punta il dito contro la mafia «moderna impresa che ricorre meno alla violenza diretta perché può contare su quella bianca del potere economico». Ma il fondatore di Libera ricorda anche le vittime del Mediterraneo dove «nuotano e ingrassano le mafie». Non gli servono tante parole. Gli basta mostrare una t-shirt con scritto «KR46M0», la sigla usata dai medici legali per indicare i neonati senza nome annegati a Cutro».
LE VITTIME DI MAFIA 2. MATTARELLA A CASAL DI PRINCIPE
Sergio Mattarella visita Casal di Principe, la terra di don Peppe Diana, e indica alle nuove generazioni: «Voi siete il futuro». Angelo Picariello per Avvenire.
«A Casal di Principe c’è una «generazione della speranza ». Sergio Mattarella arriva in una terra considerata simbolo della camorra per incontrare i «figli della rinascita», i ragazzi che hanno raccolto il «testimone » di don Peppe Diana, il sacerdote assassinato in Chiesa, prima di dir Messa, il 19 marzo di 29 anni fa, a soli 36anni, che alla «dittatura delle armi» oppose «parole cariche di amore». Ricorda questo «uomo coraggioso, pastore esemplare, figlio di questa terra. Un eroe dei nostri tempi lo definisce -, che ha pagato il prezzo più alto, quello della vita, per aver denunciato il cancro della camorra e per aver invitato le coscienze alla ribellione». La giornata del presidente della Repubblica per celebrare la memoria delle vittime delle mafie si apre, al suo arrivo in questo centro di antica vocazione agricola del Casertano, proprio rendendo omaggio alla tomba di don Diana. Si ferma alcuni istanti, da solo, in raccoglimento, incontra i familiari, i fratelli Emilio e Marisa. Con loro c’è anche Augusto Di Meo, testimone oculare del delitto don Diana, simbolo di una terra che non si è rassegnata alla violenza. Poi Mattarella si reca all’Istituto tecnico “Guido Carli”, ed è lì che incontra gli studenti delle superiori . «Oggi l’Italia ricorda tutti i caduti per mano della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta. Donne e uomini che hanno sfidato la prepotenza mafiosa». Tra le vittime ci sono, rimarca, «anche bambini, uccisi per errore o per vendetta». E purtroppo, accanto ai segni di speranza, Mattarella non può non fare riferimento a quelli di segno contrario, che drammaticamente ricordano come la mala pianta della camorra sia ancora lungi dall’esser estirpata. Fatalità e futilità, a volte, possono recidere vite innocenti, come il caso di Francesco Pio Maimone, diciottenne di Pianura che, dopo avere imparato a fare il pizzaiolo sognava di poter aprire un locale tutto suo: «Ancora ieri, a Napoli, un ragazzo 18 anni è stato ucciso quasi a caso, con una crudeltà che gli ha sottratto il futuro, lasciando nella disperazione i suoi familiari», ricorda Mattarella. «La mafia è violenza ma, anzitutto, è viltà. I mafiosi - ammonisce - non hanno nessun senso dell’onore né coraggio. Si presentano forti con i deboli. Uccidono persone disarmate, organizzano attentati indiscriminati, non si fermano davanti a donne e a bambini. Si nascondono nell’oscurità». Nel corso dell’incontro, moderato dal giornalista di Tv2000 Luigi Ferraiuolo (biografo di don Diana) con il il Sindaco di Casal di Principe Renato Natale e la dirigente scolastica Tommasina Paolella intervengono anche la studentessa Maria Cantiello e lo studente Fabrizio Gabriele. Invocano «strutture e opportunità». «A lei Presidente chiedo attenzione al nostro territorio», dice Maria. E a loro si rivolge più volte, citando don Diana, Mattarella: «Le mafie temono i liberi cittadini. Vogliono persone asservite, senza il gusto della libertà». Cita due padri della lotta alla mafia. Antonino Caponnetto, che «soleva ripetere che “i mafiosi temono di più la scuola che i giudici”». E Giovanni Falcone con la sua celebre affermazione, pagata con la vita: «La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine». E, sempre rivolto ai ragazzi che avevano parlato di «pregiudizi», Mattarella inserisce, da palermitano, anche una nota personale: «Vi comprendo bene: anche la mia città ne ha subiti. Ma voi dovete essere fieri di essere nati in questa terra, che ha saputo compiere questa vera, grande, rinascita. Dovete avvertire l'orgoglio di essere concittadini di don Diana». Il quale, «oltre a reclamare una maggiore e più efficace presenza dello Stato, aveva rivolto il suo forte e accorato appello al coraggio e alla resistenza, per liberarsi dalla camorra, proprio ai suoi parrocchiani, ai cittadini, alla società civile, alle coscienze delle persone oneste». Un sacrificio che, rivendica il sindaco Natale, «non è stato vano». E in questa scuola, prosegue Mattarella, «state ponendo le basi per un futuro migliore, per il vostro territorio e per la vita delle vostre comunità. Sono venuto a portarvi l'apprezzamento e l'incoraggiamento della Repubblica. L'Italia guarda a voi con attenzione, solidarietà, simpatia, fiducia». Il sindaco aveva ricordato la grande partecipazione popolare ai funerali di don Diana, la sua vita spezzata più che la parola fine ha segnato un nuovo inizio, può dire oggi il Capo dello Stato: «L’efferato omicidio di Don Peppino Diana è stato un detonatore di coraggio e di volontà di riscatto. Ha prodotto un’ondata di sdegno, di partecipazione civile, una vera battaglia di promozione della legalità». Dopo l’uccisione di un innocente, ricorda Mattarella don Diana usò parole di pubblico sdegno: «Non in una Repubblica democratica ci pare di vivere ma in un regime dove comandano le armi. Leviamo alto il nostro No alla dittatura armata». Ma le parole di Falcone ricordano che «la lotta alle mafie riguarda tutti, ciascuno di noi. Non si può restare indifferenti, non si può pensare né dire: non mi riguarda. O si respingono con nettezza i metodi mafiosi o si rischia, anche inconsapevolmente, di diventarne complici. Casal di Principe lo ha dimostrato», conclude Mattarella che si concede poi una foto di gruppo con tutti gli studenti. Poi la visita alla sagrestia della Chiesa di San Nicola di Bari in cui avvenne l’omicidio di don Diana, dove trova ad accoglierlo il vescovo di Acerra Angelo Spinillo. Infine, la visita al ristorante solidale aperto in un bene confiscato al clan dei Casalesi, “Nuova cucina organizzata”, che sin dalla denominazione simboleggia il coraggio, e la voglia di cambiare, dei concittadini di don Diana, per i quali, da giovane sacerdote, ha donato la sua vita».
IZZO, FEMMINISTA: “NESSUNO VUOLE L’UTERO IN AFFITTO”
Intervista a Francesca Izzo, femminista storica e una delle fondatrici del movimento «Se non ora quando». Che dice: non ci sono figli di serie B, il punto è che non si vuole parlare dell’utero in affitto. Antonella Mariani per Avvenire.
«Professoressa Izzo, cominciamo dal lessico: gravidanza per altri, maternità surrogata o utero in affitto? «Bisogna chiamare le cose con il loro nome e quindi il termine giusto, anche se più crudo, è utero in affitto. L’ambito della maternità surrogata è sempre commerciale. “Gravidanza per altri” è una forma neutralizzante che cerca di rendere questa pratica socialmente accettabile. Ma anche quella che viene chiamata “solidale” o “altruistica” è una surrogata commerciale che si vergogna: c’è sempre passaggio di denaro». Francesca Izzo è filosofa, docente universitaria, tra le fondatrici del movimento femminista Se non ora quando?. Già deputata del Partito democratico della Sinistra (Pds), lasciò il Pd nel 2017, perché la dirigenza non voleva aprire una discussione seria proprio sull’utero in affitto.
Ieri come oggi: anche ora il Pd evita di pronunciarsi in maniera chiara, nonostante le sollecitazioni in questo senso della componente cattolica e delle femministe. Perché?
Da un sondaggio che abbiamo commissionato risulta che una volta che si spiegano bene i termini della questione, la percentuale di chi è favorevole all’utero in affitto è bassissima.
Una questione di consenso, quindi?
Immagino di sì.
È per questo allora che Elly Schlein è scesa in piazza a Milano per i diritti dei bambini delle coppie arcobaleno ma sulla Gpa non si pronuncia esplicitamente?
Parlando dei diritti di bambini si solleva un moto unanime di solidarietà. Ma è una mistificazione: non ci sono bambini di serie B, come ho sentito dire. Il padre biologico che arriva in Italia con il bambino nato da surrogata, lo iscrive all’anagrafe e da quel momento in poi ha tutti i diritti e le tutele di qualsiasi altro bambino.
E l’altro genitore?
Il genitore intenzionale deve intraprendere la via indicata dalla Cassazione: l’adozione in casi speciali. La stessa procedura che deve seguire un uomo che sposa una donna che da nubile aveva avuto un figlio.
Perché per le coppie omosessuali si chiede un trattamento di favore, considerando anche che per avere quel figlio hanno utilizzato una pratica che in Italia è punita come un reato?
Parliamo proprio di questo: il centrodestra è compatto sulla richiesta di una normativa che consideri l’utero in affitto un reato dovunque commesso.
In base a che principio?
Guardi, io faccio parte della Coalizione internazionale per rendere reato universale la maternità surrogata (Ciams) sulla base di un principio semplice: consideriamo la maternità surrogata una pratica che ha un fondo di disumanità perché spezza l’unicità del processo riproduttivo umano. Questo processo, che si genera da una singola donna e da un singolo bambino, non replicabili o riproducibili, viene segmentato e diviso in pezzi. È come un assemblaggio per fabbricare bambini secondo le peggiori regole del mercato. Si toglie alla donna che affitta l’utero la sua identità e il bambino diventa una merce. Nel mondo ci sono solo 20 Paesi su 212 che hanno legalizzato la maternità surrogata. Qualcosa vorrà dire… E c’è un altro tema.
Quale tema?
Quello dei diritti: la paternità e la maternità non sono diritti dei singoli. La generazione è l’incontro tra due diversi. E invece la sinistra ha imboccato la via dei diritti, aprendo terreni minati perché si aprono conflitti tra diritti diversi. E d’altra parte c’è una subalternità al progressismo, senza capacità di giudizio collettivo, anche etico. Trovo intollerabili i camuffamenti, i sotterfugi per non affrontare il cuore della questione e parlarsi apertamente. Il progresso tecnico scientifico può indurre a cambiamenti radicali dei fondamenti antropologici e di questo non si parla».
CL: “NO A UNA PRATICA INUMANA”
Il Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione Davide Prosperi si è pronunciato sul tema dell’utero in affitto. La notizia è da Avvenire.
«La maternità surrogata «è una pratica inumana in cui le donne, quasi sempre povere, sono sfruttate, e i bambini sono trattati come merce». Ricorre alle parole pronunciate qualche mese fa da papa Francesco, il presidente di Comunione e Liberazione Davide Prosperi, per descrivere la posizione della Fraternità sul dibattito in corso. «Direi che chiunque si definisca cattolico non può che concordare con questo giudizio», afferma Prosperi, interpellato dall’agenzia AdnKronos. «L’estrema strumentalizzazione politica che segna la discussione di questi giorni non aiuta a capire cosa c’è in gioco. E in gioco aggiunge - non c’è solo l’evidenza che tale pratica lede gravemente la dignità umana di tutte le persone coinvolte, a cominciare dai bambini e dalle donne. In gioco c’è molto di più: quale società intendiamo costruire, quale significato diamo all’amare, al desiderio di generare che ognuno ha, al rapporto tra diritti e doveri». Da qui la contrarietà di Cl, «non per difendere dogmi di fede, a cui pure crediamo, ma per affermare la dignità dell’esperienza umana».
I DATI ISTAT SULL’ITALIA: SPRECHIAMO L’ACQUA AL 40%
Alla vigilia della giornata mondiale dell’acqua, arrivano i dati dell’Istat sullo spreco italiano. Vengono persi ogni giorno 157 litri d’acqua a persona. In più l’Italia resta al top in Europa per i consumi. L’articolo è dal Sole 24 Ore.
«Una «spiccata parcellizzazione gestionale» per l’incompleta attuazione, soprattutto in Calabria, Campania, Molise, Sicilia, Valle d’Aosta, Trento e Bolzano, della riforma che nel 1994 ha avviato il servizio idrico integrato. Perdite nelle reti comunali di distribuzione pari al 42,2% (157 litri al giorno per abitante), con punte fino al 52,5% in Sicilia. Calo delle precipitazioni nelle principali città e razionamenti in crescita. Servizio pubblico di depurazione delle acque reflue urbane ancora assente in 296 Comuni. E 6,7 milioni di italiani ancora non allacciati alla rete fognaria pubblica. Il focus tematico diffuso ieri dall’Istat, alla vigilia della Giornata mondiale dell’acqua, restituisce lo spaccato di un Paese dall’organizzazione frammentata e dai prelievi di acqua potabile nella rete comunale per impieghi pubblici e privati al top in Europa ormai da un ventennio: il volume nel 2020 era pari a 9,19 miliardi di metri cubi; 25,1 milioni di metri cubi al giorno, pari a 422 litri per abitante. Il prelievo maggiore avviene nel distretto del Po. Tra le regioni spicca la Lombardia con 1,44 miliardi di metri cubi prelevati, il 15,6% del totale nazionale. La «risorsa più grande e preziosa», nota l’Istat, deriva dalle acque sotterranee, che coprono l’85% del prelievo complessivo. Appena il 16,5% viene da acque superficiali. Si distingue la Sardegna, in cui i prelievi da bacino artificiale incidono sul 77,8% del volume complessivo. La stagione conta: il maggiore prelievo (2,4 miliardi di metri cubi) avviene in estate, nel trimestre luglio-settembre, quando i pozzi sono usati come riserve soprattutto nelle aree a forte vocazione turistica. La qualità dell’acqua fino al rubinetto è garantita fino al 27,9% dei volumi dalla potabilizzazione, mentre il restante 72,1% è sottoposto a disinfezione o, in misura minore, non subisce trattamenti. Gli enti del servizio idrico sono una moltitudine: 2.391 erano nel 2020 i gestori per uso civile, di cui 1.997 enti locali e 394 gestori specializzati. In 1.619 gestivano l’approvvigionamento di acqua per uso potabile, in 1.965 le reti comunali di distribuzione dell’acqua potabile, in 2.131 le fognature comunali, in 1.377 la depurazione delle acque reflue urbane. Le perdite nelle reti comunali di distribuzione sono ingenti. Stimando un consumo pro capite pari alla media nazionale, «il volume di acqua disperso nel 2020 soddisferebbe le esigenze idriche di oltre 43 milioni di persone per un intero anno». Al Sud la maglia nera: in nove regioni le perdite sono superiori al 45%; in Sicilia e Sardegna superano il 51%. In un Comune su quattro viene dispersa oltre la metà dell’acqua immessa in distribuzione. Oltre all’obsolescenza dell’infrastruttura, si è sentito negli ultimi anni l’effetto della siccità. Nel 2021 15 Comuni capoluogo di provincia (4 in più rispetto al 2020) hanno attuato misure di razionamento, quattro in più rispetto al 2020. Con il coinvolgimento di una città del Nord (Verona) e una del Centro (Prato). I margini di miglioramento sono evidenti. Il primo rapporto Proger “Water economy in Italy” della Fondazione Earth Water Agenda, a cura di Erasmo d’Angelis e Mauro Grassi, presentato ieri a Palazzo Giustiniani in Senato, mette in fila tutte le anomalie: dal “water service divide” tra i territori per la mancata applicazione delle leggi a un terzo del Paese ancora sotto gestione comunale «con un servizio di basso livello»; dall’assenza di una Authority nazionale dell’acqua per tutti gli utilizzi (Arera regola solo il segmento del servizio idrico integrato, che copre circa il 20% dei prelievi) agli sprechi elevati. E poi i compartimenti stagni e la frammentazione delle competenze, «con oltre 10mila “uffici” con titolarità diffuse» tra ministeri, Regioni, Comuni, autorità locali di bacino, gestori, consorzi, enti scientifici, provveditorati, “grossisti” e altri, che rimandano a «un’altra miriade di circa 20mila» tra assessorati, strutture tecniche, soggetti attuatori, commissari, consulenti e responsabili di progetto. Se all’assenza di «una visione unitaria e nazionale» si aggiungono gli investimenti ridotti al lumicino, con una spesa per le infrastrutture idriche agli ultimi posti in Europa (l’1% del totale della spesa pubblica nazionale), nonostante «il 60% della rete idrica abbia oltre 30 anni e il 25% più di 50», si capisce perché la questione acqua è una bomba a orologeria».
SU TRUMP INCOMBE L’INCRIMINAZIONE
Le altre notizie dall’estero. Negli Stati Uniti l’incriminazione di Donald Trump è considerata imminente. Sarebbe la prima volta per un ex presidente. Per ora le sue «falangi» non si mobilitano. Massimo Gaggi sul Corriere della Sera.
«Corte penale di New York e politica americana in fibrillazione per un momento storico ormai imminente: la prima incriminazione di un ex presidente degli Stati Uniti potrebbe arrivare già oggi o slittare ancora di qualche giorno se il grand jury istituito dal procuratore distrettuale Alvin Bragg prenderà ancora tempo dopo aver ascoltato un altro testimone, Robert Costello, che mette in dubbio la credibilità del principale accusatore di Trump, Michael Cohen. Lo stesso ex presidente aveva detto qualche giorno fa che ieri, martedì, sarebbe stato arrestato per il caso Stormy Daniels: la pornostar che sarebbe stata pagata nel 2016 con fondi elettorali (130 mila dollari) per tacere su una relazione sessuale di dieci anni prima con Trump. Circostanza da lui sempre negata ma confermata da Michael Cohen, che al tempo era il suo avvocato, ed è finito in galera per questa ammissione e per altri reati, compresa la falsa testimonianza. Pare che i membri del grand jury si siano convinti della fondatezza delle accuse di uso illegittimo di fondi elettorali (con relativo falso in bilancio) mosse a Trump. Ieri, comunque, è continuato il lavoro della corte in un clima sempre più teso: mentre all’esterno tutta l’area del tribunale veniva transennata nel timore che le previste proteste possano sfociare in disordini e violenze, all’interno si è tutto fermato per oltre un’ora per la minaccia telefonica di una bomba. Anche Stormy Daniels è stata raggiunta da varie minacce di morte da quando Trump ha parlato del suo possibile arresto. E sempre ieri il portavoce del procuratore Bragg ha replicato con un «non ci facciamo intimidire» alla richiesta di ben tre presidenti di commissioni parlamentari, tutti repubblicani, che vogliono convocare il district attorney e chiedono gli atti di un’inchiesta che definiscono «politicamente motivata». Interferenze pesanti nel lavoro dei magistrati, ma rimane da capire perché un caso emerso già da diversi anni (le confessioni di Cohen e la sua detenzione risalgono al 2018) riesploda solo ora. Nel 2018 Trump era presidente e non poteva essere incriminato, ma non fu nemmeno chiamato in causa nell’inchiesta. Non vedremo, comunque, Trump in manette: se l’ex presidente si recherà nel tribunale penale di New York per l’incriminazione gli verranno prese le impronte digitali e gli verrà comunicata la data della prima udienza. Anche se fosse arrestato, verrebbe rilasciato subito su cauzione. Secondo gli esperti potrebbe essere trattenuto solo se continuasse a minacciare di promuovere un’insurrezione contro l’azione della magistratura. Parlando del suo prossimo arresto, Trump ci è andato vicino invitando i suoi fan a protestare in massa, a ribellarsi: «Riprendiamoci il Paese!», ha scritto sul suo social Truth. Fin qui, però, alla solidarietà politica di molti esponenti repubblicani non ha fatto riscontro una mobilitazione delle falangi trumpiane. Forse è solo tattica o forse le pesanti condanne inflitte agli assalitori del Congresso hanno raffreddato l’irruenza di molti miliziani. E dall’incendiario Alex Jones, gran teorico delle cospirazioni, a Roger Stone, una vita passata a suonare la carica a fianco di Trump, sono numerosi i trumpiani «duri e puri» che sembrano non raccogliere l’appello dell’ex presidente: Stone invita i manifestanti a essere cauti, a protestare in modo pacifico, a non cadere nella trappola tesa dalla polizia di New York. Nemmeno Ali Alexander, organizzatore del movimento «Stop the Steal» (la presunta frode elettorale) andrà a protestare: «A New York non c’è libertà, rischiamo di essere arrestati tutti, o peggio e io ho altro da fare».
DIETRO L’ACCORDO FRA IRAN E ARABIA SAUDITA
Il Domani pubblica un’analisi di Claudio Fontana, ricercatore di Oasis, sul recente accordo fra Iran e Arabia Saudita, fortemente voluto dalla Cina.
«A ben vedere, quello siglato tra Arabia Saudita e Iran con la decisiva mediazione della Cina è un accordo che non dovrebbe coglierci troppo di sorpresa. I segnali erano visibili da tempo e gli Emirati Arabi Uniti, che spesso si muovono in anticipo rispetto ai vicini sauditi, già nell’autunno 2022 avevano riaperto la loro ambasciata in Iran. Cionondimeno, e pur con la necessaria cautela nei confronti di una roadmap i cui frutti andranno valutati nei prossimi mesi, l’importanza di questo sviluppo non può essere sottovalutata. La Cina ha capitalizzato un lavoro iniziato nel 2021 quando i funzionari dell’intelligence dei due rivali hanno cominciato a incontrarsi, prima in Iraq, poi in Oman e infine anche in Giordania, nell’ambito della cosiddetta Conferenza di Baghdad. Queste iniziative, però, sembravano essersi bloccate in seguito allo scoppio delle proteste in Iran avvenuto nel settembre scorso. Per quanto dunque si possa dire che diversi attori abbiano contribuito al raggiungimento di quest’intesa, non va sminuito il fatto che sia stata proprio la Cina a compiere l’ultimo miglio. È qui infatti che si rintracciano i segni della nuova stagione che stiamo vivendo. Non può sfuggire il fatto che l’Arabia Saudita, fondamentale e storico alleato degli Stati Uniti in medio oriente, abbia raggiunto un accordo con un avversario di Washington, per di più proprio grazie all’intervento del grande competitor globale degli americani. L’esclusione degli Stati Uniti mostra chiaramente almeno tre aspetti. Primo, che i paesi del Golfo (Arabia Saudita ed Emirati Arabi in testa) hanno compreso che il mondo unipolare sorto dopo la fine della Guerra fredda è al tramonto. Secondo: questa consapevolezza li porta a valutare ciascuna politica (tanto estera quanto in materia economica o domestica) secondo i propri interessi nazionali. L’ha rivendicato con forza il principe Abdulaziz bin Salman quando l’Arabia Saudita fu fortemente criticata per aver deciso insieme all’Opec+ di tagliare la produzione di petrolio, nonostante le pressioni in senso contrario dell’amministrazione Biden. Continuano a chiederci, disse il ministro dell’Energia saudita, «se siete con noi o contro di noi (...) ma non c’è nessuno spazio per dire “siamo per l’Arabia Saudita e per la popolazione dell’Arabia Saudita?”». Ciò non significa, certo, che l’alleanza tra gli Stati Uniti e i paesi del Golfo finisca improvvisamente, ma il quadro all’interno del quale essa si dipana diventa transazionale: di volta in volta le capitali arabe sceglieranno con chi è più conveniente stare. Garanzia di serietà? Terzo aspetto: per la prima volta la Cina cessa di essere un mero, per quanto influente, attore economico nell’area (ammesso che sia mai stata veramente solo questo) e compie ciò che agli Stati Uniti non sarebbe stato possibile. Pechino riesce a presentarsi come un portatore di distensione mentre Washington, la cui politica negli anni è stata quella di rafforzare alcuni a discapito di altri senza però riuscire ridurre la tensione nell’area, è percepita più come parte del problema che della soluzione. Non a caso sul quotidiano panarabo filo-saudita Al Sharq al Awsat si è letto in questi giorni che la Cina è «una garanzia di serietà». Affermazioni del genere scontano naturalmente la canonica dose di opportunismo, ma molto probabilmente, come ha notato un autorevole commentatore saudita, a Riad devono aver pensato che questa intesa con Teheran comporta l’innalzamento dei costi (politici e non solo) che Teheran dovrebbe sostenere nel caso non mantenesse la parola data: se lo facesse, la Repubblica islamica deluderebbe anzitutto l’alleato cinese. Cosa che difficilmente potrebbe permettersi in questo momento. Inoltre, a differenza degli Stati Uniti, che via via hanno ridotto le importazioni di petrolio dall’Arabia Saudita, la Cina è diventata il primo destinatario del greggio saudita (più di un milione e mezzo di barili al giorno) e di quello iraniano, grazie anche alle sanzioni americane. È dunque naturale che, diversamente da Washington, Pechino sia in grado di influenzare tanto l’Arabia Saudita quanto l’Iran. Eppure, se Riad ha cambiato la sua posizione nei confronti dell’Iran (solo cinque anni fa il principe ereditario Mohammed bin Salman paragonava la Guida Suprema Ali Khamenei a Hitler) ciò si deve anche ad alcune decisioni statunitensi degli ultimi anni. Due sono i momenti chiave. Uno è il caotico ritiro americano dall’Afghanistan, che ha rafforzato la percezione di un disimpegno degli Stati Uniti dalla regione mediorientale. Ma ancor più importante è quanto avvenuto nel settembre del 2019, quando i ribelli houthi sostenuti dall’Iran hanno attaccato le infrastrutture della Aramco ad Abqaiq e Khurais, nella zona orientale dell’Arabia Saudita, interrompendo le operazioni di estrazione di petrolio (la produzione saudita si ridusse di oltre 5 milioni di barili al giorno). In quell’occasione i vertici sauditi si sarebbero aspettati dagli Stati Uniti del presidente Donald Trump, loro grande alleato, una dura reazione e una ritorsione contro l’Iran. Che non c’è stata. Dopo aver preso parte attivamente alla campagna di maximum pressure, i vertici sauditi si sono sentiti personalmente traditi. Ma soprattutto hanno compreso che non potevano più fare affidamento incondizionato sull’ombrello securitario statunitense. Così, improvvisamente, la diplomazia che fino a quel momento poteva rimanere un’opzione secondaria, è tornata a essere una via da percorrere. Strada facendo, Riad ha compreso che le leve che la Cina vanta nei confronti dell’Iran potrebbero essere un fattore più affidabile rispetto alla mera deterrenza garantita delle batterie di Patriot americane dislocate nel regno. A ciò si aggiunge che gli impegni presi con i cinesi non si accompagnano ai continui richiami al rispetto dei diritti umani. Un’insistenza fastidiosa per tutti i regimi autoritari, arabi e non. Nel cambio di strategia operato da Riad pesano però anche calcoli di differente natura. Se è vero che affinché il petrolio fluisca liberamente riempiendo le casse saudite è necessaria una certa stabilità regionale, è altrettanto vero che l’assenza di conflitto è ancor più importante per le attività previste dal piano Saudi Vision 2030 grazie al quale l’Arabia Saudita vuole affrancarsi dalla dipendenza dagli idrocarburi. Tra gli obiettivi della “Vision” vi è l’aumento delle capacità ricettive dell’Arabia Saudita per ospitare i fedeli musulmani che compiono il pellegrinaggio, passando dagli attuali 8 a 30 milioni di pellegrini all’anno entro il 2030. Vi è anche una componente legata al turismo fatta di iniziative mastodontiche e futuristiche, come quelle del progetto Mar Rosso, o quelle che fanno parte di Neom, come Sindalah (una sorta di paradiso degli yacht) e Trojena (la destinazione montana all’interno di Neom). Difficile pensare di riempire queste destinazioni di turisti in una situazione di instabilità regionale. Allo stesso modo la leadership saudita ha compreso che il coinvolgimento nella guerra in Yemen è un freno per il flusso di investimenti necessari proprio per realizzare questi megaprogetti. Non a caso è proprio riguardo allo Yemen che erano stati fatti i primi passi avanti nelle relazioni tra Arabia Saudita e Iran, con il raggiungimento di una tregua ad aprile 2022. Ed è qui che dovremo guardare per cogliere i primi frutti dell’accordo mediato dalla Cina, o i segni del suo fallimento. La notizia positiva è che l’Iran sembra intenzionato a interrompere il flusso di armi che invia clandestinamente ai ribelli houthi. Tuttavia, come hanno ricordato i diretti interessati e come diversi studiosi hanno sempre sottolineato, il controllo che la Repubblica Islamica esercita sugli houthi non è così stretto come potrebbe sembrare. Ma mentre per l’Arabia Saudita lo Yemen è una priorità assoluta, per l’Iran la fine del sostegno agli houthi non sarebbe un colpo troppo duro da assorbire. Resta da vedere come reagirà Israele, che aveva scommesso sulla normalizzazione con l’Arabia Saudita proprio in funzione anti iraniana».
GB IN DEFICIT PER IL CARO BOLLETTE
In Gran Bretagna gli aiuti per il caro bollette bollette portano il debito a livelli record. Raggiunto il 99,2% del Pil il livello più elevato dagli anni Sessanta. Nicol Degli Innocenti per il Sole 24 Ore.
«Il caro energia costa caro al Regno Unito: l’indebitamento pubblico in febbraio è salito a livelli mai toccati prima a causa dei sostegni governativi alle bollette delle famiglie e delle imprese britanniche. Secondo i dati ufficiali resi noti ieri dall’Ufficio nazionale di Statistica (Ons), il Governo il mese scorso ha dovuto indebitarsi per altri 16,7 miliardi di sterline, 9,7 miliardi in più del febbraio 2022 e la cifra più alta mai registrata da quando l’Ons ha iniziato a pubblicare i dati trent’anni fa. Il contributo per le bollette da solo è costato 9,3 miliardi. Il debito del settore pubblico ha ora raggiunto i 2.507 miliardi di sterline, pari al 99,2% del Pil, il massimo dai primi anni Sessanta. «L’indebitamento resta elevato perché restiamo decisi ad aiutare le famiglie e le imprese a sostenere gli aumenti dei prezzi e stiamo spendendo circa 1.500 sterline per famiglia per pagare poco meno di metà del costo delle bollette quest’inverno -, ha detto Jeremy Hunt, il cancelliere dello Scacchiere -. Solo un calo dell’inflazione potrà abbassare questi prezzi ed è per questo che ridurla è una delle nostre priorità quest’anno, assieme alla crescita dell’economia e alla riduzione del debito». Hunt nel budget presentato la scorsa settimana ha annunciato che i sostegni governativi alle bollette continueranno ai livelli attuali per altri tre mesi e il tetto resterà di 2.500 sterline invece di aumentare a tremila come previsto dal primo aprile. Da giugno in poi il sostegno cesserà ma il Governo ritiene che non sarà più necessario dato il calo dei prezzi all’ingrosso dell’energia. Il cancelliere ha anche previsto che l’inflazione calerà dalla doppia cifra attuale al 2,9% entro la fine dell’anno e che la recessione prevista dalla Banca d’Inghilterra sarà evitata. I dati dell’Ons mostrano che, quasi alla fine dell’esercizio finanziario in corso che termina a fine marzo, l’indebitamento è salito a 132,2 miliardi di sterline, 15,5 miliardi in più dello scorso anno. Si tratta di una delle cifre più elevate mai registrate, superiore di 50 miliardi rispetto alle previsioni del marzo 2022, prima che la portata degli aumenti dei costi dell’energia dopo l’invasione dell’Ucraina fosse del tutto evidente. La buona notizia è però che l’indebitamento per l’esercizio finanziario in corso resta al di sotto delle previsioni ufficiali di un deficit di 152,4 miliardi, rivisto al ribasso la settimana scorsa rispetto alla stima dello scorso novembre di 177 miliardi di sterline. Nonostante questo, la revisione al ribasso lascia un margine di manovra insperato a Hunt in vista della finanziaria di autunno. Il cancelliere spera di poter offrire ai cittadini britannici un taglio delle tasse prima delle prossime elezioni previste nel 2024, anche per risollevare le sorti del partito conservatore che ora è molto indietro nei sondaggi. Hunt ha però dichiarato che da «conservatore responsabile» agirà in tal senso solo quando i conti pubblici miglioreranno. Ci sono segnali positivi in febbraio come l’aumento delle entrate fiscali, il calo dei costi del servizio del debito e il miliardo di sterline incassate dalla nuova tassa sui profitti straordinari delle società energetiche. La crisi bancaria in corso potrebbe però pesare su un’economia già debole come quella britannica e portare a un deterioramento delle prospettive fiscali. «Il cancelliere potrebbe avere più soldi del previsto in autunno -, ha commentato Ruth Gregory, UK economist di Capital Economics -. Il grande rischio però è che le turbolenze nel settore bancario aggravino la crisi economica in corso e che quindi il recente miglioramento delle finanze pubbliche sia spazzato via».
AFGHANISTAN, RIAPERTE LE SCUOLE MA NON PER LE DONNE
Riaprono le scuole in Afghanistan dopo la pausa invernale, ma le adolescenti sono tenute fuori dalle aule. Giuliano Battiston per il Manifesto.
«In Afghanistan ieri sono state riaperte le scuole dopo la pausa invernale. Per gli studenti di ogni ordine e grado porte aperte. Per le studenti, solo fino alla scuola primaria. Per le ragazze più grandi vige ancora il bando informale del marzo 2022. Quando, con un testacoda indicativo delle divisioni all’interno dei Talebani, il ministero prima ha annunciato la riapertura delle scuole, per poi lasciare a casa le studenti adolescenti. Da allora, sempre a casa, tranne rari casi. L’Afghanistan rimane l’unico Paese al mondo in cui il diritto all’istruzione è negato alle adolescenti. «Con l’inizio del nuovo anno scolastico in Afghanistan, ci rallegriamo per il ritorno di milioni di bambini e bambine nelle aule della scuola primaria. Ma siamo profondamente delusi di non vedere anche le ragazze adolescenti tornare in aula», ha dichiarato Fran Equiza, rappresentante Unicef in Afghanistan, l’agenzia dell’Onu che, come molte altre organizzazioni, fatica a convincere i Talebani a cambiare rotta. La decisione, parte di un più ampio pacchetto normativo che consolida l’apartheid di genere, non è stata presa a Kabul, sede dei ministeri, ma a Kandahar, sede dell’Amir al-muminin, la guida dei fedeli Haibatullah Akhundzada. Che con il suo entourage detta la rotta, diversa da quella di altri Talebani più pragmatici. Consapevoli che, intorno ai diritti delle donne, si gioca non solo una partita interna, con una società insofferente alle discriminazioni, ma anche internazionale, con quella comunità diplomatica da cui dipendono aiuti umanitari, aiuto allo sviluppo, la tenuta del sistema-Paese. A Kandahar sono convinti, sbagliando, che «l’autarchia è la via maestra, il popolo è con noi». A Kabul l’ala più pragmatica cerca di rassicurare gli stranieri. Ormai senza pazienza. Come le studentesse afghane. Le uniche novità sono negative: le scuole sono chiuse anche nelle poche aree in cui, grazie alla capacità di negoziazione delle comunità locali, erano rimaste aperte prima della pausa invernale, come nelle province nord di Kunduz e Balkh. «Quest’anno le scuole sono aperte alle ragazze fino alla sesta classe, stiamo aspettando altre notifiche sulle classi superiori», ha dichiarato all’agenzia Reuters Mohammed Ismail Abu Ahmad, a capo del dipartimento dell’educazione di Kunduz. Che le scuole sarebbero rimaste chiuse era chiaro già nei giorni scorsi, a dispetto delle pressioni crescenti per rivedere le norme discriminatorie, inclusa quella del dicembre 2022 con cui si nega alle studenti anche l’accesso all’università. Le pressioni provengono anche dai governi islamici, oltre che dall’Organizzazione della cooperazione islamica, il cui segretario Hissein Brahim Taha di recente ha ribadito che la questione non è chiusa. Pochi giorni fa, a margine di un incontro con una delegazione di religiosi provenienti dagli Emirati arabi, il ministro di fatto degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi ha dichiarato: «La scuola per le ragazze non è haram, non è proibita dall’Islam, bloccarne l’accesso non è una questione religiosa, ma nazionale. Il governo ci lavorerà, ma ci vuole tempo». Il tempo trascorso è già troppo, secondo i membri dello Special Procedures, il più significativo gruppo di esperti del Consiglio per i Diritti umani Onu: «Le autorità di fatto Talebane non hanno alcuna giustificazione per negare il diritto all’educazione, né in termini religiosi, né tradizionali». Da qui l’appello a «riaprire immediatamente tutte le scuole superiori e gli istituti educativi per le ragazze». Per Catherine Russell, direttrice esecutiva dell’Unicef, «questa decisione ingiustificata e miope ha stroncato le speranze e i sogni di oltre un milione di ragazze, un’altra triste pietra miliare nella costante erosione dei diritti delle ragazze e delle donne a livello nazionale». Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia, chiede che «il divieto di accesso all’istruzione per le ragazze venga revocato immediatamente, per il loro futuro e di tutto il Paese».
UN CRISTIANO SU SETTE SUBISCE PERSECUZIONI
Il nunzio apostolico monsignor Fortunatus Nwachukwu, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, ha denunciato che “un cristiano su sette subisce persecuzioni” nel mondo. La notizia è da Avvenire.
«Un cristiano su sette subisce persecuzioni. Lo ha affermato, nel corso della 52esima sessione del Consiglio dei diritti umani. Il vescovo Nwachukwu – recentemente nominato dal Papa segretario del dicastero per l’Evangelizzazione – ha voluto sottoporre all’attenzione internazionale «la situazione di molti individui e comunità che subiscono persecuzioni a causa del loro credo religioso». Il nunzio ha sottolineato che un terzo della popolazione mondiale vive in luoghi dove la libertà religiosa è limitata e chi professa pubblicamente la propria fede rischia discriminazioni e violenze. «Negli ultimi anni abbiamo assistito all’inasprimento delle misure repressive e degli abusi, anche da parte delle autorità nazionali, nei confronti delle minoranze religiose in molti Paesi del mondo – ha aggiunto il rappresentante vaticano –- Ai credenti viene spesso negato il diritto di esprimere e praticare la propria fede, anche quando ciò non mette a repentaglio la sicurezza pubblica o viola i diritti di altri gruppi o individui». Inoltre, «la profanazione e la distruzione di luoghi di culto e siti religiosi, così come gli attacchi violenti contro i leader religiosi, si sono recentemente intensificati e stanno diventando spaventosamente più comuni».
MARTINEZ: “SONO STATI ANNI MERAVIGLIOSI”
Salvatore Martinez sta per lasciare la guida nazionale del Rinnovamento nello Spirito. Lo ha presieduto dal 1997. Nel prossimo week end, l’Assemblea designerà il nuovo direttivo. L’intervista è di Riccardo Maccioni per Avvenire.
«Passato e futuro che si intrecciano tra loro. Succede sempre alla vigilia di un cambiamento importante. A maggior ragione se il capitolo che finisce è stato lungo e se di quel percorso si è stati responsabili. Salvatore Martinez sta per lasciare la presidenza nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo. Nel fine settimana, infatti, a Sacrofano, vicino Roma, l’Assemblea elettiva del Movimento designerà il nuovo direttivo ovvero rinnoverà gli “Organismi pastorali di servizio”. Martinez passerà il testimone della presidenza che a sua volta ricevette nell’ormai lontano 1997. «Lo Statuto del RnS era appena stato approvato dalla Cei – ricorda –. Il Movimento veniva dalla guida ventennale di un bresciano settantacinquenne, monsignor Dino Foglio. Gli succedeva un giovane siciliano di 31 anni, al quale si chiedeva l’estroversione ecclesiale e sociale della corrente di grazia del Rinnovamento, oggettivando il cammino e riorganizzando la vita interna. Il “vento” soffiava forte: era iniziato il triennio di preparazione al Grande Giubileo del 2000.
Quali gli esordi?
Con la grande “Convocazione di Rimini” del 1998, dedicata allo Spirito Santo. Giovanni Paolo II la definì «una pietra miliare» nel cammino che avrebbe portato alla storica “Pentecoste con i Movimenti” in Piazza San Pietro. Alla Convocazione non proponemmo un gesto autoreferenziale, bensì un’apologia dei carismi suscitati dallo Spirito: invitai Lubich, Riccardi, Don Benzi, Olivero, Feliciani. Nasceva una bellissima amicizia tra Movimenti e Nuove Comunità, una vera sorpresa di fine millennio.
In questi anni quali sono stati i principali cambiamenti del RnS?
Sono stati anni meravigliosi, in Italia e nel mondo, per raccontare le meraviglie della Pentecoste. Certamente la “dote” è ricca di avvenimenti, di iniziative nuove, di intraprese innovative che non riuscirei qui richiamare. Tematicamente, segnalerei il radicamento ecclesiale nella vita delle nostre Chiese locali; la definizione di un “cammino di fede” con la creazione del Progetto unitario di formazione per livelli di crescita e d’impegno dei 1.600 Cenacoli, Gruppi e Comunità; le Scuole di formazione nazionali per dare corso alla proposta di una “spiritualità carismatica”; la creazione dei Ministeri e degli Ambiti di evangelizzazione, 10 reti che abbracciano tutte le vocazioni della vita cristiana; l’avvio di missioni all’estero, con particolare riguardo alle famiglie e ai poveri; l’impegno per una nuova evangelizzazione attraverso la diffusione dei Seminari di vita nuova nello Spirito anche in chiave ecumenica; il dialogo con il mondo mediante lo sviluppo di iniziative culturali e sociali per una “Cultura della Pentecoste”; la “conversione digitale”, con il riposizionamento di tutta la comunicazione e le iniziative del Movimento mediante un nuovo sito web e i canali social.
Lei è stato consultore dei Dicasteri dei laici, della famiglia, della promozione della nuova evangelizzazione, presidente di una Fondazione vaticana per la famiglia in Terra Santa. Sono dieci anni che Bergoglio è Papa. Quali sono per lei gli elementi più significativi del pontificato?
Ho avuto il privilegio di collaborare con tre Papi. Sin dagli esordi di Francesco ho segnalato che sarebbe stato il pontificato dell’autenticità cristiana, di una Chiesa che, in dialogo con il mondo, vuole presentarsi credibile e decisiva nella grande crisi spirituale che attraversa il cuore dell’uomo e delle istituzioni. Sono passati 10 anni e il Santo Padre non ha perduto un giorno nel mettere in atto il suo generale programma di riforme strutturali e di rinnovamento ecclesiale. La sua passione, il suo coraggio, la sua visione profetica sono di grande stimolo per tutti. Il suo impegno per la risoluzione delle grandi sfide che animano la storia, in primis il tema della pace e delle diseguaglianze sociali che attentano alla dignità umana, va sostenuto e rilanciato come spazio propizio per una nuova testimonianza del Vangelo, che rigeneri la Dottrina sociale e l’umanesimo cristiano.
In cosa è utile il decreto generale che disciplina la durata dei mandati alla guida dei movimenti?
Nel permettere allo Spirito Santo di suscitare nuova responsabilità, di creare nuove opportunità, di fare avanzare una nuova generazione. Avevo comunicato il mio desiderio di non proseguire alla guida del Movimento, in ossequio al nostro Statuto che già prevede scadenze e limiti di mandati, alla fine del 2018, prima della pubblicazione del Decreto. Mi fu richiesto di continuare ancora in vista del giorno che ora si compie e del quale mi rallegro: per primi vogliamo testimoniare che ci si deve fidare dello Spirito Santo e del discernimento comunitario, anche quando i “ricambi” non sono semplici e sono esigenti nei numeri.
Il RnS ha come carattere dominante la preghiera, perché è importante pregare?
Perché tutto ha inizio nella preghiera, con l’invocazione dello Spirito; e perché la preghiera tutto sostiene: è la fede interiorizzata e potenziata dai doni dello Spirito, che si ricevono pregando. Siamo in “recessione spirituale” perché abbiamo trascurato di alimentare la vita nuova nello Spirito. In Italia e nel mondo vedo “i segni” che accompagnano una fede che “prega la Parola” e che “adora il Verbo incarnato” nei nostri “Roveti ardenti”. Quante conversioni, quanti miracoli ottiene la preghiera comunitaria. Io ritengo che l’avvenire della Chiesa, a partire dai Sinodi in corso, passi in modo decisivo dalla nostra capacità di tornare ad ascoltare la voce del Signore, pregando, a fare silenzio per poi esprimere la gioia di chi sta alla presenza di Dio.
Per lei si apre una stagione nuova, cosa farà? Come proseguirà il suo servizio alla Chiesa?
Proseguirò nel mio impegno di sempre, di formazione e di animazione spirituale, culturale e sociale. C’è tanto, tanto da fare e in più direzioni. Le persone chiedono aiuto, le istituzioni umane sono infragilite dallo spirito del mondo. Non smetterò di lavorare per la comunione e per la realizzazione di progetti che esplicitino “l’unità nella diversità” e mostrino il genio creativo e risolutivo della nostra fede».
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