"Nuova visione per Israele"
La chiede Haaretz. Quasi fallito il vertice Blinken-Netanyahu. Tangenti chieste ai profughi per uscire da Rafah. Primo sì contro l'abuso d'ufficio. Attal, 34 anni, nuovo capo del governo in Francia
Il segretario di Stato Usa Anthony Blinken, al suo sesto viaggio in Medio Oriente, ha avuto un incontro aspro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Ha ottenuto per l’Onu l’ingresso a Gaza e nello stesso tempo ha difeso Israele dall’accusa di genocidio, che sarà discussa all’Aja domani e dopodomani. Ma la sua relazione dai Paesi arabi e dalla Turchia ha contrariato Netanyahu. Sebbene Blinken abbia evidenziato che i sauditi sarebbero pronti a riconoscere Israele e che i Paesi arabi sono disposti a mettere i soldi della ricostruzione nella Striscia. Ma la condizione posta è un riconoscimento del principio dei due popoli, due Stati che l’attuale governo di Tel Aviv respinge. L’attuale esecutivo continua a porre obiettivi militari e politici non realistici, in questo modo evita la resa dei conti con gli elettori. In un editoriale il giornale progressista Haaretz ha scritto ieri: «Per iniziare a pensare al giorno dopo, per raggiungere il giorno dopo, abbiamo bisogno di un nuovo governo e di un nuovo leader che creda di poter tracciare una nuova visione per Israele. Netanyahu non sa e non può farlo. È un fallimento. Lui e la disgrazia del suo governo devono andarsene e Israele deve indire elezioni anticipate. Ora». Intanto emerge la speculazione sugli abitanti di Gaza da parte dell’Egitto. Il Manifesto e Il Sole 24 Ore scrivono oggi che riuscire ad uscire dal valico di Rafah costa cifre altissime, anche ai profughi feriti.
Le cronache dall’Italia si concentrano sul primo sì del Senato alla riforma della giustizia, che mira all’abolizione dell’abuso d’ufficio. Oltre alla maggioranza si sono schierati a favore i senatori di Italia Viva. Ad Avvenire il leader Matteo Renzi spiega la posizione assunta citando dei numeri: per questo reato nel 2021 ci sono stati 4.720 indagati e solo 18 condannati. Continuano le polemiche sulle braccia tese del saluto romano e sul caso dello sparo di Emanuele Pozzolo. Il deputato, sospeso da Fratelli d’Italia, oggi darà la sua ricostruzione ai Pm. A proposito di giustizia, si è aperto uno spiraglio per la revisione del processo sulla strage di Erba. Quanto costerà allo Stato tutto questo, a fronte di due imputati condannati con prove schiaccianti? La giustizia non dovrebbe inseguire le panne montate dei giornalisti in tv e sui giornali.
Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono parlati al telefono sulla questione delle candidature. La Sardegna è un nodo che va sciolto urgentemente. Intanto Salvini difende Chiara Ferragni, indirettamente polemizzando con la premier.
A vent’anni di distanza dall’ultimo, si terrà un nuovo concorso per gli insegnanti di Religione cattolica. Lo prevede l’intesa, firmata dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana e dal ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara. L’accordo riguarda il concorso per la copertura del 30 per cento dei posti vacanti, mentre il restante 70 per cento dei posti disponibili sarà assegnato ai docenti con almeno 36 mesi di servizio. Complessivamente si tratta di circa 6.400 insegnanti.
Il nuovo capo del governo francese è il 34enne Gabriel Attal. Ministro più popolare del governo uscente, viene dalla sinistra socialista ma si è distinto, come capo dell’istruzione, per aver vietato in classe l'abaya, la tunica islamica, un modo per ribadire con fermezza il rispetto della laicità nelle scuole dopo il divieto del velo islamico del 2004. Poi Attal ha preso nuove misure contro il bullismo, raccontando di esserne stato vittima al liceo. I maligni dicono che studi da nuovo Emmanuel Macron.
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LA FOTO DEL GIORNO
Questa immagine ritrae una donna israeliana in una strada di Tel Aviv che mostra un cartello di protesta per chiedere la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. La scritta dice: “Il tempo sta finendo. Portiamoli a casa adesso”.
Foto Oded Balilty AP per il New York Times
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
In primo piano la riforma della giustizia. Il Corriere della Sera: Via l'abuso d'ufficio, primo sì. Per Repubblica è un: Colpo di spugna. La Stampa invece vede divergenze nella maggioranza: Inchieste, il governo sbanda. Scontro sull'abuso d'ufficio. A proposito di vicende giudiziarie, Il Messaggero si esalta per un possibile riesame di un vecchio caso: Strage di Erba, la nuova pista. Addirittura per Libero Olindo e Rosa sono Presunti innocenti in cella. Il Domani accusa la premier di non liquidare il passato: Meloni non rompe con i fascisti e teme Salvini in modalità Papeete. Mentre Il Fatto si accanisce contro il leader di Italia Viva, che ha fatto cadere il governo Conte: Gli affari putiniani di Renzi: assicurazioni, petrolio e gas. Per il Quotidiano Nazionale la Sardegna spacca il centro destra: Candidature, scontro nelle coalizioni. Per una volta sono sulla stessa linea Il Giornale: Occupazione record, l'Italia cresce e Avvenire: Lavoro, mezzo miracolo, grazie ai buoni dati sugli occupati a novembre. Il Sole 24 Ore ci aggiorna sulle nuove regole in materia di tasse: Concordato fiscale, ecco come cambia. La Verità prosegue nella crociata anti-papista: Rinnega il suo libro porno ma il cardinale resta dov’è. Mentre il Manifesto critica il nuovo piano Mattei per l’Africa che oggi approda in aula: Acqua di colonia.
BLINKEN SI SCONTRA CON NETANYAHU
Il segretario di Stato americano Anthony Blinken incontra il premier israeliano Benjamin Netanyahu. L’Onu entrerà a Gaza, ma sul genocidio gli americani difendono Tel Aviv. Francesco Battistini per il Corriere.
«Arriva con un assegno in bianco di quattro Paesi del Golfo e della Turchia: gli han detto che la ricostruiranno loro, Gaza. Porta una proposta per la de-escalation della guerra: meno bombe lanciate su tutto e su tutti, più aiuti alla popolazione civile. Ha in tasca pure il vecchio piano di pace saudita del 2002: la normalizzazione dei rapporti fra Israele e tutti i Paesi arabi, in cambio d’uno Stato palestinese. Quasi alla fine del suo sesto tour mediorientale in cento giorni, il segretario americano Anthony Blinken taglia il traguardo israeliano con la valigetta piena e un’idea in testa: convincere Bibi Netanyahu a rallentare un po’. «Blinken, solo tu puoi salvarci!», c’è scritto su un cartello dei familiari degli ostaggi che bivaccano davanti al suo hotel, ma è un appello che in senso più vasto condividono in molti: chi, se non l’amico americano, può frenare la strage? Ciao Anthony, ciao Bibi: in un ufficio militare di Tel Aviv, il colloquio è riservatissimo. «Dobbiamo discutere d’un po’ di questioni…», anticipa Blinken. Ma alla fine, quando il segretario torna in albergo e Netanyahu annuncia che nulla verrà reso noto — una cosa che il premier israeliano fa ogni volta che gira storto —, è chiaro: non è stato un incontro cordiale. Divisi su quasi tutto, a parte l’ok a farla finita con Hamas («poteva arrendersi e liberare gli ostaggi, e tutto questo sarebbe già finito…»), eppure condannati a stare insieme. Blinken ottiene che l’Onu entri a Nord di Gaza? Netanyahu avrà in cambio una commissione d’inchiesta Onu sugli stupri del 7 ottobre. Il primo definisce «infondato» il processo all’Aja per genocidio (proprio nel giorno in cui il ministro inglese David Cameron accusa Israele d’avere «violato il diritto internazionale»)? Il secondo concede che non ci saranno deportazioni di palestinesi. Poco altro, però. Blinken vorrebbe ripescare l’Anp di Abu Mazen per governare il dopoguerra nella Striscia, e il leader dei coloni Bezalel Smotrich gli risponde che «decidiamo noi, non siamo ancora la 51esima stella sulla vostra bandiera…». Blinken vorrebbe evitare uno scontro totale con Hezbollah — in vista della tappa libanese di giovedì, il suo inviato Amos Hochstein ha incontrato a Roma la premier Giorgia Meloni e il vice di Nabih Berri, l’uomo chiave nelle trattative coi filoiraniani —, e invece il ministro della Difesa, Yoav Gallant, gli dice d’essere pronto anche a «soluzioni militari», pur di riportare gli sfollati nei kibbutz del nord: ieri gli israeliani hanno detto di aver colpito coi droni anche Ali Hussein Barji, il capo dell’aviazione sciita (anche se in serata Hezbollah ha smentito), mentre andava al funerale del suo compagno Tawil ammazzato lunedì. E ancora: Blinken vuole bombardamenti meno intensi e più «chirurgici»? I militari israeliani gli spiegano che casomai aumenteranno il fuoco sul Sud di Khan Younis. Ci s’intende su poco o niente. Il segretario americano ricorda che la violenza dei coloni «rende tutto più duro, non più facile», che Israele dev’essere partner dei leader palestinesi moderati. E soprattutto che «i bambini di Gaza stanno pagando un prezzo troppo alto», «più cibo, acqua e medicine» devono arrivare a chi ne ha bisogno. Ma Itamar Ben-Gvir, il ministro della destra estrema, lo gela parafrasando Roosevelt: «Non è il momento d’abbassare i toni, è solo il momento di portarsi dietro un grosso bastone». Ogni giorno muoiono in media due soldati israeliani e più di 200 palestinesi: è quel che i leader arabi, anche i più sanguinari, hanno ricordato al segretario americano nel suo tour. Faticano un po’ tutti, a trattenere l’ira delle piazze. Egiziani e qatarini considerano una tregua l’obiettivo minimo, per mediare sugli ostaggi. I sauditi si dicono «ancora interessati» al processo di normalizzazione nei rapporti con Israele, interrotto il 7 ottobre, ma vogliono un (improbabilissimo) impegno di Bibi per un nuovo Stato palestinese. L’amministrazione Biden, scrive la stampa israeliana, può concedere a Israele ancora una finestra di due-tre mesi, non di più, per ribaltare le posizioni oltranziste e non chiudere la porta agli arabi dialoganti: «Il 7 ottobre impone un nuovo pensiero, e non solo su Hamas, sugli Hezbollah o sull’Anp». Ma questo governo ne è capace?».
L’EGITTO SPECULA SUI PROFUGHI PALESTINESI
Per passare il valico di Rafah e salvarsi la vita, uscendo da Gaza, si paga a peso d’oro. L’Egitto specula sui palestinesi in fuga. L’Oms lancia un nuovo allarme sul crollo della sanità: altri tre ospedali a rischio chiusura. Michele Giorgio per Il Manifesto.
«Sara Doghmush è disperata. Vive in Italia e ha saputo che il padre, ferito una gamba da un’esplosione e bloccato da giorni su di un letto d’ospedale, nel pieno dell’offensiva israeliana nel sud di Gaza, può perdere l’arto. «I medici parlano di amputazione, per salvargli la vita, rischia una infezione mortale» ci scriveva ieri su Messenger chiedendoci aiuto. La soluzione, ci spiegava, è farlo uscire da Gaza e trasferirlo in un ospedale in Egitto o in un altro Paese per salvargli la gamba. «Per questo chiedo donazioni, servono tanti soldi, 8 mila dollari» ha aggiunto. Un dramma simile lo vive il dottor Mohammed H., chirurgo vascolare a Bologna e cittadino italiano da molti anni. «La mia famiglia è a Khan Yunis» ci raccontava ieri sera al telefono «è sfollata dalla zona est e ora vive a casa di parenti. Tutti i giorni ci sono bombardamenti e sto cercando di portarla qui in Italia. Le autorità consolari italiane mi assistono ma al momento non ho risposte». Ci sarebbe la possibilità di far uscire la sua famiglia verso l’Egitto. «Però costa molte migliaia di dollari, anche 10mila a persona, mi hanno spiegato», aggiunge il medico palestinese. Perché tanti soldi? Non per le spese di trasporto come si potrebbe pensare. Quelle migliaia di dollari occorrono per pagare le elevatissime «tasse di coordinamento» alle autorità egiziane. Prima della guerra erano di centinaia di dollari. Ora per un palestinese di Gaza salvarsi la vita andando in Egitto costa una fortuna. Dal valico di Rafah con l’Egitto non si esce solo in casi eccezionali come credono un po’ tutti. Come avveniva prima del 7 ottobre, i palestinesi possono inserire i loro nomi nell’elenco delle persone che intendono attraversare il confine. Solo pochissimi possono farlo perché gli intermediari che fanno capo alla società egiziana che si occupa del trasferimento da Gaza al Cairo – con collegamenti con i servizi segreti egiziani, secondo alcuni – chiedono somme favolose per garantire il salto verso la salvezza e lontano dai bombardamenti israeliani. Una speculazione ignobile sulla pelle di una popolazione stremata che sta costringendo non pochi palestinesi, come Sara Doghmush, a lanciare campagne di crowdfunding per raccogliere fondi. «La popolazione civile nella Striscia di Gaza, soprattutto i bambini, sta pagando un prezzo davvero troppo alto», commentava ieri il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, durante la conferenza stampa al termine degli incontri avuti con Benyamin Netanyahu e altri leader israeliani. Frasi scontate, che ascoltiamo da settimane. Washington non riesce neppure a garantire una uscita semplificata verso l’Egitto ai suoi 1300 cittadini, palestinesi con passaporto Usa, ancora bloccati nella Striscia. Blinken proveniente da un lungo tour mediorientale alla ricerca di appoggi al piano Usa per il «day after» a Gaza, ha usato un tono decisamente più perentorio quando ha negato con forza che Israele stia commettendo un genocidio a Gaza. Accusa avanzata dal Sudafrica da cui lo Stato ebraico dovrà cominciare a difendersi da domani alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aia. Vedremo se è dello stesso parere di Blinken la delegazione delle Nazioni unite a cui il governo Netanyahu permetterà di entrare nel nord di Gaza per valutare lo stato delle infrastrutture ed esaminare le necessità per il ritorno dei residenti palestinesi. Israele ha già chiarito che non sarà possibile, certo non nei prossimi mesi, per i palestinesi tornare nel nord della Striscia per la situazione sul terreno e se nel frattempo non saranno liberati i circa 130 ostaggi nelle mani di Hamas e altre organizzazioni armate. Israele afferma che sta passando da una guerra vera e propria a un’operazione più mirata nel nord di Gaza, mantenendo allo stesso tempo una pressione militare intensa nelle aree meridionali. Ieri ha comunicato che le sue truppe hanno ucciso circa 40 combattenti palestinesi e hanno fatto irruzione in una presunta base e in tunnel sotterranei di Hamas a Khan Younis. Ma la resistenza del movimento islamico non cessa. Nove soldati sono stati uccisi, in prevalenza del genio mentre cercavano di far saltare una galleria. Non è escluso, ipotizzavano ieri i media israeliani, che il loro veicolo carico di esplosivi sia stato colpito per errore da una cannonata sparata da un carro armato. Ben più alte sono le perdite civili palestinesi. 126 sono stati uccisi e 241 feriti tra lunedì e martedì mattina, a conferma che l’offensiva israeliana sarà pure entrata nella «terza fase» più limitata ma non diminuisce il numero delle persone innocenti uccise ogni giorno, inclusi bambini. Sean Casey, coordinatore delle squadre mediche di emergenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Gaza, ieri ha lanciato un nuovo allarme sul crollo del sistema sanitario palestinese. E ha accusato Israele di negare l’accesso degli aiuti umanitari in molte zone della Striscia. «Ogni giorno allineiamo i nostri convogli, aspettiamo l’autorizzazione e non la otteniamo, poi torniamo indietro e lo facciamo di nuovo il giorno successivo», ha denunciato. Casey ha detto che per la paura causata dai bombardamenti, molti membri del personale dell’ospedale Nasser di Khan Younis sono fuggiti lasciando i pazienti nelle mani di pochi colleghi. L’ufficio di coordinamento umanitario dell’Onu (Ocha) ha aggiunto che tre ospedali nel centro di Gaza e a Khan Younis sono a rischio di chiusura. In serata si è appreso di nuovi bombardamenti sul campo profughi di Nuseirat con sette morti nella famiglia Farjallah e 10 nella famiglia Zared. Allo svincolo di Farhoud sono state uccise altre dieci persone».
GENOCIDIO, DA DOMANI ALLA CORTE DELL’AJA
Appello di 250 giuristi perché la Spagna sostenga la causa all’Aja contro Israele per genocidio. Domani e venerdì le prime due udienze del caso aperto dal Sudafrica per i raid militari e l’assedio per fame a Gaza. La cronaca è del Sole 24 Ore.
«Sarà il ministro della Giustizia, Ronald Lamola, a guidare la delegazione sudafricana alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja che nei prossimi giorni presenterà l’argomentazione di genocidio contro Israele. La delegazione sudafricana è composta da diplomatici e funzionari a cui si uniranno esponenti politici di partiti e movimenti progressisti di tutto il mondo (tra cui anche Jeremy Corbyn, ex leader dell’opposizione nel Regno Unito). Il ministro Lamola ha detto in un comunicato: «Siamo determinati a vedere la fine del genocidio attualmente in corso a Gaza. Siamo ottimisti che ci siano leader al mondo che ascoltino la propria coscienza e stiano dalla parte giusta della storia sostenendo una causa che cerca di proteggere i diritti degli esseri umani, indipendentemente dalla loro nazionalità o etnia». Una delegazione dell’Egitto è stata in missione in Sudafrica a due giorni dalle udienze dell’Aja che si terranno domani e venerdì: la delegazione egiziana - guidata dal vicedirettore del dipartimento per gli Affari palestinesi presso il ministero degli Esteri egiziano, l’ambasciatore Iman Al-Banhawi - è tornata al Cairo ieri mattina da Johannesburg. In Spagna, 250 tra giuristi, avvocati e docenti universitari hanno firmato una petizione per «esortare» il governo spagnolo ad appoggiare la causa intentata dal Sudafrica contro Israele. La petizione sarà nelle mani del premier socialista Pedro Sanchez già domani, alla vigilia delle udienze. Stando ai firmatari, tra cui ci sono diversi giuristi di prestigio, uno dei possibili risultati immediati è l’eventuale applicazione della Corte di misure cautelari che potrebbero «frenare la violenza a Gaza». «La Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio impone agli Stati di impiegare tutti i mezzi ragionevolmente disponibili per prevenire il genocidio, compreso il ricorso alla Corte internazionale di giustizia in conformità con l’articolo IX della Convenzione», ha spiegato una delle firmatarie, Ana Manero, docente di Diritto internazionale all’Università Carlo III di Madrid. Manero ha inoltre ricordato che «la Spagna può presentare una dichiarazione di intervento come ha già fatto nella causa dell’Ucraina contro la Russia». Gli Stati Uniti si schierano invece con Israele. «Riteniamo che la presentazione di un ricorso contro Israele al Tribunale dell’Aja distragga il mondo da importati sforzi. Inoltre, l’accusa di genocidio è infondata», ha detto il segretario di stato Usa Antony Blinken da Tel Aviv. «È particolarmente irritante - ha detto Blinken - dato che coloro che attaccano Israele, Hamas, Hezbollah, gli Houthi, così come il loro sostenitore, l’Iran, continuano a chiedere apertamente l’annientamento di Israele e l’omicidio di massa di ebrei».
“QUI CI SONO I TESTIMONI DEI CRIMINI DI GUERRA”
Diario da Gaza del giornalista Sami al-Ajrami per Repubblica. Scrive: speriamo nella Corte dell’Aja. Qui siamo un milione e mezzo di testimoni dei crimini di guerra.
«Se si gira per Gaza e si parla con le persone, tutti, senza alcuna eccezione, dicono che la loro ultimissima speranza è che un giorno venga fatta giustizia. La comunità internazionale, il Consiglio di sicurezza e l’Assemblea generale Onu: la sensazione qui è che tutti appoggino Israele contro la Palestina. Il nostro sguardo è posto questa settimana in quello che accadrà alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia (domani e dopo, prime due udienze per il caso sollevato dal Sudafrica per “genocidio” contro Israele, ndr). Tutti qui hanno le dita incrociate e attendono il momento in cui Israele verrà condannato per i massacri di Gaza. La possibilità di un verdetto preliminare che possa obbligare a fermare il conflitto è l’unica speranza a cui ci aggrappiamo. Non c’è altro barlume, se questo si spegne, perderemo ogni fiducia nella comunità internazionale. Un milione e mezzo di persone sono testimoni qui di questi crimini. Io Sami al-Ajrami, in quanto giornalista, sono testimone. Posso provare l’uccisione indiscriminata di 14 membri della mia famiglia. Bambini, donne, un nonno: quando arrivarono gli allarmi di Israele di evacuare il Nord della Striscia nelle prime settimane di guerra, i miei famigliari mi contattarono chiedendomi se bisognasse fidarsi. Dissi loro di lasciare le case e dirigersi verso Sud come stavo facendo anche io. Decisero di trasferirsi nella parte centrale della Striscia. Israele ha attaccato un edificio accanto a quello dove stavano. È certo, il missile ha colpito l’edificio accanto, ma ha ucciso oltre cento persone tutt’intorno. Come giornalista, quello che osservo, non è solo l’uccisione fisica delle persone: è la tortura continua, la sofferenza inflitta e l’accanimento su persone che sono state sfollate e hanno difficoltà per sopravvivere. Israele chiude i confini, non lascia entrare gli aiuti, significa che uccide i civili affamandoli. Israele punisce collettivamente i palestinesi. Sono testimone di tutto questo, ho fatto foto. Sono stato negli ospedali. Vedo bimbi e donne uccisi ogni giorno. Anche le mie figlie ne parlano. Mi chiedono se sarà fatta giustizia. E io non voglio mentire loro ma dico, e ci credo, che la Corte sarà sufficientemente imparziale e fermerà la guerra. Per questo perderò la speranza se la corte non riconoscerà che Israele sta commettendo crimini contro l’umanità. Sarebbe frustrante, di fronte alle mie figlie, a cui ripeto ogni giorno che esistono ancora i diritti umani e la giustizia. Le ultime 24 ore ci sono stati 12 bombardamenti e 126 persone sono morte, 241 ferite. È ancor più drammatico perché le persone in questi giorni hanno la sensazione distorta che grazie agli sforzi diplomatici la guerra finirà presto. Israele sta aumentando i raid. Alcune persone hanno cercato di tornare a Nord sulla scia delle notizie di una “nuova fase” ma fino ad ora continuiamo a vedere solo nuovi attacchi e nuovi massacri: 23.210 persone sono state uccise a Gaza dall’inizio del conflitto. La notte scorsa, i tremori dell’edificio dove ci rifugiamo ci hanno tormentato. Siamo 26 persone rifugiate nello scantinato. Ma si tratta di un vecchio edificio e ogni volta che c’è un bombardamento la struttura trema e corriamo tutti fuori. Siamo torturati dalle immagini degli edifici crollati e i corpi intrappolati. Viviamo nell’incubo di fare la stessa fine. Durante la notte, ogni notte numerose volte, corriamo fuori. Altrettante sono le volte che dobbiamo calmare i bambini che piangono e si mettono a urlare dalla paura dei bombardamenti».
UCRAINA, I BAMBINI DEPORTATI IN RUSSIA
Inchiesta della “Bbc”: sono migliaia i bambini ucraini deportati nelle colonie penali della Russia. Colloqui di Kiev con i cardinali Parolin e Zuppi, impegnati in un’iniziativa umanitaria. La cronaca di Avvenire.
«Le autorità russe starebbero deportando illegalmente migliaia di civili ucraini in Russia, trattenuti in colonie penali e centri di custodia cautelare senza accuse formali, indagini, processi, accesso ad avvocati o date di rilascio programmate: è quanto emerge da un'inchiesta del servizio in russo della Bbc. Secondo l’emittente britannica, si tratta di «pacifici cittadini ucraini » che vengono trattenuti per «essersi opposti all’operazione militare speciale» e non esistono documenti ufficiali della loro detenzione, pertanto questi detenuti formalmente «non esistono» nel sistema penitenziario russo e non hanno accesso agli avvocati. Secondo alcuni ex detenuti civili ucraini, prosegue la Bbc, non venivano «trattati dalle autorità russe come esseri umani e venivano torturati». Da parte sua, il ministero della Difesa russo – rispondendo a un'inchiesta su uno dei civili detenuti – ha affermato che le autorità trattenevano il detenuto in conformità con «i requisiti della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra ». La Bbc sottolinea da parte sua che la Convenzione di Ginevra vieta la presa in ostaggio di civili che non partecipano alle ostilità. Il capo dell'ufficio del presidente dell'Ucraina Andriy Yermak ha avuto un colloquio telefonico con il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, e con il cardinale Matteo Zuppi, inviato speciale di papa Francesco e presidente della Conferenza episcopale italiana. Lo ha riportato la Conferenza episcopale ucraina. Secondo quanto riportato, in entrambe le conversazioni, avvenute lunedì, «le parti hanno discusso le conseguenze dei massicci attacchi missilistici contro le zone abitate ucraine effettuati negli ultimi dieci giorni». Il capo dell'ufficio di presidenza ucraina ha ringraziato il cardinale Zuppi anche per l'iniziativa delle vacanze estive dei bambini ucraini in Italia. Nei due colloqui telefonici, secondo quanto riportato, «le parti hanno discusso del coinvolgimento del Vaticano nell'attuazione degli aspetti umanitari contenuti nella “Formula di pace” ucraina e in particolare dell'iniziativa “Bring Kids Back UA” per il ritorno dei bambini ucraini deportati illegalmente». Secondo l’ufficio della Procura generale ucraino, sono almeno 520 i bambini uccisi in Ucraina dall'inizio dell'invasione e oltre 1.191 sono rimasti feriti. Infine ieri un gruppo di hacker ucraini, probabilmente con il supporto dell'intelligence, ha violato il provider internet di Mosca M9com e ha “demolito” i server con il risultato che parte della capitale russa è rimasta senza internet e tv».
ABUSO D’UFFICIO, PRIMO SÌ ALL’ABOLIZIONE
Veniamo alle vicende italiane. Primo voto in Senato sulla giustizia: la maggioranza e Italia Viva vogliono eliminare l’abuso d’ufficio e modificare la legge Severino. Giulia Bongiorno dice: c’è intesa su tutti i reati della Pubblica amministrazione. No di Pd e M5S. Virginia Piccolillo per il Corriere della Sera.
«Un primo sì all’abolizione dell’abuso d’ufficio e un colpo alla legge Severino per lasciare al proprio posto sindaci e assessori condannati in primo grado. La prima seduta della commissione Giustizia del Senato, sulla riforma della Giustizia, si è conclusa così. Con l’approvazione dell’articolo 1 del disegno di legge Nordio sulla cancellazione tout court del reato finora contestato al pubblico ufficiale che ha agito contro i doveri d’ufficio, anche per ottenerne benefici. A votare con la maggioranza anche Italia viva, con Ivan Scalfarotto. Soddisfatto il Guardasigilli per l’abolizione di quel «reato evanescente». Protestano le opposizioni, Terzo polo escluso, per il «vuoto di tutela per i cittadini». Mentre la presidente senatrice della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, rassicura: «Colmeremo quei vuoti». Lei spiega: «La mediazione con il ministro Nordio l’abbiamo trovata in un accordo. È giusto evitare di riscrivere per l’ennesima volta quella norma, ma vorremmo evitare che in assenza di quel reato i pm contestino quelli più gravi o non ne contestino affatto. Quindi ci siamo impegnati a una verifica per porre mano a ogni criticità» e rivedere tutti i reati contro la Pubblica amministrazione. La norma, assieme al resto del ddl, dovrà passare al vaglio dell’Aula e poi andare alla Camera per il via libera definitivo. Entusiasta il Guardasigilli per quell’abrogazione «richiesta a gran voce da tutti gli amministratori di ogni parte politica, che contribuirà all’accelerazione delle procedure e avrà quell’impatto favorevole sull’economia auspicato da Meloni». In una nota il ministro formula l’auspicio che «la parte residua del ddl, venga approvata nel più breve tempo possibile». Già stamane alle 9.15 la commissione tornerà a riunirsi per votare gli emendamenti al testo sull’articolo 2. Quello che contiene la parte relativa alle intercettazioni, con i limiti alle pubblicazioni e la tutela del segreto dei colloqui fra avvocato e cliente. Dura la protesta delle opposizioni. Per l’ex magistrato, ora senatore M5S, Roberto Scarpinato è «surreale abrogare il reato di abuso d’ufficio, ridimensionare il reato di traffico influenza, diminuire in modi obliqui i poteri di indagine della magistratura sui reati dei colletti bianchi». Così «si favorisce la predazione delle risorse pubbliche da parte dei comitati di malaffare», accusa l’ex pm. «Sarà un boomerang», avverte il capogruppo pd in commissione Alfredo Bazoli, prefigurando il rischio di indagini più pesanti sugli amministratori. E rincara: «Avevamo presentato molti emendamenti per migliorare quel reato. Abolirlo significa lasciare i cittadini privi di tutela». Per di più l’Europa sta «approvando la direttiva sull’abuso d’ufficio e il reato dovrà essere inserito nel nostro ordinamento», conclude. Ma a sollevare critiche pesanti è stato ieri anche l’ordine del giorno contro la sospensione degli amministratori pubblici condannati in primo grado, senza deroghe per mafia o corruzione. «È ovvio che i reati di grave allarme sociale verranno esclusi quando ne discuteremo» assicura l’autrice, la leghista Erika Stefani. E spiega: «Era un emendamento, lo abbiamo trasformato in Odg perché la legge Severino va, in parte, rivista: gli amministratori non possono stare sempre sulla graticola».
RENZI: DELMASTRO DEVE LASCIARE
Eugenio Fatigante intervista per Avvenire Matteo Renzi, leader di Italia Viva. Che dice: sulla vicenda del sottosegretario Andrea Delmastro e il suo uso della Penitenziaria chiederò al ministro Nordio di dirci la verità. Sull’abuso d’ufficio parlano i dati del 2021: 4.720 indagati e solo 18 condannati.
«Senatore Matteo Renzi, in questo inizio 2024 quale fatto l’ha inquietata di più?
La vicenda dello sparo alla festa del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. Intanto, questi deputati di Fratelli d’Italia sono dei pazzi irresponsabili: mentre tutte le famiglie italiane giocano a risiko o tombola e cantano le canzoni di Battisti al karaoke, questi portano le pistole. In una sala piena di bambini. Lei consideri che tre ore prima il nostro presidente della Repubblica, Mattarella, aveva fatto un richiamo proprio sul tema delle armi da fuoco. Sono folli. E come se non bastasse, qualcuno mente. Lei fa accuse pesanti.
A cosa si riferisce?
Alla realtà. Tutti danno la colpa al deputato pistolero, Pozzolo, ma le versioni non coincidono. E lui continua a urlare la sua innocenza e dice di essere abbandonato. Delmastro ha gli uomini della scorta a cena con lui e questi uomini, anziché seguirlo quando il sottosegretario esce al buio da solo, restano simpaticamente a gozzovigliare e controllare le pistole? Ma pensano che possiamo credere alle loro bugie? Su questa vicenda non ci fermeremo. E domani (oggi per chi legge, ndr) sarò in Aula – al question time – per chiedere al ministro Nordio di dirci la verità. Qualcuno sta mentendo. Il governo sta facendo una figura vergognosa. E Delmastro dovrebbe dimettersi immediatamente togliendo la presidente Meloni dall’imbarazzo.
Ma perché Delmastro dovrebbe dimettersi?
Ha organizzato un veglione con pistole, ha usato la polizia penitenziaria come un club di amici, sa benissimo che qualcuno sta mentendo, ma non ha aiutato a chiarire. Ma in vicende del genere prima o poi qualcuno parlerà. E il castello di bugie verrà giù tutto insieme.
Su Acca Larentia Fdi si limita a dire che non c’entra con quella commemorazione. E La Russa chiede chiarezza alla Cassazione sul saluto romano. Le basta?
Penso che quei tre ragazzi, uccisi solo perché erano missini, meritino rispetto e commemorazione. La violenza degli anni ‘70 non può essere cancellata o riletta alla luce dell’ideologia. Dunque, il mio personale cordoglio va alle famiglie e agli amici di quei tre ragazzi. Quanto alla manifestazione, mi fa piacere che La Russa si affidi alla Cassazione. Ma pongo un problema politico: qui identificano un loggionista della Scala solo perché urla «viva la Costituzione antifascista» e nessuno dice una parola su trecento saluti romani? Ma soprattutto: Meloni interviene su tutti i rave party ed è molto sensibile alle peripezie di Chiara Ferragni. Ci fa piacere. Su questa scena invece ha perso la voce? Non fa neanche un tweet?
Veniamo all’economia. Come spiega il contrasto tra un Pil fiacco e un’occupazione che segna primati, come dice oggi l’Istat?
Il tema è interessante. Il vero problema non sembra più l’occupazione, ma il salario. Gli stipendi pesano troppo poco. Ho visto uno studio che mi ha colpito: lo stesso carrello, con la stessa spesa, costa il 18% in più di 4 anni fa. Questo è il dramma del nostro tempo. Perché gli stipendi non sono aumentati del 18%. E le famiglie non ce la fanno, soprattutto le famiglie con figli. La Meloni dovrebbe preoccuparsi di questo anziché inseguire quello che spara al veglione, il cognato che ferma i treni, una classe dirigente di scappati di casa. L’inflazione picchia durissimo.
La premier ha detto che nella prossima manovra vuole confermare le principali misure varate e puntare sui tagli alla spesa. Ce la può fare?
No, ci sta prendendo in giro. Giorgia farà sei mesi di campagna elettorale splendida splendente. Poi dovrà tagliare 15 miliardi di euro con una manovra correttiva. E lì, conoscendola, potrebbe aumentare l’Iva come ha già fatto con pannolini e assorbenti. Il prossimo anno poi serviranno altri 35 miliardi. Giorgetti lo sa e infatti fischietta facendo finta di niente. Quanto ai tagli alla spesa, di che parliamo? Hanno tagliato sul fondo per i disturbi alimentari, però hanno dato milioni di euro per la segreteria di Lollobrigida. Io mi domando: ma come si può dare più soldi al cognato d’Italia per lo staff quando si taglia sulle cose serie?
Sull’abuso d’ufficio Iv ha votato con la maggioranza. Non è che vi state spostando a destra?
Ma quale spostamento a destra! Per me l’abuso d’ufficio non è una priorità ma i numeri dimostrano che ha ragione l’amico Enrico Costa e con lui Nordio. Prenda i dati del 2021: 4720 indagati per abuso d’ufficio, 18 condannati in primo grado. Ma di cosa parliamo? Per favore, preoccupiamoci di sicurezza, giustizia giusta, di chi subisce un reato e non è risarcito. Questi sono i temi reali, non l’ideologia grillina.
Fu decisivo nella caduta dei due governi Conte. Per quello Meloni l’impresa è più ardua?
Mandare a casa Conte per portare Draghi è stata una scelta fantastica. La rifarei una, dieci, cento, mille volte. Ma nel caso Meloni, la presidente può cadere solo per un collasso interno. O non regge psicologicamente lei o Salvini si inventa un nuovo “Papeete”. Questi possono crollare solo da soli.
Salvini si è sfilato dalla competizione per le Europee. Cosa significa il fatto che punti sul generale Vannacci?
Significa che Salvini ha avuto un momento di lucidità. Se si fosse candidato in prima persona sarebbe stato annichilito dal confronto con le preferenze del 2019. E anche con quelle di Meloni nel 2024. Ha avuto un sussulto di saggezza. Quanto a Vannacci, penso che si candiderà. La Costituzione glielo permette. Lo farà. E lo farà con la Lega.
Carlo Calenda ha detto no, da Bruxelles, alla lista unitaria di Renew Europe che era stata suggerita anche dai leader europei del Terzo polo. Cercherà di convincerlo?
No. Calenda è un uomo per il quale mi sono speso molto. L’ho nominato viceministro, ministro, ambasciatore. L’ho sempre sostenuto come sindaco, parlamentare europeo, candidato alle politiche. Gli ho dato le firme senza le quali sarebbe rimasto fuori dal Parlamento. Ho fatto di tutto per lui. Ha scelto di rompere il Terzo polo all’improvviso, come all’improvviso aveva rotto con Letta e con +Europa. I dati del 2 per mille o i dati delle vendite del suo libro mi sembrano collassare, proprio perché in tanti non capiscono le sue decisioni. Non le capisco neanche io, ma rispetto la sua scelta. E non dico mezza parola contro di lui: ognuno è responsabile delle sue scelte, auguri e tanta felicità a tutti.
Continuano a far discutere le sue attività “extra-italiane” che fanno schizzare i suoi redditi regolarmente dichiarati. Ci dica una parola finale sull’opportunità di questo impegno.
Lavoro, pago le tasse, rispetto le leggi. Mi dovrei vergognare? No. Si deve vergognare chi non rispetta le leggi, a cominciare dalle leggi sulla riservatezza degli atti, e chi le tasse non le paga. Io sono fiero di contribuire in tanti modi alla vita della Nazione. Continuerò a fare le cose seguendo le leggi e denunciando quelli che non le rispettano, a cominciare dai giornalisti de Il Fatto quotidiano».
L’OPPOSIZIONE DI PD E 5 STELLE NON PAGA
Commento contro corrente di Antonio Padellaro sul Fatto, che esprime dubbi sull’opposizione.
«Ok l’antifascismo dopo la falange di saluti romani ad Acca Larenzia. Ok l’indignazione per il Fratello d’Italia pistolero. Ok le accuse alla premier di bugie e omissioni nella conferenza stampa di inizio anno. Però come si spiega che nel sondaggio Swg di lunedì scorso il partito di Giorgia Meloni guadagna lo 0,7% mentre Pd, 5Stelle, Verdi e Sinistra perdono alcuni decimali a testa? Ok esistono battaglie di principio, valoriali, che prescindono dai calcoli elettorali. E fa bene la sinistra, in tutte le parvenze, a ribadire con forza il no alle recrudescenze squadriste. E se pure sono 46 anni che i camerati si esibiscono col braccio teso (anche sotto i governi progressisti che lasciarono tranquillamente fare) davanti alla sezione missina dove furono assassinati i tre militanti del Fronte della Gioventù, ciò non significa che la questione possa essere liquidata con un’alzata di spalle. Se non fosse evidente quanto il sacrosanto antifascismo del Pd (con il fattivo sostegno delle campagne di Repubblica e del gruppo editoriale Gedi), così come la polemica sul caso del deputato con la pistola Pozzolo, punti soprattutto a delegittimare la figura del presidente del Consiglio. O perché circondata da una classe dirigente inadeguata se non addirittura pericolosa. O perché giudicata incapace di prendere le distanze dal torbido mondo dei neri (non per caso). Come se la Meloni si sentisse in qualche modo condizionata dal richiamo della foresta, di quando, cioè, ad Acca Larenzia c’era anche lei, giovanissima militante del Fdg. Davanti a un legittimo uso politico delle presunte debolezze dell’avversario forse una riflessione su tali modalità di fare opposizione potrebbe non nuocere alle opposizioni divise in partes tres (o quattuor). Poiché lo stillicidio di richieste di dimissioni di questo o di quel membro del governo (bellamente ignorato come l’altro tormentone del: venga a riferire in Parlamento) non solo non porta lo straccio di un voto in più al centrosinistra ma sembrerebbe, al contrario, rafforzare la destra. Con in più la conseguenza di accentuare proprio quelle spinte identitarie e fascistoidi cui la premier cerca di sottrarsi quando, per esempio, deferisce ai probiviri Pozzolo o chiede con durezza ai suoi di “condividere la vita che faccio e la responsabilità che porto”. Una cosa è certa: visti i risultati di conferenze stampa comiziali, coi giornalisti infuga dalle domande, alla Meloni non converrebbe farne una alla settimana?».
CANDIDATURE, TELEFONATA TRA MELONI E SALVINI
Telefonata tra i due leader del centrodestra ma resta la spaccatura sulla Sardegna a una settimana dal deposito dei simboli. Dopo la decisione del leghista sulle Europee, il ministro Lollobrigida avverte che sulle liste “Giorgia ha le mani libere”. Lorenzo De Cicco per Repubblica.
«Vediamoci, va trovata una soluzione». Alla fine il “contatto” Meloni-Salvini c’è stato. Non di persona, ma via telefono. Sia la premier che il suo vice leghista sembrano consapevoli che non c’è altro modo per risolvere il tetris delle regionali (e delle Europee), che negli ultimi giorni è diventato un gioco d’incastri più complicato del previsto. Serve un faccia a faccia. Già ieri mattina diversi esponenti del Carroccio davano per scontato un primo abboccamento tra i due leader, che alla fine c’è stato. Anche se tutt’altro che risolutivo. Di temi di cui discutere, solo negli ultimi giorni, se ne sono affastellati diversi. Il primo, il più urgente, sono le Regionali in Sardegna: lunedì vanno presentati i simboli e non c’è ancora un candidato governatore che unisca il centrodestra. Poi ci sono le elezioni di giugno per Bruxelles. Un dossier che Meloni avrebbe voluto affrontare più avanti, dopo un confronto proprio con Salvini e con l’altro vice-premier, il forzista Antonio Tajani. Ma il capo della Lega l’altro ieri, di sera, in tv, ha tagliato la testa al toro: non mi candido, gli altri leader decidano per conto loro. Una mossa che ha spiazzato l’entourage della presidente del Consiglio. Che a questo punto deciderà da sola, come faceva intuire ieri pomeriggio il ministro Francesco Lollobrigida, da un divanetto del Transatlantico: «Giorgia ha solo proposto un confronto, ma non è mica obbligatorio: ha le mani libere e le ha sempre avute». Insomma, «Giorgia » farà da sé, senza concertare più di tanto, a questo punto. Racconta più di un habitué di via della Scrofa che la premier non abbia cambiato idea. Cioè che sia intenzionata a candidarsi. Anche se l’annuncio, a questo punto, potrebbe slittare ai primi di marzo. Certo, c’è un rischio, che dentro FdI stanno calcolando: l’eventualità che con Meloni capolista in tutte le circoscrizioni FdI vada perfino «troppo bene». Ovvero che oltre a scavallare il 30%, che resta l’obiettivo di fondo, possa fagocitare i junior partner della coalizione, creando ripercussioni sulla tenuta dell’esecutivo. Poco sembrano impensieriti, invece, diversi colonnelli di FdI, dalla candidatura ormai solleticata anche in pubblico da Salvini del generale Roberto Vannacci. Nella Lega c’è chi pensa che il militare del “Mondo al contrario” possa rivelarsi un volano addirittura di 2-3 punti percentuali. Ma chi in Fratelli d’Italia ha pratica con le preferenze, un mestieraccio, è decisamente meno convinto che “l’effetto Vannacci” si traduca in automatico in praterie di voti. Anzi. Si vedrà. Prima delle Europee però va trovata la famosa quadra sulle Regionali. A partire dalla Sardegna. Alle due e mezza di ieri pomeriggio una nota ufficiale della Lega ha ribadito che la candidatura del Carroccio resta quella del governatore uscente, Christian Solinas. Tempo mezz’ora e Giovanni Donzelli, dopo un lungo faccia a faccia con Meloni a Palazzo Chigi, ha confermato invece che per FdI il nome rimane quello di Paolo Truzzu, sindaco di Cagliari, iper-meloniano, che ha raccolto il placet del grosso della coalizione locale. Dentro FdI sono convinti che alla fine la Lega dovrà accettare il cambio di cavallo. Anche a costo di perdere l’unica regione del Sud in quota Salvini. E con l’incognita del Veneto, dove Luca Zaia vorrebbe correre per il terzo mandato, che FdI, al netto delle parole distensive di Meloni in conferenza stampa, non sembra orientata a concedere. Con questa chiave di lettura, cioè di un Salvini messo all’angolo, in FdI interpretano le ultime sortite del vice-premier leghista. La sua non candidatura alle Europee. La difesa di Solinas in Sardegna. Addirittura le parole al miele (c’è «accanimento ») per Chiara Ferragni, che la premier aveva preso di mira ad Atreju e non solo. Il clima è talmente concitato, in queste ore, che nel Carroccio c’è addirittura chi prefigura questo scenario: se in Sardegna il Pd riuscirà - ma è difficile - a ricomporre la frattura con Renato Soru, la Lega potrebbe più agilmente strappare con FdI e correre in solitaria. Per mandare un segnale alla premier: da sola non vinci. E se ragioni soltanto da leader di partito e non di coalizione, allora anche gli altri faranno altrettanto».
EX ILVA, LO STATO TORNA IMPRENDITORE?
Dopo la rottura tra Arcelor-Mittal e governo ecco le opzioni per il futuro dell’ex Ilva: amministrazione straordinaria, aumento al buio oppure liquidazione volontaria. Mittal dice ora: «Ok Invitalia al 66% ma la governance resti condivisa». Oggi scade l’obbligo di fornitura del gas. Luca Mazza per Avvenire.
«Dopo la spaccatura tra il governo e Arcelor Mittal al vertice dell’8 gennaio, il ritorno dello Stato imprenditore sembra uno dei pochi punti fermi della vicenda ex Ilva. È una partita industriale di sempre più difficile soluzione, perché resta avvolta da una serie di incertezze e nubi scure sul futuro. Cosa succederà oggi, il 10 gennaio, quando terminerà l’obbligo per Snam di continuare ad alimentare il colosso siderurgico? Il Tar della Lombardia che si riunirà in camera di consiglio concederà una nuova proroga per la fornitura? Dopo il “no” del socio indiano ad assumere qualunque impegno finanziario (anche come azionista di minoranza) si andrà verso un lungo contenzioso legale? Quanti soldi servono davvero per evitare la chiusura dell’acciaieria? Ci sarà un cambio di governance? Allo stato attuale esistono potenziali investitori privati disposti a entrare nel capitale? Tutte domande in attesa di risposte. Alcuni responsi arriveranno, per forza di cose, già nelle prossime ore, mentre per altri verdetti bisognerà attendere le prossime settimane. Uno dei primi nodi da sciogliere è come si concretizzerà tecnicamente la salita in maggioranza (seppur temporanea) del socio pubblico. Una delle vie d’uscita più probabili era e resta quella dell’amministrazione straordinaria. Un commissariamento che tuttavia spaventa i sindacati e i migliaia di lavoratori coinvolti (indotto compreso), in quanto complicherebbe il rilancio dell’acciaieria, a quel punto destinata a un lento e irreversibile ridimensionamento. Al momento sullo sfondo restano alcune alternative all’amministrazione straordinaria. Teoricamente, infatti, ci sarebbe una soluzione estrema come il ricorso alla procedura della “composizione negoziata della crisi” (Codice della crisi e dell’insolvenza), che consentirebbe di proteggere il patrimonio dell’acciaieria per un lasso di tempo determinato di portare Invitalia in maggioranza e negoziare con Arcelor Mittal eventuali pretese risarcitorie. Così come non si può escludere che si proceda con una liquidazione volontaria dell’azienda, con la restituzione degli impianti allo Stato a fronte di un indennizzo per il socio privato. Inoltre, dopo il rifiuto della multinazionale indiana a partecipare alla ricapitalizzazione anche da socio di minoranza, c’è anche la possibilità che il governo proceda con un aumento di capitale “al buio”, ovvero senza che sia seguito da un cambio di governance nel cda (per cui serve un quorum del 77%,). Sul punto, infatti, Arcelor Mittal non cede: «Siamo disponibili a scendere in minoranza con la salita di Invitalia al 66% – fanno sapere fonti dell’azienda – ma il controllo resti condiviso». Le opzioni, insomma, non mancano. Ma il primo nemico è il tempo. La scelta sulla mossa da fare dovrà essere presa nel giro di poche ore. Il ministro per le imprese e il made in Italy, Adolfo Urso, assicura che l’esecutivo è pronto ad assumere il controllo, pur senza specificare attraverso quale modalità: «Riprenderemo in mano la situazione dopo i disastri che sono stati realizzati dai governi precedenti, per fare di quel sito il più grande sito siderurgico green d'Europa». Garanzie che non bastano però a rassicurare le sigle metalmeccaniche, che si preparano domani a incontrare la delegazione del governo Meloni e adesso pretendono «soluzioni concrete sulla salvaguardia occupazionale, il risanamento ambientale e il rilancio industriale». La strada della salvezza passa inevitabilmente anche dal capitolo risorse. Sul piatto c’è la sottoscrizione di un aumento di capitale da 320 milioni, ma lo stesso Urso ha indicato in 1,3 miliardi il supporto finanziario necessario a garantire un futuro produttivo all’impianto siderurgico. Nell’ottica di una nazionalizzazione “a tempo”, il governo parallelamente sta sondando possibili alternative di mercato per il futuro dell’ex Ilva. Difficile trovare soggetti interessati e affidabili per un ingresso immediato nel capitale, ma alcune indiscrezioni segnalano contatti in corso sia su più fronti. Sul piano nazionale si fanno ormai da tempo i nomi di Arvedi e Marcegaglia, ma finora senza accelerazioni decisive. Non mancano, tuttavia, anche alcune suggestioni estere. Proprie ieri Urso ha comunicato che a giorni verrà annunciata la «convivenza » per il polo siderurgico di Piombino tra due investimenti industriali: quello degli indiani di Jindal (con Jsw, ex Lucchini) e della grande holding ucraina Metinvest. Nelle ultime ore le candidature di entrambi i gruppi sono circolate anche come possibili soluzioni per il futuro dell’ex Ilva».
IL SINDACATO: “LA SIDERURGIA È CENTRALE PER IL PAESE”
Massimo Franchi per il Manifesto intervista il sindacalista Michele De Palma, segretario generale della Fiom. Anche i liberisti e gli ambientalisti ora ammettono che la siderurgia è centrale per l’economia italiana.
«Michele De Palma, segretario generale della Fiom, la vicenda dell’ex Ilva è arrivata al redde rationem con la rottura fra governo e Mittal. Voi nel 2018 firmaste l’accordo con i franco indiani: non era meglio scegliere Jindal e la sua decabornizzazione?
Con i sé e con i ma non si fa la storia. Di sicuro in un momento così delicato noi continuiamo a far sentire la voce dei lavoratori, messi in secondo piano nella vertenza ex Ilva.
Voi valorizzaste quell’accordo soprattutto sotto l’aspetto occupazionale: tutti gli 11 mila lavoratori furono garantiti sebbene il passaggio dei 3 mila rimasti all’amministrazione straordinaria non è mai arrivato...
E noi infatti abbiamo sempre denunciato l’inadempienza della nostra controparte nel mancato rispetto dell’accordo, che salvaguardia tutti i lavoratori compresi quelli in amministrazione straordinaria. Ricordo sempre che i commissari hanno la custodia degli impianti. Mittal in questi anni non solo ha disatteso il piano industriale ma non ha nemmeno effettuato le manutenzioni necessarie per tenere in sicurezza gli impianti come denunciato dai nostri Rls a Genova, Novi Ligure e Taranto, col rischio di gravi incidenti sul lavoro oltre che danni ambientali.
La vera cesura avviene infatti quando Mittal chiama a dirigere l’ex Ilva Lucia Morselli, manager che voi metalmeccanici conoscete bene alla Berco e poi all’acciaierie di Terni: una vera tagliatrice di teste che entra in gioco quando il proprietario non vuole più mettere un euro.
La cesura avviene quando Mittal decide il deconsolidamento, ritira i suoi uomini e l’ex Ilva esce dal gruppo con le evidenti conseguenze finanziarie. Anche nella lunga vicenda in Fiat, non ho mai personalizzato lo scontro perché penso che come sindacalisti noi dobbiamo rappresentare l’interesse dei lavoratori. Posso però dire che con l’arrivo di Morselli abbiamo constatato il totale azzeramento delle relazioni industriali e la presa unilaterale da parte sua di tutte le scelte: se non è questo un comportamento antisindacale.
La risposta del governo dell’epoca fu la nomina di Franco Bernabè, boiardo di stato, uomo per tutte le stagioni e totalmente digiuno di siderurgia.
La prima volta che lo incontrammo ci prospettò un favoloso piano industriale di 10 anni. Io rimasi colpito perché la realtà che ci descrivevano gli operai nelle assemblee era opposta. E difatti quel piano si tramutò nella richiesta di un miliardo al solo scopo di dare continuità produttiva. Il governo dell’epoca gliene riconobbe 680 milioni, gli stessi di cui si continua a discutere e che non sono stati tramutati in aumento di capitale per avere il pubblico in maggioranza.
Ex Ilva è sempre stata una vertenza difficile per voi per lo scontro lavoro-ambiente. Paradossalmente ora anche gli ambientalisti tarantini, sempre contrari all’acciaieria, capiscono che la chiusura mette a rischio anche la bonifica. Questo paradosso apre una speranza?
Io mi metto sempre nei panni dei lavoratori di Taranto che vivono la città e gli effetti drammatici dell’inquinamento. Una parte di opinione pubblica ha pensato che ci fosse una responsabilità dei sindacati nell’aver messo il lavoro davanti alla tutela dell’ambiente. Ma la Fiom ha sempre messo al centro la dignità, come prevede l’articolo 41 della nostra costituzione. Tanto è vero che ci siamo costituiti parte civile sull’inquinamento e sulla tutela dei lavoratori. È stata la rendita, il capitale a voler guadagnare senza rispettare ambiente, leggi, sicurezza sul lavoro. Esempi di riconversioni green di acciaierie ce ne sono in Europa, dobbiamo riuscirci anche qui, non esistono scorciatoie. Con le associazioni ambientaliste dobbiamo costruire un nesso tra lavoro e ambiente per la transizione ecologica della siderurgia.
Veniamo a lunedì. Molti vaticinavano un accordo in extremis fra Mittal e governo che invece non c’è stato. Cosa succederà?
L’amministrazione straordinaria ha in sé molti rischi: azzeramento dei crediti e scontro legale con gli indiani che vogliono un indennizzo per lasciare. I lavoratori non possono pagare il prezzo dell’attendismo dei vari governi. La volontà di Mittal di non investire era evidente già allora ma noi sindacati venivamo canzonati quando la denunciavamo. Oggi perfino i commentatori più liberal-liberisti chiedono la nazionalizzazione ma il problema è che ci arriviamo con due anni di inerzia. Per noi ci sono tre condizioni imprescindibili: il mantenimento dei livelli occupazionali, della bonifica ambientale, della produzione sostenibile. Occorre mettere in sicurezza i lavoratori, gli impianti e l’ambiente. Il governo deve sapere che useremo tutti i mezzi a nostra disposizione perché qualsiasi soluzione ci sia prospettata le preveda tutte e tre. Per garantire il rilancio dell’ex Ilva occorre garantire a Taranto il ciclo integrato con Afo 5, i forni elettrici e il Dri, a Genova il ripristino del carroponte e l’implementazione della produzione di latta e manutenzione straordinaria a Novi e in tutti gli altri stabilimenti.
In tutto questo scontro dentro il governo, Giorgia Meloni non ha mai detto una parola.
In una vertenza così la presidente del consiglio ci deve essere perché senza acciaio non c’è futuro industriale per il Paese. Noi, con Fim e Uilm, davanti all’interesse straordinario, abbiamo costruito, nelle differenze, una posizione unitaria. Vorrei che lo facesse anche tutta la politica, opposizione compresa».
PARLA GOZZI, DI FEDERACCIAI: “TRAGICI ERRORI DI CONTE”
Sulla Stampa Gabriele De Stefani intervista Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e in corsa per la presidenza di Confindustria. Dice: “Il salvataggio dell’ex Ilva è decisivo per il Paese. Mittal scappa dall'ideologia ambientalista dell’Ue e per i tragici errori del governo Conte”.
«Dimezzata, con 5 mila dipendenti anziché i 10 mila attuali. Verde, perché così vuole l'Europa. E privata, perché la mano pubblica può solo curare l'emergenza. Così Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e in pista per la guida di Confindustria, immagina l'ex Ilva da qui a cinque anni. Prima c'è da bere l'amaro calice dell'ennesimo intervento pubblico in soccorso di una crisi industriale. «Serviranno 3-4 anni, perché l'azienda è in dissesto e con gli impianti abbandonati», prevede Gozzi.
La rottura tra governo e ArcelorMittal non ha sorpreso nessuno. Eppure non si è riusciti ad evitarla.
«Sì, era tutto largamente prevedibile. I segnali di disimpegno degli indiani erano evidenti da tempo: prima il ritiro del management, poi il deconsolidamento dell'azienda dal bilancio del gruppo, la creazione di un'organizzazione commerciale indipendente, fino alla chiusura dei rubinetti anche quando era diventato inevitabile iniettare denaro».
Il governo avrebbe dovuto intervenire prima?
«Ci sono state posizioni non omogenee che hanno fatto perdere tempo. C'era chi da mesi premeva perché lo Stato prendesse il controllo e chi riteneva possibile un accordo con Mittal. Ho sempre pensato che la seconda posizione fosse sbagliata, lo scenario era chiaro. E così è stato. Ma i problemi vengono da più lontano».
Si riferisce alla revisione dei patti voluta dal secondo governo Conte?
«Quella fu una gestione sciagurata. Pur di sventolare la bandierina della revoca dello scudo penale, vennero concesse nei patti parasociali condizioni che oggi diventano guai seri. Mittal può comandare anche se si disimpegna, impedendo l'aumento di capitale. Così lo Stato è obbligato a mettere l'azienda in liquidazione. Il secondo tragico errore fu prevedere la possibilità di un indennizzo per l'uscita in caso di inadempienze del socio pubblico. Sono due elementi che ora Mittal userà per ricattare il governo e incassare una buonuscita. Qualcuno dovrebbe assumersi la responsabilità di questi tragici errori».
Ci sono anche le responsabilità dell'azienda.
«Se un affare va male, un imprenditore non può scaricare tutte le colpe sugli altri. Qui non c'è più un euro per pagare gas e materie prime, da anni non si investe né si fa manutenzione, siamo in uno stato di insolvenza di fatto».
Mittal uscirà limitando i danni o si opporrà in tribunale?
«Hanno grandi alibi a loro disposizione: la riscrittura di quei patti, la cancellazione dello scudo penale e il mancato dissequestro degli impianti. Ma mi auguro che Mittal rinunci ai contenziosi: capita di sbagliare un investimento, non lo hanno saputo gestire, al di là degli errori dei governi. Resta il fatto che la loro scelta va contestualizzata».
In che senso?
«È un gruppo globale enorme, che ha il centro delle sue attenzioni altrove. Prima di tutto in India, dove la produzione di acciaio sta per esplodere: sono fermi a 150 milioni di tonnellate annue, contro gli 1,1 miliardi della Cina, in un Paese da 1,3 miliardi di abitanti. E poi negli Stati Uniti, dove non ci sono limitazioni ambientali pesanti come quelle europee. La Commissione con il Green Deal ha voluto che dal 2028 non ci saranno più quote gratuite per le emissioni di anidride carbonica nella siderurgia: essere competitivi qui sarà semplicemente impossibile. Normale che un gruppo come Mittal vada dove potrà continuare a lavorare. L'ideologia ambientalista della decarbonizzazione sta uccidendo la nostra industria».
Che cosa fare ora?
«Il governo ha fatto bene a chiarire subito che garantirà la continuità produttiva. Ma l'intervento dello Stato ha senso solo se è transitorio: sistemare l'azienda e rimetterla sul mercato. Prima però servono tre momenti di verità. Vanno chiariti i patti parasociali rimasti segreti, il livello dei debiti e di garanzie statali e lo stato degli impianti, su cui non si investe dai tempi dell'esproprio senza indennizzo subito dai Riva».
Perché la soluzione dovrebbe essere la mano pubblica? Nella storia industriale italiana l'elenco dei casi di fallimento è molto lungo.
«Ora non c'è alternativa. E il controllo pubblico servirà per almeno 3-4 anni, perché è tutto da rifare. Serve un piano industriale serio costruito a partire dalle norme ambientali europee che obbligano a ripensare tutto il settore. Impianti come il vecchio altoforno 5 di Taranto, un gioiello per la siderurgia, ora sono fuori mercato. Io immagino un'ex Ilva da 5-6 mila dipendenti e 5 milioni di tonnellate di produzione annua».
Perché il salvataggio è decisivo per il Paese?
«C'è chi dice che ormai l'ex Ilva sia stata sostituita da altri fornitori nei settori che trasformano il metallo: automotive, elettrodomestici, edilizia. Ed è vero. Ma il conto si paga sul fronte della competitività. Importare acciaio significa consegne a 4 mesi anziché a 30 giorni. Con due conseguenze. La prima: un rischio-prezzo elevatissimo, perché le condizioni in quattro mesi cambiano. La seconda: in fase di tassi di interesse alti, essere costretti a importanti approvvigionamenti è un costo molto pesante. Non sarà un caso se nessun Paese che produce acciaio ci rinuncia. Solo i soloni di Bruxelles ci dicono che puoi comprarlo ovunque e pagarlo la metà. È ideologia mercatista».
Servono almeno 4 miliardi per decarbonizzare. Realisticamente chi può metterli?
«In Germania lo Stato ha regalato 2 miliardi a Thyssen per l'acciaieria verde di Duisburg e nessuno ha fiatato parlando di aiuti di Stato. Se il Pnrr non serve a questo, non so a cosa serva. Bisogna riflettere una volta di più sul fatto che l'Ue non abbia costituito un grande fondo per la decarbonizzazione di tutta la manifattura europea. Ci dovremo battere per cambiare questa situazione».
Esistono imprenditori davvero interessati a Taranto?
«Alle giuste condizioni, sì. Penso ad esempio ad Arvedi, il numero uno in Italia. E mi lasci dire che questa vicenda dimostra che l'italianità è necessaria per i settori strategici: per l'ideologia turbocapitalistica non conta la nazionalità della proprietà, ma i fatti dicono il contrario. Troppo spesso abbiamo visto investitori stranieri comportarsi così».
È il mercato.
«Sono uomo di mercato: se un progetto è sano e serio, stendo i tappeti rossi senza guardare alla nazionalità. Ma se, come accade nella siderurgia, questi gruppi sono guidati da opportunismo, non va bene. A Terni l'impegno di un imprenditore serio come Arvedi ha dato ben altri risultati».
IL MONDO È OTTIMISTA SULL’ACCIAIO
Acciaio, il mercato mondiale è atteso in ripresa e i leader europei sono pronti al rilancio. Dopo le difficoltà del 2023 prevale l’ottimismo sui principali mercati mondiali. Le previsioni per il 2024. Matteo Meneghello per il Sole 24 Ore.
«L’anno del Drago, siderurgicamente parlando, forse sarà più favorevole agli Stati Uniti che alla Cina. Ma in generale le aspettative per l’acciaio nel 2024 - dopo un anno interlocutorio passato a guardare indietro con nostalgia agli utili del biennio favoloso 21-22 - sono positive, e anche l’Europa potrà partecipare alla festa. Le previsioni di scenario per l’anno prossimo nel mondo dell’acciaio virano tendenzialmente al bello. Che la ripartenza per l’acciaio sia nell’aria è confermato dai corsi azionari dei principali produttori quotati sui mercati continentali: dopo avere toccato i minimi nella prima parte dell’autunno, il mini-listino dell’acciaio ha beneficiato come altri settori dell’auspicio di una frenata dell’inflazione e di politiche monetarie meno restrittive, innescando un piccolo rimbalzo che ha portato a ridurre e quasi azzerare le perdite da inizio anno. L’avvio del 2024 è stato ancora in salita, ma dopo lo stress test degli ultimi trimestri, superato mediamente senza patemi, il 2024 può essere un anno di svolta. Il peggio è alle spalle. Ne sono convinti i ricercatori di Bank of America, che nella consueta indagine previsionale sul settore metallurgico e delle materie prime, vedono per l’acciaio una ripresa della produzione dopo il rallentamento dell’ultimo anno. Il settore, anticiclico per definizione, sta mandando segnali che sembrano anticipare una ripresa dell’economia mondiale dopo le difficoltà legate soprattutto alle politiche monetarie restrittive. «Prevediamo un’accelerazione della produzione – spiegano gli analisti -. I venti contrari che hanno soffiato durante il 2023 dovrebbero placarsi via via che l’economia globale tornerà ad accelerare». Dopo il -3,9% del 2022, «la produzione di acciaio dovrebbe chiudere il 2023 con un +0,2% per poi salire a un +1,9% l’anno prossimo, al quale seguirà un +1,1% nel 2025». Attenzione, però, perché gli equilibri e le dinamiche interno al mercato mondiale dell’acciaio stanno cambiando. La Cina, con poco più di un miliardo di tonnellate prodotte, resta il dominus del mercato, anche se ha ormai interrotto la cavalcata dell’ultimo decennio, e nei prossimi anni dovrebbe confermare questa condizione di stazionarietà o lieve rallentamento. Chi invece continuerà a crescere è l’India, che dovrebbe ritoccare all’insù la sua produzione anche nei prossimi anni. Ma l’anno prossimo torneranno a crescere soprattutto Europa (+14%) e Usa (+3,7%), anche se è in particolare sul versante prezzi che il mondo occidentale batterà un colpo. In queste due macro-aree i listini sono scesi rapidamente dal secondo trimestre di quest’anno, sull’onda della crisi energetica e della stretta monetaria. Passata l’estate, però, il vento sta cambiando. Negli Usa prezzi degli Hrc, cioè i coils a caldo, «hanno innescato una nuova fase di rally da settembre - spiega BofA - grazie alla fornitura regolare dei laminatoi e alla resilienza della domanda del mercato dell’auto»: si inquadra anche in questo scenario la recente maxi-acquisizione di Nippon Steel, che ha rilevato per 14 miliardi di dollari Us Steel, rafforzando il footprint su un mercato-chiave come quello nordamericano. In Europa, invece, i prezzi dei coils scontano ancora un gap nei confronti di quelli americani e la domanda resta debole. Ma, nonostante segnali ancora interlocutori, le indicazioni dei principali protagonisti del mercato sembrano per la maggior parte improntate all’ottimismo. Le quotate europee salutano un 2023 di grande sofferenza, ma l’ultima parte dell’anno, sui mercati, sono stati all’insegna di un rafforzamento (anche grazie ai segnali positivi sul fronte macroeconomico) che ha quasi riportato i valori dei titoli sugli stessi livelli di inizio anno. Un caso esemplare è quello di ArcelorMittal, il principale produttore europeo e tra i maggiori al mondo. Il titolo dell’azionista di Adi ha innescato un mini-rally a metà novembre (dopo che aveva toccato i minimi dell’anno) in concomitanza con la presentazione dei risultati trimestrali, che hanno confermato la debolezza del 2023, con un calo delle spedizioni complessivo del 3,7% (del 10,1% guardando alla sola Europa). Ma il Gruppo si è mostrato positivo sull’evoluzione della domanda di acciaio, e lo stesso ceo, Aidtya Mittal, si è detto «fortemente ottimista» sulle prospettive di medio-lungo periodo dell’azienda, sottolineando che «grazie alla solida posizione finanziaria resterà concentrata sull’esecuzione della sua strategia di crescita con ritorno di capitale». Dopo avere superato i 30 euro in marzo, il titolo ha iniziato a scendere toccando i 20 euro, il minimo degli ultimi due anni, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre (in parte anche come conseguenza dell’incidente in una miniera in Kazahstan che è costato la vita a 40 persone); a dicembre però si è innescato il parziale recupero. In attesa anche Voestalpine: nel primo semestre dell’anno fiscale 2023-24 il produttore austriaco ha visto calare le vendite dell’8,4%; lo scenario – segnalano gli amministratori - si conferma in rallentamento, in particolare in Europa, e la situazione non dovrebbe mutare nella seconda metà dell’esercizio fiscale. Con alcune eccezioni, però, e una di queste è rappresentata dall’industria automotive, che dovrebbe mantenere segnali di solidità. Andamento simile anche per la tedesca Salzgitter, e per la finlandese Outokumpu. Un discorso a parte richiede ThyssenKrupp, con il titolo che ristagna da tempo tra i 6 e i 7 euro, poco sopra i minimi storici: il gruppo tedesco sta cercando da tempo di dismettere la divisione acciaio. «Il 2023 è stato un anno di grande sofferenza, ma la maggior parte dei principali player europei – commenta Emanuele Norsa, analista di Kallanish – è arrivata preparata e con i bilanci in ordine a questo appuntamento, dopo un biennio 2021-22 all’insegna di grandi risultati. I segnali di ripresa di queste settimane, in particolare con i prezzi cinesi che stanno trascinando positivamente il sentiment nel resto del mondo, si accompagnano però a uno scenario di prezzi delle materie prime ancora sostenuto - prosegue -. Iron ore, coking coal, rottame premono ancora sul versante dei costi, e per questa ragione credo che il 2024 possa essere ancora complicato sul fronte della marginalità. Probabilmente si renderà ancora necessario, come avvenuto nell’anno che si sta per chiudere, controllare l’output e trovare il giusto bilanciamento tra domanda e costi di approvvigionamento; senza contare i fattori di rischio eccezionale rappresentati dai conflitti geopolitici, con i recenti impatti sui noli mercantili. In generale - conclude - le prospettive sono moderatamente positive, ma serve ancora un forte impegno e capacità di controllo da parte dei protagonisti del settore per governare le variabili e i venti contrari ancora in campo».
NUOVO CONCORSO PER I DOCENTI DI RELIGIONE
Il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, e il ministro Giuseppe Valditara hanno firmato l’intesa per il concorso ordinario degli insegnanti di religione. A breve il bando. In tutto sono disponibili 6.400 cattedre. Il 70 per cento andrà ai precari. Paolo Ferrario per Avvenire.
«A vent’anni di distanza dall’ultimo, si terrà un nuovo concorso per gli insegnanti di Religione cattolica. Lo prevede l’intesa, firmata ieri pomeriggio dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana e dal ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara. L’accordo riguarda il concorso ordinario per la copertura del 30 per cento dei posti vacanti, mentre il restante 70 per cento dei posti disponibili sarà assegnato con una procedura straordinaria, riservata ai docenti con almeno 36 mesi di servizio. Complessivamente si tratta di circa 6.400 insegnanti. Il concorso si legge nel testo dell’intesa, «è bandito, nel rispetto dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense stipulato tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana il 18 febbraio 1984 e dell’Intesa tra il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana e il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca sottoscritta il 28 giugno 2012». Tra i requisiti per partecipare alla selezione - che si articolerà in una prova scritta e in una orale - è prevista la certificazione dell’idoneità diocesana all’insegnamento della religione cattolica «rilasciata dal Responsabile dell’Ufficio diocesano competente, nei novanta giorni antecedenti alla data di presentazione della domanda di partecipazione». Siglando l’intesa, il cardinale Zuppi ha espresso gratitudine al ministro Valditara per «aver colmato un vuoto e per la collaborazione aperta e feconda che si è instaurata in vista di questo importante passaggio». «Al di là dell’atto formale, richiesto dalla legge – ha aggiunto – il presente accordo riconosce e riafferma il valore degli insegnanti di religione nelle nostre scuole: educatori preparati e appassionati che arricchiscono l’esperienza scolastica con un’occasione unica di dialogo, approfondimento culturale e confronto interdisciplinare. È giusto che sia data loro maggiore stabilità e sicurezza». «Grande soddisfazione» è stata espressa dal ministro Valditara: «Tradurremo rapidamente questo accordo in fatti concreti», ha sottolineato. Secondo alcune ipotesi, già presumibilmente nel mese di febbraio potrebbe essere pubblicato il bando del concorso ordinario in cui sarà stabilita la data della prova. Tornando invece alle parole di Valditara, il ministro ha aggiunto che quest’intesa costituisce una «soluzione equilibrata» che tiene conto della «qualità dell’insegnamento» e delle «legittime aspettative» di tanti docenti. «L’insegnamento della religione – ha dichiarato il Ministro – è un’occasione di confronto e di dialogo sui principi etici e morali che da sempre accompagnano le civiltà nel loro cammino. È anche l’occasione per andare alle radici della nostra civiltà imparando a conoscere il messaggio cristiano. Approfondire questi temi, soprattutto per una società che ha perso i punti di riferimento, significa fornire agli studenti gli strumenti per conoscere alcuni aspetti imprescindibili della nostra storia. Grazie a docenti motiv ati e competenti sarà possibile creare sempre più momenti di approfondimento e di arricchimento culturale». Con l’obiettivo di «mettere gli studenti al centro» secondo il modello della «scuola costituzionale». «Nella nostra Costituzione la persona è al centro – ha ricordato Valditara – grazie all’azione di quei costituenti, penso a Giorgio La Pira, che si sono ispirati anche al pensiero cristiano che mette, appunto, al centro la persona».
SGARBI INDAGATO PER AUTO RICICLAGGIO
Vittorio Sgarbi finisce indagato per il possesso di un quadro del Seicento. Aperto un fascicolo per auto riciclaggio di opera d’arte. La sinistra scatenata: si dimetta. Manuela Messina per Il Giornale.
«Il caso del quadro del Seicento attribuito al senese Rutilio Manetti trascina Vittorio Sgarbi nella bufera politico-giudiziaria. Mentre il critico d’arte risulta indagato per autoriciclaggio di opera d’arte, le opposizioni insorgono e nell’Aula della Camera Partito democratico, Movimento cinque stelle e Alleanza verdi e sinistra chiedono la revoca del suo incarico di sottosegretario alla Cultura. Da parte sua, Sgarbi ha negato di avere ricevuto un avviso di garanzia che lo informava di essere indagato, come invece rivelato dal Fatto che invece ha diffuso la notizia di una inchiesta a suo carico a Macerata, dove risiede, poi confermata dal procuratore Giovanni Fabrizio Narbone. Qui per competenza territoriale, sarebbero stati trasmessi gli atti giudiziari provenienti da Imperia. «Se i magistrati vogliono vedere il quadro, sono a disposizione per farlo vedere e analizzare da un perito dei magistrati. Così questa vicenda si può risolvere rapidamente», chiarisce subito il critico d’arte. L’opera in questione, ovvero «La cattura di San Pietro» fu rubata nel 2013 dal Castello di Buriasco, vicino a Pinerolo, nel torinese, ed era di proprietà di un’anziana signora, di nome Margherita Buzio. Opera riapparsa solo otto anni dopo in una mostra a Lucca, dal titolo «I pittori della luce», il cui pezzo forte era proprio l’inedito di Manetti. Con un dettaglio in più: una torcia nel fondale, che non appare invece nella foto dell’Anticrimine che indagava sul quadro rubato. «Il mio dipinto è diverso da quello della signora – si dice sicuro con Il Giornale il sottosegretario - che infatti nella sua denuncia scrive: riproduzione dell’originale che si trova in Vaticano. Il mio ha una fiaccola bellissima che illumina lo spazio con una colonna meravigliosamente illuminata. Si trovava a Viterbo in una villa di campagna che ho comprato». Il noto critico d’arte è sicuro che si tratti di due dipinti diversi: «Il suo ha degli elementi diversi da quello che ho trovato io». Nota l’esperto d’arte che «molto spesso questo pittore ha la tecnica di mettere una lucerna che è la chiave del mio quadro bellissimo» e che «l’indagine consentirà di fare una perizia sul quadro, chiarendo la situazione una volta per tutte». Tra i più agguerriti nel chiedere che la premier prenda provvedimenti sul caso Sgarbi, c’è il presidente grillino Giuseppe Conte secondo il quale vi è il ritorno a «un pericoloso intreccio tra politica e affari, i comportamenti di cui la presidente del Consiglio non può tacere». Anche la deputata Pd Irene Manzi parla di «accuse molto gravi» per il sottosegretario che richiedono decisioni serie ed immediate da parte della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano». E anche su questo punto Sgarbi, come sempre, non le manda a dire: «Delle opposizioni penso che siano più ignoranti dei giornalisti che hanno fatto l’inchiesta». L’ipotesi dimissioni? «Se l’Antitrust giudica incompatibile la mia carica io mi dimetto, non sulla base di inchieste giornalistiche basate sulla retorica».
ATTAL, NUOVO PREMIER FRANCESE
Le altre notizie dall’estero. Stefano Montefiori sul Corriere della Sera traccia un identikit del nuovo capo del governo francese voluto da Emmanuele Macron. Gabriel Attal, 34 anni, con un passato socialista, è stato il più popolare dei Ministri dell’ultimo governo, guidando l’Istruzione. Si è distinto per aver vietato in classe l’abaya, la tunica islamica. Dichiaratamente omosessuale, i maligni dicono che studi da nuovo Emmanuel Macron.
«Al posto della fedele, efficace e incolore Élisabeth Borne ecco il fedele, efficace e brillantissimo Gabriel Attal, 34 anni e un destino da nuovo Macron. Sempre che il format — giovane, ottimi studi, grande capacità mediatica e capacità di pescare idee a destra e a sinistra — abbia ancora un futuro, quando mancano oltre tre anni alla fine del secondo e ultimo mandato all’Eliseo di Emmanuel Macron, che quel format vincente l’ha inventato. Il più giovane presidente della storia di Francia ha nominato il più giovane primo ministro della storia di Francia, e le fonti dell’Eliseo sottolineano che si tratta di un «ritorno alle origini» del macronismo, un rilancio fatto di coraggio e audacia intellettuale. In un contesto di Francia fratturata, di società divisa in isole che non si parlano, di contrasti continui tra popolo e élite, tra Parigi e provincia, Macron scommette su qualcuno che rappresenta l’élite ancora più di lui, che almeno veniva dalla provincia e aveva fatto le scuole ad Amiens. A differenza di Macron, Gabriel Attal è un parigino. Di più, è un parigino che nella sua formazione — tutta nelle scuole private — non si è spostato dal VI e dal VII arrondissement, i ricchi quartieri della nobiltà intellettuale della rive gauche , tra le case editrici, la prestigiosa École Alsacienne e Sciences Po. Scegliendo Attal, Macron ha scelto un Macron al cubo, ancora più giovane e levigato di lui. E a differenza dei semi-sconosciuti predecessori Édouard Philippe (all’epoca sindaco di Le Havre), Jean Castex (ligio funzionario dei Pirenei orientali) ed Élisabeth Borne (oscura ministra del Lavoro), Gabriel Attal arriva a Matignon sulla cresta dell’onda, da favorito, grazie a un attivismo da ministro dell’Istruzione che da giugno a oggi lo ha fatto diventare il politico più popolare del Paese, secondo i sondaggi. In altri tempi, proprio per questo, Macron lo avrebbe scartato. Ma forse il presidente non teme più che altre stelle possano offuscare la propria, e ha individuato in Attal l’uomo che potrebbe succedergli nel 2027, prolungando il macronismo dopo Macron. Il nuovo primo ministro francese è figlio di Marie de Couriss, discendente di una famiglia di russi bianchi di Odessa, e di Yves Attal, originario di una famiglia ebrea tunisina, avvocato, giornalista e grande produttore cinematografico (da Tacchi a spillo di Pedro Almodóvar a Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci). Il padre è stata una figura decisiva nella vita di Attal: è a lui che il premier ha confidato per la prima volta «mi sono innamorato di un ragazzo», e la sua morte improvvisa nel 2015 a 66 anni è stata uno choc. Da allora, ogni volta che Gabriel Attal cambia ufficio e ministero — e ne ha cambiati tanti —, si porta dietro la scrivania del papà. Come molti grandi personaggi, Gabriel Attal ha anche un grande nemico di sempre: il coetaneo ed ex compagno di scuola Juan Branco, avvocato dei gilet gialli e di Julian Assange, che bullizzava Attal alle medie e al liceo, ha rivelato la sua omosessualità e la sua relazione con Stéphane Séjourné (oggi segretario di Renaissance, il partito di Macron), e che ieri subito dopo la nomina non ha saputo trattenersi e ha pubblicato su X uno sterminato post di insulti. In Branco, Attal ha trovato il nemico personale di una vita. L’avversario politico a breve termine è invece Jordan Bardella, 28 anni, capolista di Marine Le Pen alle europee di giugno. Se il nuovo premier vuole davvero puntare all’Eliseo, prima dovrà vincere il duello con Bardella, nato alla periferia di Parigi in una famiglia di immigrati piemontesi, e il più giovane di tutti».
TRUMP CHIEDE L’IMMUNITÀ
Donald Trump si presenta in aula e prende appunti in silenzio. Il suo legale chiede l’immunità per non aprire il “vaso di Pandora” delle accuse reciproche fra presidenti. Viviana Mazza per il Corriere.
«Tre giudici di Washington hanno ascoltato ieri con scetticismo, per oltre un’ora, l’istanza d’appello presentata da Donald Trump, che rivendicava in quanto ex presidente l’immunità penale nel caso federale per aver tentato di sovvertire l’esito del voto nel 2020. Trump ha fatto ricorso alla Corte d’appello dopo che la giudice Tanya Chutkan — la stessa alla quale è stato assegnato il caso federale — ha negato l’immunità lo scorso mese, spiegando che gli ex inquilini della Casa Bianca non hanno «il diritto divino dei re di evadere le responsabilità penali che si applicano ai loro concittadini». Trump era presente ieri mattina in aula, non per necessità ma per scelta: prendeva appunti su un blocco giallo e li mostrava di tanto in tanto al suo legale John Sauer, mentre quest’ultimo veniva interrogato dalle tre giudici Karen Henderson (nominata da George H.W. Bush), Florence Pan e Michelle Childs (nominate da Biden). Ma le loro domande rivelavano profondi dubbi sulla validità delle argomentazioni del legale dell’ex presidente, il quale ha affermato che consentire al caso di Jack Smith — il procuratore speciale — di proseguire sarebbe come «aprire un vaso di Pandora, qualcosa da cui la nazione non si riprenderebbe più», perché porterebbe ad un ciclo di vendette in cui ogni presidente potrebbe mettere sotto processo il suo predecessore. La giudice Pan ha presentato una situazione ipotetica, chiedendo a Sauer se un presidente possa essere o meno incriminato se ordinasse alle forze speciali dei Navy Seals di assassinare un rivale politico. L’avvocato ha sostenuto che non possa essere incriminato, a meno che non sia stato prima messo sotto impeachment e condannato dal Senato. Le giudici hanno replicato che impedire il processo di Trump avrebbe conseguenze negative per la nazione, come indebolire l’applicazione della legge e della Costituzione: «Credo sia paradossale dire che il suo dovere costituzionale di assicurarsi che la legge venga applicata in modo corretto gli consenta di violare il codice penale», ha detto Henderson. Il verdetto non è stato espresso ieri: non è chiaro quanto entrerà nel merito e quanto sarà ampio (se verterà sull’immunità presidenziale da ogni processo penale o sul solo caso di Smith). In ogni caso, ci si attende che Trump faccia appello alla Corte suprema, che dovrà decidere se (ed eventualmente quando) ascoltare il caso. Ottenere l’immunità è solo uno degli obiettivi di Trump. L’altro è di rallentare a sufficienza tutti i processi: quello a Washington era inizialmente previsto il 4 marzo, ma la data è ora in sospeso, fino al verdetto definitivo sull’immunità, e non è chiaro se riuscirà effettivamente ad avvenire prima del voto di novembre. Se Trump vince le elezioni e torna alla Casa Bianca, potrà cercare di far cadere le accuse o di ottenere la grazia. Anche ieri è stato evidente come le apparizioni in tribunale facciano parte della sua campagna elettorale: Trump si è presentato nonostante i giudici non dovessero rivolgergli domande. Lo ha fatto prima di recarsi in Iowa per i caucus di lunedì prossimo, in cui secondo i sondaggi è il superfavorito e che sono le prime primarie repubblicane per incoronare il candidato alla Casa Bianca. Poi assisterà giovedì all’arringa finale nel processo civile a New York, anche qui per scelta. Sauer ha presentato il suo cliente come «il rivale principale» di Biden, «in testa in ogni sondaggio». In conferenza stampa, il tycoon ha recriminato ingiustizie e ventilato vendette. «Se mi negano l’immunità avrebbero dovuto negarla anche a Obama», ha detto riferendosi alla sua controversa guerra segreta con i droni che causò vittime civili in Pakistan, Somalia e Yemen. «Se mi negano l’immunità non l’avrà neppure il corrotto Joe Biden».
IL PM DEL QATARGATE SCENDE IN POLITICA
Sul Foglio Ermes Antonucci racconta l’Antonio Di Pietro belga, che si presenterà coi socialisti. Santificato dalla destra, col Qatargate ha condotto un’inchiesta controversa e piena di interrogativi. Un’inchiesta in cui sono state usate carcerazione preventiva e indagini illegali.
«La parabola del Qatargate è completa. Michel Claise, giudice istruttore dell’indagine sul presunto scandalo di corruzione al Parlamento europeo, in pensione da pochi giorni, ha infatti annunciato la sua discesa in politica: si candiderà alle elezioni legislative di giugno con il partito social-liberale Défi (Democratico federalista indipendente). Insomma, il Belgio ha definitivamente il suo Antonio Di Pietro: un magistrato divenuto simbolo della lotta alla corruzione e al malaffare che, dopo aver preteso di “ripulire” il sistema con la toga addosso (con ben pochi risultati), la sveste e decide di entrare direttamente nell’agone politico “per lottare contro l’ascesa del potere criminale” (testuale). Si tratta solo dell’ultimo colpo di scena dell’inchiesta che avrebbe dovuto svelare il più grande scandalo di corruzione di sempre delle istituzioni europee, e che invece si sta rivelando uno dei più gravi scandali di malagiustizia degli ultimi decenni. La decisione di Claise di scendere in politica segue l’apertura da parte della Camera d’accusa del tribunale di Bruxelles di una procedura di verifica sulla regolarità delle indagini preliminari svolte nell’inchiesta sul Qatargate. Il primo interrogativo riguarda il ruolo svolto dai servizi segreti belgi, che all’avvio delle indagini hanno monitorato illegalmente diverse riunioni tenutesi al Parlamento europeo, registrato conversazioni e intercettato telefonate fra gli eurodeputati, in violazione dell’immunità parlamentare. La seconda questione riguarda i metodi di indagine utilizzati da Claise per verificare l’ipotesi dell’esistenza di un vasto sistema di corruzione che, in cambio di mazzette da Qatar e Marocco, avrebbe indirizzato l’attività parlamentare a favore di questi due stati. Al centro dell’attenzione l’ampio ricorso del magistrato alla carcerazione preventiva, utilizzata come forma di pressione sugli indagati. Il primo a subire questo trattamento è stato Antonio Panzeri, ex europarlamentare del Pd, a capo della ong Fight Impunity, trovato in possesso di 600 mila euro in contanti. Quando i magistrati belgi decidono di procedere con l’arresto della moglie e della figlia di Panzeri, quest’ultimo accetta di assumere il ruolo di “pentito” e patteggia con la giustizia belga una pena ridotta a un anno di reclusione in cambio delle sue confessioni, volte a rafforzare le accuse delle toghe. Molto peggio è andata a Eva Kaili, vicepresidente del Parlamento europeo (subito destituita), il cui padre era stato trovato in possesso di una borsa con centinaia di migliaia di euro provenienti da Panzeri e affidati al suo collaboratore Francesco Giorgi, compagno di Kaili. E’ rimasta in carcere cinque mesi, lontano dalla figlia di nemmeno due anni, nonostante non ci fosse pericolo di fuga né di inquinamento delle prove. Durante questo periodo le è stato chiesto ripetutamente di fare dei nomi, ma si è sempre rifiutata, sostenendo di non conoscere la provenienza dei soldi. Il terzo interrogativo dell’indagine riguarda la figura di Maria Arena, eurodeputata belga, citata più volte nelle indagini, senza però mai finire in carcere e subire lo stesso trattamento riservato agli altri indagati. Lo scorso giugno si è scoperto che il figlio di Claise ha una società in comune con il figlio di Arena. Così il giudice istruttore ha deciso di fare un clamoroso passo indietro, ritirandosi dall’indagine per l’evidente conflitto di interessi. Soltanto dopo l’uscita di scena di Claise, gli investigatori hanno perquisito l’abitazione di Arena e quella di suo figlio, trovando in quest’ultima 280 mila euro in contanti di provenienza ignota. Insomma, il sospetto è che, a differenza di tutti gli altri indagati, Arena sia stata “risparmiata” da Claise. Come se non bastassero questi interrogativi, bisogna considerare che l’inchiesta sul Qatargate è stata caratterizzata fin dall’inizio dalla pubblicazione di verbali e atti di indagine che avrebbero dovuto rimanere segreti. Un processo mediatico violentissimo, che oltre a stritolare le vite dei malcapitati ha demolito l’immagine del Parlamento europeo. Di fronte a questo scempio del diritto resta un’indagine sospesa. Nonostante i metodi usati dai magistrati, nessuna prova concreta di manovre volte a spostare il Parlamento europeo su posizioni favorevoli al Qatar è stata rintracciata. Ma non importa. Questa è la storia dell’ascesa di Claise. Una toga che quelli che fingono di odiare il modello Di Pietro (la destra, giornali compresi) hanno trasformato in eroe».
LA COREA DEL SUD VIETA LA CARNE DI CANE
Malgrado le maxi proteste degli allevatori, la Corea del Sud finalmente vara una legge che mette al bando la macellazione e il consumo di carne degli animali ormai diventati domestici. Lorenzo Lamperti per il Manifesto.
«Tori, Narae, Mari e Sunny. Sono i nomi di quattro dei sei cani di Yoon Suk-yeol e Kim Keon-hee, presidente e first lady della Corea del sud. I sei cani, insieme a otto gatti, sono spesso chiamati dai media sudcoreani «first pets». Il leader conservatore ed ex procuratore generale si è fatto sovente ritratte in compagnia dei suoi amici a quattro zampe, talvolta avvinghiato a loro in abbracci appassionati. Amore, certo, ma forse anche un po’ di strategia che pare ormai funzionare a diverse latitudini. Yoon e la moglie non hanno figli e la loro passione per gli animali domestici è nota in tutto il Paese, dove fino a ieri era ancora legale l’allevamento, il macello e il commercio di cani destinati al consumo umano. Anzi, tutte queste pratiche resteranno legali ancora per il periodo di grazia di tre anni previsto dal disegno di legge approvato dall’assemblea nazionale di Seul. Il disegno di legge nasce proprio su spinta di Yoon e consorte, vogliosi di lustrarsi l’immagine in vista delle elezioni parlamentari di aprile in cui il presidente conservatore rischia di restare ulteriormente azzoppato per il resto del mandato. Ancora di più, sostiene qualche analista, dopo l’accoltellamento della scorsa settimana al leader dell’opposizione, il "Bernie Sanders sudcoreano" Lee Jae-myung. Il consumo della carne di cane è un retaggio della povertà e dalla carenza di cibo vissute il secolo scorso, tra la fine della colonizzazione giapponese, le macerie lasciate dalla Seconda guerra mondiale e la guerra di Corea. Non solo. La carne di cane fa parte di pratiche culinarie antiche, soprattutto come ingrediente principale di una zuppa chiamata bosintang, che si ritiene aumenti la virilità e abbia effetti benefici sulla salute. Dalla medicina tradizionale coreana, la carne di cane viene ritenuta utile anche per contrastare la pesante umidità estiva. Veniva infatti consumata soprattutto nei giorni più caldi dell’anno secondo il calendario lunare, cioè in luglio e agosto. È anche inclusa nel gaesoju, altra bevanda popolare e utilizzata nella medicina tradizionale. Negli ultimi anni e decenni, il consumo è drasticamente diminuito con la diffusione degli animali domestici, una tendenza che accomuna la Corea del sud a diversi altri territori dell’Asia orientale. Hong Kong, Taiwan, Thailandia e Singapore hanno già in vigore restrizioni di questo tipo, introdotte già da diversi anni. Ora si aggiunge anche Seul. Secondo i dati del governo, nel 2022 una famiglia coreana su quattro possedeva un cane domestico, rispetto al 16% del 2010. Un aumento frutto dell’espansione della classe media, a sua volta accompagnata da una storica moltiplicazione dell’esposizione globale della Corea del sud. Il motivo? Il successo planetario della sua controversa industria dell’intrattenimento, costellata di stelle e successi ma anche di scandali e suicidi. L’ultimo, pochi giorni fa, di uno degli attori del film premio Oscar Parasite. Aumenta il soft power di Seul, che improvvisamente vede arrivare schiere di studenti di coreano a caccia del sogno vissuto guardando le serie tv. Aumenta anche l’imbarazzo nel dover giustificare pratiche che il mondo occidentale giudica disgustose e arcaiche. In un sondaggio pubblicato nei giorni scorsi da Animal Welfare Awareness, Research and Education, un think tank con sede a Seul, oltre il 94% degli intervistati ha dichiarato di non aver mangiato carne di cane nell’ultimo anno e circa il 93% ha affermato che non lo farà in futuro. Eppure, secondo l’associazione degli allevatori di cani, le aziende agricole ancora attive nel settore sarebbero 3500, con un milione e mezzo di esemplari allevati per essere serviti in circa tremila ristoranti. Cifre ritoccate al ribasso da quelle del ministero dell’Agricoltura, secondo cui in realtà ci sarebbero 1100 aziende che allevano 570 mila cani per 1600 ristoranti. La legge non prevede pene per il consumo, ma chiunque macelli un cane a scopo alimentare può essere punito con una pena fino a tre anni di carcere o con una multa fino a 30 milioni di won coreani (circa 21 mila euro). Rischia la prigione anche chiunque allevi cani a scopo alimentare o acquisti, trasporti, immagazzini o venda consapevolmente cibo ottenuto da cani. Il tutto dopo un periodo di grazia di tre anni che durerà fino all’inizio del 2027, concesso per dare tempo agli allevatori di chiudere o cambiare la loro attività. Ma i commercianti di carne di cane chiedono più tempo per riorientare le loro attività e hanno chiesto risarcimenti per 7 mila miliardi di won (5,3 miliardi di dollari) per l’industria. Il governo promette un supporto «ragionevole», senza però quantificarlo. «In molti abbiamo 60 o 70 anni e non ci viene data altra scelta di perdere i nostri mezzi di sussistenza», protesta Joo Yeon-bong, citato dalla Bbc. Già a novembre, dopo che il disegno di legge era approdato per la prima volta nelle discussioni parlamentari, gli allevatori avevano inscenato una maxi protesta con tanto di camion a Seul, minacciando di liberare due milioni di cani di fronte all’assemblea nazionale. In passato le proteste avevano funzionato e più volte i tentativi di proibire la vendita di carne di cane erano falliti di fronte alle manifestazioni del settore. Anche stavolta il settore aveva iniziato a sperarci, dopo che il disegno di legge non è entrato in votazione nelle ultime due sedute plenarie del 2023. Inizialmente si sarebbe dovuto votare il 20 dicembre, ma così non è stato. In risposta alla lentezza del processo, una coalizione di 40 gruppi di difesa degli animali aveva anche organizzato una protesta davanti al parlamento. Ieri era l’ultima possibilità prima dello scioglimento e delle elezioni di aprile. Già il giorno prima si era capito che sarebbe stata la volta buona. Il voto è entrato in calendario e la legge è stata approvata con sostegno bipartisan: 208 favorevoli, due astenuti e nessun contrario. Una rara dimostrazione di concordia tra il partito conservatore di Yoon e quello democratico di Lee, che da mesi si scambiano accuse in un clima di tensione politica avvelenato (tra le altre cose) dall’inchiesta per corruzione a carico del leader dell’opposizione, che protesta per le politiche sociali e diplomatiche del rivale. Anche ieri, subito dopo il voto sulla carne di cane, è arrivato quello che istituisce una commissione d’indagine indipendente sulla strage di Itaewon, che la notte del 29 ottobre 2022 costò la vita a 159 persone durante i tragici festeggiamenti di Halloween. Sono trascorsi 438 giorni. L’opposizione ha votato compatta a favore, la maggioranza ha boicottato, Yoon ha evitato di porre il suo veto. Nel frattempo, gli animalisti esultano per l’approvazione del divieto di consumo della carne di cane, definita «storica». Nei prossimi giorni arriverà la scontata firma dello stesso presidente per il via libero definitivo al testo. Le aziende agricole del settore, invece, preannunciano ricorsi alla Corte costituzionale. Difficile che l’abbaiare di macellatori e allevatori possa tramutarsi in mordere».
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