La Versione di Banfi

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"Non solo vaccini"

alessandrobanfi.substack.com

"Non solo vaccini"

L'Europa critica l'Italia per la chiusura delle frontiere ma ipotizza "nuove misure non solo farmaceutiche" per frenare Omicron. Draghi patriota per Libero. L'addio di Mattarella al Papa

Alessandro Banfi
Dec 16, 2021
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"Non solo vaccini"

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Di fronte al Parlamento Mario Draghi difende la scelta drastica (e non comunicata prima a Bruxelles) di chiudere le frontiere a chi arriva in Italia dagli altri Paesi della Ue. L’Europa ci contesta la mossa di obbligare al tampone anche coloro che hanno il Green pass. Ma allo stesso tempo i responsabili della Ecdc ammettono che soprattutto per la variante Omicron le due prime due dosi del vaccino non bastano e che servono “altre misure” oltre ai vaccini. Vedremo oggi se e come il Consiglio europeo si occuperà di questa nuova crisi della pandemia. I giornali inglesi sono molto pessimisti e in quasi tutti i Paesi europei il contagio galoppa. Per noi è confortante il paragone coi dati dello scorso anno: ieri ero stato troppo prudente, secondo le ultime statistiche, a parità di contagi un anno fa, senza vaccini, si moriva sette volte tanto.

Ovviamente gli avversari del Green pass, in primis fra i giornali Il Fatto e La Verità, sottolineano adesso che il certificato verde è inutile e che loro lo avevano sempre detto. In effetti, finora in Italia Omicron ha una diffusione molto bassa e la misura del Super o semplice pass ha avuto fin qui effetti positivi innegabili. Primo fra tutti la ripresa tumultuosa delle vaccinazioni, con prime e terze dosi. Certo, ora la domanda si pone su che cosa accadrà nel futuro. Il Guardian stamattina parla di nuove norme “per ridurre la socializzazione”. L’Ecdc usa questa espressione: ci vuole “una rapida introduzione di misure non farmaceutiche per ridurre la trasmissione della variante Delta e rallentare Omicron”. Arriveranno anche da noi? Libero vede nell’ultimo decisionismo di Draghi anti Ue il “patriottismo” chiesto da Meloni in chiave quirinalizia. A proposito, Letta prende sul serio l’ipotesi Berlusconi e la critica apertamente, mentre il Cav rinuncia a presenziare un’altra occasione pubblica. Mattarella sarà oggi in Vaticano per il commiato da papa Francesco.

Sempre oggi sciopero generale di 8 ore proclamato da Cgil e Uil, mentre sulla legge di Bilancio ci sono ancora molte incertezze e lunedì prossimo Draghi incontrerà i sindacati. Dall’estero: l’incubo Ucraina grava ancora sulla situazione globale. Ad Haiti c’è stata un’altra strage di disperati. Buone notizie dal sole: per la prima volta una sonda entra nella sua “corona” atmosferica e ci spedisce dati scientifici inediti.

È diventato disponibile un NUOVO episodio da non perdere del mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. È intitolato: IL RITORNO DALL'INFERNO. Protagonista è Chiara Amirante, fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti. Il racconto della sua vita comincia in quell’inferno particolare che erano una volta i sotterranei della stazione Termini a Roma. Luoghi dove allora nessuno, né ferrovieri, né volontari della Caritas, né poliziotti, osava mettere piede. Un porto franco ma anche un rifugio per gli invisibili, gli ultimi, spesso i moribondi. Una terra di nessuno lasciata al dolore e alla disperazione. Quella discesa, 30 anni fa, cambiò la vita di Chiara Amirante. Da allora aiuta i giovani e i poveri di strada ad uscire dalle dipendenze e dal degrado. Oggi ha 56 anni ed è una personalità conosciuta in tutto il mondo. Nel 1993 ha fondato la comunità Nuovi Orizzonti, impegnata nel recupero degli emarginati, dei giovani con problemi di tossicodipendenza, alcolismo oppure costretti alla prostituzione, attiva nelle carceri e con i bambini di strada. La sua è una storia di ascolto e di Vangelo, perfetta per introdursi al Natale. Cercate questa cover…

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Ancora pandemia, ancora allerta a livello europeo. Cominciamo con la prima pagina dell’inglese Guardian perché stamattina è quanto mai eloquente, lancia infatti un “Warning”: Allarme per ridurre la socializzazione mentre i casi di Covid salgono a livelli record. Non solo vaccini, non solo Green pass dunque ma riduzione della socializzazione. Il Corriere della Sera mette in primo piano il discorso del Presidente del Consiglio: Draghi difende la stretta. La Repubblica nota: Il Green pass divide la Ue. La Stampa mette insieme governo ed Europa: Draghi: Omicron va fermata, anche la Ue valuta la stretta. Il Quotidiano Nazionale già tematizza i riflessi sul turismo: Ma quanto ci costa un Natale sicuro. Per Il Mattino: Omicron, Draghi sfida la Ue. Avvenire spiega: Vaccini ma non solo. La Verità polemizza come sempre con il certificato verde: Il Super pass non vale nulla parola di Draghi e Speranza. Anche Il Fatto è critico: Draghi: “Noi migliori”. Ma i dati peggiorano. A proposito di cifre, il Domani mette in prima pagina la cartina dell’Europa, dove l’Italia è messa meglio: Draghi detta la linea basandosi sui dati, non sulla burocrazia Ue. Libero fa una lettura, legata alla politica e alla corsa al Quirinale: Draghi si candida a patriota. Il Manifesto dedica l’apertura allo sciopero di Cgil e Uil: Risorse umane. Il Messaggero è ancora sul caro bollette: Gas italiano contro i rincari. Il Giornale è felice del dietro front della Ue sulle abitazioni ecologiche: La casa è salva. Mentre Il Sole 24 Ore mette in luce gli aiuti del governo: Redditi bassi, aumenti dell’11,9%.

DRAGHI ALLA UE: C’È POCO DA RIFLETTERE

Il Presidente del Consiglio ha spiegato in Parlamento la chiusura dei confini, decisa in emergenza, e che la Ue ci sta contestando, soprattutto perché si chiederà il tampone anche a chi ha il Green pass. L’occasione è stato il discorso per presentare la linea del governo al Consiglio europeo di oggi e domani. La cronaca di Avvenire.

«Mario Draghi l'europeista non accetta la lettura in chiave di scontro con l'Europa della mossa varata martedì sulle restrizioni ai viaggi nell'Ue, in abbinata con la proroga dello stato di emergenza. All'indomani del nuovo decreto legge e alla vigilia del Consiglio Europeo che, ancora una volta, oggi a Bruxelles non potrà eludere il tema Covid, il presidente del Consiglio effettua le tappe consuete: comunicazioni prima alla Camera e poi al Senato e, a metà giornata, incontro (scortato da mezzo governo) al Quirinale con il capo dello Stato Mattarella. Il senso è che il governo tira dritto sulle nuove misure valide fino al 31 gennaio per entrare in Italia dall'estero, anche da Paesi Ue. «Non c'è molto da riflettere», taglia corto Draghi. E più tardi aggiunge ancora: «Si chiede un tampone, non è che....», dice spezzando la frase, quasi a sottolineare ancor più la modestia della richiesta. Respinte al mittente, dunque, le forti perplessità manifestate dai vertici dell'Unione. C'è un dato, sottolinea il premier, a motivare la decisione adottata dal governo: l'incidenza della variante Omicron in Italia è per ora solo dello 0,19%, mentre dilaga all'estero, «molto più contagiosa di quelle finora prevalenti», specie «in Danimarca e in Regno Unito», per questo «si è pensato di attuare la stessa pratica che si usa oggi per i visitatori in arrivo dal Regno Unito», nulla di più. Una stretta, quella sui viaggi, che serve a difendere «con le unghie e i denti» una «normalità » che l'Italia ha conquistato «al prezzo di 134mila morti». E affrontare con «relativa tranquillità» le imminenti feste, richiamate da Draghi anche con un sonoro «Buon Natale» (allusione a un'altra recente iniziativa Ue, subito abortita, sul 'linguaggio inclusivo') con cui ha chiuso il suo intervento, accolto da molti applausi, com' è stato notato anche in chiave quirinalizia. Il premier si presenta al vertice Ue convinto che l'Italia sia «più forte in Europa e nel mondo». Irrobustito dall'asse appena costruito con il francese Macron, chiede di continuare con politiche di bilancio espansive. È convinto che il Patto di stabilità, sotto la presidenza francese dell'Ue e anche nel dialogo con il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz (lunedì dovrebbe essere a Roma), sarà rivisto: è «irrealistico » pensare di tornare al passato, inoltre bisogna «cambiare le regole sugli aiuti di Stato» e introdurre il bilancio comune. Assicura che la «fiducia» mostrata all'Italia con i fondi del Pnrr sarà ripagata: la prossima settimana una cabina di regia approverà la relazione annuale che dovrebbe certificare il raggiungimento di tutti i 51 obiettivi entro fine anno. Sul Covid, però, Draghi rimane su una linea ferma, anche rispetto alla sua maggioranza (e pure se la Lega sceglie comunque di non polemizzare). I fronti rischiano peraltro d'infittirsi. Oggi fra i capi di Stato e di governo dell'Ue si parlerà di contrasto al Covid e pure di obbligo vaccinale, che a Roma solo alcuni partiti (dal Pd a Fi) sosterrebbero. Ma la convinzione nel governo, sul Green pass come sulle regole per gli spostamenti, è di aver indicato la strada giusta. «Nessuno scontro», assicura il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che con Roberto Speranza ha firmato l'ordinanza: «Il nostro faro è la salute e non possiamo rischiare di chiudere dopo le feste». Imporre il tampone, spiega ancora Draghi, serve soltanto a proteggere gli italiani dalla variante Omicron. Ma qui da noi si continua a puntare molto sulla campagna dei vaccini, che sono «essenziali» per «tenere aperta l'economia, le scuole, i luoghi della socialità». Una convinzione che l'ex capo della Bce rafforza con un appello: «Chi non si è vaccinato lo faccia al più presto e fate subito la terza dose», serve ancora «massima cautela», perciò si è prorogato lo stato d'emergenza. Finora, d'altronde, la ricetta ha funzionato: «I contagi sono in aumento in tutta Europa, con 57 casi al giorno ogni 100mila abitanti, in Italia invece l'incidenza è la metà, anche se in crescita». E gli applausi sono più forti quando Draghi affronta il caro- energia: sulle bollette l'esecutivo, ha ricordato, è intervenuto «in misura che non ha precedenti per proteggere gli strati più deboli della popolazione, circa 8 miliardi in 6 mesi». E ha tirato dentro Eni ed Enel e le altre società, perché «è difficile pensare a una riflessione strutturale» senza includere una «compartecipazione dei costi».

Maurizio Crippa nella sua rubrica sul Foglio ironizza sugli auguri natalizi del premier:

«“Finito questo, volevo soltanto dirvi Buon Natale e anche buone feste a tutti”. Lo stato di emergenza senza nemmeno votare, e anche lo stato di necessità. Tutto concederemmo, e volentieri, a un presidente del Consiglio che ieri, dopo aver assorbito senza una smorfia lo sconfortante stato dell'arte dei nostri politici, gli sterminati interventi di deputati che anziché occuparsi di Omicron, anziché inchinarsi alle imprese del generale Figliuolo, si perdevano in scemenze e chiacchiere tipo "non poter dire buon Natale alle persone o non poter affermare queste nostre radici cristiane", ha risposto con un garbo sornione. Pensando di essere più scaltri di Bertoldo, i nostri politichetti - tendenza Natale dei conservatori o giù di lì - hanno provato a tendergli un tranello. A lui. A Mario Draghi. Chissà se dice buon Natale, se si dimostra un vero patriota, o se si inchina al correttismo laicista. Ma lui, che proprio fesso non è, ha salutato nel più europeo e bipartisan dei modi: buon Natale e anche buone feste. Cincin».

Nel retroscena di Tommaso Ciriaco per Repubblica è spiegata la strategia di Draghi: il premier calcola che l’Italia ha 20 giorni di vantaggio sul resto dell'Unione, in termini di diffusione del virus, e non vuole perderlo.

«Quindici, forse venti giorni di vantaggio nella diffusione della variante Omicron rispetto al resto d'Europa: ecco i calcoli all'origine della strategia di Mario Draghi. Quelli che hanno spinto il governo italiano a imporre tamponi ai vaccinati alle frontiere - e quarantena per i No Vax - con l'obiettivo di ritardare l'espansione della variante. Giorni preziosi da non sprecare, ma piuttosto da sfruttare per immunizzare con la terza dose quanti più italiani possibile: entro la fine dell'anno saranno 20 milioni. Un argine provvisorio, ma prezioso per rallentare l'assedio del virus che preme oltreconfine. Il punto di partenza di ogni ragionamento del premier è dettato dal pragmatismo. Le misure servono e sono tanto più necessarie, quanto più un Paese registra una situazione epidemiologica migliore degli altri. È il caso dell'Italia, in questo momento. Ed è quello che Draghi ribadirà, se necessario, durante il Consiglio europeo che si apre oggi a Bruxelles. Se la Commissione dovesse lamentarsi - con gli stessi argomenti utilizzati ieri - l'ex banchiere centrale replicherà mettendo in fila quattro ragioni. Primo: la scelta dell'Italia è legale e arriva dopo un'analoga decisione di Portogallo e Irlanda. Secondo: l'Ecdc - il Centro europeo che vigila sulle malattie - ha consigliato proprio ieri di affiancare al vaccino altre restrizioni. Terzo: la quarantena potrebbe spingere viaggiatori e lavoratori diretti in Italia e provenienti da Paesi poco "immunizzati" come Austria e Bulgaria, Ungheria e Polonia, a dotarsi finalmente del vaccino. Quarto: Roma non è sola e altri seguiranno l'esempio. Ieri, per dire, è stata la volta della Grecia, che ha fissato la regola dei tamponi alle frontiere. Poi, certo, esiste il tema della notifica a Bruxelles, rispetto alla quale il capo dell'esecutivo forse avrebbe preferito una gestione migliore da parte del ministero della Salute. Ma sul merito dell'ordinanza, la condivisione è totale. Non potrebbe essere altrimenti, visti i dati registrati ancora ieri: 23.195 positivi e 129 morti, il picco della quarta ondata. «Dobbiamo difendere la normalità che abbiamo conquistato con le unghie e con i denti», ha spiegato in Parlamento Draghi. «Quella varata è una misura necessaria. Abbiamo attuato la stessa pratica che si usa oggi per i visitatori che provengono dal Regno Unito. Non credo ci sia molto da riflettere su questo...». Certo, le armi per combattere l'assedio non sono comunque risolutive. La Omicron diventerà prevalente in tempi rapidi. L'Ecdc ipotizza che possa accadere entro metà gennaio. In Italia, questa è la stima del governo, dovrebbe succedere a febbraio. Per allora, si spera, i booster avranno coperto più di metà della popolazione. Basta guardarsi attorno per capire che la situazione non è per nulla sotto controllo. Il caso del Regno Unito è il più allarmante, visto che ieri sono stati registrati 78.610 casi: un record assoluto. Anche le infezioni da Omicron sono quasi raddoppiate, salendo da 4.671 a 10.017. E in Danimarca il quadro non sembra molto migliore, con il nuovo ceppo stimato all'8% del totale. Tutti argomenti che spingono il governo a mantenere la linea dura. Anche in Italia, d'altra parte, la Omicron inizia ad affacciarsi. Il flash survey diffuso ieri stima la variante ancora sotto l'1%: è lo 0,19% del totale. Significa che su 2mila test a campione, quattro erano del nuovo ceppo. Proiettati sui 23 mila casi di ieri, si arriva a circa 45 casi. Pochi, rispetto al resto d'Europa. Molti, se si considera la progressione delle ultime ore. Per questo, il ministero della Salute e l'Istituto superiore di sanità hanno già deciso di organizzare una nuova "sorveglianza" nei prossimi giorni. E di tenerne comunque una ogni settimana. Ai vertici dell'esecutivo c'è piena consapevolezza di essere entrati in una nuova fase. Le due dosi di vaccino non bastano più, bisogna puntare sulla terza dose. Di positivo c'è almeno che il booster dovrebbe coprire dal nuovo ceppo: «La terza dose di Pfizer e Moderna - ha detto ieri l'epidemiologo della Casa Bianca Anthony Fauci - funziona contro Omicron». Sullo sfondo, ma soltanto per poche settimane, resta il prossimo passo: la necessità dell'obbligo vaccinale. Se il virus corre così veloce - e se è in gioco la salute pubblica e la ripresa economica - allora non si può tentennare sui richiami. A gennaio si aprirà anche in Italia il dibattito. E si cercherà di rendere obbligatorio il vaccino nei luoghi di lavoro».

MA PER L’EUROPA IL VACCINO NON BASTA

L’Europa è stizzita per la mancata comunicazione italiana ma anche per le decisioni prese, nel merito. Anche se il Centro europeo di prevenzione e controllo malattie concorda sul fatto che il solo vaccino non basta: occorre introdurre “misure non farmaceutiche per ridurre la trasmissione di Delta e rallentare la nuova variante”. Vito Salinaro per Avvenire.

«Fa tremare l'Europa - la stessa che ci rimprovera di aver agito in senso troppo restrittivo con le quarantene e i tamponi per chi entra in Italia - la variante Omicron. Anche se intervenendo alla plenaria del Parlamento europeo la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha detto che « l'Europa è preparata per contrastarla e la doppia dose più booster è il miglior modo per difendersi», la direttrice del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), Andrea Ammon, ha usato parole pesanti: «La sola vaccinazione non ci permetterà di contenerne l'impatto, perché non ci sarà tempo per colmare i gap vaccinali ancora esistenti». Insomma, servirà correre ai ripari con altre misure: i vaccini, da soli, non basteranno. Non c'è dubbio che la temuta diffusione di quest' ultima mutazione del Sars-CoV-2 porti con sé anche una schizofrenica e precipitosa serie di dichiarazioni che non aiuta a fare chiarezza sulla situazione. Anche perché gli scienziati di tutto il mondo, tracciando un'analisi preliminare della variante individuata in Africa, hanno sì parlato di un'accentuata capacità di contagio e di una ridotta efficacia vaccinale (che sembra recuperata però dalla terza dose), ma hanno sempre evidenziato le conseguenze meno severe derivanti dall'infezione. Le prime osservazioni potrebbero essere suffragate da evidenze più robuste che si attendono tra una decina di giorni. Detto questo, sono tutti concordi nel prevedere una facile propagazione del virus che, osserva l'Ecdc, «dominerà in Europa entro i primi due mesi del 2022»; già «a metà gennaio» per Von der Leyen, che ricorda come occorrano comunque soltanto 100 giorni per «adattare i vaccini». In ogni caso il Centro europeo raccomanda «una rapida introduzione di misure non farmaceutiche per ridurre la trasmissione della variante Delta e rallentare Omicron». In realtà, ciò che preoccupa maggiormente le istituzioni, rileva il presidente della fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, è che, anche se ci trovassimo di fronte a casi di malattia più lievi (ipotesi ancora da confermare), la contagiosità più alta di Omicron (i cui casi, spiega l'Iss, il 6 dicembre in Italia non superavano lo 0,19%, a fronte del 99% della Delta), «causerebbe comunque più contagi e di conseguenza più ricoveri e problemi per le strutture sanitarie». Accanto alle preoccupazioni di politici e analisti, ci sono però le notizie più tranquillizzanti sul fronte scientifico. Mentre Pfizer e Moderna rassicurano sull'efficacia della dose booster che «aumenta significativamente» le difese, Sanofi e Gsk annunciano che una singola dose di richiamo del loro candidato vaccino ricombinante adiuvante Covid-19 «ha fornito risposte immunitarie costantemente forti». I risultati preliminari dello studio clinico su sicurezza e immunogenicità del richiamo, «hanno mostrato che gli anticorpi neutralizzanti sono aumentati da 9 a 43 volte, indipendentemente dal vaccino primario ricevuto». Al momento, dice l'immunologo americano Anthony Fauci, «non sembra sia necessario un booster specifico» contro la variante Omicron. E dunque sarebbero efficaci i preparati attuali. Ma non ci sono solo i vaccini, visto che Pfizer ha anche reso noto martedì che gli studi clinici «hanno confermato l'efficacia» della sua pillola antivirale Paxlovid contro il Covid-19, «che ha ridotto i ricoveri e i decessi tra le persone a rischio di quasi il 90%», quando è stata assunta nei primi giorni dopo la comparsa dei sintomi. I risultati si basano su test condotti su oltre 2.200 persone. Inoltre, il trattamento «sembra essere efficace contro la variante Omicron».

IL VIRUS UN ANNO DOPO

Le polemiche sull’inefficacia del Green pass nel caso di Omicron non devono ingannare. Se si fa il paragone con un anno fa, quando i vaccini non c’erano, il numero dei contagi è simile ma quello dei ricoverati è solo un quarto, soprattutto oggi abbiamo un settimo dei morti e niente ospedali al collasso. Michele Bocci per Repubblica.

«Una manciata di casi in più ma un quarto dei ricoveri e meno di un settimo dei decessi. Mettendo accanto le due foto della pandemia, quella scattata adesso e quella dell'anno scorso, le differenze sono evidenti. Ma per capire come è andato questo autunno rispetto alla stessa stagione del 2020, e soprattutto provare a immaginare il futuro, non basta affidarsi alle due istantanee. Bisogna andare oltre. Nella settimana tra il 6 e il 12 dicembre scorsi in Italia sono stati trovati 116mila nuovi casi, in quella tra il 7 e il 13 dicembre 2020 i positivi al virus erano stati 114mila. Il primo numero è di poco più alto ma i ricoveri domenica scorsa erano 7.526 (dei quali 829 in terapia intensiva) contro i 30.893 (3.158 in intensiva) del 13 dicembre dell'anno passato. La differenza è molto più marcata se si osservano i decessi, che nella settimana conclusa da poco sono stati 636 e in quella corrispondente dell'anno scorso 4.442, sette volte di più. In un giorno morivano le persone che oggi perdono la vita dal lunedì alla domenica. Intervenendo alla Camera, ieri il premier Mario Draghi ha insistito sul concetto: «I dati di oggi descrivono un quadro molto diverso rispetto all'anno scorso. Il numero totale di persone attualmente positive al virus in Italia è 297 mila. Dodici mesi fa erano 675 mila, nonostante un livello di restrizioni molto maggiore». Le cose quindi vanno molto meglio dal punto di vista della gravità delle infezioni. E infatti se l'anno scorso c'era il lockdown, adesso solo alcune Regioni sono in giallo. A Natale ci si aspetta che almeno 7 saranno in quel colore, e tra queste anche la Lombardia, che potrebbe lasciare il bianco già da lunedì prossimo perché ha superato il livello di guardia del 15% nei reparti ordinari ed è al 9,5% in terapia intensiva, cioè a pochi letti dal limite del 10%. Il merito dei dati, dunque è del vaccino, che protegge soprattutto dalle forme gravi di Covid. Bisogna però tenere conto di una cosa importante. Se l'anno scorso nella seconda settimana di dicembre la curva dei casi era in discesa, quest' anno stiamo affrontando una salita. La prospettiva preoccupa. «I ricoveri risentono dei nuovi casi trovati circa 15 giorni prima - spiega Carlo La Vecchia, epidemiologo dell'Università di Milano - Due settimane fa avevamo 82 mila casi, l'anno scorso, sempre 14 giorni prima del periodo preso in considerazione, erano 176 mila». Quindi i numeri del 2020 erano figli dei picchi raggiunti precedentemente, mentre quest' anno stiamo ancora salendo. «E la situazione potrebbe peggiorare se non si interviene», spiega La Vecchia. Ecco perché osservare le foto degli ultimi dati può non essere sufficiente. E poi, sullo sfondo, c'è la variante Omicron, che potrebbe scombinare ancora di più le carte e far salire la curva. Riguardo a cosa succederà nel futuro, tra Natale e il prossimo anno, al netto dell'arrivo della variante, il professor La Vecchia indica due possibilità. «Se va bene potremmo fare come il Regno Unito, che da tempo è intorno ai 40 mila casi al giorno ma ha un numero di decessi stabile, tra i 100 e i 120 quotidianamente. Se invece le cose vanno male può succederci qualcosa di simile alla Germania, che sempre stando intorno ai 40-50mila casi ha superato i 300 morti al giorno di media. Io comunque non credo che ci sarà un livellamento della curva a Natale». Per avere i numeri migliori, che poi vuol dire evitare tante morti, è necessario insistere su quello che ha permesso fino ad ora di avere dati molto più positivi rispetto a quelli dell'anno scorso: la vaccinazione. «Siamo in una fase di calo dell'effetto per chi ha avuto le somministrazioni da oltre tre mesi. Bisogna che le persone corrano a fare la terza dose - dice La Vecchia - Le percentuali di copertura con il booster degli anziani sono ancora troppo basse. E vanno molto male quelle dei cinquantenni. È stato un errore aprire a tutti la nuova fase della campagna, bisognava prima concentrarsi sugli adulti e sugli anziani». Ieri in Italia le terze dosi hanno superato i 12,5 milioni. Le hanno fatte circa il 60% degli ottantenni che avevano ricevuto le due somministrazioni ma solo il 20% dei cinquantenni. «L'abbassamento della curva si ottiene solo se si aumenta la copertura con il booster negli over 50», insiste l'epidemiologo: «È l'unico modo che abbiamo per salvare delle vite».

PER IL FATTO “DRAGHI HA DIVISO”. PER LIBERO FA IL “PATRIOTA” 

Marco Travaglio sul Fatto tende ad attribuire la crisi Omicron alle responsabilità del governo.

«Prima o poi, alla spicciolata, arrivano tutti. Dopo 10 mesi di anestesia totale sotto l'incantesimo dei Migliori, giornaloni ed espertoni scoprono ciò che il Fatto e pochi altri ripetono dall'estate: puntare solo sui vaccini è un errore; spaccare il Paese col Green Pass (anche in versione Super deluxe) è un boomerang perché il Covid si combatte tutti insieme, come nel primo anno; concentrarsi solo sulla caccia ai no-vax serve a nascondere il disarmo degli altri strumenti anti-contagio e ad abbassare la guardia dei vaccinati; pavoneggiarsi con la bugia dei primi della classe istiga gl'italiani a rilassarsi per lo scampato pericolo. Chi lo diceva passava per no-vax e vedovo di Conte. Ora persino al sito di Rep scappa il titolo "Il Green Pass non ferma i focolai" (subito corretto). E il Centro Ue prevenzione e controllo malattie (Ecdc) avverte che "la sola vaccinazione non consentirà di prevenire l'impatto" della variante Omicron. I vaccini restano importanti, ma non bastano: il contagio galoppa anche tra i vaccinati e la protezione cala. Urgono "azioni forti per ridurre la trasmissione e alleviare il peso sui sistemi sanitari" col "rapido ripristino e rafforzamento degli interventi non farmaceutici": mascherine, igiene, distanze (vero Bianchi?), telelavoro (vero Brunetta?), capienze ridotte sui mezzi pubblici (vero Giovannini?), ventilazione dei locali. Lo scrivono pure Giordano e Vespignani sul Corriere: "È scoraggiante la sostanziale inerzia del governo", "l'Italia nelle ultime due settimane sembra una bella addormentata Non si fa nulla. E non si comunica alla popolazione nulla" (ieri Draghi ha, se possibile, ampliato quel nulla). Della terza dose si sa da maggio, ma siamo partiti a dicembre e "solo il 30% della fascia 60-69 anni ha ricevuto il richiamo, il 37% di quella 70-79 e il 62% degli over 80". Misure decisive come "sequenziamenti, contact tracing, test nelle scuole le abbiamo trattate come fuori moda per concentrarci sulle intemperanze anti-vax". Intanto Figliuolo si lodava, s'imbrodava, chiudeva un terzo degli hub vaccinali, sproloquiava di "immunità di gregge". E ora fa la ruota su La Stampa che festeggia la "quarta luccicantissima stella sulla sua divisa": quella del "super Comando operativo di vertice interforze" ("Covi", fico eh?) "fortemente voluta da Draghi, ma anche dal Colle, che non ha mai fatto mistero della sua stima". E il migliore dei Migliori, con 129 morti e 23mila infetti in 24 ore, che fa? Con un occhio al Colle, pensa di fermare Omicron alla frontiera con la quarantena per stranieri non vaccinati, come se non avessimo decine di migliaia di pendolari che fanno la spola con Svizzera, Francia e Austria. Se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere.».

Libero invece con Salvatore Dama propone una lettura in chiave quirinalizia. Alludendo a quanto detto dalla Meloni, sostiene: Draghi fa il patriota.

«Mario Draghi prova a fare il patriota. Soprattutto, prova a imporre le scelte che il governo italiano ha preso unilateralmente sulla libertà di circolazione. E che si sono attirate le critiche di Bruxelles. «C'è Omicron che ha capacità di contagio nettamente superiore alle altre varianti, da noi i contagi con Omicron sono meno dello 0,2%, in altri Paesi la variante è molto diffusa, ad esempio in Danimarca, in Regno Unito diffusissima», premette il presidente del Consiglio parlando in aula alla Camera. Per cui, prosegue, «si è pensato di attuare la stessa pratica che si usa oggi per i visitatori che provengono dal Regno Unito, non credo ci sia molto da riflettere su questo». ALLARME Insomma: capitolo chiuso. L'Italia non torna indietro sulle decisioni prese. Perché se è vero che da noi non c'è (ancora) l'allarme presente altrove in Europa, il rischio è che ci si possa arrivare nelle prossime settimane. Una mossa che da alcuni osservatori viene interpretata anche come una captatio benevolentiae nei confronti del centro destra in chiave Quirinale: lo scontro con l'Europa sulla protezione delle frontiere dai No vax stranieri può essere un tema che lo pone in sintonia con la coalizione che sulla carta ha i numeri più alti per imporre una propria candidatura sul Colle. «L'inverno e la diffusione della nuova variante - dalle prime indagini, molto più contagiosa - ci impongono la massima at tenzione nella gestione della pandemia». Il quadro generale è preoccupante, sottolinea Draghi: «I contagi sono in aumento in tutta Europa: nell'ultima settimana, nell'Ue, si sono registrati in media 57 casi al giorno ogni 100.000 abitanti. In Italia, l'incidenza è più bassa, quasi la metà, ma è comunque in crescita. Il governo ha deciso di rinnovare lo Stato di emergenza fino al 31 marzo per avere tutti gli strumenti necessari per fronteg- 4 giare la situazione. Invito i cittadini a manH tenere la massima cautela». Da Bruxelles, per tutto il giorno è filtrata irritazione per le scelte dell'Italia, sia per la mancata «notifica» (che è arrivata comunque ieri pomeriggio) sia per la durata del provvedimento (la scandenza del 31 gennaio è più in là rispetto ai provvedimenti presi da Portogallo e Irlanda). ALTRO DUELLO L'altra sfida che Mario lancia a Bruxelles è quella sul superamente del meccanismo dell'unanimità: «Servono innanzitutto meccanismi decisionali efficaci in materia di politica estera, di sicurezza e difesa, a partire dal superamento del principio dell'unanimità, che troppo spesso rallenta l'azione europea». La lezione del Covid deve fare scuola: «Nella prima fase dell'emergenza», ricorda il premier, «molti Stati membri hanno cercato soluzioni individuali a un problema comune. Penso, per esempio, alla corsa all'approvvigionamento di dispositivi di protezione, agli episodi di protezionismo sanitario. Nei mesi successivi, però, abbiamo dimostrato di saper collaborare, ad esempio attraverso la centralizzazione degli acquisti di vaccini». Poi c'è il tema dell'immigrazione. Che è un altro dossier che continua a dividere Roma da Bruxelles. «Nel Consiglio europeo si parlerà anche di migrazioni» un tema che «l'Italia pone con assoluta determinazione», anche «visti gli elevati arrivi in questi mesi. Continueremo a chiedere una gestione condivisa, solidale, umana e sicura. L'Ue deve dimostrarsi all'altezza dei propri valori, come l'ha esortata a fare Papa Francesco». Secondo Draghi «è essenziale promuovere i corridoi umanitari» e «non è sufficiente sia solo l'Italia ad attuarli: serve un chiaro impegno Ue. Dobbiamo rafforzare i canali legali, sono una risorsa, non una minaccia». E «serve una gestione condivisa, rapida ed efficace dei rimpatri». Gli arrivi sono aumentati, attacca Draghi, e «le già sporadiche redistribuzioni tra Paesi europei dei migranti sbarcati in Italia si sono interrotte. L'Italia continuerà a chiedere una gestione condivisa».

MIGRANTI, NUOVO DPCM SUI FLUSSI

Nell’intervento alle Camere alla vigilia del Consiglio europeo Draghi ha parlato anche di immigrazione. E ha confermato che si sta preparando un nuovo Dpcm sui flussi: 80mila. Il presidente del Consiglio incalza i Ventisette su una gestione «condivisa» dell'immigrazione.   

«La bozza del nuovo Dpcm flussi per il 2021 è ancora da limare e fa la spola fra gli uffici legislativi dell'Interno, del Lavoro e della Presidenza del Consiglio. Fonti di Palazzo Chigi, interpellate da Avvenire, non confermano le indiscrezioni giornalistiche sulla cifra di 81mila ingressi di lavoratori stranieri (a fronte dei 30mila annuali del 2020). Tuttavia lasciano intendere come possa essere questione di giorni, perché il testo sarebbe «prossimo » alla firma da parte del presidente del Consiglio. E proprio ieri, intervenendo in Parlamento in vista del Consiglio Europeo di oggi e Bruxelles, Mario Draghi ha ribadito che «i migranti sono una risorsa» e «bisogna chiedersi come far diventare queste persone risorse nel mondo del lavoro e amici degli italiani, non nemici». Con questo sistema di accoglienza, è la sua convinzione, «le capacità di assorbire le persone legalmente presenti in Italia sono poche. Dobbiamo investire molto di più e riformare il sistema». Draghi invita dunque la politica a «ragionare in termini non ideologici, ma pragmatici » e manda un messaggio, neppure tanto velato, alle destre: «Sento parlare di difesa delle radici, dell'identità, ma lo si fa affermando le caratteristiche delle nostre radici: la solidarietà e la responsabilità». La bozza del Dpcm. Secondo fonti di maggioranza, l'ultima versione del testo in attesa della firma del premier, prevederebbe 81mila permessi (metà per ingressi stagionali e metà per lavoratori subordinato, come autotrasportatori, manovali e addetti alberghieri) rispetto ai 30mila annuali stabiliti dal 2014 al 2020. Ma sul piano politico, stante la maggioranza composita che sostiene il governo, il terreno resta minato. Lo conferma il warning lanciato ieri dalla Lega, che sui flussi chiede subito un «necessario confronto con i ministri Di Maio, Lamorgese, Orlando» e invita la titolare del Viminale a venire «subito in Aula a spiegare la sua strategia, se ce l'ha. Non può restare in silenzio e farsi difendere dai giornali amici». Gli arrivi in Italia. Da luglio gli approdi mensili di non sono mai scesi sotto la quota di 6.900, con un picco di 10mila in agosto. Al 14 dicembre, i migranti arrivati in Italia sono 63.062 (erano state 32mila nel 2020, 11mila nel 2019). Nel frattempo, però, le già esigue redistribuzioni di richiedenti asilo negli altri Stati Ue sono ormai ferme. Perciò, ripete il premier in Parlamento, l'Italia continuerà a chiedere una gestione dell'immigrazione condivisa, solidale, umana e sicura a un'Unione Europea «che deve dimostrarsi all'altezza dei propri valori, come l'ha esortata a fare Papa Francesco». Draghi ribadisce l'importanza dei corridoi umanitari, ma «non è sufficiente che sia solo l'Italia ad attuarli: serve un chiaro impegno europeo». E insiste sul rafforzamento dei «canali legali di migrazione, una risorsa e non una minaccia per la nostra società». Ma al tempo stesso, aggiunge, occorre «una gestione condivisa, rapida ed efficace dei rimpatri», con fondi adeguati dell'Ue e accordi efficaci coi Paesi di origine. I casi Bielorussia e Ucraina. Il presidente del Consiglio si sofferma poi su due dossier scottanti: «Ci aspettiamo che il Consiglio Europeo si esprima contro la strumentalizzazione dei migranti da parte del regime bielorusso», incalza, perché «l'uso intenzionale dei migranti per scopi politici è inaccettabile». Draghi auspica inoltre fermezza sulle tensioni ai confini dell'Ucraina: «Il Consiglio Europeo deve chiedere urgentemente alla Russia di ridurle» e rinnovare «il sostegno» al governo di Kiev. La diplomazia, ammonisce il premier, «resta l'unica via per risolvere il conflitto nel Donbass».

OGGI SCIOPERO DI CGIL E UIL

Oggi sciopero contro il governo e la sua politica economica, voluto da Cgil e Uil. Il commento di Gad Lerner sul Fatto.

«La proclamazione di otto ore di sciopero generale per quest' oggi ha suscitato nei benpensanti uno scalpore inusitato, dal sapore talmente vetusto da richiamare in molti fra noi i versi del compianto Paolo Pietrangeli: "Che roba contessa, all'industria di Aldo/ Han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti/ Volevano avere i salari aumentati/ Gridavano, pensi, di esser sfruttati". Verrebbe da dire che questo impulso di disapprovazione in cui s' è riunita la ex "grande stampa", di fronte a una scelta sindacale accusata di "lesa maestà", ha di per sé il pregio di riportarci con i piedi per terra: torna a manifestarsi la centralità del lavoro, la protesta di piazza non resta appannaggio dei no-vax e dell'estrema destra. Lo sciopero generale di otto ore è un evento raro, indica una situazione grave. Solo quattro volte la Cgil l'ha indetto da sola, altre tre, come oggi, insieme alla Uil. L'ingiustizia sociale che lo motiva si riassume in poche cifre. In Italia cinque milioni di lavoratori percepiscono un salario inferiore ai 10 mila euro lordi l'anno. Tra disoccupati e inattivi si contano quattro milioni di persone. Tre milioni sono i precari, 2,7 milioni i part time involontari. Fate la somma e poi, se volete, pensate a quanti hanno smesso di votare. Non basta. Il Censis ha elaborato dati Ocse da cui si deduce che siamo l'unico Paese industrializzato in cui, negli ultimi 30 anni, le retribuzioni sono calate (del 2,9%). Un arretramento che neanche in Grecia e in Spagna si è verificato. Francia e Germania hanno visto crescere i redditi da lavoro di oltre il 30%. Si obietterà che questa retrocessione del lavoro in Italia ha molti colpevoli, non ultimi i sindacati. Ma è evidente che di fronte al dramma della pandemia Covid, e con la dotazione eccezionale degli oltre 200 miliardi del Pnrr, dal Governo dei Migliori era lecito attendersi un impegno ben diverso a favore di chi sta pagando più duramente gli effetti della crisi. Invece si è imboccata la solita strada dei benefici a pioggia che avvantaggiano in proporzione i redditi medi e alti, escludendo anche il più timido provvedimento di redistribuzione della ricchezza; e rinunciando a inasprire l'azione di contrasto all'evasione fiscale. Non a caso la rottura fra i sindacati e il governo si è consumata sulla riforma delle aliquote fiscali, cioè sul patto di cittadinanza e di giustizia sociale senza cui la convivenza democratica rischia di soccombere, vittima di lacerazioni e disuguaglianze crescenti. Ancora ieri, per la seconda volta in pochi giorni, Dario Di Vico ha attaccato sul Corriere della Sera i promotori dello sciopero, colpevoli di riproporre "l'antico paradigma del conflitto capitale-lavoro". Per la verità, l'accusa è rivolta a una non meglio precisata "gauche italiana" (sic) "pervicacemente affezionata a una centralità del conflitto capitale-lavoro". Non so davvero dove l'abbia trovata, questa sinistra italiana tardo-operaista. Preoccupati dei fragili equilibri di governo, non uno dei ministri, e neppure i segretari del Pd e di LeU, se la sono sentita di prendere posizione a favore della protesta sindacale. Quanto al M5S , continua a ricercare i consensi perduti facendosi paladino di agevolazioni e superbonus generici, buoni per tutti i gusti. Se la sinistra negli ultimi 30 anni si fosse concentrata per davvero sul conflitto capitale-lavoro, chissà, forse non avremmo conosciuto la decurtazione delle buste paga e il dilagare del lavoro povero. A furia di considerare disdicevole, anziché fisiologico, il conflitto sociale, il sindacalismo confederale in molti settori si è visto soppiantare dal sindacalismo autonomo e corporativo. A furia di criticare i vincoli dei contratti nazionali, sta diffondendosi la piaga di accordi aziendali viziati dal caporalato e dalla violazione sistematica dei minimi retributivi. Si sa, parlare di soldi suona volgare. Difatti la questione salariale, benché esplosiva, compare solo di sfuggita nell'agenda politica. Per mostrarsi aggiornati, come Di Vico, bisogna sostenere che il conflitto capitale-lavoro "ha trovato nel sistema delle relazioni industriali una buona regolazione". Lo abbiamo constatato, dalla Fca all'Ilva. Così come abbiamo verificato i benefici del jobs act. Altri sarebbero i conflitti su cui il sindacato doveva intervenire: i giovani e le donne penalizzati, l'inserimento degli immigrati, la riconversione ambientale. Perché prendersela sempre con i padroni e il governo? Siamo nel Terzo millennio! Lo sciopero di oggi ha un'indubbia natura politica. Ma non certo perché osa, per una volta, incrinare l'unanimità di consensi al governo Draghi, bensì perché riporta i sindacati a occuparsi di tasse e salari, chiedendo di avere voce in capitolo sulla destinazione dei fondi Pnrr e ignorando il ricatto di chi lo descrive ostile ai giovani, alle donne, agli immigrati e all'ambiente».

A Nicola Porro sul Giornale lo sciopero di oggi sembra un vecchio arnese, ma apprezza il fatto che si torni in piazza.

«Avete presente quelle case in cui gli anni sembrano non essere mai passati e in cui in un angolo c'è ancora un televisore a colori e con l'appendice dietro, insomma con il mitologico tubo catodico? Ha svolto la sua degna funzione per anni ed evidentemente non si ha voglia di rottamarlo. È là, e qualche volta sputacchia qualche segnale di vita, ma è fuori tempo e soprattutto non è connesso. È la stessa sensazione che si prova a dover commentare lo sciopero generale che Cgil e Uil hanno deciso di proclamare oggi: un oggetto conosciuto, ma scollegato da ogni realtà. E del tutto inutile. È come entrare in una stanza in cui tutto si è cristallizzato nel passato. Le sue motivazioni sono la solita lista della spesa, ma questa non è una novità. Ci si lamenta della precarietà, della transizione ecologica da fare in modo sindacalmente «friendly», delle pensioni, delle disuguaglianze, del Sud arretrato, della scuola di qualità, delle crisi aziendali e così via. Il sapore è quello di una rivendicazione su tutto e dunque su niente. A ciò si aggiunga che la piazza non appare abbia un «nemico» vero, del tipo Silvio Berlusconi per le manifestazioni del Circo Massimo. Il segretario della Cgil, Landini, è passato alla velocità della luce dal no green pass al consenso al lasciapassare anche in versione super, è transitato dall'abbraccio al banchiere Mario Draghi alla sua contestazione in piazza. Lo sciopero sembra più l'estrema rivendicazione di esistere perché si ha una struttura, che il tentativo di incidere davvero sulla politica economica del governo. A ciò si aggiunga la circostanza sfavorevole per Landini & C. di non essere riusciti a racimolare alcuna sponda politica. Tutti i loro tradizionali interlocutori sono al governo, compreso un ministro del Lavoro garbato come Orlando, che incredulo, immaginiamo, si deve essere morso le labbra, per non averlo condannato più di quanto abbia fatto. Questo sciopero è semplicemente inutile. Forse il più inutile degli ultimi decenni. Farà relativamente male ai cittadini, ormai abituati ad una vita a singhiozzo. Ma sarà anche particolarmente antipatico all'opinione pubblica per la sua incomprensibilità. Difficile pensare che questa prova muscolare comporti anche un minimo cambio di rotta. Anche se tutti avranno l'interesse ad affermarlo. Ps: in una democrazia liberale non sono i giornalisti e tanto meno i politici a decidere quali scioperi si possono fare, e il fatto che l'«emergenza» non abbia cancellato, almeno, questo diritto è positivo. Aspettiamo per gli altri».

LEGGE DI BILANCIO, ANCORA TENSIONI

Ci sono ancora tensioni sulla manovra di Bilancio. Sulle bollette dovrebbero essere stanziati 8 miliardi in 6 mesi e c’è un’ipotesi di slittamento per le cartelle 2022. Claudia Voltattorni per il Corriere.

«Al momento l'unico punto fermo è l'arrivo in aula al Senato martedì prossimo per la discussione. Per il resto la manovra economica continua ad essere in alto mare, con il 31 dicembre 2021 alle porte e l'appuntamento per il passaggio alla Camera da fissare. Gli emendamenti del governo al ddl Bilancio, tra cui quello su bollette e fisco e 200 milioni per la scuola, erano attesi ieri. Forse arriveranno oggi. E nel fine settimana la commissione Bilancio andrà avanti con l'esame del ddl per riuscire a portarlo in Aula martedì. Ieri un lungo vertice al ministero dell'Economia tra il ministro Daniele Franco, la viceministra Laura Castelli e i relatori della commissione Bilancio del Senato, Daniele Pesco (M5S), Vasco Errani (LeU) ed Erica Rivolta (Lega), doveva trovare l'accordo finale. Ancora una volta non è stato così. Ma il leader Pd Enrico Letta è ottimista: «Si arriverà ad una sintesi, l'importante è che si arrivi a risposte che gli italiani si aspettano, a partire dalle bollette. Penso che lo spirito sia quello giusto e che nei tempi giusti la legge di Bilancio sarà approvata». Bollette, proroga cartelle e Superbonus 110% restano ancora le questioni più dibattute anche perché le risorse a disposizione dei partiti restano limitate. Contro l'aumento di luce e gas, per il quale il governo ha stanziato 1,8 miliardi, ieri lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi ha spiegato che l'intervento del governo «per proteggere gli strati più deboli della popolazione non ha precedenti: circa 8 miliardi in 6 mesi». Mentre il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, sui rincari ammette: «Non c'è ancora certezza che questo sia un periodo o che continui divenendo un aumento standard strutturale, dipendiamo da troppi fattori è impossibile fare una previsione», ecco quindi che il «governo di trimestre in trimestre mitiga e poi da inizio del prossimo anno dobbiamo decidere cosa fare». Nel frattempo, è stato approvato un emendamento Cinque Stelle al dl Recovery che fa slittare dal 31 dicembre 2022 al 31 dicembre 2023 la fine del mercato tutelato lasciando il posto ad un regime transitorio per un'uscita graduale fino al primo gennaio 2024. La proroga dei pagamenti delle cartelle esattoriali resta un altro dei nodi da sciogliere. Il Pd, spiega il senatore della commissione Bilancio Daniele Manca, «non ha alcuna pregiudiziale su un intervento, ma non sul 2021, piuttosto sulle scadenze del 2022, senza modificare i saldi di finanza pubblica». Forza Italia e Lega spingono invece per una proroga della rottamazione ter e del saldo e stralcio, appena scaduti, e anzi, il leader Matteo Salvini parla già di una «nuova rottamazione quater per gli anni 2018 e 2019». Ma un nuovo rinvio di quelle scadute sembra archiviato, mentre spunta l'ipotesi di uno slittamento per le cartelle in arrivo dal primo gennaio 2022: potrebbero essere allungati i tempi di pagamento senza interessi fino a 180 giorni (dagli ordinari 60), come già avvenuto per le cartelle notificate nel periodo settembre-dicembre 2021. Intanto sul Superbonus 110%, arriva il plauso dell'Europa con la commissaria all'Energia Kadri Simson. E proprio sul Superbonus sembra ormai definito l'accordo sull'abolizione del tetto Isee di 25 mila euro e il prolungamento a tutto il 2022 anche per le case unifamiliari. Arriva poi la proroga dei navigator: sarà di 4 mesi, fino al 30 aprile 2022, e i lavoratori resteranno in capo ad Anpal Servizi. Lo hanno fatto sapere Pd e M5S con un compromesso raggiunto nel Dl Recovery».

INCHIESTA OPEN, RENZI DAI PM

L'inchiesta sulla fondazione Open. Dopo il voto in commissione al Senato, Renzi va dai Pm (ma senza farsi interrogare) e ribadisce che è stata violata la Carta costituzionale. Claudio Bozza per il Corriere.

«Faccia a faccia di Matteo Renzi con i pm di Firenze, che lo accusano di finanziamento illecito ai partiti nella maxi inchiesta sulla fondazione Open. L'ex premier ha incontrato il procuratore capo Giuseppe Creazzo assieme ai due titolari dell'indagine: Luca Turco e Antonino Nastasi. Renzi aveva chiesto un confronto dopo aver ricevuto, nell'ottobre scorso, l'avviso di conclusione delle indagini. Il leader di Italia viva definisce «cordiale» il clima durante la mezz' ora di incontro, ma uscito dal palazzo di giustizia affonda subito il colpo: «"Non ho niente contro di voi. Io non voglio evitare il processo sfruttando l'articolo 68 della Costituzione: io non scappo, ma voi avete violato la Costituzione". Gliel'ho detto in faccia, ecco», racconta al Corriere. Una sfida, insomma, senza però farsi interrogare: «Questo processo politico alla politica resterà negli annali della cronaca giudiziaria». Il confronto con i pm è arrivato in un momento (politico e mediatico) particolare, cioè il giorno dopo che la giunta delle immunità del Senato ha approvato a larga maggioranza il via libera a votare in Aula l'apertura di un conflitto di attribuzione presso la Corte costituzionale, perché i pm avrebbero violato l'articolo 68 della Costituzione, che appunto vieta l'utilizzo di intercettazioni (o corrispondenza) contro un parlamentare senza aver chiesto prima l'autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei giorni scorsi è avvenuta invece un'altra circostanza, che l'ex premier ha cavalcato con forza: il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, davanti alla commissione parlamentare istituita per far luce sulla morte di David Rossi, ha raccontato che subito dopo la morte del capo della comunicazione di Mps l'allora pm senese Nastasi (lo stesso cotitolare dell'inchiesta Open) avrebbe risposto ad una chiamata sul cellulare di Rossi mentre si trovava nel suo ufficio per i primi rilievi, aprendo quindi all'ipotesi di inquinamento della scena di un possibile crimine. «Voi sareste tranquilli se a indagare su di voi fosse un pm così?», si chiede retoricamente Renzi. Il duello avviato tra Renzi e le toghe ha una forte carica mediatica, su cui l'ex premier punta molto. Affiancato dai suoi legali, Federico Bagattini e Gian Domenico Caiazza, il leader di Italia viva ha presentato ai magistrati una memoria difensiva di 5 pagine in cui contesta la violazione delle guarentigie costituzionali poste a tutela della funzione parlamentare e altri errori formali che, a suo dire, sarebbero contenute nel faldone accusatorio di oltre 92 mila pagine. A quel punto gli avvocati di Renzi hanno comunicato che il senatore risponderà a tutte le domande dei magistrati inquirenti appena questi ultimi avranno replicato alla memoria difensiva, nella quale si chiede l'archiviazione del procedimento per i «gravi errori di fatto» contenuti nell'imputazione provvisoria: «Renzi non ha mai neppure partecipato ad un consiglio direttivo della fondazione Open», contestano gli avvocati. Una partita a scacchi, con il fattore tempo che gioca un ruolo decisivo: i pm, per limitare i rischi che l'inchiesta perda forza, dovranno procedere quanto prima chiedendo il rinvio a giudizio. Il tutto mentre, a breve, il procuratore capo Creazzo lascerà la toga dopo aver chiesto il pensionamento anticipato. Dalla Procura, dopo le bordate di Renzi, la risposta è un rigoroso silenzio».

QUIRINALE 1. LETTA CONTRO BERLUSCONI

Enrico Letta sembra cominciare a prendere sul serio la candidatura di Silvio Berlusconi al Colle. Il punto di Giuseppe Alberto Falci per il Corriere.

«Nella storia della Repubblica italiana «non è mai successo» che un leader di partito sia poi diventato capo dello Stato. Si serve di questo teorema Enrico Letta ed è forse una mossa utile a bocciare l'eventuale candidatura di Silvio Berlusconi, l'unico leader potenzialmente in campo per succedere a Sergio Mattarella. «Il ruolo del presidente della Repubblica - osserva il segretario del Pd - è unico, così lo hanno disegnato i costituenti. Rappresenta un arbitro, un motore, un garante che dà voce a tutti i cittadini. Da qui si capisce la delicatezza del profilo che deve avere il capo dello Stato e rivedendo i 12 presidenti viene fuori che non c'è mai stato nessun leader o capo politico. E non è un caso. Richiede una figura di spiccata sensibilità delle istituzioni». È allora per tal ragione, insiste Letta in un'intervista al Sole24Ore.com , che «dobbiamo continuare con presidenti istituzionali, consensuali, in grado di rappresentare tutto il Parlamento». Non svela nomi, il segretario del Partito democratico, ma sostiene altresì che si debba allargare il più possibile il confronto coinvolgendo anche Fratelli d'Italia, l'unico partito che siede all'opposizione. Dopodiché il segretario del Pd preconizza uno scenario che non prevede votazioni a oltranza: «Le forze politiche non reggerebbero 20 votazioni, il presidente o la presidente sarà eletto nelle prime votazioni e sarà un bene, dopo 4 o 5 votazioni. Non credo sia immaginabile che il presidente sia eletto alla 23esima votazione dopo 15 giorni di conclave». Dall'altra parte del campo, nel centrodestra, Antonio Tajani preferisce proteggere l'ipotesi del Cavaliere al Colle e la mette così: «Berlusconi non ha mai affermato di volersi candidare al Quirinale. Siamo noi che glielo abbiamo proposto, perché è l'uomo più adatto con Mario Draghi per dare prestigio e forza al nostro Paese, a livello nazionale ed internazionale». Intanto, il diretto interessato, vale dire Berlusconi, si tiene a distanza di sicurezza dal dibattito pubblico. L'ex premier non partecipa alla presentazione del libro di Gianfranco Rotondi sulla storia più recente della Dc, e invia una lettera nella quale non c'è alcun riferimento al Quirinale. Il leader azzurro fa solo un ricordo della Dc, sottolineando come i valori del partito di piazza del Gesù siano oggi «le radici forti su cui si basa Forza Italia». Nella stessa missiva si legge che uno dei meriti del governo Draghi è stato quello di «aver creato le condizioni per tornare, una volta esaurita questa esperienza straordinaria e irripetibile, ad un bipolarismo più maturo fondato sul rispetto per l'altro. Questo vale per chi ha responsabilmente scelto come noi di sostenere quell'esperienza di governo come per chi ha scelto altrettanto legittimamente di contrastarla». Il leader della Lega Matteo Salvini intanto ribadisce: «Se Berlusconi sceglierà di candidarsi avrà il nostro sostegno» E precisa: «Draghi è una garanzia. Se andasse al Colle sarebbe un bel rimescolamento». Il dibattito ruota comunque attorno alla figura di Berlusconi. La renziana Teresa Bellanova boccia l'ipotesi: «Non è il mio candidato, a me piacerebbe una donna». È dubbioso anche il sindaco di Milano Beppe Sala: «È legittimo che Berlusconi ambisca a farlo, ma non è una operazione che vedo facile».

QUIRINALE 2. MATTARELLA OGGI DAL PAPA

Intanto oggi c’è un commiato importante di Sergio Mattarella, quello dal Papa in Vaticano. Marco Grieco sul Domani.

«La visita del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a papa Francesco, che si tiene questa mattina a porte chiuse e a telecamere spente - fuorché quelle vaticane, che la trasmetteranno in differita - non è un evento usuale. Se si esclude quello informale del presidente emerito Giorgio Napolitano a papa Francesco a Santa Marta, l'ultimo incontro di commiato di un capo dello stato Oltretevere risale al 1992, quando il dimissionario Francesco Cossiga ha fatto visita a papa Giovanni Paolo. Il peso che il Quirinale dà all'incontro di oggi lo dimostra lo stesso annuncio, dato il 9 settembre, con largo anticipo: un messaggio a chi, da lì ai mesi successivi, avrebbe chiesto con ostinazione una riconferma di Mattarella al Colle. Un'intenzione analoga potrebbe leggersi fra le righe del telegramma inviato dal capo dello stato a Francesco di ritorno dalla Grecia in cui, pur non rispondendo direttamente alle parti politiche accodatesi ai bis a lui indirizzati alla prima del Teatro alla Scala, ha fatto trasparire l'ennesimo rifiuto di un secondo mandato: «In attesa di avere il piacere di incontrarla nuovamente tra pochi giorni in Vaticano, le rinnovo i sentimenti di affetto e vicinanza del popolo italiano». Francescanesimo laico Nel 2015 papa Francesco aveva già dato prova di buoni rapporti con Napolitano che, in omaggio alla sua sobrietà cerimoniale, aveva dismesso il frac con il collare previsto nelle visite ufficiali. Napolitano era, per giunta, reduce da ottime relazioni con papa Benedetto XVI al punto che, come rivela lo storico Alessandro Acciavatti nel suo saggio Oltretevere (Piemme, 2018), il presidente della Repubblica era già stato informato dal papa stesso delle sue dimissioni, a margine di un concerto nell'aula Paolo VI. Era il 2013 e, in una manciata di mesi, alle dimissioni di Ratzinger ha fatto da contraltare la riconferma di Napolitano per il suo secondo mandato al Colle: ricordando quell'evento, papa Francesco ha detto a Massimo Franco sul Corriere della Sera che era stato un «gesto di eroicità patriottica». Bergoglio spartisce con Mattarella una sobrietà comune, di matrice francescana, già presente nel suo primo discorso al congresso della Dc nel 1984 quando, quattro anni dopo la morte del fratello Piersanti, Mattarella ha eletto san Francesco a stella del proprio orizzonte politico: «Vorrei più modestamente richiamare la preghiera di Francesco che non chiedeva tanto di essere aiutato quanto di aiutare, che non chiedeva tanto di ricevere quanto di dare, che non chiedeva tanto di essere compreso quanto di comprendere». Lo avrebbe fatto anche il papa a suo modo, assumendone il nome. Laicità positiva Per la nomenclatura vaticana che ha scelto di essere prudente dopo gli anni della linea conservatrice impressa dal cardinale Camillo Ruini, presidente dei vescovi italiani fino al 2007, Mattarella ha incarnato l'uomo giusto. Il suo ruolo di arbitro è in armonia con i principi di "laicità positiva" enunciati chiaramente da papa Benedetto XVI nel discorso ai funzionari francesi presso l'Eliseo nel 2008: assicurare, cioè, la legittima autonomia delle realtà ecclesiale e mondana per garantire i diritti umani di tutti e preservare la libertà, inclusa quella religiosa. Lo ricordava il presidente della Repubblica in occasione della visita di Francesco al Quirinale nel 2017, riconoscendo al pontefice, reduce dalla Conferenza internazionale per la pace presso l'università di al Azhar, quell'impegno per il dialogo tra le fedi che detterà lo spirito di Assisi, consolidatosi con l'incontro per la pace svoltosi in Campidoglio nel 2020. In più occasioni, Francesco ha rimarcato il ruolo dell'eredità politica italiana nella creazione di una democrazia dal respiro sovranazionale: ha citato l'articolo 1 della Costituzione all'incontro coi lavoratori dell'Ilva di Genova nel 2017 e sempre in quell'anno ha citato gli accordi di Villa Madama quale esempio di «reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del paese». Palla al centro Dopo sette anni di presidenza Mattarella, in Vaticano si attende una figura che sappia far convergere l'interesse nazionale e il rispetto del fattore religioso nello spazio pubblico, secondo lo spirito europeista del Trattato di Lisbona. In Vaticano c'è chi, in camera caritatis, dichiara una preferenza per la salita al Colle del presidente del Consiglio, Mario Draghi, arbitro naturale del momento politico. D'altra parte, la Chiesa gli riconosce una centralità nel ruolo di ripresa dell'economia italiana che lo inchioderebbe a palazzo Chigi: «La marcia di Draghi verso il Quirinale, in ogni caso, è tutt' altro che scontata», scriveva pochi giorni fa il quotidiano dei vescovi Avvenire. In Terza Loggia, però, si fanno strada due nomi analoghi, equidistanti dai partiti e garanti di un rapporto Oltretevere schietto, peraltro già consolidato. Si tratta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e della donna che Draghi ha voluto a capo dell'intelligence, Elisabetta Belloni. Presidente emerito della Corte costituzionale, Cartabia è nota per la sua formazione cattolica e l'appartenenza al movimento di Comunione e liberazione, ma anche per il suo ruolo tecnico, che la renderebbe vicina al "centrismo" del presidente Mattarella: «La presenza dei credenti nella vita politica corre sul filo teso di una polarità che deve rimanere sospesa», scriveva nella prefazione del libro Ricostruiamo la politica del gesuita Francesco Occhetta. Anche il profilo di Elisabetta Belloni piace. Prima alunna a studiare nella stessa scuola dei Gesuiti frequentata dal premier, l'Istituto Massimo, era a capo dell'unità per la Cooperazione allo sviluppo quando nel 2009 lanciò su Famiglia Cristiana un appello a ricercare adeguate risorse per sostenere la cooperazione. Sarà l'integrazione graduale delle donne nella Chiesa di papa Francesco, ma Oltretevere la scelta per il Colle di un inquilino donna non solo non dispiace, ma sembrerebbe pure auspicabile».

CRISI UCRAINA, TELEFONATA DEL PAPA A PUTIN

A proposito di mosse diplomatiche del Papa, il Corriere dà notizia della telefonata che ci sarà oggi fra Francesco e il presidente russo Vladimir Putin.

«Un appuntamento telefonico tra papa Francesco e il presidente russo Vladimir Putin, oggi pomeriggio, per parlare tra l'altro della crisi ucraina. La notizia filtra da Oltretevere e mostra la preoccupazione del Pontefice per le tensioni in atto e l'ipotesi di un'invasione russa dell'Ucraina. Francesco ne ha parlato all'Angelus, quando ha pregato «per la cara Ucraina, perché le tensioni intorno ad essa siano risolte attraverso un serio dialogo internazionale e non con le armi», fino a esclamare: «Le armi non sono la strada. Che questo Natale porti all'Ucraina la pace!». Il Pontefice e il presidente russo si sono incontrati di persona già tre volte in Vaticano, il 25 novembre 2013, il 10 giugno 2015 e il 4 luglio 2019, l'Ucraina è un tema ricorrente e il rapporto tra i due è buono. Il Papa è pronto a fare la sua parte per mediare, e la stessa disponibilità di Putin è un segno rassicurante da parte russa. Dall'inizio del pontificato, Francesco mette in guardia dalla «Terza guerra mondiale combattuta a pezzi» in corso, con relativo rischio che i «pezzi» finiscano per saldarsi. Una nuova guerra fredda è pericolosa, la Santa Sede non si allinea alle posizioni occidentali ed esorta a praticare il dialogo, un «approccio multilaterale» alle crisi: la «geopolitica della fraternità» di Bergoglio. E tutto questo Putin lo sa. D'altra parte, è un momento di fitte relazioni diplomatiche tra Vaticano e Russia. Come ha rivelato due mesi fa al Corriere il Metropolita Hilarion, «ministro degli Esteri» del Patriarcato di Mosca, si sta preparando un secondo incontro tra il Papa e il Patriarca Kirill, dopo quello storico di cinque anni fa all'Avana».

REPORTAGE DAL DONBASS

Tensione e scaramucce tra i militari dell'esercito di Kiev e i ribelli filorussi. Il reportage di Pietro Del Re per Repubblica. Sulla linea di contatto nel Donbass coi soldati di Kiev. Qui ogni giorno viene violata la tregua di Minsk: "Siamo pronti a morire per fermare l'invasione".

«È un tratto di trincea che tutti chiamano il “budello della morte” per via dei tanti soldati centrati dai cecchini. Da qui, le linee nemiche distano appena un centinaio di metri. Sono così vicine che riesci ad ascoltare le conversazioni dei separatisti filorussi. «Ma da Mosca i ribelli hanno ricevuto fucili ad alta precisione con cui possono spararci anche a un chilometro di distanza», spiega il luogotenente Michail Novitskij, 29 anni, barba bionda e occhi blu acciaio, che comanda l’ultimo avamposto ucraino al fronte nel Donbass. «Da qualche mese usano sempre più spesso missili teleguidati e ogni tipo di drone, sia per sganciare le vietatissime bombe a grappolo sia per intercettare le nostre comunicazioni o confondere gli strumenti di controllo degli osservatori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce)». Eravamo venuti ad Avdiika lo scorso aprile, quando il presidente russo Vladimir Putin aveva ammassato centomila uomini ai confini con l’Ucraina. Otto mesi dopo ritroviamo in prima linea le stesse truppe, forse più scarne e più sdrucite di allora ma non meno motivate. «Ci prepariamo al peggio perché sappiamo che se dovessero fallire i negoziati diplomatici ai russi rimarrebbe soltanto l’opzione militare. E noi li aspettiamo qui, pronti a fermarli», dice con toni di patriottica fierezza l’ufficiale Oleksij Vasianov, 22 anni, che in questo conflitto sostiene di essere invecchiato. «Ho partecipato alla rivoluzione pro-europeista di Maidan quand’ero studente, mi sono poi laureato all’Accademia militare e da allora combatto contro i filorussi in Ucraina Orientale».È Vasianov a condurci nel “budello della morte” dove un paio di soldati, protetti da sacchi di sabbia e grossi copertoni di camion, scrutano l’orizzonte grazie a un periscopio da trincea. Sulla parte più esposta dell’argine sono state aperte due finestre, sempre sbarrate da una pesante botola di legno, salvo quando il comando decide di rispondere al fuoco nemico. «Un paio di volte al giorno i filorussi cominciano a spararci addosso, con armi di ogni calibro. Lo fanno solo per provocarci. Quando il fuoco si fa troppo nutrito, siamo costretti a rispondere». Per questo, l’avamposto ucraino, creato in un vecchio impianto per il riciclo di rifiuti tossici, somiglia a un’enorme forma di groviera, tutto buchi e squarci e voragini. Al suo interno i soldati hanno formato un dedalo di tunnel e camminamenti segreti che all’esterno comunicano con trincee lunghe qualche chilometro. La guerra nel Donbass è scoppiata nel 2014 quando, foraggiate da Mosca, le milizie separatiste fondarono le repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Da allora ha già provocato quindicimila morti, e continua a mietere vittime, con gli osservatori dell’Osce che ogni giorno registrano circa cinquecento violazioni degli accordi di cessate il fuoco firmati l’11 febbraio 2015 a Minsk. Quando chiediamo a Vasianov se sono aumentati i combattimenti nelle ultime settimane, e cioè da quando il Pentagono ha denunciato un rapido rafforzamento militare della Russia vicino ai confini ucraini, lui alza le spalle. Poi dice: «Siamo abituati ai movimenti di truppe vicino alle nostre frontiere. E negli ultimi tempi non è cambiato nulla. Lungo gli oltre quattrocento chilometri che spaccano in due l’Ucraina dal Donbass separatista si continua a combattere e a morire. Per noi ogni giorno è soltanto un nuovo giorno di guerra». Tuttavia Vasianov aggiunge di essersi recentemente accorto dell’aumento di cecchini russi, perché i loro proiettili seguono traiettorie molto più precise. Lo stesso discorso vale per i colpi di mortaio, che quando sono sparati dell’esercito di Mosca fanno raramente cilecca. «Cercano di destabilizzarci con ogni mezzo e di spingerci a infrangere le regole, per poi urlare che l’esercito ucraino commette crimini di guerra». Nella sala del comando ci sono due televisori a circuito chiuso con le telecamere dirette verso le linee nemiche, un tavolaccio e un divano sfondato. In un angolo, crepita il fuoco di una piccola stufa a legna. È qui che, dopo massacranti turni di guardia all’addiaccio, vengono a scaldarsi i poilus ucraini. Secondo il comandante Oleksandr Timoshuk, Putin non attaccherà: «Gli costerebbe troppo in termini di uomini e di prestigio internazionale. L’ammasso di truppe ai nostri confini è un bluff con cui spera di risolvere in patria i suoi problemi di popolarità in calo. Per poter rivestire i panni del comandante supremo gli serve di un nemico esterno». Fatto sta che la Russia dispone di diversi modi per colpire l’Ucraina, grazie alle navi da guerra che pattugliano nel Mare di Azov, ai caccia che hanno ripreso a sorvolare i confini, alle armi tecnologiche, alle forze di terra, ai paracadutisti e, infine, al suo potente arsenale missilistico. Anche gli obiettivi del Cremlino sono molteplici, dalla conquista delle riserve d’acqua a nord della Crimea che sono controllate da Kiev alla destituzione del presidente Volodymyr Zelensky, che verrebbe sostituito con qualcuno più filo-Mosca. «Il primo scopo di Putin è eliminare ogni nostra aspirazione euro-atlantica e controllare tutto ciò che accade in Ucraina, che ai suoi occhi potrebbe diventare una base per le forze che gli sono ostili. Anche per questo credo che alla fine rinuncerà a invaderci, perché sa bene che rischia di perdere l’appoggio degli ucraini che ancora parteggiano per la Russia. Se prima del 2014 il sostegno alla Nato era minoritario, adesso è largamente maggioritario», aggiunge Timoshuk. Ad Avdiivka il sole tramonta presto, e alle quattro e mezzo è già notte fonda. La prima granata esplode alle cinque meno dieci e il suo frastuono sfonda le orecchie anche a chi è al sicuro sottoterra. È solo l’inizio di una pioggia di bombe che andrà avanti per tutta la notte».

“MA NON È PUTIN IL VERO NEMICO”

Sulla crisi ucraina e i rapporti geo politici interviene Antonio Socci su Libero.

«Un vecchio leader democristiano, Pierluigi Castagnetti, che i media ritengono molto vicino al presidente Mattarella, nei giorni scorsi - considerando la tensione fra Usa e Russia - ha scritto un tweet alquanto saggio: «Non scherzare col fuoco. Va bene la reazione Usa alla minaccia russa di invadere l'Ucraina con 175000 uomini. Va bene la vicinanza Ue all'Ucraina. Ma che facciamo per evitare che? Forse è ora di dire che la pretesa russa che l'Ucraina non entri nella Nato ha qualche senso». Parole di realismo andreottiano. Infatti l'ingresso dell'Ucraina nella Nato - peraltro in violazione degli impegni presi con Mosca dai presidenti americani - non è solo una questione diplomatica fra Usa e Russia, ma è un rischio colossale per tutti noi: potrebbe essere la scintilla che rischia di trascinarci in un conflitto, prima economico, con disastrose sanzioni e grossi problemi per le forniture di gas, ma forse poi anche militare. Una vera guerra mondiale? Il motivo per cui, dal 1945 in poi, le grandi potenze hanno sempre scartato l'opzione nucleare - preferendo restare nell'equilibrio del terrore - risiede nel fatto che nessuno avrebbe potuto vincere quella guerra, essendo certo che - mentre colpiva per primo - avrebbe sicuramente subìto un'eguale risposta. Invece, nel caso in cui l'Ucraina - storicamente parte della Russia - entrasse nella Nato (dispiegando al confine russo missili capaci di colpire Mosca), quell'equilibrio di colpo verrebbe meno. Di fatto la Russia si troverebbe minacciata e disarmata. Uno squilibrio pericolosissimo per il mondo. CONTINUI SBAGLI Purtroppo l'Occidente continua da anni a sbagliare tutto. Due anniversari, che ricorrono in questi giorni, ci fanno capire i suoi errori: un trentennale e un ventennale. Trent' anni fa, nel dicembre 1991, l'Urss fu dichiarata morta e la bandiera rossa veniva ammainata dal Cremlino. Venti anni fa, l'11 dicembre 2001, la Cina comunista fu ammessa, senza condizioni, nell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per diventare "la fabbrica del mondo", con effetti colossali sulla vita di tutti noi. Così l'Occidente ha vinto pacificamente la guerra fredda contro il comunismo sovietico, ma, poiché ha voluto stravincere, ha trasformato quella vittoria in una sconfitta storica, resuscitando un comunismo peggiore (e vincente), quello cinese. Operazione le cui conseguenze stiamo pagando già ora, ma il conto, salatissimo, arriverà nel futuro. E potrebbe essere tragico. L'Occidente infatti favorì lo spappolamento non solo dell'ex Patto di Varsavia, ma anche della Russia storica, pagato da quei popoli, negli anni Novanta, con grandi sofferenze. Invece di aiutare la costruzione in Russia di una democrazia rispettosa della loro cultura nazionale e della loro storia, si cercò l'annientamento di quel Paese. Invece di una nuova Yalta o un nuovo Congresso di Vienna, i presidenti americani «fecero tutto il contrario» ha scritto Giulio Sapelli «nella follia del sogno unipolarista». Quello cioè che decretava «la fine della storia» e il definitivo trionfo americano sul mondo. L'Occidente poi non comprese l'opportunità che si presentò, nel 2000, con l'arrivo al potere di Vladimir Putin, il quale stabilizzò un Paese alla deriva, ridandogli dignità e ordine. Certo, con delle criticità, ma cercando rapporti di amicizia con l'Europa e gli Stati Uniti, al punto che - come ha rivelato George Robertson, segretario generale dell'Alleanza atlantica dal 1999 al 2003 - Putin, appena arrivato al Cremlino, espresse addirittura il desiderio di far entrare la Russia stessa nell'Alleanza atlantica. Questo avrebbe significato la fine della contrapposizione Est-Ovest e un'era di pace e di democrazia. Fu un presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, a intuire l'eccezionale occasione storica quando organizzò, nel maggio 2002, l'incontro di Pratica di Mare in cui fu firmato un documento di collaborazione fra Nato e Russia, dai due presidenti George W. Bush e Vladimir Putin, per «costruire insieme una pace duratura e inclusiva nell'area euro-atlantica in base ai principi di democrazia, sicurezza cooperativa e all'asserto che la sicurezza di tutta la comunità euro-atlantica sia indivisibile». Ma l'establishment americano cambiò avviso e ritenne che era meglio non permettere alla nuova Russia di rialzarsi. È l'establishment che, nel frattempo, aveva puntato sulla Cina, facendone "la fabbrica del mondo" a discapito dei lavoratori e del ceto medio occidentali, impoveriti dalla deindustrializzazione, a scapito della nostra manifattura e dell'ambiente, ma in favore di una finanziarizzazione dell'economia che avrebbe arricchito le élite e avrebbe portato alla crisi del 2008, pagata dagli Stati e dai popoli. Così la Cina è diventata in due decenni il gigante economico che oggi contende il primato mondiale agli Stati Uniti e - come sistema totalitario imperiale - rappresenta una vera minaccia planetaria. L'Occidente non ha neppure compreso che continuare a isolare e umiliare la Russia, allargando la Nato ai Paesi dell'ex Patto di Varsavia (cosa che la Nato si era impegnata a non fare), significava costringere la Russia ad allearsi proprio con la Cina. E qui c'entra la gestione della crisi Ucraina soprattutto da parte della leadership Dem a Washington. ERRORE COLOSSALE Lucio Caracciolo, analista geopolitico e fondatore di "Limes", ha scritto sulla Stampa nei giorni scorsi: «Nel 2014 gli Stati Uniti spinsero la Russia nelle braccia della Cina appoggiando il rovesciamento del regime ucraino, considerato marionetta del Cremlino, e stroncando la mediazione franco-tedesca. In questo modo riuscirono a costruire un'improbabile, ma effettiva coppia sino-russa, a tutto vantaggio della Cina. Mettere insieme il Numero Due e il Numero Tre non è esattamente il compito del Numero Uno. Eppure è accaduto e resta un fatto. Ma non occorre leggere Clausewitz per stabilire che rafforzare il proprio avversario principale (Pechino) offrendogli le notevoli risorse militari, energetiche e tecnologiche dell'avversario secondario (Mosca) non è mossa da manuale». Adesso «qualcuno a Washington comincia a chiedersi se aver strappato Kiev a Mosca, con ciò regalando Mosca a Pechino, sia stato un affare». La presidenza Biden potrebbe decidere un ripensamento strategico, anche perché Putin non è affatto felice di un'alleanza stretta con la Cina. Lui sa bene, e ripete, che la Russia è parte della storia europea e proprio l'Unione Europea potrebbe favorire un cambio di strategia americana. Come pure la Chiesa che - sulla base dell'insegnamento di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI - sa bene che l'est europeo è l'altro polmone cristiano dell'Europa. Anche la disponibilità recentemente manifestata dal papa ad andare a Mosca per incontrare il patriarca Kirill potrebbe essere un concreto aiuto alla pace in Europa e nel mondo. È il momento di costruire ponti».

HAITI, LA TRAGEDIA DIMENTICATA

75 vittime nell’ultimo drammatico episodio ad Haiti: i morti causati da un incendio provocato dalla folla di disperati che si era ammassata per raccogliere la benzina perduta dal veicolo ribaltato. Da mesi il combustibile scarseggia a causa del blocco imposto dalle bande criminali per aumentare la pressione sul governo. Lucia Capuzzi per Avvenire.

«Una dietro l'altra, è un popolo in sofferenza». Quella fatta da papa Francesco nel corso dell'Udienza generale è una sintesi perfetta dell'emergenza cronica in cui si dibatte la «povera Haiti». Povera, appunto, in molti sensi. Questo frammento d'isola caraibica si è aggiudicata da decenni il drammatico record di miseria in Occidente. Negli ultimi tempi, però, il Paese è stato colpito da una raffica di calamità politiche, sociali, naturali. L'ultima, in ordine cronologico, due giorni fa: l'esplosione di un'autocisterna a Cap-Haïtien, seconda città del Paese, nel nord, che ha arso vivi i settantacinque disperati intenti a raccogliere il carburante dal veicolo ribaltato dopo un incidente. Sessanta sono morti sul colpo, il resto si è spento in ospedale dove altri 48 sono ricoverati in gravi condizioni. Un incidente, certo. Frutto, però, più che del caso, del collasso alla moviola di una nazione invisibile. La crisi istituzionale, in atto dal 2018, è sfociata nel misterioso assassinio, lo scorso 7 luglio, del presidente Jovenal Moïse. Cinque settimane dopo, il fragile governo del premier Ariel Henry ha dovuto gestire il sisma che ha devastato nord e sud-ovest, provocando oltre duemila morti e decine di migliaia di sfollati. Poi sono arrivati gli uragani e le immancabili inondazioni. Nel frattempo, il vuoto di potere ha favorito la crescita esponenziale delle bande criminali o gang, protagoniste della pandemia di sequestri, più letale perfino di quella di Covid. Non c'è giorno senza almeno un rapimento, come può testimoniare chiunque segua il monitoraggio compiuto in tempo reale dalla società civile. A volte, vengono catturati in un colpo solo decine di ostaggi, come i 16 missionari protestanti statunitensi e un canadese, presi insieme ai familiari il 16 ottobre a Port-au-Prince: finora solo cinque sono stati liberati, il 6 dicembre. Sempre le bande sono all'origine della catastrofe di Cap Haïtien. L'elettricità nell'isola dipende quasi esclusivamente dai generatori, alimentati dal gasolio importato. Da ottobre, le gang impediscono lo scarico del carburante dal terminal di Varreux. Una prova di forza per aumentare la pressione sul debole Stato, organizzata dalla potente 'G-9 an fanmi', federazione criminale che, da giugno 2020, riunisce i principali gruppi sotto la guida di Jimmy Chérizier alias 'Barbecue'. Ex poliziotto trasformato in boss, il suo exploit risale al mandato del defunto Moïse. Periodo in cui, secondo la recente ricerca del Gruppo internazionale per i diritti umani della scuola di legge di Harvard, si è registrato un salto di qualità delle bande in termini di influenza e denaro. Tanto che gli esperti hanno denunciato legami oscuri tra l'ex presidente e le gang, sul modello del passato regime di Jean-Bertrand Aristide. Dall'omicidio di Moïse, 'Barbecue' ha cercato assumere un ruolo politico, trasformando la 'G-9 an fanmi' in una sorta di movimento rivoluzionario. In una bizzarra conferenza stampa, il leader della gang ha presentato l''embargo' della benzina come una forma di protesta per chiedere le dimissioni di Henry, accusato di complicità nel delitto. La penuria prolungata, intanto, ha paralizzato interi settori economici, incluso il commercio informale da cui dipende la vita degli ultimi. Sono stati questi ultimi ad ammassarsi intorno al camion. Cercavano di raccattare un po' della benzina perduta da quest' ultimo e sono finiti divorati dalle fiamme. «Gente buona, gente brava, gente religiosa ma sta soffrendo tanto (...) Vi invito a unirvi alla preghiera per questi nostri fratelli e sorelle, così duramente provati », ha detto Francesco, cercando con la sua voce, ancora una volta, di rompere il muro di silenzio costruito dal mondo intorno alla tragedia haitiana».

NASCE LA FONDAZIONE FRATELLI TUTTI

È stata accolta la proposta della Fabbrica di San Pietro che ha deciso di impegnarsi nel promuovere il dialogo tra le culture e le fedi. Sarà presieduta dal cardinale Gambetti. Gianni Cardinale per Avvenire.

«Papa Francesco ha eretto la Fondazione vaticana Fratelli tutti. Lo ha fatto «venendo incontro» alla proposta del cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica vaticana, di dar vita a un ente destinato a supportare la missione della Fabbrica di San Pietro, presieduta dallo stesso porporato. Tre le aree di missione della nuova Fondazione. In primis «sostenere e progettare percorsi di arte e fede». Poi «investire sulla formazione culturale e spirituale attraverso eventi, esperienze, percorsi ed esercizi spirituali». Quindi «promuovere il dialogo con le culture e le altre religioni sui temi delle ultime encicliche del Pontefice, per costruire 'alleanza sociale'». La nascita di questa nuova Fondazione era stata annunciata dallo stesso Gambetti lo scorso 20 ottobre, nel corso della presentazione del libro Il dono e il discernimento di Mariella Enoc e padre Francesco Occhetta. In quella occasione aveva illustrato «in anteprima» questo «sogno che sta per concretizzarsi intorno alla Basilica di San Pietro e al suo colonnato che simbolicamente abbraccia il mondo ed è la soglia di chi ricerca il vero, il bello e il giusto». Ieri la pubblicazione del Chirografo che la erige formalmente. Documento che porta la data dell'8 dicembre scorso, solennità dell'Immacolata Concezione, una festa mariana particolarmente cara alla famiglia francescana cui appartiene lo stesso Gambetti, conventuale e già custode del Sacro Convento di Assisi. In un comunicato diffuso dalla Sala Stampa vaticana si riferisce che gli scopi della Fondazione sono inclusi nell'articolo 3 dello Statuto. In esso si spiega che la Fondazione «ha fini di solidarietà, di formazione, di diffusione dell'arte in particolare quella sacra; promuove la sinodalità, la cultura della fraternità e del dialogo». A tal proposito vengono elencati dieci obiettivi. Tra questi c'è quello di favorire «che i turisti possano vivere l'esperienza dei pellegrini attraverso percorsi spirituali, culturali e artistici nella Basilica di San Pietro e negli spazi messi a disposizione per la Fabbrica di San Pietro». E poi organizzare «percorsi, eventi ed esperienze per favorire la fraternità e l'amicizia sociale tra Chiese, religioni diverse e tra credenti e non credenti ». Quindi promuovere «la cultura della pace», «"nuovi incontri" alimentati dal dialogo sociale», «iniziative volte a incentivare lo sviluppo dell'umanesimo fraterno», «progetti per la cura del creato». La nuova Fondazione inoltre «promuove l'alleanza sociale, l'imprenditoria responsabile, gli investimenti sociali, le forme di lavoro umano e sostenibile; l'ecologia integrale, lo sviluppo sostenibile, la transizione ecologica, la salute e la ricerca scientifica e tecnologica, alla luce dei principi della dottrina sociale della Chiesa». E «sostiene la comunicazione responsabile, la verità delle fonti, la credibilità e l'affidabilità di chi si impegna a costruire ponti». La Fondazione infine «si fa carico, nell'abbraccio simbolico del colonnato della Basilica di San Pietro, delle persone più deboli, del forestiero e dello straniero, del diverso e dell'emarginato e delle frontiere culturali e sociali per rileggere le sofferenze del mondo e offrire soluzioni alla luce del Vangelo e del magistero pontificio». La fondazione, spiega la nota vaticana, per lo svolgimento delle sue attività sarà presieduta dal cardinale Gambetti, dal CdA formato da nove membri, con un sindaco unico e un segretario generale. Gli organi di indirizzo previsti sono: il consiglio generale composto dai membri dei dicasteri vaticani a cui afferiscono i temi della missione della fondazione e il Comitato di sostenibilità in cui sono rappresentati i benefattori della fondazione».

SONDA NASA RAGGIUNGE L’ATMOSFERA SOLARE

Toccare il sole con una sonda: la Parker solar probe della Nasa ha attraversato la corona di fuoco e lo farà almeno altre 24 volte. Ma c’è anche l’altra sonda, quella europea, che manda informazioni sul globo infuocato.  Matteo Marini per Repubblica.

«Tra le fiamme del Sole, due sonde volano in avanscoperta per carpire i segreti della centrale nucleare che ci regala la vita. E che in futuro potrebbe, se non spazzarla via, quantomeno azzopparla, colpendo le infrastrutture su cui la nostra civiltà tecnologica ormai poggia le sue fondamenta. Parker solar probe è americana ed è salita sul carro del Sole, un passaggio rapido, al di là del confine della corona, il diadema di fuoco che cinge la nostra stella e che possiamo vedere da Terra solamente durante le eclissi. La sonda della Nasa ci si è tuffata dentro durante uno dei suoi passaggi ravvicinati. Una vertigine da brivido, come il volo di Icaro, da ripetere però almeno 24 volte, riemergendo per tornare sempre più vicino, sempre più veloce. Ogni tre mesi bagnarsi nella luce che annichilisce per tastarne la consistenza, analizzarne la composizione: «Uno degli scopi della missione era proprio quello di finire all'interno della corona solare - spiega Marco Velli, astrofisico del Nasa Jpl, e principal investigator di uno degli strumenti di Parker - è come essere nel motore di un jet, il vento solare è il getto supersonico, noi volevamo entrare nella camera di combustione. Le misurazioni degli strumenti ci hanno confermato che in quella zona domina ancora il campo magnetico sul vento solare». Velli è una delle firme dell'articolo sul Physical review letters , con il quale il team di Parker annuncia di aver varcato la soglia. La corona è il luogo in cui si scatena l'inferno in quello che sembra un paradosso fisico, lontana milioni di volte dalla superficie del Sole eppure centinaia di volte più calda. Lì il vento solare accelera e rompe i legacci per espandersi come una bolla e inglobare tutto, compreso il nostro Pianeta, che ci protegge col suo scudo magnetico. Nel suo vorticare, Parker solar probe annusa e raccoglie particelle che sfrecciano a migliaia di chilometri all'ora: «Lì dove ci sono le linee aperte del campo magnetico abbiamo notato che questo si arriccia, come i cavalloni sul mare - spiega l'astrofisico del Jpl - ma non sono uniformi, abbiamo capito che sono correlati direttamente a ciò che succede sulla superficie del Sole». L'altra nostra emissaria si chiama Solar Probe, dell'Agenzia spaziale europea e della Nasa, e non ha nemmeno cominciato la sua missione operativa, ma già ha fornito scienza in quantità. Più lontana e più lenta di Parker, ha sei telescopi per osservare il Sole in un dettaglio senza precedenti. Ci ha regalato particolari come quelli che sono stati chiamati "falò" solari, granuli di luce sulla pelle della stella, ha visto e misurato un'eruzione di plasma. Anche lei la approccerà, più timidamente, avvicinandosi a 42 milioni di chilometri, ma per la prima volta sbircerà i poli, che nessuno ha mai visto. Già 56 studi scientifici hanno attinto da questi dati. Tutto per capire come funziona la "macchina" Sole e avere contezza di quanto ma soprattutto, quando, potrà farci male. Sappiamo che ogni 11 anni circa la nostra stella termina un ciclo fatto di periodi di riposo e altri più turbolenti, quando sono più frequenti brillamenti ed eruzioni e quindi le tempeste geomagnetiche, quelle che accendono le aurore polari più spettacolari. Nel 1859 il famoso evento di Carrington- Hodgson mandò in tilt i telegrafi. Oggi possiamo immaginare centrali elettriche fuori uso, satelliti ko e rischi per gli astronauti in orbita. Il senso di questo volteggiare è che dai "capricci" del Sole abbiamo molto più da perdere».

Leggi qui tutti gli articoli di giovedì 16 dicembre:

https://www.dropbox.com/s/545o35wv3sfp98k/Articoli%20La%20Versione%20del%2016%20dicembre.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Oggi c’è anche un’intervista da non perdere.

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