Nuovo asse con Parigi
Meloni a sorpresa incontra Macron e concorda la linea sui migranti nella Ue. Ma Tunisi fa il doppio gioco. Oggi nuove norme di polizia al CdM. In vista anche la Nadef sui conti. Addio a Re Giorgio
Un’ora e mezza di colloquio, a colazione, fra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron, a Palazzo Chigi, subito dopo la cerimonia funebre in onore di Giorgio Napolitano. Un faccia a faccia che avviene a sorpresa e che disegna un’alleanza importante per il nostro Paese su due temi di stringente attualità: i migranti e il nuovo Patto di stabilità in Europa. L’Italia ha bisogno che la Ue non sia latitante sul fronte delle migrazioni, visto che il nostro Paese è la porta d’ingresso per tutto il continente. Soprattutto dopo lo scontro non retorico con Berlino. L’asse con la Francia agisce da contrappeso alla polemica con la Germania. Polemica che in modo infausto, e un po’ indecoroso, viene nuovamente alimentata dal vice segretario leghista Andrea Crippa che mette insieme la teoria del complotto e il risentimento anti-tedesco, tirando in ballo il nazismo. I comportamenti degli esponenti della maggioranza danno sempre questa impressione: che i leghisti disfino spesso la tela che la premier cerca di tessere, con uscite e strappi più o meno violenti. Oggi intanto il Consiglio dei Ministri vara nuove misure sui migranti. Tutte all’insegna della repressione poliziesca dei migranti stessi. Mentre da Tunisi (lo scrivono Marco Bresolin sulla Stampa e Avvenire) arriva un nuovo no di Kais Saied alla visita di una delegazione europea, il che fa riflettere sul “doppio gioco” del tiranno tunisino. Se ne parlerà anche alla Conferenza della Fondazione Oasis a Milano, Cambiare rotta. I migranti e l’Europa, domani, a cui parteciperanno personalità interessanti. Qui sotto la locandina dell’evento, che potrà essere seguito in streaming dal canale Youtube della Fondazione:
Dicevamo dell’addio a Giorgio Napolitano, che è stata l’occasione per la visita di Emmanuel Macron a Roma. Esequie di palazzo e nel palazzo per l’ex Presidente “senza bara, senza preti, senza chiesa, senza popolo”, come ha notato Aldo Cazzullo nella sua dettagliata cronaca per il Corriere. C’è stato un momento di commozione collettiva quando ha preso la parola la nipote di Re Giorgio, che ha destato l’interesse della nostra premier. Per il resto è stata una cerimonia “fredda, razionale, emotivamente equilibrata”. Giorgio Napolitano riposerà nel cimitero acattolico di Roma, vicino alla Piramide Cestia, dove ci sono, fra l’altro, le ceneri di Antonio Gramsci. Bello il ricordo del Presidente firmato da Mario Mauro.
Stasera nel Consiglio dei Ministri, convocato per le 18,30, non si dovrebbe decidere solo sui migranti. Infatti è arrivato il momento della Nadef, la nota aggiuntiva al Documento di programmazione economica e finanziaria. Ieri l’Eurostat ha dato finalmente indicazioni sul buco del bonus, accogliendo le richieste italiane. E secondo Repubblica, Meloni starebbe trattando sullo sforo del nostro deficit in cambio della ratifica del Mes. È certo comunque che il nostro debito pubblico deve scendere, per i mercati prima ancora che per le valutazioni della commissione Ue, come ha ripetuto Giancarlo Giorgetti da un mese a questa parte, in ogni occasione pubblica che ha avuto.
Sul fronte internazionale, si è chiusa l’Assemblea dell’Onu con un importante intervento dell’arcivescovo Paul Gallagher che ha sottolineato come sia messo a repentaglio il multilateralismo. Mentre il segretario generale dell’Onu António Guterres è tornato a rivolgere un appello in favore del disarmo nucleare e della pace. Da Mosca intanto arrivano le immagini del comandante della flotta russa nel Mar Nero, l’ammiraglio Viktor Sokolov, di cui gli ucraini avevano rivendicato ieri l’uccisione. Kiev adesso dice: verificheremo. Dubbi del Financial Times sulle sanzioni alla Russia.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae l’ingresso del cimitero di Castelvetrano, in provincia di Trapani, presidiato dall’alba di questa mattina, dove oggi arriverà la salma di Matteo Messina Denaro per la sepoltura.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Tre temi sui giornali oggi: l’asse con Parigi sui migranti, la manovra economica e l’addio a Giorgio Napolitano. Il Corriere della Sera: Meloni-Macron: sui migranti un piano europeo. La Repubblica sceglie invece il tema dei conti pubblici: Manovra, sfida all’Europa. La Stampa celebra i funerali solenni dell’ex presidente: L’Italia di Napolitano. Il Messaggero resta sulle misure del nuovo decreto: Migranti, espulso chi mente. Così come Il Giornale: Sbarchi, tolleranza zero. E il Quotidiano Nazionale: Migranti, espulsioni per chi mente sull’età. Sulle imminenti nuove norme è molto critico Il Manifesto: Caccia aperta. Mentre il Domani ricorda: La Lega insulta Berlino sui migranti. Ma il modello tedesco è un successo. Di economia si occupano Il Sole 24 Ore, che ragguaglia sui conti prima del CdM di oggi: Deficit al 5,3-5,4%, Pil giù allo 0,8%. E l’Avvenire per cui, come un macigno, c’è: Il peso del debito. Il Fatto immagina ministri e leader della maggioranza al balcone di Palazzo Chigi, che dicono: Abbiamo abolito i processi. Libero se la prende con Landini e Nardella: Compagni che sbagliano. Attacco postumo de La Verità che intervista l’ex leghista Reguzzoni: «Napolitano mi minacciò. Non metterti contro di noi».
MIGRANTI, MELONI E L’ASSE CON LA FRANCIA
«Patto» fra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron: azione comune sui migranti concordata in un «incontro cordiale» a colazione. Novanta minuti di colloquio a Palazzo Chigi: in ballo un progetto dei 27 stati Ue con i Paesi africani e la spinta per «smantellare la rete dei trafficanti». Marco Galluzzo per il Corriere della Sera.
«Un progetto che abbia matrice e copyright «europeo», in cui tutti e 27 gli Stati membri si impegnino, per un Piano che coinvolga in primo luogo tutti gli Stati dell’Africa mediterranea e subsahariana. Un progetto finanziato con accordi che anche Bruxelles deve stringere e che trasformi nel medio periodo l’immigrazione illegale in un bacino di formazione professionale dedicata a centinaia di migliaia di migranti che hanno voglia di venire a lavorare legalmente in Europa. È più facile a dirsi che a farsi, soprattutto se le resistenze, finanziarie e politiche, di molti Stati europei, resteranno difficili da scalfire. Ma è anche uno degli argomenti di cui hanno parlato a colazione a Palazzo Chigi, a tu per tu per quasi 90 minuti, il presidente francese Emmanuel Macron e Giorgia Meloni. E questo sia secondo fonti dell’Eliseo, per le quali nessuno è in grado di affrontare da solo la questione dei flussi irregolari, sia secondo fonti italiane. L’incontro fra i due leader, quasi a sorpresa, al termine dei funerali laici per Giorgio Napolitano, fa seguito alle parole di pochi giorni fa del presidente francese, quelle di voler «aiutare l’Italia, che sta facendo la sua parte come primo porto sicuro» della Ue, ma che si incastra con un altro obiettivo che è in testa ad un’agenda condivisa in questo momento. Macron l’ha detto in tv ai francesi in modo esplicito, con gli inglesi Parigi sta collaborando in modo attivo e proficuo, per «smantellare la rete dei trafficanti» intorno a Calais, con l’Italia Macron ha voglia di implementare lo stesso modello: distruggere, anche con operazioni speciali e sotto copertura, la logistica dei trafficanti. Il che significa barche, mezzi di trasporto, reti di connivenza. Sono obiettivi ambiziosi, che trovano ovviamente la nostra presidente del Consiglio più che interessata. Gli stessi nostri apparati di sicurezza smentiscono che l’Italia abbia mai smesso di mettere in atto (anche se con grandissima cautela) una serie di azioni sulle coste africane, in primo luogo libiche, azioni alle quali per ovvie ragioni non viene data alcuna pubblicità, mirate a indebolire il più possibile la rete dei trafficanti, la flotta che usano, le disponibilità finanziarie. Entrambi i piani, quello di contrasto e deterrenza e quello costruttivo di medio periodo di un programma europeo per l’Africa, saranno approfonditi dai due presidenti già nelle prossime ore, venerdì prossimo, nel corso del vertice Euromed che viene ospitato da Malta. E poi qualche giorno dopo nel corso del Consiglio d’Europa e del Consiglio europeo informale di Granada. Ufficialmente dall’incontro di ieri, definito da una nota di Palazzo Chigi «lungo e cordiale», è trapelato pochissimo, se non che si è discusso anche delle priorità dell’agenda economica della Ue. L’incontro, compresa la passeggiata dal Parlamento per la camera ardente di Napolitano sino al portone di Palazzo Chigi, è stato del resto programmato quasi all’ultimo minuto. Di immigrazione ha parlato anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che insieme a Meloni ha lavorato a un piano finanziario di aiuti alla Tunisia, e che ieri si trovava a Praga per discutere con il primo ministro ceco, Petr Fiala «di migrazioni e posso ricordare quello che lei ha detto, primo ministro, che è un fenomeno che riguarda tutta Europa e e che necessita di una risposta europea. Noi vogliamo sostenere gli Stati membri nel gestire le migrazioni in modo efficace ed umano». Secondo la presidente della Commissione ovviamente ogni Stato membro ha le sue esigenze e le richieste specifiche, che spesso si traducono in necessità finanziarie diverse: «Vedremo — ha continuato — come possiamo aiutarvi in questo contesto, in particolare perché avete accolto rifugiati ucraini. Abbiamo proposto un aumento molto mirato di 15 miliardi di euro per aiutare gli Stati membri a gestire le migrazioni. Questi 15 miliardi fanno parte della nostra proposta di revisione del bilancio. Siamo aperti a discutere miglioramenti, ma tutto dipende dalla nostra capacità di concordare una revisione del bilancio Ue, altrimenti non ci saranno abbastanza fondi».
CRIPPA, SALVINI E LE ACCUSE AI TEDESCHI
Il vicesegretario della Lega Andrea Crippa imputa alla Germania un’invasione di migranti simile all’occupazione nazista. Il rigurgito torna come strumento primitivo di comunicazione. Esiste un limite alla balordaggine? Si chiede Giuliano Ferrara sul Foglio.
«Ieri il ceto politico, e altri sparsi, ha celebrato alla Camera una sinfonia sobria e ben riuscita in memoria del presidente emerito morto venerdì, Giorgio Napolitano. Sembrava tornato per un solo momento un paese freddo, razionale, emotivamente equilibrato, unito in un breve ma intenso atto memoriale di comune retorica repubblicana e nazionale. Salvini e i suoi erano tra gli officianti istituzionali, in mezzo a una sfilza di presidenti anche francesi e tedeschi. Eppure per loro nella politica quotidiana è tornata la logica del rutto libero, espressa stavolta con forte potere di immaginazione storica dal vicesegretario della Lega che ha imputato alla Germania un’invasione destabilizzatrice di migranti paragonabile all’occupazione del suolo patrio dopo l’8 settembre. Salvini il neo-Truce dà il “la”, e il concertino si fa bello delle più incredibili assonanze e dissonanze, di stridii e cachinni che sputtanano governo, maggioranza e istituzioni civili in Europa. E inducono Meloni a una rincorsa dubbia. Il ritorno del rigurgito come strumento primitivo di comunicazione politica, a molti mesi dalla fatidica soglia elettorale per l’Unione europea e il suo parlamento, sconcerta e sorprende. Da molti anni ormai il senatore Salvini era impegnato in un’operazione di smantellamento della sua vecchia immagine ribalda, si era per così dire rimpannucciato partecipando al governo di unità nazionale e vincendo con gli alleati le elezioni politiche, ora litiga con il suo ex capo di gabinetto divenuto ministro dell’Interno, sparacchia a caso contro Bruxelles, Parigi e Berlino, ricomincia a usare un linguaggio sudicio sugli sbarchi di povericristi, che non sono un’invasione per quanto difficili da governare in un clima di forza e civiltà, eccita nei suoi il vecchio spirito massimalista e demagogico dell’epoca infausta del governo del contratto, quando leghisti e grillini prima maniera lasciarono tutti a casa e scapparono di casa facendo in un anno meno danni materiali di quelli verbali e d’immagine, fino al clamoroso suicidio dei pieni poteri e del Papeete. Dal rutto a torso nudo e dai modi fascistoidi sembrava che i veri fascisti liberali della stagione di Meloni, subentrata con voti e poi con una certa aura di autorevolezza al casino organizzato degli anni passati, avessero, dopo le cure Franceschini e Draghi, emancipato un partito combattente che ha una classe dirigente di governatori e ministri seri ma è sempre pronto a sacrificarla pubblicamente in un comiziaccio baciasalami. Niente da fare, allo zelo istituzionale dei contraenti il patto di maggioranza il nuovo trucismo oppone grisaglie e rutti liberi, appena può impunemente sottrarsi a un comportamento minimamente decente. Salvini non è mai un problema finché non diventa un problema. Ha più che dimezzato i voti quando ha giocato sull’assimilazione politica e di sistema, e questo lo cruccia, lo indispone, lo mette in pericolo tra la sua gente, che poi sarebbero i famosi deplorables, la minoranza qualunquista e sfasciacarrozze che la Lega dell’ex Truce voleva inglobare in un progetto nazionale e istituzionale evidentemente fallito. La sua debolezza relativa, compensata da un’alleanza vincente, ora crea debolezza e imbarazzo per la sua stessa maggioranza e per i suoi uomini di governo meno sprovveduti. Uno deve decidere, o punta sul ponte o si butta continuamente dal ponte, risale e si ributta in uno spettacolo di autolesionismo e demagogia trita e ritrita. Il neo Truce non ha deciso e costituisce per questo un serio ostacolo alla pratica e all’immagine di destra conservatrice e di governo alla quale i veri vincitori delle elezioni di un anno fa sono attaccati e dalla quale non dovrebbero né vorrebbero scollarsi bruscamente. Lo si tollera pensando al monopoli elettorale, a una fase turbolenta da mettere nel conto, ma fino a quando, fino a che livello di balordaggine è possibile mantenere il timone della politica estera e di difesa, della politica finanziaria e delle alleanze decisive per questa nazione, come direbbe la capa del governo insidiato dalla burinaggine di un uomo del nord molto più cafone di qualunque borgataro e garbatellaro?».
Anche Massimo Gramellini, in prima pagina del Corriere, prende in giro il leghista Crippa.
«Si apprende da fonti autorevolissime, il vicesegretario della Lega Andrea Crippa, che in Germania i nazisti sono ancora al potere. Ottant’anni fa invadevano gli altri Stati con i panzer della Wehrmacht e adesso lo fanno con le Ong dei migranti, allo scopo di creare malcontento sociale e propiziare la sostituzione della Meloni con Draghi e la Schlein (il famigerato governo Draghlein). Chissà cosa penserebbe il Crippa se, dopo avere ascoltato le sue parole, qualche vicesegretario tedesco gli desse del mafioso mandolinista mangia-spaghetti o, con maggior rigore filologico, del nostalgico di Mussolini, accusandolo di non avere ancora digerito la sconfitta delle legioni romane nella foresta di Teutoburgo (9 d. C.). Perché il livello delle accuse del Crippa è quello: un riuscitissimo mix di complottismo e pregiudizio. Intendiamoci, i governi tedeschi e francesi non brillano per solidarietà nei confronti dell’Italia, e nei fatti sono molto più sovranisti di quanto lo sia il nostro a parole. Però il Crippa sposta il problema sul piano della surrealtà, appagando il bisogno popolare di trovare in fretta una soluzione e soprattutto un colpevole. Qualcuno dirà: proprio come Salvini. Ma la differenza decisiva tra salvinismo e crippismo è che Salvini non crede sempre a quello che dice, mentre il Crippa dà la sensazione di pensare davvero che i migranti siano al soldo dei nazisti. E che questo pensiero, per noi disturbante, a lui arrechi persino un certo sollievo».
OGGI NUOVO DECRETO, CONTRO I BABY MIGRANTI
“Falsi minorenni” saranno espulsi, più soldi agli agenti e pugno duro contro chi delinque. Oggi il nuovo decreto sui migranti con altre norme più severe. Pasquale Napolitano sul Giornale.
«Espulsione per i falsi baby migranti, più soldi a polizia e vigili del fuoco, revoca del permesso di soggiorno per gravi motivi di ordine pubblico e ampliamento fino al 50% della capienza per gli hotspot: il governo Meloni vara una nuova stretta per fermare l’ondata di sbarchi sulle coste italiane. Sul fronte europeo si muove il ministro degli Esteri Antonio Tajani che ribadisce un messaggio ai partner: «È un problema non italiano ma anche europeo e delle Nazioni Uniti e lo abbiamo detto alla riunioni avute la settimana scorsa a New York in occasione dell'Assemblea». Nel pre-consiglio dei ministri di ieri, il titolare del Viminale Matteo Piantedosi ha illustrato il corposo decreto, composto da tredici articoli, per contrastare l’immigrazione illegale. I pilastri del provvedimento sono tre: l’ingresso della Marina militare nel controllo degli hotspot, l’irrigidimento delle misure contro i falsi minori e lo stanziamento di fondi per le forze di polizia. Secondo il report più recente del ministero del Lavoro in Italia sono sbarcati circa 20mila minori non accompagnati. Nella maggior parte dei casi si tratta di falsi minori. Da qui la scelta dell’esecutivo Meloni di potenziare i controlli. All’articolo 3 del decreto si prevede infatti «per chi dichiara il falso sulla propria età o identità la pena prevista dal codice penale può essere sostituita con la misura dell'espulsione dal territorio nazionale». L’accertamento dell’età è demandato a medici che devono informare, anche solo oralmente nei periodi di maggior flusso, la magistratura. Mentre «in caso di momentanea indisponibilità di strutture ricettive per migranti minorenni il prefetto può disporre la provvisoria accoglienza del minore di età non inferiore a sedici anni in una sezione dedicata nei centri ordinari per un periodo comunque non superiore a novanta giorni». Altra novità, contenuta nella bozza del decreto, che passerà oggi al vaglio del Cdm per il via libera, è l’ingresso nella Marina militare nella gestione degli hotspot. Si prevede infatti che «per assicurare adeguati livelli di accoglienza nei punti di crisi in caso di arrivi consistenti e ravvicinati di migranti nel territorio nazionale provenienti dalle rotte marittime del Mediterraneo, il ministero dell’Interno è autorizzato ad avvalersi della Guardia costiera». È inoltre specificato dal 2024 al 2028 il reclutamento nel corpo della Guardia Costiera, per ciascun anno, di 100 volontari. Il decreto interviene anche sul problema degli stipendi per il personale di polizia, chiamato a gestire gli sbarchi e l’accoglienza. Viene stanziato un fondo di 3,7 milioni per il 2023 e di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2024 al 2030 per pagare lo straordinario agli agenti. Sul fronte forze dell’ordine, la misura varata dal ministro Piantedosi, prevede per l'operazione strade sicure un aumento del personale, dal 1 ottobre al 31 dicembre 2023, di 400 unità. Pugno duro contro gli immigrati (anche regolari) che commettono reati: i titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo potranno essere espulsi per gravi motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato. La capienza degli hotspot nelle fasi di maggior flusso può essere aumentata fino al 50% dei posti in più previsti. Arrivano nuove regole anche per la richiesta di protezione speciale: in caso di allontanamento ingiustificato del richiedente protezione internazionale si potrà incorrere nella sospensione della domanda di protezione di cui si potrà chiedere la riapertura entro 9 e non più 12 mesi. Inoltre, per potenziare i controlli sulle domande di visto di ingresso per l’Italia il Viminale assegnerà ad ambasciate e consolati 20 unità di ispettori di polizia. Contrariamente alla narrazione della sinistra, il decreto rafforza la tutela per tutte le donne. Poi i soggetti vulnerabili: minori non accompagnati, disabili, anziani, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta, persone affette da gravi malattie o disturbi mentali, persone che hanno subito torture accertate, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale o legata all’orientamento sessuale o all'identità di genere, le vittime di mutilazioni genitali».
ALTRE NORME PER FAVORIRE LA “DETENZIONE AMMINISTRATIVA”
Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato che opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, scrive l’editoriale del Manifesto (eloquente il titolo di copertina del giornale: Caccia aperta).
«Non finisce più. Ancora un altro provvedimento del governo sui migranti o per meglio dire contro i migranti. Misure sempre più repressive e in violazione di leggi e Convenzioni internazionali si ripetono, ormai a ritmo settimanale. Dalla istituzione dei centri di permanenza temporanea ed assistenza (Cpta) previsti nel 1998 dalla legge Turco - Napolitano abbiamo assistito ad una continua modifica dei termini usati dal legislatore per definire quelli che erano, e rimangono ancora oggi, centri di detenzione amministrativa. Strutture nelle quali gli stranieri privi di un titolo di soggiorno vengono trattenuti in attesa di un rimpatrio con accompagnamento forzato, dunque senza avere commesso reati, ma solo per la mancanza di un visto di ingresso o di un permesso di soggiorno. Nei centri di detenzione potevano essere trattenuti anche richiedenti asilo, mentre è espressamente vietato l’internamento di minori non accompagnati. Adesso il governo si prepara ad imporre con un nuovo decreto sicurezza l’accoglienza in promiscuità con gli adulti e l’espulsione per quei ragazzi che mentono sull’età e che risultino, ad un sommario accertamento, di età superiore ai diciotto anni. Una previsione che risulta in violazione di principi affermati nella legislazione italiana e nelle Convenzioni internazionali che garantiscono «il superiore interesse del minore». Le convenzioni internazionali, come la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, e le Direttive europee vietano il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo solo in virtù del loro ingresso irregolare e della presentazione di una istanza di protezione, ma a partire dal 2015, con l’avvio dei centri Hotspot e con il ricorso alle categorie di «migranti economici» e di «paesi di origine sicuri», i centri di detenzione sono diventati luoghi di negazione del diritto di asilo, e snodo centrale del sistema di contrasto dell’immigrazione «illegale», che riproduce clandestinità attraverso misure repressive adottate sotto la spinta dei sondaggi elettorali. Le prassi di polizia si sono così orientate al prolungamento della detenzione amministrativa, poi sancito periodicamente dai decreti sicurezza dei governi di destra, anche quando era evidente che non si sarebbe mai effettuato un rimpatrio forzato. In questo caso la Direttiva rimpatri 2008/115/CE prevede la liberazione immediata. Il meccanismo delle convalide giurisdizionali si è andato svuotando nel tempo per il ricorso alle procedure in videoconferenza, con le difficoltà di accesso per le associazioni, con tempi sempre più brevi per partecipare alle udienze e depositare documenti. Fino alla introduzione delle procedure accelerate in frontiera (e del trattenimento amministrativo generalizzato) per i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi sicuri. Norme approvate dal Parlamento in assenza di una copertura da parte delle corrispondenti normative dell’Unione Europea. Come rileva adesso la Commisione europea a proposito della garanzia finanziaria richiesta in alcuni casi per evitare la detenzione. A tutti i richiedenti asilo vanno comunque garantiti diritti di informazione ed accesso alle procedure ordinarie, e quindi nel sistema di centri aperti di accoglienza (Cas, Sai, Cpsa) per coloro che adducano a gravi motivi di carattere personale, pure se provengono da paesi di origine ritenuti sicuri. L’Acnur-Onu che pure riconosce le procedure accelerate in frontiera, in una Nota tecnica inviata al governo italiano durante l’iter di conversione del “Decreto Cutro”, «Raccomanda(va), tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate. In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso». Al di là delle tante definizioni adottate nel tempo per nascondere la sostanza della detenzione amministrativa che si pratica in strutture nelle quali vengono sistematicamente negati i diritti fondamentali delle persone, la limitazione della libertà personale non può diventare uno strumento generalizzato per ridurre il numero delle persone che hanno diritto a fare ingresso in Italia per ragioni di protezione. Si tratta di luoghi di confinamento che non possono sottrarsi alla giurisdizione italiana e internazionale, dove i diritti e le garanzie non possono essere riconosciuti solo sul piano formale per venire poi negati nelle prassi applicate dalle autorità di polizia. Dunque è il tempo delle denunce e dei ricorsi, e della mobilitazione, mentre l’opinione pubblica sembra ancora rimanere ostaggio delle politiche della paura e dell’odio. Risulta fondamentale garantire l’informazione e l’assistenza legale, l’accesso civico agli atti e la possibilità di ingresso di giornalisti ed operatori umanitari indipendenti, se occorre con gruppi di parlamentari, in tutti i centri in cui si pratica la detenzione amministrativa. Dietro tante definizioni diverse ci sono persone che non possono essere trattate come merce illegale da smaltire».
“IL MEMORANDUM NON CI DÀ SPERANZA”
Intervista di Francesca Ghirardelli per Avvenire a Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, il Ftdes.
«Parla da Tunisi Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, il Ftdes.
Dopo le tensioni, i raid e le deportazioni di luglio e agosto, cos’è accaduto negli ultimi giorni a Sfax?
Abbiamo assistito all’applicazione di una decisione securitaria delle autorità, determinate a evacuare gli spazi pubblici con la forza. La polizia si è schierata di fronte ai migranti, tra i 500 e gli 800 cittadini subsahariani. Li ha informati che ci sarebbero stati campi di accoglienza allestiti per loro ad Al Amra e Jebeniana (30 chilometri più a nord, ndr). Le persone accampate ci hanno creduto e hanno seguito la po-lizia sui bus. Per questo non hanno opposto alcuna resistenza. Una volta fuori città, però, sono state lasciate in una zona rurale, sotto gli ulivi. Nessuna struttura di accoglienza, nessuna assistenza, malgrado nel gruppo ci siano donne e bambini, rifugiati riconosciuti.
Le agenzie dell’Onu e la Mezzaluna Rossa non sono intervenute?
L’operazione di sgombero è avvenuta senza alcun coordinamento con le agenzie delle Nazioni Unite, né con la Mezzaluna Rossa, né con le Ong locali. Dunque senza la presenza di operatori umanitari. Ora gli sfollati si trovano in condizioni molto difficili, diversi gruppi sono ancora negli uliveti. Si sono attivate iniziative dal basso, dalla cittadinanza, per tentare di fornire aiuto.
Di recente la sua organizzazione, l’Ftdes, con altre 13 Ong firmatarie, ha denunciato le difficoltà di soccorrere i migranti, per gli ostacoli che le autorità frappongono da mesi. In che modo?
Da luglio il presidente Saied ha concentrato e autorizzato gli aiuti solo attraverso il canale della Mezzaluna Rossa (Crt), chiedendo alle altre organizzazioni di coordinarsi con questa. L’obbligo di passare dalla Crt per ogni intervento ha provocato rallentamenti e un blocco nell'erogazione degli aiuti. Molte Ong sono in attesa delle autorizzazioni, il processo è troppo burocratizzato. Noi, che pure da tempo abbiamo depositato una richiesta al ministero dell’Interno per ottenere modalità più facili di lavoro, non avendo avuto risposta, siamo stati obbligati a riferirci a iniziative di base della cittadinanza per soccorrere, ad esempio, chi era stato respinto ai confini.
A proposito delle espulsioni verso Libia e Algeria, avete notizie di nuovi episodi, di altre persone abbandonate in aree remote?
Ci sono testimonianze di espulsioni che proseguono verso le frontiere algerine. Riceviamo chiamate da parte di migranti bloccati laggiù. Non registriamo, invece, almeno al momento, nuove richieste di aiuto dalla frontiera libica.
L’applicazione del Memorandum sottoscritto tra Ue e Tunisia appare in stallo, anche se la Commissione ha appena annunciato l'esborso di 127 milioni di euro. Come Forum, cosa vi aspettate dall’accordo?
Il Memorandum non può contribuire a ridurre i flussi, tutt’al più può incidere sulla loro repressione lungo le nostre coste. Qui non lo vediamo come soluzione alla crisi. Forse può esserlo per voi, a Lampedusa o a Ventimiglia, ma per i tunisini non contribuirà a risolvere la situazione umanitaria in corso nel Paese, visto che l’unico obiettivo è quello di impedire le partenze verso Nord, dunque di lasciare i migranti qui ad affrontare le dure condizioni che stanno vivendo».
IL DOPPIO GIOCO DI KAIS SAIED
Il presidente tunisino Kaïs Saïed è irritato con la Ue e rinvia la prevista visita della Commissione europea. Intanto spedisce il ministro degli Esteri in Russia. Marco Bresolin per La Stampa.
«A che gioco sta giocando Kaïs Saïed? Dopo l'ultimo colpo di scena del presidente tunisino, se lo stanno chiedendo molti addetti ai lavori a Bruxelles. Lunedì sera, al termine della riunione del Consiglio di sicurezza nazionale, il leader del Paese nordafricano ha incaricato il ministero degli Esteri di comunicare alla Commissione europea l'annullamento della missione prevista per il fine settimana a Tunisi, fissata proprio per discutere dell'applicazione del Memorandum siglato con l'Unione europea. Rinviata «a data da destinarsi». La decisione è stata presa poche ore dopo la riunione svoltasi a Bruxelles tra i rappresentanti degli Stati membri Ue, dedicata proprio al Memorandum con Tunisi, ma soprattutto poche ore prima del viaggio a Mosca del ministro degli Esteri e della Migrazione, Nabil Ammar. Durante il quale il capo della diplomazia tunisina ha stretto un patto con il suo omologo Sergey Lavrov: Mosca aiuterà la Tunisia acquistando prodotti tessili e incrementando i flussi turistici verso il Paese mediterraneo, che in cambio importerà il grano russo. La tempistica dell'annuncio non è affatto passata inosservata. Secondo quanto trapela da fonti che hanno diretta conoscenza del dossier, sarebbero due gli elementi che hanno provocato l'irritazione di Saïed e che lo avrebbero spinto ad annunciare la cancellazione dell'incontro previsto tra i funzionari europei e quelli tunisini. In primo luogo non sono state ben accolte le parole del presidente francese Emmanuel Macron, che durante l'intervista televisiva di domenica sera aveva ventilato l'ipotesi di inviare «esperti europei» per aiutare la Tunisia a controllare le frontiere. Ma ad irritare il presidente tunisino sarebbero state anche le notizie arrivate da Bruxelles al termine della riunione tra i 27 rappresentanti permanenti degli Stati membri e la Commissione europea, convocata proprio per fare il punto sull'applicazione del Memorandum. La decisione di tenere «riunioni regolari» sull'applicazione dell'accordo con Tunisi è stata percepita come una sorta di pressione da parte dei governi europei. Ma non solo: le indiscrezioni sulla volontà di «aiutare» la Tunisia a istituire una propria zona di ricerca e soccorso (Sar) hanno avuto un'eco significativa nel Paese, anche perché a luglio – in occasione della firma – era stato subito precisato che il Memorandum non prevede l'obbligo di istituire una zona Sar. In questo senso, e in risposta alle parole di Macron, andrebbe dunque letta la decisione di Saïed. Il quale non ha motivato la decisione di rinviare l'incontro con i funzionari Ue, ma ha fatto trapelare che il suo Paese «non intende cedere la minima parte di sovranità nazionale». Un argomento utilizzato anche due settimane fa quando Tunisi aveva negato l'ingresso nel Paese a una delegazione della commissione Affari Esteri del Parlamento europeo. Al di là degli sgambetti diplomatici del presidente, il segnale che più desta preoccupazione a Bruxelles è arrivato ieri da Mosca. Il ministro Ammar e il suo omologo Lavrov si sono incontrati e al termine del bilaterale hanno ribadito la «convergenza di opinioni» su diverse questioni internazionali come «la causa palestinese, il dossier Libia e il ritorno della Siria nella Lega araba». Lavrov ha anche espresso il sostegno del suo Paese «al processo di riforme avviato da Saïed», dopodiché i due hanno sottolineato la volontà di «rafforzare la cooperazione bilaterale» in diversi settori, tra cui quello dell'alta tecnologia e del nucleare civile. Lavrov ha ricordato che la Tunisia è uno dei principali partner africani della Russia, con uno scambio commerciale che nei primi sei mesi del 2023 ha toccato quota 1,2 miliardi di dollari. E ha annunciato che Mosca aumenterà gli acquisti di prodotti tunisini, «in particolare agricoli e tessili», e incrementerà i flussi turistici verso il Paese nordafricano per riportarli ai livelli pre-Covid, vale a dire attorno a 600 mila presenze. Dal canto suo, Tunisi incrementerà gli acquisti di grano russo: Lavrov ieri ha annunciato che il primo lotto è già in viaggio verso la Tunisia. La Commissione ha provato a minimizzare il «respingimento» della sua delegazione, dicendo che «sono in corso contatti regolari tra l'Ue e la Tunisia, a livello politico e tecnico» e che «stiamo attualmente cercando con le autorità tunisine il momento migliore per entrambe le parti» per fissare un incontro. Ma il nuovo stop non aiuta l'attuazione di un piano già molto problematico. Venerdì scorso l'esecutivo europeo aveva annunciato il via libera a 127 milioni di euro per la Tunisia, di cui 60 come assistenza al bilancio. Dei restanti 67 milioni, destinati a sostenere il contrasto all'immigrazione, solo 42 fanno però parte del Memorandum firmato a luglio. L'accordo sancito prima dell'estate prevedeva 105 milioni di euro per il capitolo immigrazione e ulteriori 150 milioni per l'assistenza al bilancio dello Stato, che però non saranno sborsati prima di fine anno».
ADDIO LAICO A NAPOLITANO
Funerali laici nell’aula di Montecitorio ieri per l’ex presidente Giorgio Napolitano. La cronaca è di Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera.
«Strano funerale, senza bara, senza preti, senza chiesa, senza popolo: deserta piazza Capranica con il maxischermo, un centinaio di persone davanti a quello di piazza del Parlamento. Popolo tenuto lontano non tanto dalla proverbiale indifferenza romana quanto dallo spiegamento di forze: poliziotti, carabinieri, finanzieri, militari, vigili, agenti in borghese, in un trionfo di sirene e transenne che da tempo hanno preso il posto della lupa e dell’aquila come simbolo della Capitale. Sulla soglia di Montecitorio si allunga la fila dei notabili vestiti a lutto, ripresi con il telefonino dai turisti incuriositi in sandali e bermuda. D’Alema ripete l’aneddoto di Napolitano presidente della Camera che lo rimanda a casa a cambiarsi — «il commesso mi portò un biglietto, c’era scritto: il capo del maggiore gruppo di opposizione non può presentarsi così» — e aggiunge: «Napolitano tenne l’orazione funebre di mio padre. Io non sono mai stato amendoliano; ma mio padre sì». Il fantasma del comunismo si aggira sulla cerimonia laica, e resterà a lungo un non detto, almeno fino all’intervento di Anna Finocchiaro: «Napolitano scelse il Pci perché era il partito che aveva combattuto più duramente il fascismo, e perché si mescolava con il popolo». La chiesa di Napolitano è il Parlamento, la Camera dei deputati, dove iniziò la sua vita pubblica nel 1953, a ventotto anni, e dove la chiude ora, a novantotto. L’ultima volta che lo si era visto qui a Montecitorio fu dopo la rielezione, la prima nella storia repubblicana, dieci anni fa. Napolitano tenne un discorso durissimo, in cui strigliò i parlamentari, quasi diede loro degli incapaci, e li esortò a fare le riforme per rendere il sistema più efficiente e più vicino ai cittadini. Il fallimento non potrebbe essere più totale; ma è tutto di chi è seduto sugli scranni, non di chi è chiuso nel feretro. Con l’aggravante che chi è venuto dopo, dall’invasione grillina in poi, non ha finora trovato soluzioni. Nell’emiciclo non ci sono solo parlamentari, ma amici di famiglia, uomini di cultura, crocerossine, partigiane, più militari in alta uniforme curiosamente collocati all’estrema sinistra, tra cui spicca tutto bianco il comandante De Falco, quello che invitò sbrigativamente Schettino a risalire a bordo. Poca destra, quasi tutta sui banchi del governo. Si rivedono volti dimenticati: Quagliariello, Vincenzo Visco che a molti fa pensare alla dichiarazione dei redditi, Occhetto, Silvia Costa e il mitico Alessandro Bianchi, ministro cossuttiano ai Trasporti nel governo Ciampi, con capelli lunghi sul collo. Ognuno cerca un amico con cui far passare il tempo, Schlein conversa con Landini, Teresa Bellanova non rinuncia ai suoi colori sgargianti, unica nota di arancione e viola in un’aula scura. Arriva Liliana Segre, c’è anche Giuliano Ferrara. Nessuno vuole sedersi vicino a Soumahoro. Capannello di ex premier, in Italia categoria più numerosa dei metalmeccanici: Prodi, Conte, Letta, D’Alema, Monti, Amato, Gentiloni… Renzi arriverà a mezzogiorno meno dieci, abbronzatissimo. Alle 11 appare sullo schermo il feretro coperto dal tricolore, risuonano le note dell’inno, ci si alza in piedi e nessuno osa sedersi: passano così venti minuti di silenzio e imbarazzo. Si vede Macron in gilet chinarsi quasi fino a baciare le mani a Clio Napolitano, da giorni a fianco del marito pur con la bombola d’ossigeno. In tribuna ci sono gli agenti della scorta del Quirinale, i migliori d’Italia, gli stessi dai tempi di Ciampi, che a tutti aveva dato la stessa istruzione: «Non siate mai scortesi con i cittadini». Ora i capi di Stato stranieri entrano in Aula: l’ex presidente francese Hollande con l’andatura da «pinguino», titolo della canzone cattivella che gli ha dedicato Carla Bruni; poi Macron, che si gira a cercare con lo sguardo Mario Draghi, lo vede, lo saluta portandosi la mano sul cuore. Ecco Giorgia Meloni: vestita di nero pare ancora più piccolina, ma quando guadagna la sedia da premier tutti i suoi ministri — Pichetto Fratin, Urso, Crosetto, Piantedosi, Tajani — scattano in piedi per lasciarla passare. Parla per primo il presidente della Camera Fontana, emozionatissimo, e dà mano a Wikipedia: «Dopo la laurea in giurisprudenza conseguita all’università di Napoli…». La Russa lo chiama Napoletano con la e ma almeno ci mette un po’ di cuore. Il presidente tedesco Steinmeier infila le cuffie per la traduzione; Macron ne fa a meno. Sgarbi deve aver fatto tardi ieri sera e si assopisce. Parla Giulio Napolitano e sembra davvero di rivedere il padre: alto, asciutto, non una parola di troppo. Ma i tempi si fanno lunghi e sui banchi cominciano a vedersi i cellulari, spicca quello dell’ex ministra Fedeli, rosso acceso in tinta con gli occhiali e i capelli. Sofia Napolitano, accompagnata dal fratello Simone, ricorda il nonno rigoroso e affettuoso, che le telefonava da bambina per segnalarle un cartone animato che le sarebbe potuto piacere — e qui la Meloni si volta per guardare in viso Sofia, mentre i suoi ministri restano con lo sguardo in avanti —, e da ragazza le indicava i libri e gli articoli utili per i suoi studi (ora si gira anche Salvini). Adesso sono tutti commossi: se a un funerale ognuno piange anche la propria morte questo è particolarmente vero per un ex capo dello Stato, vale per i parlamentari della sua generazione — Jas Gawronski e Franco Debenedetti, nel 1996 candidati della destra e della sinistra nel collegio Torino centro al Senato, siedono uno accanto all’altro — come per gli ospiti stranieri, compresa l’altezza reale duchessa di Edimburgo che il protocollo piazza accanto a Pina Picierno vicepresidente del Parlamento europeo. Dopo la Finocchiaro parla Gianni Letta: ricorda Napolitano sulla Flaminia presidenziale con Berlusconi, immagina che i due nell’aldilà possano essersi parlati, chiariti. Un messaggio a destra: ma quale golpe. L’ex ministro Lupi tamburella con le mani, sotto i banchi cominciano frenetiche consultazioni dei cellulari. Il posto accanto a Soumahoro è rimasto vuoto. Monsignor Ravasi cita Thomas Mann, Mozart, Beccaria e conclude con il profeta Daniele, capitolo 12, versetto 3: «“I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”. Questo è il fiore ideale che depongo sul feretro del presidente». «Per la crisi Covid er calcio nun ha avuto un euro!» tuonerà nel Transatlantico Claudio Lotito, che è qui perché «tutta ’a famija Napolitano è daaa Lazio». Amato evoca la morte del consigliere D’Ambrosio, le intercettazioni, il moto d’orgoglio di Napolitano — «fu stabilito che il presidente della Repubblica deve poter contare sull’assoluta riservatezza delle sue comunicazioni —»; segue Gentiloni sull’impegno europeista. Parte la suoneria di un cellulare, poi di un altro, il ritmo dei discorsi accelera. Macron si ferma a salutare un giovane in sedia a rotelle: è lo storico Alessandro Acciavatti, autore di studi importanti sui rapporti tra Quirinale e Vaticano. Franco Carraro ricorda l’incontro con l’imperatore Hirohito all’Olimpiade di Tokyo 1964. Passano Giovanni Malagò e Luca Barbareschi. Ravasi e Sgarbi discutono se siano più tersi i cieli di Perugino, Piero della Francesca o Ercole de’ Roberti. Brando Benifei, capogruppo Pd all’Europarlamento, avanza con ciuffo ondeggiante tipo promoter di discoteca anni 80 che gli avrebbe provocato un biglietto di Napolitano più severo di quello per D’Alema. Nel Transatlantico passa ora il feretro, nessuno azzarda un segno della croce, non l’ha fatto neppure il Papa. Finocchiaro: «Giorgio ha dedicato la sua vita all’Italia, e a essa appartiene la sua memoria». Fuori, passanti in lacrime ma per l’assenza di taxi, oggi particolarmente introvabili. A Roma, anche quando cambia tutto, all’apparenza non cambia mai nulla».
IL RICORDO DI MARIO MAURO
Affettuoso ricordo del presidente scomparso scritto per Avvenire da Mario Mauro, ex ministro della Difesa, e “saggio” per le riforme istituzionali nominato proprio da Napolitano.
«Ho conosciuto Giorgio Napolitano nel 1999 , appena eletto per la prima volta in Parlamento Europeo. Aveva esattamente il doppio dei miei anni e credo gli facessi appunto l’impressione di un pulcino bagnato. Cominciammo a conversare sul servizio navetta che conduceva i parlamentari dall’aeroporto di Zaventem al quartiere delle istituzioni europee. Non di rado arrivavamo in ore di grande traffico e quelle conversazioni diventavano lunghe e sempre più confidenziali. Giorgio Napolitano era per me, giovane parlamentare peraltro senza una vera formazione politica alle spalle, una miniera inesauribile. Prendemmo l’abitudine di fare lunghe passeggiate a Strasburgo e a Bruxelles e chiacchierate a cena a volte in compagnia di Mariolina Sattanino, inviata Rai in Europa che poi sarà corrispondente dal Quirinale. Nelle conversazioni a tu per tu gli argomenti spaziavano dalla storia della Repubblica alle aspettative sul processo costituzionale europeo allora in corso. Dai racconti sui protagonisti della vita parlamentare italiana, soprattutto democratici cristiani, agli anni di piombo. Aveva grande curiosità della realtà di Comunione e Liberazione e della missione della Chiesa. Era colto ed acuto. E rappresentava per me un concreto legame con una visione alta della politica e della Patria proprio perché avevamo idee non sempre coincidenti. Spesso abbiamo parlato di Dio ma ritengo opportuno serbare nel silenzio quei dialoghi. Quando si diffuse la voce di una sua candidatura alla presidenza della Repubblica, nel 2006, prima volta nella storia del paese per un “comunista”, di getto dettai alle agenzie, prima che i partiti si pronunciassero, la volontà di votarlo in quel ruolo se fossi stato parlamentare italiano. Non me ne sono mai pentito. Nel 2013 vengo eletto al Senato. La legislatura stenta a decollare. Manca da parte di troppi consapevolezza delle drammatiche circostanze storiche. Le nostre conversazioni in quei giorni, per la prima volta, riguardano anche il destino del nostro Paese. Ascolta molti e propone ai gruppi politici una strada non facile per arrivare ad un governo di larghe intese. Fu il tempo dei cosiddetti “saggi di Napolitano” ma la sola saggezza in campo, in quelle circostanze, fu la sua. Ardeva di passione civile e fece di tutto, specie dopo le dimissioni da presidente della Repubblica, per promuovere nella commissione Affari costituzionali del Senato presieduta da Anna Finocchiaro la riforma della Costituzione. Eravamo a quel punto su posizioni diverse ma ciò non impedì di continuare i nostri dialoghi nel suo ufficio di palazzo Giustiniani fino alla fine della legislatura. Spesso per parlare di Europa, del ruolo della Nato, di Mare Nostrum, dei giovani del meeting di Rimini e con commozione da parte sua dell’amico Loris D’Ambrosio. Sono stato fortunato ad averlo conosciuto. Ho potuto toccare con mano quanto ha amato l’Italia e l’Europa. È stato un onore senza pari essere chiamato a guidare la nostra Difesa con lui nel ruolo di capo delle forze armate. Il 2 giugno del 2013 non siamo più sulla navetta dei parlamentari europei ma insieme, fianco a fianco, sulla Lancia Flaminia del presidente della Repubblica che passa in rassegna le truppe. Lo guardo e penso che l’Italia è in buone mani. A Dio, presidente».
SÌ AL MES IN CAMBIO DI UN EXTRA DEBITO
Conti pubblici. Oggi il Consiglio dei ministri vara i numeri della Nadef: la spesa coprirà metà legge di bilancio. Sarà ridimensionata la crescita del Pil. E la premier prepara il negoziato con Bruxelles. Giuseppe Colombo per Repubblica.
«È la manovra che si aggrappa disperatamente al deficit, per reggersi in piedi. Eccola la traccia della seconda Finanziaria della destra al governo. Che stasera, con il via libera alla Nota di aggiornamento al Def, sdoganerà l’exit strategy rinnegata per mesi: più spesa in deficit nel 2024, fino a 12 miliardi. Soldi che serviranno a coprire circa metà di una Finanziaria austera, poco sopra i 20 miliardi, ma che senza il soccorso dell’indebitamento resterebbe monca. Perché il resto delle coperture viaggiano a vista, tra una spending review striminzita e sanatorie sensibili, passando dal Lotto messo all’asta. I numeri che inquadrano la linea scelta dalla premier Giorgia Meloni e dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sono, appunto, quelli del rapporto deficit/Pil, nella doppia versione del programmatico, che tiene conto delle misure, e del tendenziale, a legislazione vigente. Il delta tra questi due valori dice quanti soldi avrà il governo. A ieri sera, le simulazioni concordavano nel collocare quello programmatico al 4,3%. Quello tendenziale, invece, incastonato in una doppia ipotesi. La prima, più vantaggiosa: 3,7%, per uno spazio di 0,6 punti percentuali. Tradotto: circa 12 miliardi (11,4 l’importo indicato in una slide). L’altra opzione, invece, colloca l’asticella al 3,9%: il margine, in questo caso, è dello 0,4%. E le risorse pari a circa 9 miliardi. Numeri che saranno messi nero su bianco stamattina, a poche ore dal Consiglio dei ministri convocato alle 18.30. Ma la direzione è tracciata, l’obiettivo chiaro: ricavare una scorta più sostanziosa di quella individuata la scorsa primavera, con il Documento di economia e finanza. Ad aprile, infatti, la riserva ammontava a 4,5 miliardi, per una differenza tra il deficit programmatico (3,7%) e quello tendenziale (3,5%) dello 0,2%. Altri numeri, sempre all’interno della Nadef, sveleranno lo stato di salute dell’economia italiana. Gli entusiasmi sul Pil saranno ridimensionati: l’orientamento prevalente è far calare la previsione dall’1,5% a circa l’1,2-1,3%. Dalla stima definitiva del prodotto interno lordo dipenderà l’assetto finale del rapporto deficit/Pil e quindi, in sostanza, l’ammontare della provvista per la legge di bilancio. Scenderà, anche se di pochissimo, il debito. E la contrazione, altrettanto contenuta, ci sarà anche quest’anno, rispetto al 2022. Un trend su cui il governo punterà molto per provare a rassicurare l’Europa e i mercati. Il ragionamento, in sintesi: l’extradeficit è un passaggio obbligatorio alla luce di una crescita che si sta facendo più fioca. Il segnale positivo sul debito, seppure contenuto, sarà indicato come la cartina di tornasole di un impegno - più volte ribadito da Bruxelles e auspicato dagli investitori - che va avanti nonostante un quadro macroeconomico che si sta deteriorando. Ma non basterà. E per questo, nelle ultime ore, la premier avrebbe ribadito ai suoi più stretti collaboratori che bisogna preparare il Parlamento alla ratifica della riforma del Mes. E poi c’è il Superbonus. Ieri l’attesa comunicazione di Eurostat ha chiarito che quest’anno i crediti fiscali relativi ai maxi sconti edilizi vanno classificati nei conti pubblici come «pagabili » nel 2023. Il fardello, quindi, viene scaricato quasi completamente sull’anno in corso. Ma la scia velenosa del Superbonus non si ferma. Sempre Eurostat ricorda al governo che c’è da risolvere il problema dei crediti incagliati, anche se viene concessa una certa tolleranza, fino a giugno dell’anno prossimo, per valutare l’impatto sulle finanze. Intanto il deficit di quest’anno assorbirà il peso della zavorra, salendo fino al 5,3-5,4%. A completare il quadro un Pil che scenderà allo 0,8%, sotto la soglia psicologica dell’1%, indicata ad aprile. Numeri sottotono, quelli del 2023. Numeri di necessità, quelli della manovra».
LA NADEF, L’EUROSTAT E IL PESO DEI BONUS
In vista del Consiglio dei Ministri di stasera che potrebbe varare la Nadef, la nota di aggiornamento al Def, Eurostat conferma che la spesa 2023 per il 110% si scarica tutta su quest’anno. Per il 2024 target di disavanzo verso il 4,3%, per ricavare 9-10 miliardi per una manovra poco sopra i 20 miliardi. Mini discesa del debito. L’inquadramento di Gianni Trovati per Il Sole 24 Ore.
«L’attesa decisione di Eurostat, che nell’avviso pubblicato nella tarda mattinata di ieri indica di contabilizzare anche nel 2023 i crediti d’imposta da Superbonus per competenza scaricandoli integralmente sul deficit dell’anno, mette un pilastro importante nell’architettura dei conti della Nota di aggiornamento al Def che si stanno completando in vista del consiglio dei ministri delle 18.30 di oggi. La decisione (anticipata sul Sole 24 Ore del 6 settembre) accoglie la proposta dell’Istat. E si basa sul fatto che nonostante il decreto di metà febbraio, con cui si è provato a stringere sulla cessione dei crediti, le eccezioni alla nuova regola «rappresentano la parte prevalente delle spese sostenute nel 2023», come spiega l’Istituto di statistica. Il criterio della prevalenza spinge quindi a considerare «pagabili», dunque da imputare tutti sul disavanzo del loro anno di nascita, anche i bonus di quest’anno. Per il prossimo si vedrà, con un «nuovo approfondimento»: l’idea è di passare al criterio di cassa, che carica sul deficit gli sconti fiscali quando vengono effettivamente utilizzati, ma per averne certezza occorrerà quantificare il peso che avranno i vecchi crediti oggi «incagliati». Sul debito, è il caso di ricordare, nulla cambia, perché i crediti d’imposta viaggiano per cassa, quando vengono usati e quindi riducono il gettito fiscale aumentando il fabbisogno da coprire con i titoli di Stato. In termini pratici, l’indicazione di Eurostat evita di complicare ulteriormente i giochi di una manovra 2024 che già è schiacciata dalla frenata della crescita rispetto alle previsioni e, appunto, dall’eredità del Superbonus. Il criterio di competenza ribadito dall’autorità statistica Ue concentra sul deficit 2023 gli oltre 15 miliardi di spesa non prevista nei vecchi tendenziali, portando di conseguenza il disavanzo verso quota 5,3-5,4% del Pil dal 4,5% scritto nel Def di aprile. Una piccola spinta al rialzo arriva anche da una crescita inferiore alle attese, vista ora fermarsi al +0,8% senza arrivare al +1% indicato come obiettivo ad aprile. Il rallentamento dell’economia incide anche sui conti dell’anno prossimo: nel quadro tendenziale, cioè senza la manovra, la previsione si ferma all’1%, quattro decimali sotto al dato del Def, mentre l’obiettivo su cui sono in corso gli ultimi calcoli sarà fissato all’1,2-1,3% (Sole 24 Ore del 12 settembre). La distanza fra la crescita «tendenziale» e quella «programmatica» è data dall’effetto espansivo della manovra, che però sarà leggerissima. La prospettiva è ora di una legge di bilancio poco sopra i 20 miliardi, e tutta concentrata sulle priorità di cuneo fiscale, natalità e redditi bassi, indicate a più riprese nelle ultime settimane dalla premier Meloni e dal ministro dell’Economia Giorgetti per frenare le richieste di partiti e colleghi di Governo. Circa metà della benzina per la manovra, cioè intorno a 10-12 miliardi (ma i calcoli sono in corso), arriverà da un obiettivo di deficit portato per l’anno prossimo al 4,3% (nel Def era 3,7%, ma sulla dinamica pesa anche il Pil meno vivace del previsto). Oltre, però, con il disavanzo non è possibile andare, perché anche nel nuovo programma di finanza pubblica resta essenziale indicare che il percorso in discesa del debito/Pil prosegue, pur se a ritmi ancora meno intensi di quelli pensati in primavera. La revisione al rialzo del Pil comunicata pochi giorni fa dall’Istat per certi versi aiuta, ma i debiti da Superbonus (e bonus facciate) mettono sul fabbisogno un’ipoteca che a giugno il Mef calcolava in 22 miliardi, e che i conti aggiornati alzano ancora. Un peso del genere, affiancato da interessi in salita verso i 95 miliardi (10 in più di quelli ipotizzati nel Def) e da una spesa previdenziale spinta dall’inflazione, non è semplice da gestire. Ma il debito deve scendere, per i mercati prima che per la commissione Ue come spiegato a chiare lettere da Giorgetti».
RICOMPARE L’AMMIRAGLIO RUSSO
La guerra in Ucraina. In un video da Mosca si vede l’ammiraglio russo Viktor Sokolov, di cui gli ucraini avevano rivendicato ieri l’uccisione. Kiev adesso dice: verificheremo. Colpito porto sul Danubio. Il punto sulla guerra è di Andrea Nicastro sul Corriere.
«Era pallido e rigido, non ha detto una parola, ma l’ammiraglio russo ucciso dai missili ucraini era comunque ieri in video a una riunione a distanza con il ministro della Difesa di Mosca. Sembrava abbastanza vivo da non essere morto. Un giallo si direbbe nelle pagine di cronaca. Nel racconto di una guerra deve essere considerato qualcosa di più: contro-propaganda, disinformazione, un’azione politica. A giudicare dai pochi secondi in cui è stato visibile, l’ammiraglio Viktor Sokolov non deve sentirsi troppo bene. Era appoggiato a un cuscino bianco, come quelli degli ospedali. Non si potevano notare tracce di ferite in viso ed era vestito in alta uniforme, ma dietro gli occhiali batteva appena le palpebre. L’impressione è che sia effettivamente stato coinvolto nell’esplosione, ma che sia stato rimesso seduto, magari sotto un abbondante strato di cerone per svergognare gli annunci ucraini che lo davano per eliminato. Altre ipotesi sono che si trattasse di immagini registrate o che l’intera riunione fosse precedente il bombardamento ucraino della settimana scorsa su Sebastopoli. Venerdì due missili di Kiev hanno sventrato il quartier generale della flotta russa del Mar Nero in Crimea. Sin dal primo momento Kiev ha sostenuto che non solo era stato colpito un obbiettivo simbolico, ma si era trattato del culmine di una straordinaria operazione di intelligence, l’Operazione trappola per granchi. Gli 007 ucraini avevano segnalato una riunione tra alti ufficiali della Flotta del Mar Nero proprio nel palazzo storico sede della marina russa a Sebastopoli. Sapevano l’ora della riunione, il nome degli invitati, tutto. In un conflitto in corso tale fuga di notizie è devastante per il Paese che la patisce. Così Kiev ha voluto far subito sapere il suo successo parlando di generali uccisi e del bersaglio più grosso, Sokolov appunto, eliminato. Ieri, davanti alle immagini diffuse da Mosca, una retromarcia svogliata che ha avuto poco rilievo sui media ucraini e che mantiene il dubbio: le informazioni lo davano per defunto, dovremo verificare. Da parte di Mosca nessuna fanfara per umiliare i nemici ucraini. Si insiste invece sull’«unico disperso» nel crollo del palazzo e nello sminuire l’attacco ostentando indifferenza. Washington non è entrata nella disputa. Durante la videoconferenza con vari ufficiali, il ministro della Difesa Shoigu ha detto che oltre 17mila soldati ucraini sono stati uccisi nel corso di settembre e che «lungo l’intera linea del fronte Kiev sta subendo tremende perdite anche perché manda allo sbaraglio giovani reclute senza formazione». Tranne che per il vantaggio ottenuto nel controllo del Mar Nero, la controffensiva ucraina appare lenta e incerta. I soldati al fronte spiegano che uno degli ostacoli maggiori è l’incredibile numero di mine di cui la Russia ha disseminato i campi davanti alle sue linee di difesa. Gli alleati occidentali non l’avevano previsto e quindi non hanno consegnato i veicoli necessari. Anche per questo non sorprende troppo il calcolo del Belfer Center della Kennedy School di Harvard. Secondo gli analisti americani da metà agosto a metà settembre la Russia ha guadagnato 90 chilometri quadrati in varie zone del fronte, mentre l’Ucraina ne ha conquistati 41, meno della metà. Le cose cambiano, ma l’indicazione è chiara. Non ha soste la battaglia missilistica. Ieri ancora un porto ucraino sul fiume Danubio sotto attacco per due ore con decine di droni russi e ancora incursioni missilistiche ucraine nella provincia russa di Kursk. Da una parte distrutte infrastrutture di carico delle navi e dall’altra una sub-centrale dell’alta tensione che ha lasciato al buio ampie aree di confine».
IL FINANCIAL TIMES CRITICA LE SANZIONI A MOSCA
Il Financial Times critica le sanzioni e dà spazio a Oleg Deripaska, fondatore del colosso russo dell’alluminio. Che dice: «La Russia resiste e diventa più efficiente. Al resto pensa la Cina». Giovanni Longoni su Libero.
«Sono rimasto sorpreso dal fatto che le imprese private (russe, ndr) siano state così flessibili. Ero più o meno sicuro che fino al 30% dell’economia sarebbe crollata; invece ci è andata molto meglio». L’analisi è di Oleg Deripaska, fondatore del colosso russo dell'alluminio Rusal e oligarca sanzionato da Stati Uniti e Gran Bretagna per il suo ruolo nell’invasione. Poi è diventato moderatamente critico dell’“operazione speciale” (già ai primi di marzo 2022 su Telegram scrisse: «Abbiamo bisogno della pace il più presto possibile»). E oggi torna a dire qualcosa di patriottico. Ma non è soltanto il contenuto della sua intervista ad essere interessante quanto il fatto che il Financial Times, quotidiano dell’establishment finanziario britannico, abbia dato grande evidenza alle sue parole. Il FMI ha previsto che il Pil russo crescerà dell’1,5% quest’anno e dell’1,3% nel 2024. Putin parla di crescita del 2,8%. È un altro tassello nel nuovo scenario globale attorno al conflitto in Ucraina innescato più dagli appuntamenti elettorali sulle due sponde dell’Atlantico che dalla mera stanchezza per il protrarsi senza apparente fine dello scontro fra Mosca e Kiev. Sempre più sondaggi condotti in Europa e Stati Uniti mostrano infatti un deciso calo dell’entusiasmo per la causa di Volodymyr Zelensky. Fra i candidati alle primarie repubblicane in America, tre pezzi da novanta come Trump, DeSantis e Ramaswamy sono a favore del disimpegno. Putin trattiene il fiato. Nella sua strategia solo difensiva, sul campo di battaglia e in quello della politica e della diplomazia, l’unica speranza è che l’Occidente si chiami fuori. E purtroppo per l’Ucraina, questo momento di svolta sembra avvicinarsi. O comunque il rischio è alto: Biden, che non ha mai ceduto nell’armare Zelensky, potrebbe non farcela a ottenere la riconferma. O potrebbe essere costretto, una volta arrivati allo scontro finale, a chiudere i rubinetti degli aiuti per compiacere agli elettori. Deripaska, intanto, spiega sornione al FT: «Ho sempre dubitato di questa Wunderwaffe (arma miracolosa ndr), come dicevano i tedeschi, delle sanzioni». Per spiegare la resistenza dell’economia del suo Paese, sostiene che il Cremlino ha fatto grandi sforzi al fine di costringere le imprese statali inefficienti che dominano l’economia ad aumentare la capacità, in parte a sostegno dello sforzo bellico. «Il capitalismo di Stato ha creato questi enormi conglomerati a bassa produttività e bassi salari. Sono rimasto sorpreso nel vedere che in alcune di quelle fabbriche gli stipendi erano simili a quelli delle mie aziende». Hanno soldi, assumeranno, diventeranno competitivi, prevede Oleg. Uno scenario - la razionalizzazione provocata dalla guerra - plausibile anche perché Mosca ha trovato mercati alternativi. Con cui non si arricchisce ma di sicuro sopravvive. «Sapete», ironizza ancora il miliardario, «i Paesi asiatici hanno bisogno di sfamare miliardi di persone ogni giorno, come si fa a chiedere loro di impegnarsi in un embargo?». Da parte occidentale, «è stato un grave errore». Provare a usare con regimi autoritari «questo eccellente meccanismo».
GALLAGHER ALL’ONU: IL MULTILATERALISMO È IN CRISI
L’arcivescovo Paul Gallagher, diplomatico vaticano, è intervenuto ieri in chiusura della 78esima Assemblea generale delle Nazioni Unite. Al centro del dibattito c’è stata soprattutto la guerra in Ucraina. Elena Molinari da New York per Avvenire.
«La crisi del multilateralismo emerso dalle ceneri della Seconda guerra mondiale è diventata urgente e dovrebbe aprire gli occhi dei leader mondiali sul bisogno di ascolto e di dialogo. Il richiamo della Santa Sede risuona nella sala dell’Assemblea generale nell’ultimo giorno, dopo una settimana di dibattito che ha messo in evidenza enormi fratture nella comunità internazionale. Citando papa Francesco, l’arcivescovo Paul Gallagher, segretario del Vaticano per i rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali, ha sottolineato come la guerra in Ucraina ha reso ancora più evidente questa crisi e la necessità di un profondo ripensamento delle istituzioni internazionali. Con parole le quali illustrano efficacemente gli ultimi sette giorni al Palazzo di Vetro, il diplomatico ha sottolineato come «le delegazioni che spendono fiumi di parole per spiegare le rispettive posizioni» non sempre sono disponibili all'ascolto. «Papa Francesco la chiama colonizzazione ideologica — ha spiegato —, il fenomeno per cui i Paesi più ricchi e potenti tentano di imporre la propria visione del mondo ai Paesi più poveri» oppure forniscono aiuti «a condizione di accettare quelle posizioni». L’effetto, ha fatto notare l’arcivescovo, «è quello di escludere alcune parti dalla conversazione», minando la natura stessa dei forum multilaterali globali, che si stanno trasformando in «club riservati a poche élite, che la pensano allo stesso modo e dove alcuni sono tollerati purché non diano fastidio a nessuno». Queste imposizioni, oltre che ingiuste, sono pericolose. Gallagher ha richiamato «l’elevata minaccia di un’escalation nucleare», ricordando che, secondo la Santa Sede, il semplice possesso di armi nucleari è immorale, e invitando le potenze atomiche a rilanciare gli accordi, oggi spesso disattesi o abbandonati, per il disarmo e la non proliferazione nucleare. Nel dettaglio, il rappresentante vaticano ha richiamato l’urgenza di occuparsi delle ferite più dolorose aperte nel mondo, come i combattimenti in Ucraina, ma anche la situazione umanitaria in Siria dopo dodici anni di guerra, e gli scontri in Sudan. Particolare preoccupazione ha espresso anche per i frequenti colpi di stato nell’Africa sub-sahariana, che interrompono i processi democratici, causano morte e distruzione e causano crisi umanitarie e migratorie. A questo proposito, Gallagher ha fatto appello alla famiglia delle Nazioni Unite affinché «cessi lo sfruttamento economico e finanziario nella regione». Un pensiero speciale del diplomatico è andato al Nicaragua con il quale «la Santa Sede spera di avviare un rispettoso dialogo diplomatico per il bene della Chiesa locale e dell'intera popolazione». Nel 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, l’arcivescovo ha ricordato che «la vera cartina di tornasole per verificarne la tutela è il grado di libertà di religione in un Paese », denunciando che circa un terzo della popolazione mondiale non è libera di professare la propria fede. «Non posso non ricordare, inoltre, che un cristiano su sette è perseguitato — ha continuato — e che le violenze contro i cristiani sono in aumento e non solo nei Paesi in cui sono una minoranza». Gallagher ha sottolineato che la mancanza di libertà religiosa, intesa come la possibilità di vivere secondo il proprio credo, non è un problema esclusivo delle dittature e dei regimi totalitari. E ha riservato toni forti per il modo in cui i termini «crimine d’odio» o «incitamento all’odio» vengono manipolati in Occidente, equiparando la pratica della religione alla violenza. «Questo programma volutamente disonesto e motivato politicamente, particolarmente vergognoso in Occidente — ha concluso — deve finire».
“ITALIA RIPENSACI”, LA CAMPAGNA CONTRO LA BOMBA
Nel mondo ci sono ancora 12.500 testate nucleari. Francesco Vignarca su Avvenire rilancia la mobilitazione dal basso: il disarmo nucleare ha bisogno della società civile.
«La mattina del 6 agosto del 1945 a Hiroshima, nonostante si trovasse a poche centinaia di metri dall’ipocentro della prima bomba atomica, il Noviziato dei Gesuiti fu uno dei pochissimi edifici a rimanere in piedi. Tra coloro che riuscirono a sopravvivere alla devastazione di quei terribili momenti anche Padre Pedro Arrupe, poi Superiore dei Gesuiti, che avendo studiato un po’ di Medicina trasformò rapidamente il Noviziato in un punto di prima assistenza. Il grande attivismo di Papa Francesco per il disarmo nucleare probabilmente nasce anche dall’influenza di questo suo “maestro” gesuita. Dalla foto scelta nel 2017 per evidenziare i “frutti della guerra” (un bambino di Nagasaki che por-tava al crematorio il fratellino morto) alle potenti parole pronunciate nel 2019 al Memoriale della Pace di Hiroshima: «Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune». Oltre alla sua voce, sono i passi concreti a dimostrare quanto Papa Francesco sia un vero e proprio campione della messa al bando delle armi nucleari. Nel 2017, in un Simposio sul tema realizzato con la presenza della Campagna Ican appena insignita del Premio Nobel per la Pace, il Papa aveva evidenziato per la prima volta l’immoralità anche del solo possesso di armi nucleari (concetto ribadito pochi giorni fa in un messaggio in occasione di un Convegno sulla Pace in terris). E la Santa Sede è stata il primo Stato ad aderire al Trattato sulla Proibizione delle armi nucleari (Tpnw), ottenuto grazie al grande lavoro della società civile. Il Noviziato gesuita di Hiroshima che rimane in piedi è dunque simbolo di come la strada dei movimenti per il disarmo nucleare sia iniziata subito: gli scienziati che si accorsero del devastante potere distruttivo, i medici che hanno sottolineato gli impatti riverberanti delle radiazioni, le organizzazioni della società civile internazionale che hanno sostenuto le richieste delle vittime di bombe e test nucleari. Ma a che punto siamo oggi, dopo che le recenti e continue minacce di Putin e Medvedev hanno dimostrato che il pericolo nucleare non è superato? Quasi la metà di tutti gli Stati del mondo (93) ha già firmato il Trattato Tpnw, e ben 69 ne fanno parte, dando nuovo vigore alle norme internazionali di disarmo umanitario dopo che il Trattato di Non Proliferazione non ha saputo realizzare anche i propri obiettivi di disarmo. Non ci sono ancora le potenze nucleari o gli Stati sotto il loro “ombrello di protezione”, ma la forza di questo percorso allargato deriva dalla sua origine dai “piccoli”: le comunità vittime e impattate dallo sviluppo degli arsenali o gli Stati meno rilevanti sullo scacchiere internazionale. Che hanno evidenziato di non poter rischiare la propria esistenza per i giochi di potere di pochi governi irresponsabili, riportando su questo tema principi di democrazia planetaria. Non si possono dimenticare le 12.500 testate ancora presenti al mondo (circa 2.000 in massima allerta operativa) che potrebbero cancellare in poche ore la nostra civiltà o la stessa umanità. Ciascuno può fare qualcosa in questa direzione. La mobilitazione “Italia, ripensaci” coordinata da Senzatomica e Rete Pace Disarmo dopo il Pledge dei Parlamentari, l’Appello delle Città e vari eventi territoriali ha deciso di scrivere al Governo in occasione della Giornata Internazionale per la totale eliminazione delle armi nucleari, chiedendo che anche l’Italia partecipi a novembre a New York alla Seconda Conferenza del Tpnw (l’anno scorso a Vienna il nostro Paese era assente). Anche solo per interloquire e portare al tavolo la grande competenza italiana sull’intervento umanitario a favore delle comunità colpite. Per riuscirci è cruciale ricevere il più ampio sostegno possibile da parte della società civile, in particolare quella cattolica. Sulla scia di quanto dichiarato dal cardinale Matteo Zuppi nella prima conferenza stampa da presidente Cei nel maggio 2022: «Faremo tutto quello che serve per continuare a insistere sulla ratifica dell’Italia al trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari. Nessuno si può abituare all’idea che si riparli di guerra nucleare». Il buon segno è che questa consapevolezza pare davvero diffusa tra associazioni, sindacati e gruppi italiani attivi sui temi della Pace come dimostra la presenza del disarmo nucleare tra le richieste avanzate in questi mesi dalla Coalizione “Europe For Peace” (formata da 600 organizzazioni), punto che verrà ribadito anche nella manifestazione “La Via Maestra” del prossimo 7 ottobre a Roma».
ITALIA MAGLIA NERA DELLE FAKE NEWS
Rimossi 47mila contenuti considerati falsi dai nostri social. Bacchettata Ue per Musk: rientri nel codice di condotta. Da Bruxelles Giovanni Maria Del Re per Avvenire.
«L’Italia maglia nera sul fronte della disinformazione online. Il dato emerge da un rapporto della Commissione Europea sull’applicazione del Codice di condotta firmato nel 2022 dalle principali piattaforme online per lottare e rimuovere dalla Rete le “fake news”. Secondo il rapporto, tra gennaio e giugno 2023 Meta ha rimosso come «disinformazione dannosa per la salute o di interferenza elettorale o sui censimenti» un totale di 140.000 contenuti relativi ai 27 Stati membri da Facebook, e 6.900 da Instagram. L’Italia segna il numero più alto (rispettivamente 45.000 e 1.900), seguita a distanza da Germania (22.000 e 1.100), Spagna (16.000 e 1.200), Olanda (13.000 e 750) e Francia (12.000 e 500). L’Italia è in testa anche per il numero di annunci pubblicitari in violazione delle norme contro la disinformazione rimossi da Facebook e Instagram, 3.900 su un totale di 24.000 (seguita qui dalla Lituania con 3.600, la Polonia con 3.500, la Germania con 2.900 e la Francia con 1.800). Nel complesso, spiega la Commissione, Meta «ha riferito di oltre 40 milioni di contenuti oggetto di verifica dei fatti su Facebook e 1,1 milioni su Instagram». Google «ha indicato di aver impedito nella prima metà del 2023 che oltre 31 milioni di proventi pubblicitari arrivassero ad attori di disinformazione nell’Ue», Youtube (che è di Google) ha terminato 411 canali di 10 blogger coinvolti in operazioni di influenza legati alla Russia. Microsoft ha impedito la creazione di 6,7 milioni di account fasulli su LinkedIn. «La disinformazione – ha dichiarato Vera Jourová, vicepresidente della Commissione e responsabile per i Valori – resta uno dei maggiori rischi nello spazio democratico informativo europeo. Mentre gli europei si preparano a recarsi alle urne nel 2024, tutti gli attori devono fare la loro parte nel combattere la disinformazione online e l’interferenza straniera». Questo vale anche per l’ex Twitter, ora “X”: il social media aveva sottoscritto il Codice di Condotta, ma il nuovo proprietario Elon Musk ha deciso di uscirne. «Musk – ha avvertito Jourova - sa che non è esonerato dagli obblighi abbandonando il codice di condotta. Ora abbiamo la legge sui servizi digitali (Dsa ndr) pienamente in vigore. La applicheremo».
USA, BIDEN SI UNISCE AGLI SCIOPERANTI
Le altre notizie dall’estero. Joe Biden si unisce allo sciopero, in Michigan al fianco del sindacato del settore automobilistico. Luca Celada per Il Manifesto.
«II Megafono in mano, attorniato da agenti del secret service e dalle camicie rosse della United Auto Workers, il sindacato dei metalmeccanici, il “compagno Biden” ha parlato in solidarietà ai lavoratori in sciopero. «Voi siete quelli che hanno salvato questa industria quando era sull’orlo del fallimento nel 2008, avete sacrificato molto per farlo. Ora che sono tornati a guadagnare bene anche voi dovreste poterlo fare». Come preannunciato, ieri Joe Biden si è unito a quello che è stato certamente il picchetto di scioperanti più blindato della storia. La motorcade presidenziale ha raggiunto uno stabilimento della General Motors vicino Detroit, una mossa radicale che ha marcato la prima volta che un inquilino della Casa bianca si è fisicamente unito ad operai in sciopero. «Per la prima volta nella storia un presidente in carica ha scelto di stare in solidarietà con noi, la nostra lotta per la giustizia sociale», ha sottolineato il presidente della Uaw Shawn Fain. Biden, che si autodefinisce il presidente «più filo sindacale di sempre», ha affermato sin dall’inizio della vertenza che è tempo di restituire ai lavoratori alcune delle concessioni fatte dai sindacati durante la crisi finanziaria dei primi anni 2000. Nell’ultimo decennio i costruttori, una volta sull’orlo della bancarotta, hanno registrato utili record, sull’onda del boom di Suv e pickup. I lavoratori chiedono migliori condizioni di lavoro, riduzione degli orari, il recupero di benefici sanitari e pensionistici a loro tempo ceduti e un aumento delle retribuzioni fino al 40% per riflettere i fatturati incamerati dalle aziende. Ford, General Motors e Stellantis, casa madre di Chrysler, hanno ad oggi offerto aumenti del 21% oltre a parziali incrementi dei benefici, respinti dal sindacato come insufficienti. Il sostegno dei lavoratori americani come via all’espansione dei ceti medi è centrale nella narrazione rooseveltiana su cui Biden ha tentato di imbastire la politica economica della sua amministrazione e ora la campagna per restare alla Casa bianca. Due giorni fa, nel compiacersi della vittoria degli sceneggiatori nella loro vertenza con gli studios di Hollywood, ha ricordato «ad ogni azienda che i lavoratori – siano scrittori, attori o metalmeccanici – meritano un’equa parte del valore che il loro lavoro ha contribuito a produrre». Hollywood, Detroit e molti altri settori sono attualmente caratterizzati da lotte sindacali all’insegna di aspre critiche a manager ed amministratori ed il loro compensi stratosferici, e in cui viene più apertamente invocata la lotta di classe, terreno fino a poco fa di esclusiva competenza di politici come Bernie Sanders. Un’azione dimostrativa come quella di Biden ieri un tempo sarebbe stata prerogativa di esponenti dell’opposizione più che di un capo di governo. «Non è stata Wall Street a costruire questo paese», ha detto il presidente. «È stata la middle class. E noi intendiamo ricostruire la classe media». Sullo sfondo della vertenza c’è l’incombente elettrificazione del settore auto con tutte le incognite legate a costi, consumi, materie prime e concorrenza cinese ed in generale al progressivo abbandono di un modello, assai lucroso per l’industria, basato sugli idrocarburi. I costruttori affermano che, in questo contesto, eccessivi costi del lavoro rischiano di riportare il settore alla crisi di competitività di vent’anni fa. Mentre Biden punta alla riconversione come stimolo economico, il populismo di destra semina il panico sui costi insostenibili proprio per i lavoratori. In comune le parti hanno il protezionismo nei confronti della Cina. In questo senso il blitz di Biden a Detroit equivale al primo giorno di effettiva campagna elettorale, dato lo scontro a distanza ravvicinata con Donald Trump che lo seguirà a ruota oggi da un fornitore di ricambi della stessa città. La mossa di Trump è da un lato un nuovo boicottaggio del dibattito dei candidati Gop previsto in California, e dall’altro una contesa diretta per i favori degli stessi elettori blue collar. Significativo è anche il terreno dello scontro “in differita”: il Michigan, oltre che capitale automobilistica, è uno swing state, vinto di misura da Trump nel 2016 e riconquistato da Biden quattro anni dopo. Il duello a distanza di questi giorni costituisce un confronto diretto fra il populismo operaista di Biden e la retorica nazionalista con riflessi razziali con cui Trump era riuscito a conquistare segmenti strategici di classe operaia bianca nella sua prima ascesa. Mentre Biden era in Michigan Trump si è rivolto agli scioperanti via social con caratteristica verve: «Ricordate che vuole prendere i vostri posti di lavoro e regalarli alla Cine ed altri paesi stranieri. Io li manterrò e vi renderò ricchi!!!». Malgrado i punti esclamativi, il primo round sembrerebbe essere andato a Biden. Se non sulla difensiva, Trump è parso costretto ad un precipitoso recupero, anche perché i vertici del sindacato non hanno accolto con favore le sue aperture. «Ogni fibra della nostra union è impegnata nella lotta alla classe dei miliardari e contro l’economia che arricchisce gente come Donald Trump», ha affermato Shawn Fain. «Non possiamo continuare ad eleggere miliardari che non hanno la minima cognizione di cosa significhi arrivare a fine mese, e pretendere che risolvano i problemi della working class».
GLI ARMENI, UN POPOLO SACRIFICABILE
Commento della scrittrice Antonia Arslan (autrice de La masseria delle allodole) sulla Stampa. In Nagorno è in corso un genocidio davanti al mondo e gli Usa sono complici di un negoziato impossibile. Il vero obiettivo azero (e turco) è cancellare gli armeni dalla storia.
«Moltissimi sono i proverbi che la saggezza popolare ha inventato per descrivere situazioni estreme (e terribili) come quella in cui si trova oggi la popolazione del piccolo ma importantissimo territorio di montagna chiamato Nagorno-Karabakh (Artsakh per gli abitanti, montanari armeni del Caucaso, essendo l'altro nome per loro una memoria costante di dominazioni straniere). Ma quello che più trovo adatto al momento attuale, nella sua essenzialità atmosferica, è molto semplice: «Tanto tuonò che piovve». Dopo la guerra perduta dell'autunno 2020, con un territorio ridotto e minacciato da ogni parte, ci sono stati i tuoni delle ripetute e sempre più accentuate minacce da parte azera: sia verbali, grondanti odio e volontà di annientamento, che fisiche, con progressivi sconfinamenti, rosicchiamenti di chilometri e chilometri di territorio (ora in un punto ora nell'altro del contestato confine), qualche bomba e qualche vittima, contadini a cui è impedito coltivare i loro poveri campi, di vendemmiare le loro uve prelibate, esercitando una pressione psicologica e fisica sempre crescente. Ma dopo i tuoni, ecco la pioggia: il blocco dal dicembre 2022 del purtroppo famoso corridoio di Lachin (l'unica strada che collega oggi l'Artsakh all'Armenia e al resto del mondo) che nello stillicidio di ben otto mesi di durata ha prostrato le forze dei circa 120.000 montanari armeni che ancora vi abitano, attaccati alla loro antica patria come l'ostrica allo scoglio. Ma non è bastato: ecco la grandinata finale, che distrugge ogni cosa. Con una mossa largamente prevedibile, che solo la volontaria cecità dell'intero Occidente può chiamare sorprendente, qualche giorno fa è stato scatenato l'attacco definitivo, con l'impiego di una potenza bellica tale da travolgere ogni resistenza. Sono bastate 24 ore: il governo autonomo dell'Artsakh si è piegato e sta «trattando» la resa. Di quale trattativa possa trattarsi, e sotto quale manto di ipocrisia possa essere coperta questa parola (a me sembra il discorso dell'agnello col lupo prima di essere mangiato...), lo ha descritto perfettamente – nel suo appassionato e lucido intervento di qualche giorno fa alla Commissione per i Diritti Umani "Tom Lantos" del Congresso degli Stati Uniti - Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte Criminale Internazionale dal 2003 al 2012: «Gli Stati Uniti stanno favorendo negoziati fra un genocida e le sue vittime...non si può assistere da spettatori a un negoziato fra Hitler e i deportati di Auschwitz!». In queste ore, si sta verificando proprio questo. Mentre i cosiddetti negoziati sono in corso, la gente dell'Artsakh ha gettato la spugna e ha cominciato a scappare. Nella piccola capitale Stepanakert, una cittadina linda e piacevole al centro di una conca verdeggiante, arrivano con tutti i mezzi e con le loro povere cose i contadini dei villaggi. Hanno distrutto quello che potevano, ma sanno - per triste esperienza - che le loro chiese saranno dissacrate e vandalizzate, le loro tombe aperte e le ossa dei loro cari sparse al vento, come è già successo nei territori perduti dopo la guerra del 2020. Sanno che l'intento preciso dei conquistatori è quello di fare terra bruciata di migliaia di anni di civiltà armena in quei luoghi e di riscrivere la storia, come è puntualmente e totalmente avvenuto nell'altro territorio - armeno da millenni - che era stato attribuito da Stalin alla sovranità azera, il Nakhicevan. E questo è propriamente genocidio, come da definizione dell'Onu del dicembre 1948: dopo l'eliminazione fisica, estirpare anche ogni traccia della cultura del popolo annientato. E non a caso, mi è arrivata anche la dichiarazione molto esplicita in proposito di 123 intellettuali turchi, tutte persone coraggiose che ben conoscono il rifiuto ancora totale da parte di tutti i loro governi di riconoscere il genocidio compiuto dai Giovani Turchi più di cent'anni fa: e che - fra l'altro! - stanno rischiando di persona. Mettono in guardia contro la politica genocida portata avanti dall'Azerbaigian (stretto alleato della Turchia) nel Nagorno-Karabakh, e chiedono alla comunità internazionale di agire per prevenire nuove tragedie, invece di restare a guardare. Il regime azero, del tutto incurante delle sollecitazioni ricevute da organizzazioni internazionali e da molti Paesi per interrompere il blocco del corridoio di Lachin, ha lanciato operazioni militari durante l'assemblea generale delle Nazioni Unite, scrivono, «mentre il mondo intero osservava in silenzio. Esiste un chiaro pericolo di pulizia etnica e di genocidio. Loro cercano di prendere il controllo completo dell'Artsakh e di eliminare gli armeni dai territori dove hanno vissuto per secoli, e in caso di resistenza semplicemente di ucciderli». Chiaro e partecipe, ma non basta. Nel silenzio colpevole dell'Ue, forse però qualcosa si muove al Congresso americano. Sono state presentate ben tre proposte di legge per un intervento umanitario diretto e chiedendo sorveglianza per le popolazioni in pericolo. L'autorevole Congressman Chris Smith, co-capo della Commissione per i diritti umani del congresso, e un gruppo bipartisan hanno fatto audizioni, compresa la situazione e appena depositata una proposta di legge chiamata Preventing Ethnic Cleansing and Atrocities in Nagorno-Karabakh Act of 2023 (H.R.5686), che esige che «il Dipartimento di Stato crei una strategia dettagliata per promuovere la sicurezza a lungo termine e il benessere degli armeni del Nagorno-Karabakh, attraverso importanti misure di sicurezza.». Questo piccolo popolo cristiano, con le sue chiese di cristallo, i monasteri antichissimi, i preziosi manoscritti miniati e le celebri croci di pietra è immagine forte per noi occidentali, immersi in un'inerzia distratta e malata; e non può non far venire in mente le gabbiette dei poveri canarini che i minatori portavano con sé come segnale di pericolo, perché morivano prima degli esseri umani in caso di perdite di gas...».
XI VUOLE RILANCIARE LA VIA DELLA SETA
Il Presidente cinese Xi Jinping tenterà il rilancio della Via della Seta al prossimo Forum di Pechino a fine ottobre. Dieci anni dopo l’annuncio, il piano di infrastrutture fatica ancora a decollare. Rita Fatiguso per Il Sole 24 Ore.
«Un proclama per un nuovo ordine mondiale destinato a passare attraverso una strategia Belt & road riveduta e corretta a dieci anni dal lancio. Lo si ritrova nel lungo documento che raccoglie il pensiero del segretario generale Xi Jinping appena diffuso dall’ufficio del massimo rappresentante della diplomazia cinese, Wang Yi, tornato ad affiancare alle funzioni di Consigliere di Stato quella di ministro degli Esteri ricoperta per un decennio. Il Forum della BRI, organizzato come le edizioni precedenti dal ministero degli Esteri, si terrà a fine ottobre a Pechino (terza edizione dopo quelle del 2017 e 2019) e per il Governo centrale è un test importante per fare il punto della principale arma di diplomazia economica e di soft power messa a punto durante l’era del presidente Xi Jinping. Come retroterra più recente e vera cornice ritroviamo la legge sulle relazioni internazionali varata dal Parlamento cinese che poggia su una serie di principi confluiti nel pensiero di Xi, ricordiamo la raccolta dei volumi dedicati ai discorsi e agli scritti del presidente «Xi Jinping» e il Governo della Cina. Il Partito comunista - si legge nel documento - ha una visione globale che fonda le radici su una storia centenaria, ma al tempo stesso - come è possibile ricavare dal documento conclusivo del XX° Congresso del Partito - va applicato il principio del ringiovanimento della nazione cinese e della sua modernizzazione. Che vuol dire anche prendere atto delle difficoltà affrontate e non pianificabili, prima tra tutte quella della lotta al Covid-19, rispetto alla quale c’è la chiara ammissione che per come è andata «bisogna imparare anche il futuro». Sulla BRI, in particolare, il documento del Consiglio di Stato elenca la lunga serie di risultati positivi, dal rilancio del porto del Pireo in Grecia alla tecnica Juncao messa in pratica che permette di coltivare funghi con l’erba invece che con il legno. L’elenco è lungo. Entro luglio 2023, più di tre quarti dei Paesi del mondo e oltre 30 organizzazioni internazionali hanno firmato accordi di cooperazione BRI che, adesso, va aggiornata e divisa in tre filoni: l’iniziativa per lo sviluppo globale, l’iniziativa per la sicurezza globale e l’iniziativa per la civiltà globale. Non è cambiata l’ambizione di fondo, perchè la Cina di Xi non abdica alla volontà di guidare a suo modo il progresso della società umana».
MARENGO RACCONTA LA MONGOLIA
Il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, ha ripercorso la recente visita del Papa in Mongolia, Paese dove i cristiani sono lo 0,04% della popolazione totale. Da Torino Federica Bello su Avvenire.
«Centinaia di persone lunedì 25 settembre hanno rivissuto a Torino il viaggio apostolico di papa Francesco in Mongolia attraverso la testimonianza del cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator. Il cardinale, rientrato in famiglia per alcuni giorni prima di partecipare al Sinodo, ha aperto una nuova sessione dei « Lunedì della Consolata» - il ciclo di incontri di riflessione su temi d’attualità ecclesiale e civile - che il settimanale diocesano « La voce e il Tempo » organizza con il Santuario torinese della Consolata dove si svolgono. Santuario dunque gremito per ascoltare una «rilettura» del viaggio (svoltosi dal 31 agost al 4 settembre) e di quell’esperienza che per il cardinale Marengo era partita proprio di lì - nel 2003 - con la consegna del mandato al primo gruppo di missionari e missionarie della Consolata nel Paese asiatico. Tanti i momenti ripercorsi: dall’attesa vissuta dalla piccola comunità cristiana, lo 0,04% della popolazione, alla «simpatia» suscitata da papa Francesco anche tra i non cattolici, conquistati sin dal primo incontro con le autorità: «centinaia i messaggi sono stati riversati sui social non appena si è conclusa la diretta»; dallo stupore di fronte all’«umanità spirituale» che ha trasmesso papa Francesco, un «leader » che si sono trovati ad incontrare ed ascoltare, ma di cui molti ignoravano addirittura l’esistenza «e lo hanno scoperto ad esempio» ha spiegato - «grazie ad un intenso e bel lavoro tra la comunicazione vaticana e i media mongoli che hanno messo a disposizione e tradotto alcuni documentari», al significato dell’incontro «arricchente» con i leader religiosi. E in particolare su questo il cardinale ha richiamato il valore del dialogo - che è esperienza quotidiana dell’essere Chiesa in Mongolia – e anche il significato di assumere non come un limite l’essere minoranza. «Bello vedere come l’essere in pochi rispetto ad una società che ha altri punti di riferimento non è necessariamente il segno di qualche cosa che non funziona. Quello che conta di più è la freschezza della fede: là dove c’è una fede semplice ma autentica, allora ci si preoccupa del fatto che questa fede porti frutto e di fatto è quello che succede. L’esperienza della Mongolia è dunque di una fede vissuta nella semplicità e nella gioia, ma anche di minoranza e persino di insignificanza – forse ora qualcuno in più ha saputo cosa è la Chiesa cattolica… – che porta frutti, e sono frutti di riconciliazione, di solidarietà, di fraternità. Non abbiamo niente da insegnare, tutto da imparare dalle Chiese di antica tradizione, ma è bello constatare che dove il Vangelo viene annunciato e vissuto allora si verifica il miracolo della fede». Un «miracolo» richiamato dalle situazioni che «come in un film ho visto riaffiorare alla mente quando ho realizzato che l’aereo con papa Francesco stava davvero atterrando» – ha raccontato – «tante situazioni che in quel momento ho pensato che sarebbero state “illuminate” dalla sua presenza; tanti volti che hanno segnato la storia trentennale della Chiesa mongola, a partire dal primo vescovo morto nel 2018, fino al mio vicario morto il 26 giugno scorso e alle tante persone hanno dato la vita per l’annuncio del Vangelo. Poi ho “rivisto” le vite di quei bambini, di quegli uomini e quelle donne che hanno scoperto il volto di Cristo e l’hanno accolto nella loro vita e per loro la visita del Papa ha rappresentato davvero una cosa incredibile, un dono grande il rendersi conto che il successore di san Pietro voleva incontrare proprio loro». E la parola “incontro” ha ancora accompagnato più volte il racconto del cardinale: quello «commovente e inimmaginabile » con la donna che aveva trovato la statua della Madonna, ora intronizzata nella cattedrale della capitale, in una discarica, quello semplice con la gente che al suo passaggio salutava, fino a quello «che il Papa ha testimoniato con la sua presenza: con una fede cristiana che è relazione personale con Dio nella persona di Gesù Cristo».
TEATRO OSCAR, IN CARTELLONE “LE VITE DEGLI ALTRI”
Nuova stagione per la sala di via Lattanzio a Milano. Il cartellone pensato dai direttori artistici Allevi, Doninelli e Poretti spazia dalla comicità alla tragedia: da Pirandello a De Luca, da Castiglioni a Marcorè. Fino alla “Bibbia che non ti aspetti”. Fulvio Fulvi su Avvenire.
« Volti noti e meno noti, storie, incontri, eventi e progetti speciali per scoprire “Le vite degli altri”. Perché l’offerta culturale del “deSidera-Teatro Oscar” di Milano punta quest’anno a far scoprire agli spettatori “la persona che ci sta accanto”, cioè l’umanità in tutta la sua ricchezza, e quindi a conoscere la complessità del mondo. Il ricco cartellone pensato dai direttori artistici Giacomo Poretti, Gabriele Allevi e Luca Doninelli, si aprirà martedì prossimo con la prima edizione assoluta della serie di spettacoli “Ridere di cuore. Il triduo del giullare”, dove comici famosi si sfideranno confrontandosi con la parola “cuore”, per svelare cose inaudite ed esilaranti, come solo i cantastorie sanno fare. Il “teatro di oggetti” sarà protagonista dal 19 al 22 ottobre con I persiani. La tragedia più antica del mondo, con Silvio Castiglioni e i Sacchi di sabbia e la partecipazione straordinaria, come coro, degli studenti del Liceo Classico “Sacro Cuore”. A novembre sul palco della rinnovata sala di via Lattanzio arriverà la nuova edizione di “Tre porte sulla notte”, una serie di tre incontri sul tema del Male che precederanno lo spettacolo-guida Avevo un bel pallone rosso, un testo di Angela Demattè, con protagonista Mara Cagol, che fu compagna e sodale di Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse: si indaga sulle ragioni umane di un’epoca che per quindici anni sconvolse l’Italia. Ma questo è anche il mese in cui verrà proposto il nuovo spettacolo di Giacomo Poretti e Daniela Cristofori: Condominio mon amour (8-19 novembre). E in un teatro che sin dalle sue origini guarda e tenta di indagare sul cuore dell’uomo e il Mistero della vita, non poteva mancare un omaggio a Giovanni Testori a cento anni dalla nascita, un anniversario che coincide, peraltro, con i 40 anni dalla fondazione della compagnia degli Incamminati. E allora, il 23 novembre, tornerà sulla scena In exitu, interpretato da Franco Branciaroli, che ne fu il primo protagonista, insieme con l’autore, nel memorabile esordio nel dicembre del 1988. Il 15 dicembre, invece, sarà la volta di Un bambino per sempre percorso drammaturgico inedito a cura di Luca Doninelli che attraversa le meditazioni testoriane apparse negli editoriali pubblicati dal “Corriere della Sera” e dal settimanale “Il Sabato”. Le parole di Testori e Sant’Ambrogio risuoneranno grazie alla voce di un grande interprete della scena italiana, Lino Guanciale, accompagnato dalla partecipazione straordinaria dell’Orchestra Notturna Clandestina diretta da Enrico Melozzi. Tornano gli appuntamenti con “la Bibbia che non ti aspetti” dove affermati scrittori si immedesimeranno con il sacro testo. E poi, ancora, le storie di Giorgio Perlasca e Giacomo Matteotti, Il fu Mattia Pascal di Pirandello, le “ombre” di Caravaggio, In nome della madre di Erri De Luca e, a chiusura della stagione, lo speciale spettacolo Duo di tutto. Canzoni belle e buone, con Neri Marcorè alla voce e alla chitarra: si tratta di un concerto acustico che spazia tra musica italiana e straniera, dal folk al pop. Marcorè sarà affiancato dall’amico e strepitoso polistrumentista Domenico Mariorenzi. Così spiegano il programma della stagione (su www.oscar-desidera.it), i tre direttori artistici: «Che gli altri non siano uguali a noi può sembrare ovvio. Eppure, è difficile farne esperienza senza un po’ di scandalo. Per questo esiste il Teatro. La curiosità di sapere come pensano, come vivono, come amano gli altri è il suo motore principale: la pietà dei vincitori nei confronti dei vinti, l’amore di un padre nei confronti delle difficoltà lavorative di un figlio, la sorpresa assoluta del soprannaturale che sfonda il quotidiano, la tenacia di uno scrittore che segue il suo personaggio fin dentro il labirinto della perdizione, la fantasia di 12 comici alle prese con questo strano oggetto che è il nostro cuore… Tante storie, un solo mistero. Chi è questo “altro” che bussa continuamente alla nostra porta?».
LA DEMOCRAZIA CULTURALE È LA SFIDA DELL’EUROPA
Lo sviluppo economico nasce da matrici sociali antiche, oggi segnate dal pluralismo. Per questo occorre un dialogo nel nome di un progetto neo-umanista opposto all’inquietante transumanesimo egemone. L’intervento di Stefano Zamagni al LuBeC, Lucca Beni culturali, pubblicato oggi da Avvenire.
«È oggi ampiamente riconosciuto che lo sviluppo economico – da non confondersi con la mera crescita economica – e soprattutto il progresso morale e civile della società, più che il risultato dell’adozione di sofisticati schemi di incentivo o della disponibilità di risorse naturali, consegue piuttosto dalle caratteristiche della matrice culturale che la società ha saputo costruire nel corso del tempo. La ragione è semplice: non sono gli incentivi (o le risorse) di per sé a contare, ma il modo in cui le persone li percepiscono e quindi reagiscono nel proprio animo. E i modi di reazione dipendono proprio dalle specificità della cultura di riferimento, la quale è a sua volta plasmata dalle norme sociali, dalle articolazioni della società civile, dalla religione intesa come insieme di credenze organizzate. L’economia di mercato, in particolare, ha bisogno per la sua continua riproduzione di una varietà di input culturali, che però non è essa stessa in grado di produrre da sola, come una “cattiva” teorizzazione economica continua purtroppo a suggerire. Né è accoglibile la tesi di chi vede la cultura come la nostra seconda natura. È vero piuttosto che la cultura è il modo stesso in cui la natura umana si realizza, proprio perché siamo “animali culturali”. (Sul rapporto tra natura e cultura ha dettato parole di notevole spessore papa Francesco durante l’incontro con il mondo della cultura all’Università Cattolica di Budapest il 30 aprile 2023). Un chiarimento si rende opportuno. Il capitale culturale di cui parliamo non va confuso né con il capitale umano (la conoscenza incorporata nella persona), né con l’insieme dei beni culturali (musei, opere d’arte, biblioteche e altro ancora). Eppure, per paradossale che ciò possa apparire, la confusione continua ad essere alimentata, perfino da non pochi “addetti ai lavori”. L’esito è che quella culturale viene considerata come una speciale attività di consumo anziché di produzione e dunque come attività incapace di generare livelli sempre più avanzati di pubblica felicità. E così il lavoro culturale servirebbe solo ad accrescere l’utilità di chi ne fruisce e ad aumentare il Pil. (È questa la concezione funzionalistica della cultura). Un solo esempio rivelatore di tale confusione. Il Pnrr colloca i settori culturali e turistico nella componente 3 della Missione 1, dove la cultura è identificata con il cosiddetto patrimonio culturale (il cultural heritage). A dire il vero, la concezione “patrimoniale” della cultura ha radici piuttosto antiche. Scrive al riguardo Brunetto Latini, il maestro di Dante: « La cultura è qualcosa che dobbiamo accumulare per noi perché in tempi tristi, durante l’esilio o in prigione, nessuno ce la potrà togliere e potremo così goderne» ( Il Tesoretto). Per fortuna che il Poeta ha seguito tutt’altra strada, sconfessando così il maestro! Quel che va ricordato è che la cultura, avendo a che fare con la dimensione morale e relazionale della condotta umana, mira alla educazione della mente e alla cura dell’anima e non tanto alla acquisizione di abilità professionali o tecniche: a queste ultime provvedono l’istruzione e la formazione. Ecco perché è oggi importante insistere sulla democrazia culturale intesa – ha scritto Francesco Viola – come una democrazia in cui i diritti culturali occupano un posto di rilievo e dunque non solamente vanno tutelati, ma pure espansi. Infatti, le specificità dei diritti culturali, da non confondere con i diritti politici, sociali ed economici, riposa sulla circostanza che la cultura non è solo un bene da fruire, ma una componente essenziale alla dimensione ontologica dell’uomo. È per questo che i diritti culturali vanno considerati in tutta la loro ampiezza e non ristretti alla protezione di particolari identità culturali. Una democrazia che fosse attenta alle esigenze dei diversi gruppi culturali che la abitano, ma restasse indifferente ad assicurare il diritto di tutti all’accesso libero alla vita culturale non sarebbe una autentica democrazia culturale. Si pone l’interrogativo: come realizzare la necessaria comunanza etica nella società pluralista come è oggi quella europea, contraddistinta dalla presenza, al proprio interno, da una pluralità di matrici culturali? È questo un tema formidabile che non ha ancora trovato una soluzione soddisfacente in Europa. (Il che spiega non poco la persistenza delle difficoltà, su vari fronti, che quotidianamente registriamo). Eppure, una soluzione non può non esserci, anche se non dietro l’angolo. Va però voluta e soprattutto desiderata. Il “Modello del dialogo interculturale” è, ad avviso di chi scrive, una proposta credibile e fattibile a tale riguardo. Certamente ce ne saranno altre. Ma allora perché non aprire un confronto di alto livello intorno a tale sfida? Sarebbe questo un modo concreto per testimoniare l’adesione a quel progetto neo-umanista di cui sempre più si avverte il bisogno per contrastare l’egemonia, davvero inquietante, del rivale progetto transumanista. La nuova Europa che si vuole realizzare non può prescinderne, se ha da essere veramente nuova. Chiudo richiamando alla memoria un pensiero celebre di Thomas Eliot. « La cultura – si legge ne I cori della rocca –, è come l’albero, che non si può costruire ma solo piantare e attendere, con pazienza, che il tempo lo faccia crescere. Tuttavia, lo si può coltivare, annaffiandolo e concimandolo, per accelerarne o irrobustirne il processo di crescita». È questo, dopo tutto, il fine ultimo cui l’iniziativa di LuBeC 2023 tende, con coraggio e convinzione».
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