La Versione di Banfi

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Obbligati all'obbligo (over 50)

alessandrobanfi.substack.com

Obbligati all'obbligo (over 50)

Il governo vara nuove misure anti Covid: prevede l'obbligo vaccinale per chi ha compiuto i 50 anni. Esecutivo a fine corsa? Incertezza per il Colle. L'inflazione corre. Gli Usa divisi in due

Alessandro Banfi
Jan 6, 2022
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Obbligati all'obbligo (over 50)

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Arriva l’obbligo di vaccino, anche se solo per chi ha superato i 50 anni. Alla fine il governo ha scelto di varare una misura drastica, anche se il premier ha dovuto mediare fino all’ultimo. Leu e Pd avrebbero voluto l’obbligo per tutti, ma la Lega si è opposta. I 5 Stelle stentano ad essere una forza omogenea, anche ormai nelle riunioni di governo, e sul merito delle decisioni anti Covid da prendere hanno cambiato idea diverse volte. Il maggior gruppo parlamentare è all’ “impazzimento”, scrive Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa, e questo pesa. L’altra notizia politica di prima grandezza è che ieri, in un passaggio tanto drammatico e importante del Consiglio dei Ministri, Giancarlo Giorgetti, il leghista primo alleato di Mario Draghi, è rimasto a Varese. In famiglia. Il che fa pensare che l’esecutivo di unità nazionale, voluto da Mattarella e guidato dall’ex capo della Bce, sia ormai davvero al “capolinea” (copyright Il Fatto).

Il Paese reale però ha bisogno di risposte, anche urgenti. Ci aspettano almeno altri 15 giorni di emergenza pandemica coi contagi in salita, col sistema dei tamponi in tilt, le vaccinazioni che non tengono il ritmo delle necessità della popolazione, le scuole che rischiano di essere costrette alla Dad e soprattutto gli ospedali a rischio collasso. E non c’è solo il Covid. L’aumento dei prezzi energetici sta causando a catena gli altri aumenti, a cominciare da quelli dei generi alimentari. Il Pnrr ha bisogno di 7/8 misure da approvare ogni mese in Parlamento.

In questo panorama l’elezione del nuovo Capo dello Stato, fra 18 giorni il primo voto, arriva come una grande difficoltà che può far saltare il sistema e perdere i risultati raggiunti finora sulla strada della ripresa nazionale ed economica. I leader hanno enormi responsabilità e se non manterranno lucidità, sarà un grosso guaio per tutti. Ne sono coscienti i vari Berlusconi, Conte, Salvini, Letta e Bersani?

Dall’estero. Oggi è l’anniversario dell’assalto a Capitol Hill. Trump ha deciso di non parlare, mentre Biden terrà un discorso proprio al Congresso. L’America è profondamente divisa, come racconta Alan Friedman sulla Stampa. In Kazakistan, il governo si è dimesso dopo violentissime proteste in piazza contro i rincari del gas. Molto interessante l’intervista della scrittrice bielorussa Svetlana Alexeievic, che parla del suo Paese, di Lukashenko e della rivalutazione strisciante dell’uomo sovietico e del Gulag.

Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, l’altra sera, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Titoli fatalmente fotocopia, visto che la notizia del giorno si impone. Avvenire: Obbligo dai 50 anni. Corriere della Sera: Obbligo di vaccino per gli over 50. Il Giornale già commenta: Vaccini, quasi obbligo. Il Quotidiano Nazionale ripete: Vaccini obbligatori per tutti gli over 50. Il Manifesto nota che si poteva decidere prima: A scoppio ritardato. Il Mattino: Obbligo per gli over 50. Il Messaggero in versione più italiana: Vaccino, obbligo a 50 anni. La Repubblica: Vaccino, obbligo per gli over 50. La Stampa sottolinea il compromesso del premier: Draghi media, obbligo vaccinale ai 50enni. La Verità è critica: Vaccino, obbligo oltre i 50 anni. Torna la gogna degli studenti. Come Il Fatto: Misure fra 40 giorni. Il governo non c’è più. Mentre Libero chiosa: Draghi fa la guerra ai No Vax. Il Domani spiega: Sul Covid decide la politica non la scienza: obbligo di vaccino, ma solo over 50. Il Sole 24 Ore sceglie un tema diverso, che riguarda il fisco: Iva, microevasioni da 19,6 miliardi.

OBBLIGO DI VACCINO PER GLI OVER 50

La stretta del Governo provocata dall’ondata Omicron è arrivata. Ecco i punti chiave delle nuove norme nella cronaca di Valentina Santarpia per il Corriere.

«Alla fine la stretta è arrivata: dopo un approfondito esame e anche di fronte al dilagare dei casi - ieri sono arrivati a 189 mila, con un tasso di positività del 17,3% - il governo ha deciso di imporre l'obbligo vaccinale agli ultra 50enni. Una scelta caldeggiata dal premier Mario Draghi alla luce delle riflessioni dei tecnici del Comitato tecnico-scientifico, Silvio Brusaferro e Franco Locatelli, presenti alla riunione. Sarebbero proprio gli over 50, questo è il ragionamento, quelli più a rischio di finire in ospedale per via del Covid. E dunque in base al decreto varato ieri sera dal Consiglio dei ministri, dal 15 febbraio ai lavoratori con più di 50 anni servirà il super green pass (ottenibile con l'immunizzazione da vaccino o per malattia naturale), mentre i disoccupati saranno tenuti comunque a vaccinarsi. I dipendenti che comunicheranno di non avere le certificazioni richieste o di esserne privi al momento dell'accesso ai luoghi di lavoro, saranno considerati assenti non giustificati, «senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro, fino alla presentazione delle predette certificazioni, e comunque non oltre il 15 giugno 2022». I giorni d'assenza ingiustificata non saranno retribuiti. Ma intanto le imprese potranno sostituire i lavoratori sospesi. Scatteranno anche le multe: l'accesso ai luoghi di lavoro senza certificato che attesti la vaccinazione o la guarigione sarà vietato e chi non rispetterà il divieto rischierà una sanzione tra i 600 e i 1.500 euro. Dopo una mediazione, è stato deciso invece che il green pass base basterà per accedere ai servizi alla persona (dal parrucchiere o dall'estetista), per entrare in uffici pubblici, negozi e in alcune attività economiche, come banche, Poste o centri commerciali. Non ci sarà per ora una ulteriore limitazione per partecipare agli eventi sportivi, mentre cambieranno le regole per le quarantene a scuola. Tenendo fermo l'obiettivo di riportare in classe gli studenti il 10 gennaio, Regioni e governo hanno avuto un confronto serrato. Secondo l'ultima bozza, alle elementari, con un solo contagio, la classe resterà in presenza con testing di verifica, ma con due andrà in didattica a distanza. Alle scuole medie e superiori con un solo caso sarà prevista l'auto sorveglianza con l'utilizzo delle Ffp2, con due casi i vaccinati o guariti da meno di 120 giorni resteranno in presenza monitorati mentre i non vaccinati andranno in Dad, con tre casi tutta la classe passerà alle lezioni online. Una ipotesi considerata «di difficile gestione» da Antonello Giannelli, presidente dell'associazione nazionale presidi, che rileva: «Sono le Asl a disporre le quarantene, bisogna fare in modo che siano in grado di farlo». Ma la scelta si basa sui numeri dei vaccinati tra i 12 e i 19 anni: il 74% ha fatto due dosi, il 5% anche la dose booster, già autorizzata per i fragili e che da lunedì, per decisione dell'Agenzia italiana per il farmaco (Aifa), sarà disponibile per tutti i ragazzi dai 12 ai 15 anni. Decisivo in ogni caso resterà il monitoraggio con i tamponi: il commissario all'emergenza Francesco Paolo Figliuolo ha autorizzato lo stanziamento di 92,5 milioni fino al 28 febbraio per i test gratuiti agli studenti».

OBBLIGATI ALL’OBBLIGO, MA PER ESSERE PIÙ LIBERI

Alessandro Sallusti su Libero commenta le decisioni del Governo sull’obbligo over 50: “Se si è arrivati a questo punto, la colpa è di chi non si vaccina”.

«La parola "obbligo" fa paura anche a noi che non certo amiamo qualsiasi genere di limitazioni soprattutto se imposte dallo Stato. Ma a estremi mali, come si dice, estremi rimedi e sulla sicurezza sanitaria nazionale siamo disposti a fare una eccezione. E poi meglio una linea chiara che il continuo barcamenarsi tra rigore e lassismo che genera solo incertezza, confusione e ansia. Farà certo discutere- discutere è sempre legittimo - la decisione di introdurre una vaccinazione obbligatoria di fatto ma vogliamo fidarci di chi ha l'onore di prendere decisioni anche impopolari. Siamo onesti, se si è arrivati a questo punto la colpa non è di chi ci governa ma di chi non si vaccina e di quei quattro ciarlatani che li sostengono in tv e sui giornali. Per mesi questi signori sono stati pregati di vaccinarsi, il presidente Sergio Mattarella li ha quasi implorati, i virologi tutti gli hanno spiegato che il problema non è infettarsi o no, ma ammalarsi in modo grave, cosa che capita quasi solo ai non vaccinati. Niente, non hanno voluto sentire ragione mettendo a rischio non solo e non tanto la salute di noi vaccinati - che pure possiamo infettarci in modo quasi sempre asintomatico - ma la nostra libertà di vivere (quasi) normalmente. Non c'è nessuna dittatura in atto- siamo nelle mani di un governo di larghe intese che va da destra a sinistra- semmai rischiamo di essere succubi della dittatura dei no vax, una minoranza sì ma in grado di paralizzare la maggioranza silenziosa e responsabile che si è adeguata alle indicazioni della scienza. La pensa così anche il presidente francese Macron, uno di sinistra per intenderci, che ieri ha annunciato anche lui una linea dura nei confronti dei non vaccinati. Quello che noi vaccinati non possiamo accettare è un nuovo giro di restrizioni, questo sì sarebbe un attentato alle libertà personali ed economiche. E non ci si venga a raccontare la storiella della discriminazione, dei cittadini di serie A e di serie B. Parliamo di campionati a iscrizione libera, ognuno gioca nel campo che preferisce ma a un patto: chi vuole giocare in B si accomodi, noi che siamo in A non vogliamo essere retrocessi a tavolino».  

Michele Brambilla dal Quotidiano Nazionale lancia un appello a leader e partiti: tenete separato il Covid dal Colle.

«A pensare male, diceva Andreotti, si fa peccato ma non si sbaglia quasi mai. Il nostro cattivo pensiero, in questi giorni, è il seguente: che le trattative fra i partiti di governo per decidere le misure anti-Covid si stiano intrecciando con quelle per la scelta del nuovo presidente della Repubblica. Vaccino obbligatorio? Ok se però al Colle mandiamo Tizio. Super Green pass obbligatorio sui posti di lavoro? Va bene, a condizione però che il nuovo capo dello Stato sia Caio. E così via. Veti e controveti, tattiche e giochi di Palazzo che sono sempre esistiti e sempre esisteranno: ma che in questo caso hanno il difetto di essere architettati sulla pelle dei cittadini. Siamo infatti in una situazione pesante, l'ennesimo caos da due anni a questa parte. Abbiamo 170.000 nuovi contagiati al giorno, gli ospedali sono in difficoltà grazie a quei paladini della "libertà" che sono i No vax, gli uffici della sanità pubblica sono intasati e non riescono a smaltire una mole di scartoffie senza precedenti, milioni di cittadini sono bloccati in casa da giorni o perché positivi o perché venuti a contatto con positivi, se andiamo avanti di questo passo ci metteranno in quarantena anche se avremo sentito parlare di un lontano parente che forse chissà, potrebbe essere positivo. È chiaro che le norme attuali non vanno bene, bisogna cambiare e soprattutto semplificare. È lo stesso governo ad aver prolungato lo "stato di emergenza": e quando si è in emergenza bisogna deliberare in fretta, e tutti uniti. Eppure i partiti che sostengono lo stesso governo trovano ogni giorno una differenza di vedute, un distinguo, un cavillo, un presunto principio irrinunciabile. E non par loro vero di poter aggiungere, ad ogni discussione, l'asso nella manica: il baratto con la scelta del successore di Mattarella. E dunque? Dobbiamo aspettare i primi di febbraio per uscire dal delirio di questi giorni? Ma lo sanno, i partiti, che ci sono centinaia di migliaia di italiani che stanno benissimo, che sono negativi, che hanno fatto due o tre dosi di vaccino, e che non possono uscire di casa o andare a lavorare? Ma lo sanno che ci sono centinaia di migliaia di italiani che, dopo essere diventati positivi, non hanno mai ricevuto (o hanno ricevuto con un ritardo intollerabile) l'appuntamento per il tampone di fine isolamento? E che hanno dovuto ricorrere a centri privati spendendo anche 120 euro per un tampone? Lo sanno che in certi posti le mascherine Ffp2 sono in vendita a cinque euro l'una? Lo sanno quanto sta costando alle famiglie questo nuovo lockdown di fatto, in termini psicologici ed economici? Fate presto, cari politici: e tenete separate le due cose, il Covid e il Colle».

IL FATICOSO COMPROMESSO DENTRO IL GOVERNO

Il retroscena delle decisioni annunciate ieri sera dal governo: Salvini ha minacciato lo strappo. Il premier ha dovuto mediare. Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«L'ultimo momento critico si registra quando il Consiglio dei Ministri sta per terminare. Sul cellulare di Massimo Garavaglia arriva un sms. Subito dopo, la Lega minaccia di non votare il decreto. «Abbiamo già detto sì all'obbligo vaccinale - scandisce il ministro del Turismo - ma non possiamo accettare l'estensione del Super Green Pass in negozi, banche, poste e parrucchiere. Se non cambia, non votiamo il testo». Pare che l'ordine arrivi direttamente da Matteo Salvini. Mario Draghi, a quel punto, tende la mano, concedendo che ci si limiti - si fa per dire - al 3G per queste attività: una stretta comunque pesante, perché chi vorrà entrare dovrà comunque mostrare almeno un tampone negativo. È l'unica volta che il premier cede qualcosa al Carroccio, nel giorno in cui arriva il via libera unanime a un pacchetto di misure che abbatte molti pilastri ideologici leghisti sulla pandemia. E d'altra parte, il tira e molla dei partiti - in particolare di Lega e Movimento - non è certo piaciuto a Draghi. A sera, il premier è descritto come irritato, o comunque deluso per quelle che giudica le solite dinamiche scattate tra le forze politiche, nonostante il momento delicato. E questo anche considerando il fatto che il passaggio di oggi è a suo modo storico. L'Italia, prima in Europa, vara l'obbligo di vaccinazione. Gli over 50 no-vax sono 2,3 milioni. E allarga ai lavoratori il Super Green Pass, nonostante l'ostilità di via Bellerio. A Palazzo Chigi, Garavaglia sostituisce Giancarlo Giorgetti come capodelegazione. Il ministro dello Sviluppo economico è assente, ufficialmente a Varese per ragioni familiari. Non è l'unico a essere altrove: manca anche metà della delegazione 5S. Il Movimento cambia tre volte idea in poche ore, a conferma del totale sbandamento della compagine grillina: prima a favore dell'obbligo, poi contrari anche al 2g, infine di nuovo dubbiosi. Serve una telefonata tra Giuseppe Conte e il premier a sancire il via libera alle misure. Che vengono sostenute in blocco da Pd e Forza Italia, in una riedizione della maggioranza Ursula. Di più: Mara Carfagna propone il Super Green Pas per tutti i lavoratori. Renato Brunetta, Roberto Speranza e Dario Franceschini si spingono anche oltre: vorrebbero l'obbligo vaccinale per gli over 40. «Sarebbe utile - dice Andrea Orlando - arrivarci presto per tutti i cittadini». La Lega si mette di traverso. Draghi alla fine difende la filosofia che l'ha ispirato: proteggere i più fragili ed evitare problemi di ordine costituzionale. Proprio perché l'intervento segue un criterio anagrafico, deve essere mirato e circoscritto nel tempo. Se la vigilia era stata tesa e confusa, il giorno delle decisioni è segnata dalla volontà del premier di sancire una svolta. Matura a metà mattina. Gli uffici di Palazzo Chigi gli presentano le opzioni sul tavolo: c'è il Super Green Pass sul lavoro e c'è l'obbligo per gli over 60. «Voglio procedere su entrambi i fronti», annuncia il premier. Nel pomeriggio lo comunica ai capidelegazione. Difende la ripresa economica e vuole mettere in sicurezza la fascia di popolazione più anziana con l'obbligo. «Senza interventi importanti - lo sostiene Speranza - c'è il rischio che nelle prossime settimane gli ospedali vadano in seria difficoltà». C'è un altro motivo per il quale il presidente del Consiglio decide di forzare la mano. E di farlo a poche settimane dal voto per il Colle, con una tempistica che sconsiglierebbe forzature. È la sensazione che ancora una volta la pandemia vada anticipata. Sono sotto gli occhi del governo le difficoltà di Boris Johnson, che rischia la carriera politica per la quarta ondata. Anche Emmanuel Macron appare sotto pressione, a pochi mesi dalle elezioni. Ecco, Draghi vuole cavalcare una tendenza che sarà inevitabilmente europea: la vaccinazione obbligatoria, infatti, è stata annunciata da Germania e Austria, altre Cancellerie seguiranno. Roma arriva prima, imponendo l'immunizzazione a una platea di 27 milioni di ultracinquantenni. Non potranno esimersi dal booster, il vero obiettivo del governo: troppi anziani non l'hanno ancora scelto, bisogna garantire la massima copertura. Dietro a questi ragionamenti ci sono ovviamente anche numeri e previsioni allarmanti. I dati registrati in Francia e Gran Bretagna, soprattutto. Il picco italiano è atteso per il 15-20 gennaio, proprio a ridosso del voto per il Colle. Si temono 400 mila positivi al giorno. Non è escluso che nella seconda metà del mese si contino contemporaneamente 5 milioni di positivi attivi, con pesanti ricadute sulla fornitura di beni e servizi. Per raffreddare da subito la curva, allora, Draghi sceglie la strada dello smart working nel pubblico. Sulla scuola, intanto, Speranza si batte per evitare un segnale da "liberi tutti", mantenendo alcune cautele nelle regole per la didattica a distanza».

Secondo Il Fatto con la giornata di ieri, l’odiato esecutivo Draghi è arrivato al capolinea. La cronaca di Giacomo Salvini.

«Se l'obbligo vaccinale per i lavoratori doveva essere l'antipasto in vista della sfida del Quirinale, Mario Draghi non può dormire sonni tranquilli. La maggioranza del suo governo ormai esiste solo sulla carta. Nonostante il voto all'unanimità, infatti, il clima che si respirava ieri sera a Palazzo Chigi era di sfilacciamento. "Andare avanti così è difficile" sospirava un ministro dopo la battaglia in Consiglio dei ministri. Anche Mario Draghi a fine giornata era irritatissimo facendo capire come la sua esperienza di governo fosse giunta al termine: "Ormai i partiti litigano su qualunque cosa - ha detto ai suoi - non si può più fare niente, nemmeno avere una linea sulla pandemia". Che la situazione fosse difficile lo si era capito già ieri mattina quando Giancarlo Giorgetti ha dato forfait in cabina di regia, anche se per "motivi familiari". Il primo scontro è arrivato nella riunione del primo pomeriggio quando i partiti hanno avanzato proposte diverse sulla soglia d'età per imporre l'obbligo vaccinale: Dario Franceschini per il Pd lo rilancia per tutti, poi si accodano Forza Italia, LeU e Italia Viva. Lega e M5S però dicono no: si rinsalda l'asse gialloverde. Il Carroccio propone una mediazione con l'obbligo per gli over 60 per non bloccare le filiere produttive del Nord (edili e autotrasportatori su tutti), chiede indennizzi per i danni da vaccino e ristori subito. Per Roberto Speranza è "insufficiente": il ministro della Salute vorrebbe l'obbligo vaccinale per tutti e arriva a proporre anche lo stop dei campionati di calcio. Draghi media: "Troveremo una soluzione". Tra la cabina di regia e il Cdm però nel decreto viene inserito l'obbligo del Super Green Pass anche per chi accede ai servizi alla persona (parrucchieri ed estetisti), banche, poste, negozi. Quando la bozza esce, Salvini sbotta: "Non era concordato, è una follia". Draghi prima del Cdm sente al telefono Giuseppe Conte che dà il via libera del M5S a patto però che il governo "comunichi meglio le misure" e chiede "ristori subito". Il premier apre così il Cdm: "Vogliamo frenare la curva dei contagi e intervenire per le età più a rischio: fermare le ospedalizzazioni e salvare vite". Ma alle otto si arriva al (quasi) strappo della Lega. I tre ministri fanno uscire una nota in cui parlano di misure "infondate" e minacciano di non votare il decreto: "Siamo responsabilmente al governo ma non acquiescenti a misure senza fondamento scientifico". Dietro alle loro parole c'è Salvini che comunica con Garavaglia. Draghi non può permettersi di perdere i voti della Lega in vista della battaglia del Colle e così, alla fine, l'articolo sul pass per negozi e servizi viene stralciato. Resta l'obbligo per gli over 50. Che fa infuriare Salvini: "Così al Quirinale Draghi non ci va" sussurrano i suoi fedelissimi. Anche gli altri partiti rilanciano: il Pd chiede l'obbligo vaccinale, FI per gli over 40. Si litiga anche sulla scuola. Ma il decreto passa all'unanimità. Per il premier è un passo indietro notevole visto che voleva l'obbligo per tutti i lavoratori. Dopo il Cdm Draghi si chiude nel silenzio (niente conferenza stampa) e sotto Palazzo Chigi scendono Speranza, Bianchi e Brunetta che fanno solo due battute con le agenzie. Senza domande».

Stefano Folli su Repubblica è meno drastico del giornale di Travaglio ma va sulla stessa linea: l’unità nazionale, voluta da Mattarella e realizzata da Draghi per quasi un anno, si è logorata.

«Nonostante la rabberciata unanimità raggiunta in Consiglio dei ministri, la giornata di ieri lascerà il segno: nel senso che la maggioranza di quasi unità nazionale è finita, almeno per come l'abbiamo conosciuta in questi mesi. Magari può tirare avanti ancora un po', per mancanza di alternative e soprattutto di idee. Ma è venuto meno quel minimo collante, reso efficace dalla credibilità del presidente del Consiglio, che finora l'aveva giustificata. Ieri sono saltate sia le certezze sia le illusioni. Da un lato Draghi ha ottenuto, tra luci e ombre, il risultato rigorista a cui puntava; dall'altro, Giorgetti - il moderato Giorgetti - è tornato nei territori leghisti. E non è una metafora, perché il ministro dello Sviluppo, finora grande alleato di Draghi, è partito per Varese e non ha partecipato né alla cosiddetta "cabina di regia" né al successivo Cdm. È il segnale che la Lega non crede più alle ragioni per cui un anno fa è nato l'esecutivo d'emergenza. Per dirlo ha scelto la politica sanitaria anti-Covid del premier e di Speranza. Salvini e i suoi, in apparenza di nuovo compatti, cercano di girare al largo, nel tentativo di non perdere il contatto con quella parte dell'elettorato del nord che è scettico - a dir poco - circa la vaccinazione obbligatoria e si sente smarrito nei meandri del Green Pass. Di fatto Salvini e Giorgetti pensano al loro mondo, anche se per ora non ritengono di aprire una formale crisi del governo. Ma siamo sul crinale. Si è spezzato quel filo per cui ognuno rinunciava a qualcosa e tutti insieme concorrevano allo sforzo collettivo la cui sintesi era Draghi. Così la destra, che finge di essere unita nel sostenere le ambizioni di Berlusconi e in realtà è divisa in tre spezzoni, cerca di darsi un orizzonte, ma non è in grado di indicare quale. E il centrosinistra non sta molto meglio: il Pd è il paladino dell'obbligo vaccinale e delle scelte di Draghi, ma il suo confuso alleato, il M5S, non segue la stessa linea. Qualcuno, certo esagerando, si spinge a dire che sta rinascendo lo spirito "giallo-verde", l'attrazione reciproca tra leghisti e grillini. Non siamo a questo, tuttavia il tessuto connettivo dell'esecutivo si sta lacerando. E qui l'intreccio con il rebus Quirinale è oggettivo. La maggioranza si frantuma perché le prospettive di Draghi e dei partiti si stanno divaricando. Salvini l'aveva fatto capire un paio di settimane fa: "Se il premier vuole proiettarsi verso la presidenza della Repubblica - aveva detto all'incirca - , io non intendo continuare a sacrificarmi governando con il Pd". Sottinteso: lasciando a Giorgia Meloni gli spazi dell'opposizione. Come spesso accade, i fatti accelerano. Draghi è ancora a Palazzo Chigi e forse è destinato a restarci, ma una parte della maggioranza si sente già affrancata dai vincoli. Per cui, ecco la contraddizione. Se l'unità nazionale deve durare fino al '23, c'è bisogno di un nuovo cemento in grado di ridefinire il patto sulle cose concrete da fare. Ma solo Draghi può mediarlo fino a indurre i partiti a sottoscriverlo. Per farlo, egli dovrebbe rinunciare all'idea del Quirinale e impegnarsi a fondo nella guida del governo. In caso contrario, è irrealistico che possa riuscirci domani una figura "x", priva di peso politico, chiamata a surrogare le funzioni del premier. Meglio non dimenticare che la legislatura è ormai senza baricentro e l'ingovernabilità del Parlamento incombe».

FRANCIA, MACRON CONTRO I NO VAX

Il presidente francese Emmanuel Macron attacca pubblicamente i No Vax: «Ai non vaccinati rovinerò la vita», dice provocando un vespaio di polemiche. Ma dopo la sua frase 66 mila francesi decidono di fare la prima dose. Stefano Montefiori per il Corriere della Sera.

«Neanche un mese fa, il 15 dicembre, Emmanuel Macron ha concesso una lunga e un po' mielosa intervista televisiva al canale Tf1 nella quale ha tenuto a mostrare il suo nuovo lato equilibrato, saggio, pronto a chiedere scusa per qualche durezza verbale passata: «Con certe mie frasi ho ferito alcune persone (...). Non lo rifarò più». I buoni propositi non hanno retto ai primi giorni dell'anno nuovo, perché sul Parisien il presidente della Repubblica si è scagliato contro parte dei connazionali - i non vaccinati - con chiarezza e determinazione senza precedenti. «Non vorrei mai infastidire i francesi. Sbraito tutto il giorno con l'amministrazione quando mette loro i bastoni tra le ruote. Ma in questo caso, ai non vaccinati, ho proprio voglia di rompere le scatole. E dunque continueremo a farlo, fino all'ultimo, è questa la strategia». Macron usa volutamente la poco elegante espressione emmerder , citando il primo ministro Georges Pompidou che nel 1966 sbottò: «Ci sono troppe leggi, testi, regolamenti in questo Paese! Smettetela di emmerder i francesi!». In questi giorni i deputati dibattono sul «pass vaccinale» che a partire dal 15 gennaio dovrebbe sostituire l'attuale «pass sanitario» (che ancora equipara il tampone negativo al vaccino). «Non voglio mettere i non vaccinati in prigione, non voglio vaccinarli con la forza - prosegue Macron -. Ma bisogna dire loro: a partire dal 15 gennaio, non potrete più andare al ristorante, prendere un caffè, non potrete più andare a teatro o al cinema». Le elezioni presidenziali si avvicinano - 10 e 24 aprile - e Macron fa la scelta di prendere posizione in modo netto contro i no vax, ben sapendo che difficilmente perderà voti per questo: i cinque milioni di francesi che finora hanno rifiutato di vaccinarsi sono in gran parte astensionisti - non credono nel sistema politico come non si fidano delle autorità sanitarie - oppure votano soprattutto per Marine Le Pen. I nove francesi su dieci che invece hanno ricevuto almeno una dose di vaccino (e tra questi molti sono già arrivati a tre) nutrono un'insofferenza crescente verso i no vax, giudicati corresponsabili dello «tsunami di contagi» di questi giorni: 335 mila casi in 24 ore, e reparti di rianimazione in gran parte occupati da malati di Covid in condizioni gravi perché non vaccinati. Così Macron abbandona le vesti di presidente di tutti i francesi per indossare quelle - non ancora ufficiali - di candidato alla propria successione. Con l'uscita contro i no vax Macron polarizza lo scontro e rivitalizza un po' gli avversari di estrema destra Marine Le Pen e Eric Zemmour (che infatti hanno reagito con enorme sdegno), a svantaggio della concorrente che teme di più, Valérie Pécresse (destra gollista). Ma un primo risultato più immediato e concreto Macron lo ha già ottenuto: dopo il putiferio politico scatenato dalle sue parole, ieri 66 mila francesi hanno finalmente deciso di farsi vaccinare con una prima dose, battendo un record che resisteva dal primo ottobre».

IL CASO DJOKOVIC E LA SERIE A(SL)

Novak Djokovic, grande campione di tennis ma non vaccinato, non è stato accettato al confine dall’Australia: è stato rifiutato all'aeroporto per il suo visto irregolare. Avrebbe dovuto giocare negli Australian Open. La cronaca di Gaia Piccardi per il Corriere della Sera.

«Un anno fa se n'era andato da Melbourne da padrone, fresco del nono titolo dell'Australian Open, più di quelli di Roger Federer e Rafa Nadal messi insieme, i rivali che insegue da una vita. Oggi sarà costretto a lasciare l'Australia come un ladro, dopo l'interrogatorio lungo una notte della severissima dogana dell'aeroporto internazionale Tullamarine: documentazione insufficiente a provare l'esenzione dal vaccino obbligatorio per partecipare al primo torneo dello Slam, visto negato, deportazione inevitabile. Fuoriclasse del tennis con la straordinaria capacità di mettersi nei guai, Novak Djokovic è rimasto prigioniero di un conflitto di competenza tra governo federale dello Stato di Victoria, la cui capitale è Melbourne, e governo australiano centrale, nessuno dei quali voleva prendersi la responsabilità di ammettere un cittadino serbo di 34 anni con 20 Slam a carico, abbottonatissimo sul suo status vaccinale, nel Paese reduce da 262 giorni consecutivi di lockdown. Prima di scoprire che lo staff del re del tennis aveva chiesto un visto d'entrata sbagliato e che l'esenzione medica ottenuta da Tennis Australia non aveva gambe su cui reggersi. Una figura barbina interplanetaria, un danno d'immagine incalcolabile, una leggerezza inaudita da parte di un super professionista dello sport. Pensava che la parte difficile del viaggio down under , dove il 17 gennaio scatta l'Australian Open, fosse stata procurarsi il via libera dall'obbligo del vaccino, il Djoker, la legge è uguale per tutti ma ha maglie larghe per pochi: delle 26 richieste di «medical exemption» ricevute da Tennis Australia e affidate alla valutazione di una doppia commissione medica, solo una manciata erano state accettate, inclusa quella di Djokovic, motivata - è una supposizione, in assenza di patologie in corso, condizioni mediche acute e reazioni allergiche alla prima dose (il campione serbo si è sempre dichiarato no vax) - dall'aver avuto il Covid negli ultimi sei mesi, dopo essere rimasto contagiato già nel giugno 2020, quando aveva organizzato uno scellerato torneo itinerante che aveva acceso un focolaio nei Balcani. Il problema del visto era emerso mentre Djokovic era già in volo tra Dubai e Melbourne, quando la dogana del Tullamarine ha aperto il file con la documentazione inviata da Belgrado. Al suo atterraggio, Djokovic è stato scortato dall'aereo Emirates a una stanzetta presidiata dalla polizia, interrogato e trattenuto come in un episodio di Airport Security. «Nessuno può vederlo - ha confermato Srdjan Djokovic, padre di Novak -. Mio figlio è detenuto, questa è una battaglia per la libertà». Fuori, intanto, come se non bastasse la bufera di critiche scatenata dal post su Instagram con cui il re del tennis aveva annunciato il decollo per l'Australia con l'esenzione in valigia, partiva il rimpallo di competenze. La dogana di Melbourne ha contattato il governo dello Stato di Victoria: «Ci hanno chiesto se sosteniamo la richiesta di visto del signor Djokovic per entrare in Australia - ha spiegato il ministro Jaala Pulford -, la risposta è no. Sul punto siamo sempre stati chiari: i visti d'ingresso sono una materia federale, le esenzioni una prerogativa dei medici». Intanto, per chiarire il clima, da Canberra tuonava il primo ministro Scott Morrison: «Non ci sarà alcun riguardo speciale per Djokovic». Il caso è diventato politico. Aleksandar Vucic, presidente della Serbia, accusa l'Australia di maltrattamenti: «Lotteremo per i diritti di Novak». L'appello degli avvocati del campione è pura accademia. Mai Djokovic aveva giocato una partita così male».

Maurizio Crippa nella sua rubrica sul Foglio, scrive a proposito della serie A e degli interventi, a tratti surreali, delle nostre Asl.

«Macron vuole rompere le balle ai No vax, fa benissimo e speriamo che ci si metta d'impegno. Beati i francesi. Qui in Italia invece abbiamo le Asl che hanno deciso, in base a quale epocale urgenza non è chiaro, di rompere le balle ai calciatori e - soprattutto - ai tifosi del calcio. Hanno deciso, ma ogni Asl in ordine sparso, così random, che possono vietare le partite di calcio se c'è nella squadra qualche positivo al Covid ( quanti? Boh). Positivo, non malato. Calcolando che si tratta di giovanotti in ottima forma fisica e quasi tutti vaccinati. Dunque basterebbe applicare le regole generali, chi è malato a casa e chi è vaccinato e sta bene al lavoro, invece no. Le Asl, che non riescono a fare i tamponi, che non riescono a tracciare un beato niente, che fanno fatica a tenere il conto dei vecchietti da curare, hanno però il loro bel tempo da perdere per bloccare le partite di calcio. Producendo, tra l'altro, questo bel paradosso: che se in ufficio due lavoratori risultano positivi, vanno in quarantena loro, non è che chiudono la ditta. Invece le partite, manco con lo smart working. Caro Macron, quando hai finito coi tuoi No vax, non è che ci aiuti anche col protagonismo delle nostre Asl?».

QUIRINALE 1. SALVINI TEME LA TRAPPOLA SU BERLUSCONI

Nel retroscena di Francesco Verderami per il Corriere della Sera si rivelano le preoccupazioni di Matteo Salvini a proposito della candidatura di Silvio Berlusconi. Il timore è che una volta bruciato il Cav, il centro destra finisca di nuovo fuori gioco nella corsa al Quirinale.

«Berlusconi vuole giocarsela alla quarta votazione, Salvini non vuole venir giocato alla quinta. In discussione non è la lealtà verso il Cavaliere o la volontà di sostenere la sua corsa al Colle, il punto è che il capo della Lega scorge sul percorso una trappola. Se la coalizione decidesse di muoversi in proprio e al quarto scrutinio Berlusconi non riuscisse a passare, allo scrutinio successivo - con il suo candidato ormai bruciato - sarebbe esposta al rischio di veder salire al Quirinale un altro candidato, appoggiato da uno schieramento che avrebbe reso inutili i voti del centrodestra. Sarebbe la Waterloo dell'alleanza, ne decreterebbe probabilmente la fine e certamente minerebbe la leadership di Salvini. Perciò il segretario del Carroccio chiede al Cavaliere di «verificare più e più volte i numeri che dici di avere». Non basta aver regalato ai parlamentari un quadro accompagnato da un bigliettino in cui c'era scritto: «Votami votami». «Piuttosto Silvio, riparla con quanti ti hanno fatto una promessa. Perché promettere è una cosa, mettere un nome su una scheda è un'altra». Si capisce allora la prudenza di Salvini, l'attesa che c'è tra gli alleati per verificare quale sia la sua carta coperta, il fatto che sia scomparso dai radar dei media e abbia preso a contattare i maggiorenti degli altri partiti senza darne notizia. Il tavolo comune (per ora) non c'è. Con Letta ha parlato prima di Natale. Ma è stato il colloquio con Conte a meravigliarlo: «Quello pensa solo a come far fuori Draghi». Ed eccolo il convitato di pietra, il nome del candidato che - come prevede un autorevole esponente del Carroccio di rito salviniano - «alla fine ci ritroveremo tutti a votare senza entusiasmo». Che poi è lo stato d'animo che il Capitano ha constatato nel giro delle chiese politiche, dove c'è aria di rivalsa. Per esempio Di Maio - nel caso in cui il premier si trasferisse al Colle - vorrebbe come garanzia l'assenza di qualsiasi ambiguità sul fatto che la legislatura vada fino in fondo. Sì, ma come? Perché Giorgetti prevede che - chiunque siederà a Palazzo Chigi nell'anno elettorale - sarà destinato al ruolo di san Sebastiano. E non intende beccarsi una parte delle frecce. Da settimane ormai attraversa i corridoi del suo dicastero con battute votate (più del solito) al pessimismo. Al punto che i dirigenti di alto rango del ministero per lo Sviluppo economico sono convinti che a fine mese «farà gli scatoloni». Il problema non è il rapporto personale con Draghi, è la quotidianità a logorare le cose. E le misure anti-Covid sono diventate una sorta di innesco. Per Giorgetti vanno oltre la questione di merito, convinto com' è che «non si può bloccare il Paese». C'è dell'altro: «Questo tema è diventato ormai terreno di scontro politico». Si vedrà se avrà riflessi nella partita per il Colle. Piuttosto l'atteggiamento dei partiti sembra un modo per bilanciare i rapporti di forza con il premier in vista della corsa. Lo fa capire uno degli esponenti di lungo corso della Lega: «Per la presidenza della Repubblica ci sono decine di candidati ma ad oggi nessuno ha fatto una proposta convincente di governo. E finché questa proposta non emergerà, è certo che il Parlamento non voterà». Sembra paradossale, ma ogni colloquio tra leader inizia parlando di Quirinale e finisce parlando di rimpasto. Perciò, se davvero Draghi punta al Colle, dovrà dare una risposta a tutti. Compreso Salvini, su cui grava un peso enorme. Deve tenere unita la coalizione, «perché questa è la mia priorità», e contemporaneamente sciogliere alcuni nodi. Nell'anno che precede le elezioni, il governo dovrà mantenere la stessa compagine o dovrà essere cambiato secondo le esigenze delle forze politiche? E la Lega resterà in maggioranza o andrà all'opposizione? «Perché se andiamo all'opposizione previo accordo con il Pd - dice un dirigente del Carroccio - chi ci garantisce che poi Letta non colga al volo l'occasione per andare alle urne? A quel punto avremmo dato ragione alla Meloni, che è rimasta lì ad aspettarci». Berlusconi, Draghi, le trappole degli avversari, il movimentismo di Renzi: è in questo ginepraio che Salvini dovrà mostrare doti manovriere e riscattare gli errori commessi nell'estate del 2019. Stavolta non sono previsti esami di riparazione».

QUIRINALE 2. “DRAGHI AL COLLE SOLO CON UN ACCORDO SUL GOVERNO”

A proposito di Matteo Renzi, Claudio Bozza sempre sul Corriere intervista il leader di Italia Viva. Che in sostanza dice: «Chi vuole Draghi al Colle costruisca una maggioranza anche per il governo del dopo».

«Maria Elena Boschi sostiene che chi spinge Draghi al Colle vuole le elezioni: lo dite perché non volete Draghi o perché temete le elezioni? «Ha detto la verità. Meloni ha bisogno delle elezioni perché ha iniziato il calo nei sondaggi. La crisi di Conte è conclamata e Di Maio aspetta solo le Amministrative di primavera per fargli le scarpe. Quanto a Letta, se non si vota deve fare il congresso e vincere le primarie, esercizio nel quale non ha grande esperienza. Loro vogliono il voto anticipato per esigenze personali. Io penso che invece le elezioni vadano fatte a fine pandemia e con il Pnrr impostato, nel 2023. Dopo di che Draghi sarebbe un perfetto presidente della Repubblica come è stato un perfetto premier. Se vogliamo mandarlo al Colle, tuttavia, serve la politica. Perché l'arrivo di Draghi non è stata una sconfitta della politica ma un capolavoro della politica». Da un anno rivendica come un mantra il merito per l'arrivo di Draghi. Perché ora ha queste titubanze? «Nell'ultimo anno ogni giorno sono stato fiero di aver combattuto con gli amici di Italia viva per mandare a casa Conte e portare Draghi. Persino chi ci odia dovrebbe dirci grazie: abbiamo salvato l'Italia. Non sono dunque titubante su Draghi, ma faccio politica. Draghi è un punto di forza di questo Paese. Se vogliamo mantenerlo a Palazzo Chigi gli va data massima agibilità politica. Se vogliamo che stia al Colle va costruita una maggioranza presidenziale, ma anche una maggioranza politica per il governo del dopo. Per farlo serve una iniziativa politica non tweet a caso». Lei guida 45 Grandi elettori del suo partito. Ma con i 30 di Coraggio Italia il potere contrattuale del vostro progetto centrista aumenterebbe. Insomma: che contropartita chiedete? «Vediamo come evolverà il rapporto con i gruppi di Toti e Brugnaro. Diciamo che senza di noi è difficile fare un presidente della Repubblica. Ma senza di noi è proprio impossibile fare un nuovo governo. Siamo i garanti della prosecuzione della legislatura fino a scadenza naturale». Un capo dello Stato di centrodestra per lei è un problema o no? «No. La domanda però è teorica, perché mi sembra che i primi a non voler costruire consenso su un candidato di quest' area siano proprio i colleghi del centrodestra. Hanno i numeri ma non la strategia». Da quanto non sente Berlusconi? «Le confesso una cosa. Non lo vedo da quando abbiamo rotto su Sergio Mattarella. Era il gennaio 2015, esattamente sette anni fa. Mai più visto. Non lo sento da agosto». Crede che abbia una chance? «Lui ci crede, pare. Il resto del mondo ci crede molto meno». I suoi rapporti con Letta sono di nuovo a zero. Però, sul Colle e non solo, ha sempre un filo rosso con Franceschini: non è che è tornato ai tempi di «Enrico stai sereno» e sogna di vedere premier il ministro dei Beni culturali (il suo «miglior nemico»)? «Enrico ci ha chiesto una mano per il collegio di Siena e gliela abbiamo data. Italia viva allora è stata decisiva. Dal giorno dopo Letta ci ha espulsi dal centrosinistra addossandoci la responsabilità del suo fallimento sulla legge Zan. Ma forse doveva solo creare le condizioni per far rientrare D'Alema, adesso è tutto più chiaro. Se abbandona il rancore e prova a fare politica sa dove trovarci. Quanto a Dario, è un professionista serio e rispettato. Fatico a trovare uno più diverso da me, ma gli riconosco lucidità. Avrà ancora grandi responsabilità istituzionali ma non so dirle quali». Eppure Letta è intervenuto per difenderla dall'attacco di D'Alema che aveva definito lei «malattia» del Pd. «Non so se io sono la malattia del Pd come dice D'Alema. L'importante è che, se io sono il malato, non mi curi il dottor D'Alema con le sue ricette e con i suoi ventilatori cinesi mal funzionanti, ma ben pagati dal commissario Arcuri. Torniamo alla politica, guardi, che è meglio. Se i riformisti del Pd vogliono D'Alema e considerano un male ciò che abbiamo fatto su tasse, industria 4.0, lavoro, sociale, diritti civili è un problema loro, non mio. In tutto il mondo la sinistra diventa riformista, solo da noi diventa dalemiana. D'Alema che rientra nel Pd spiega in un solo gesto perché ha un senso Italia viva». Lei flirta spesso con Salvini: la sera della manovra ci ha parlato a notte fonda in Senato, davanti a tutti, come a lanciare una sfida, specie al suo ex partito: il Pd. Eppure avete dna politico-culturali opposti: chi è che ha cambiato idea? «Io e Salvini ci siamo sempre combattuti. Continueremo a farlo. Se oggi lui non ha i pieni poteri lo deve alla mia mossa del cavallo del 2019. Dunque combattiamo contro ma lealmente. E sulla vicenda del Colle negare un ruolo al capo del centrodestra, che ad oggi è Salvini, significa vivere fuori dal mondo». Continua a dire che al centro c'è una prateria: ma dal punto di vista politologico le fasi di crisi spingono l'elettorato a polarizzarsi. Non teme di rimanere solo, in questa prateria? «Più la destra diventa sovranista, più il Pd diventa dalemiano più lo spazio centrale cresce. E come vede non le cito nemmeno i Cinque Stelle la cui dissoluzione è emblematica. Conte dice votiamo una donna e quelli rispondono candidando Mattarella che come noto si chiama Sergio, non Sergia. Peraltro lo stesso Mattarella su cui mi hanno attaccato nel 2015 e hanno chiesto l'impeachment nel 2018. I Cinque stelle sono fondati da un comico ma adesso fanno ridere tutti. Le loro capriole di queste ore meritano vagonate di popcorn. Conte non sposta neanche il voto dei parenti. O come direbbe lui, degli affetti stabili».

QUIRINALE 3. IMPAZZIMENTO 5 STELLE

C’è grande agitazione nel Movimento, in vista del voto che inizia il 24 gennaio. Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa racconta quello che definisce un “impazzimento”.

«C'è un regista che non sa da dove cominciare a girare. E ci sono gli attori, che recitano a soggetto. Il Movimento ha dato prova - negli ultimi giorni - di un impazzimento se possibile maggiore di quello che ha caratterizzato gli ultimi passaggi della sua storia. E non perché sia successo qualcosa di particolare, ma solo perché l'elezione del presidente della Repubblica - le operazioni politiche che sempre la precedono - illuminano come fossero riflettori accesi sulla scena tutte le crepe dei 5 stelle in Parlamento. «Non mi sento sconfessato dalla riunione dei senatori in cui è stato chiesto che al Colle resti Mattarella», ha detto ieri Giuseppe Conte intercettato - in centro, a Roma - dalle telecamere del Fattoquotidiano.it. Ha annunciato un'assemblea congiunta dei gruppi per la prossima settimana, ma se andrà come quella di martedì sera, è difficile serva a molto. Due giorni fa la stragrande maggioranza dei parlamentari si è espressa contro l'obbligo vaccinale per il Covid-19. Conte, prima del Consiglio dei ministri decisivo, privato anche di uno dei suoi fedelissimi - il capodelegazione Stefano Patuanelli che alla riunione di governo non è andato - ha chiamato Mario Draghi per dirgli: «Possiamo arrivare a votare l'obbligo per gli ultrasessantenni, ma servono i ristori, serve un nuovo scostamento di bilancio, bisogna comunicare bene la ragione delle nuove misure». E insomma ha dovuto fare il contrario di quello che chiedevano i suoi parlamentari, perché - lo ha detto lui stesso - «dobbiamo lasciare un po' di margine ai ministri, la situazione è delicata». Ma non è mai la cautela, a infiammare un gruppo di eletti. Né lo è l'eterno temporeggiare: «Non ha deciso ancora nulla neanche sui referenti regionali, vuole aspettare il Quirinale, ci schianteremo anche alle prossime amministrative», scrive un deputato nelle chat che più che mai sono sfogatoi contro la linea. Chiunque la rappresenti. Per quanto Conte si affanni a negare, per quanto il suo vice Michele Gubitosa provi a coprire, vale - per quel che è accaduto al Senato, dove un gruppo di eletti ha scelto come candidato M5S per il Colle Mattarella - quel che ha detto con i suoi toni icastici Paola Taverna: «E che è, l'autogestione?». La capogruppo al Senato Castellone - che ha prevalso in quello che doveva essere il fortino contiano in Parlamento contro il candidato del leader, Ettore Licheri - continua a lamentarsi: «Non vengo coinvolta, nessuno mi dice nulla, queste trattative stanno avvenendo al buio!». La vicepresidente Taverna prova a spiegarle: «Perché se vi diciamo le cose poi saltano». Apriti cielo, i 5 stelle al Senato vogliono che Conte sia "affiancato" nelle trattative. Non credono che alla cabina di regia con i ministri e i capigruppo vengano svelate le vere carte. Alla fine, quella che chiedono, è davvero l'autogestione. Quella dei bei tempi della prima legislatura. In cui - disse un giorno Beppe Grillo mettendo fine all'andazzo - «votano per decidere se votare, votano per andare al bagno!». Che non sia più tempo di assemblearismo, tre governi dovrebbero averlo insegnato. Al suo posto, però, servono leader a cui affidarsi. E il problema è che di Giuseppe Conte in troppi - dentro ai 5 stelle, soprattutto in Parlamento - non si fidano più. Perché pensano, a torto o a ragione, che sotto sotto il presidente potrebbe non considerare un'ipotesi da scongiurare la salita al Colle di Mario Draghi con conseguente precipizio verso il voto anticipato. Nessuno crede che Camere così balcanizzate siano ancora in grado di trovare un accordo su un governo che porti a compimento la legislatura. E davanti a loro, gli eletti M5S hanno un'altissima percentuale di nulla. Il combinato disposto di calo nei consensi, taglio dei parlamentari e capo politico che vuole liste a sua immagine e somiglianza fanno sì che solo in pochissimi possano sperare nella candidatura. Uno dei pochi a schierarsi per la salita di Draghi al Colle, senza paura, è stato l'ex viceministro dello Sviluppo Stefano Buffagni, che ai colleghi ha detto: «A questo punto è il modo migliore di preservarlo, cosa può cambiare qualche altro mese a Palazzo Chigi?». Ragionamento opposto a quello dell'ex ministra della Scuola Lucia Azzolina, preoccupata dal picco dei contagi di queste ore: «Ma come si fa a pensare di poter cambiare governo in questo momento? Le strutture ministeriali ci mettono tre o quattro mesi per entrare a pieno regime, non ce lo possiamo permettere. Non capisco come sia possibile solo pensarlo». Non sorprende insomma che anche nelle interviste ufficiali sul Colle, i 5 stelle arrivino a dire tutto e il contrario di tutto: «Non datene più!», ha chiesto a gran voce l'assemblea, mentre Francesca Galizia si è spinta a chiedere: «Ma non è che possiamo tornare in Rai? Non ci stiamo danneggiando da soli?». Come sul due per mille: quando il M5S si è deciso a chiederlo, ha scoperto di aver appena scritto uno statuto in cui non è prevista la democrazia interna e che per questo non ne ha diritto, a meno che non lo cambi. Un deputato di lungo corso accusa Conte di non essere in grado di gestire i gruppi dal punto di vista umano: «Dovrebbe chiamarci uno a uno, coccolarci, non fare l'orario di ricevimento come all'università. Le persone per seguirti vogliono essere considerate, sennò è certo che nel segreto dell'urna scriveranno il contrario di quello che vuoi». Lo sa bene l'ex capo politico Luigi Di Maio, che tentava fino all'ultimo di trattenere i parlamentari in odore di addio con riunioni e inviti a cena. Adesso è immobile, il ministro degli Esteri. L'inerzia della paura rischia di condurre di nuovo tutti nelle sue braccia senza che debba fare alcuna mossa. Perché la variabile è quella, la fiducia. E deputati e senatori sono convinti che il capo della Farnesina non abbia nessuna voglia né alcun interesse ad andare al voto. Arrivano a pensare che possa guidare un governo politico che nasca dalle ceneri di quello di unità nazionale, facendo fare un giro completo a questa folle legislatura».

QUIRINALE 4. DOPO BERLUSCONI C’È UN PIANO D

Piero Senaldi su Libero sostiene che si va delineando un accordo fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Accordo che prevede un piano B, anzi un piano D, qualora non si arrivasse all’elezione di Berlusconi.

«Nella fotoromanza del Quirinale irrompe perfino Gianna Nannini. Avventuriera, ha formalizzato ieri la propria candidatura a succedere a Mattarella. Pare una barzelletta, invece è la realtà. D'altronde, a sinistra spunta un nuovo nome al giorno. Oltre all'eterno balon d'essai del Mattarella bis, ieri tornato nuovamente alla ribalta grazie a uno strampalato asse tra i piddini anti-Letta - ebbene sì, sono già di più di quelli a favore - e i grillini scontati, che ormai ritengono l'avvocato pAccordo che ugliese la causa di ogni male del Movimento e si offrono in saldo a Di Maio. Fausto Carioti ragiona sulle più recenti convulsioni dei giallorossi. Più facile è comprendere quanto accade nel centrodestra, che invece ha un solo nome da proporre e un'unica strategia, che va bene a tutti e tre i partiti. Il candidato è, naturalmente, Berlusconi e tanto Forza Italia quanto Lega e Fratelli d'Italia lo sosterranno dalla quarta chiamata, quando per essere eletti basterà la maggioranza assoluta. Silvio ci crede ed è in piena campagna autopromozionale. Il voto è segreto ma c'è modo di renderlo riconoscibile, scrivendo Berlusconi Silvio, Silvio Berlusconi o S. Berlusconi a seconda del partito d'appartenenza, così da sapere immediatamente quanti azzurri, salviniani o meloniani hanno tradito nell'urna. Se i franchi tiratori saranno troppi, il centrodestra esploderà e c'è chi teme che e il Cavaliere si ritirerà sdegnato abbandonando ciascuno al proprio destino. La sensazione è però che l'alleanza resterà compatta. Per farcela il leader forzista punta su una quarantina di grillini senza storia né futuro parlamentare, che sta corteggiando da due mesi intensamente. Dei renziani c'è poco da fidarsi, ma qualcosa da Italia Viva potrebbe arrivare, come inaspettatamente dal Pd, dove è discretamente cospicua la quota di quanti sognano di sgambettare il segretario Letta, che in caso di trasloco di Berlusconi al Quirinale sarebbe costretto a dimettersi. Decisivi saranno anche i centristi di Toti, che fanno i preziosi ma avrebbero molto da guadagnare dall'elezione di Silvio, che lascerebbe loro praterie sulle quali provare a estendersi. Ma Berlusconi presidente della Repubblica sarebbe la soluzione migliore anche per Salvini. Stesso discorso per la Meloni, anche se Fdi è cresciuta in questo anno rubando molti voti a Forza Italia, che invece secondo i sondaggisti trarrebbe in un primo momento giovamento in termini di consensi dall'elezione del suo capo, riprendendosi buona parte dei voti persi a destra. Ciononostante, Giorgia è donna di parola e non tradirà. E poi c'è il piano B, o meglio il piano D, che scatterebbe simultaneamente per tutto il centrodestra se prima o in corso di votazione Silvio si rendesse conto di non avere i numeri per farcela. Ovviamente "D" sta per Draghi, il quale ha ridimensionato le proprie ambizioni rispetto al Quirinale. L'attuale premier non pretende più di essere acclamato universalmente alla prima votazione da tutta l'assemblea ma si accontenterebbe di passare dopo che gli schieramenti hanno bruciato tutti i rispettivi candidati politici. A quel punto, l'ex banchiere, che in realtà non aspetta altro, fingerebbe di acconsentire benevolmente alla richiesta di tutti i partiti di accettare l'elezione tardiva al Colle, passando ancora una volta per il salvatore della patria. A quel punto Berlusconi si intesterebbe l'elezione, rinunciando per amor di patria a correre per cedere il passo al grande tecnico. Ma mentre nelle foto il sorriso di Silvio sarebbe a mezza bocca, quello di Matteo e Giorgia sarebbe pieno, e non solo perché i due leader ritengono di essere garantiti da Super Mario nelle loro ambizioni alla presidenza del Consiglio in caso di vittoria elettorale. Il punto è che sia Salvini che la Meloni mirano a elezioni anticipate. Fdi da sempre, la Lega da più di recente, ossia da quando ha cominciato a risalire nei sondaggi e da che perfino Giorgetti si è arreso al fatto che un governo tecnico pilotato da Draghi al Colle non avrebbe tenuta e logorerebbe il Carroccio. Male che vada, ovverosia se con l'ennesimo colpo di mano il Pd riuscisse a piazzare un proprio rappresentante a Palazzo Chigi, o ci arrivasse in qualche modo Di Maio, come si dice, Salvini avrebbe la scusa per passare all'opposizione, dove Fdi oggi sta sola e da papa, tirandosi dietro la maggioranza dei deputati di Forza Italia, che a quel punto sarebbe a forte rischio scissione. D'altronde, la maggioranza si è già spaccata irrimediabilmente ieri in consiglio dei ministri, dove la Lega ha dichiarato di votare per l'obbligo vaccinale imposto dal presidente solo perché non si può far cadere un governo sulla pandemia, neppure in Italia. Promuovere Super Mario al Quirinale sarebbe per Salvini una liberazione, perché gli consentirebbe di governare nel caso stesse al governo, o fare opposizione vera. Oggi è all'impasse».

L’INFLAZIONE CORRE NEL CARRELLO DELLA SPESA

I rincari dell’energia, com’era prevedibile, non si fanno sentire solo sulle bollette: ora l'inflazione corre nel carrello della spesa. Dopo l'energia forti aumenti anche per gli alimentari. I consumatori calcolano: il caro vita costa 1.400 euro a famiglia in più. Valentina Conte per Repubblica.

«Ora possiamo dirlo: l'inflazione è entrata in pieno pure nel carrello della spesa, oltre che nelle bollette. Nel mese di dicembre l'Istat registra un balzo del 3,9% sull'anno prima, ai massimi mensili da agosto 2008 (+4,1%), e una crescita dello 0,4% su novembre. Volano ancora i prezzi dell'energia, anche se rallentano un po': +29,1% sull'anno da +30,7% di novembre. Quasi raddoppiano invece i beni alimentari, lavorati e non lavorati: +2 e +3,6% (da +1,4 e +1,5% di novembre). Non solo pane e pasta più cari quindi, ma anche carne, pesce, frutta e verdura. Il 2021 si chiude così all'insegna del risveglio dell'inflazione dopo la flessione nel 2020 (-0,2%): nelle stime provvisorie di Istat siamo a +1,9%, l'aumento più ampio dal +3% registrato nel lontano 2012. Dopo nove anni, i prezzi tornano dunque a marciare a pieno ritmo, non solo in Italia. Le autorità monetarie di Europa e Stati Uniti sono divise sulla natura della vampata, con la Bce più orientata a credere nella sua provvisorietà perché imputabile a una ripresa impetuosa, contestuale e globale. La stessa ripresa che imbottiglia gli ordini, crea scarsità di materie prime e così ne alza i prezzi. In attesa che la bolla - se così è si sgonfi, imprese e famiglie però guardano a conti e scontrini. Al netto di energia e alimentari freschi, quella che Istat definisce "l'inflazione di base" si è alzata nel 2021 poco sopra il livello del 2020: +0,8% contro +0,5%. Al netto dei beni energetici, avremmo persino un pareggio tra i due anni: +0,7%. Magra consolazione per gli italiani che riscaldano le case, mettono la benzina, fanno la spesa, mandano avanti le fabbriche. Tanto più che la stessa Istat già intravede un'inflazione acquisita per il 2022 pari a +1,8% (un anno fa prevedeva un -0,1% per il 2021 e poi l'anno si è chiuso a +1,9%). Se abbigliamento e calzature non preoccupano (+0,6%) e neppure i tabacchi (+0,2%), le bollette sì (+14,4% tra dicembre 2020 e dicembre 2021) tra acqua, elettricità e combustibili. Come pure i trasporti (+9,6%) e un po' anche la ristorazione (+3,5%). L'incremento su novembre dell'1,7% per la voce "ricreazione, spettacoli e cultura" non solo è "stagionale" - legata al mese di dicembre - ma fa quasi piacere, viste le restrizioni Covid che ne hanno impedito per molto tempo la fruizione. E poi siamo sugli stessi livelli di dicembre 2020. L'Unione nazionale dei consumatori calcola in 1.438 euro la stangata 2022 per le coppie senza figli che «spendono di più per viaggi e casa» e in 1.407 euro l'aggravio per la coppia con due figli. Considerato poi che «da giugno a dicembre l'inflazione è triplicata per colpa dei rincari dei beni energetici» e che nei primi tre mesi di quest' anno arriverà «l'impennata astronomica di luce e gas: +55% e +41,8%», a gennaio «sarà una carneficina per le tasche dei consumatori». Il Codacons stima 1.198 euro in più a famiglia: «Siamo a una vera e propria emergenza prezzi in Italia». Confesercenti dice che «così si rischia di bruciare la ripresa». Coldiretti aggiunge che l'inflazione «strozza le imprese agricole perché gli aumenti dei costi non sono compensati dai prezzi di vendita».

IL PAPA: CULLE VUOTE, CUCCE PIENE

Un nuovo appello di Papa Francesco contro il fenomeno delle culle vuote: "Avere un figlio è sempre un rischio e lo è ancora di più non averne". La cronaca di Domenico Agasso sulla Stampa.

«Papa Francesco invita le coppie che non possono avere bambini a pensare all'adozione, chiedendo alle istituzioni di «snellire l'iter». E poi denuncia: «C'è chi non vuole figli ma ha cani e gatti. E la patria ne soffre». Questo monito lanciato ieri dal Pontefice nella sua riflessione sulla denatalità divide l'Italia nei bar, nei salotti e soprattutto sui social network (su Twitter ha scalato la classifica dei trend topic, gli argomenti più discussi), scalzando almeno per qualche ora i due temi forti di questi giorni, Omicron e Quirinale. Da una parte chi evidenzia la sostanza dell'appello, ossia l'apertura alla vita in tempi di «inverno demografico» che tanto preoccupa il Papa, dall'altra chi non condivide l'immagine scelta da Bergoglio - «tra l'altro in periodo di isolamenti e solitudini forzate» - come l'Organizzazione internazionale Protezione Animali (Oipa): «È strano pensare che il Papa consideri l'amore nelle nostre vite limitato quantitativamente, e che dandolo a qualcuno lo si tolga ad altri. Ma chi sente che la vita è sacra, ama la vita al di là delle specie», commenta il presidente, Massimo Comparotto. Il Vescovo di Roma pronuncia la sua meditazione su paternità e maternità - che sono «la pienezza della vita di una persona» - all'udienza generale nell'Aula Paolo VI, partendo dalla figura di san Giuseppe, padre putativo di Gesù, definendo questa una «epoca di orfanezza», e affidando gli orfani alla protezione del Santo Falegname. Francesco pensa in particolare «a tutti coloro che si aprono ad accogliere la vita attraverso la via dell'adozione, che è un atteggiamento così generoso e bello». Questa scelta per il Papa è «tra le forme più alte di amore. Quanti bambini nel mondo aspettano che qualcuno si prenda cura di loro!». E quanti coniugi «desiderano essere padri e madri ma non riescono per motivi biologici, oppure, pur avendo già dei figli, vogliono condividere l'affetto familiare con chi ne è rimasto privo». Perciò il Papa esorta a «non avere paura di scegliere questa via, di assumere il "rischio" dell'accoglienza». E invoca le istituzioni affinché «siano sempre pronte ad aiutare in questo senso, vigilando con serietà» ma anche «semplificando l'iter necessario perché possa realizzarsi il sogno di tanti piccoli che hanno bisogno di una famigliaa, e di tanti sposi che desiderano donarsi nell'amore». Poi, il Pontefice esclama: oggi c'è troppo «egoismo». E scandisce: «La gente non vuole avere figli, o soltanto uno e niente di più. E tante coppie non hanno figli perhé non vogliono o ne hanno soltanto uno perché non ne vogliono altri, ma hanno due cani, due gatti. Eh sì, cani e gatti occupano il posto dei figli. Sì, fa ridere, capisco, ma è la realtà». Secondo Francesco «questo rinnegare la paternità e la maternità ci sminuisce, ci toglie umanità. E così la civiltà diviene più vecchia». E in più «soffre la patria, che non ha figli e - come diceva uno un po' umoristicamente - "e adesso chi pagherà le tasse per la mia pensione, che non ci sono figli? Chi si farà carico di me?": rideva, ma è la verità». Perciò Jorge Mario Bergoglio ribadisce il suo richiamo: «Se non potete avere figli, pensate all'adozione. È un rischio, sì: avere un figlio è sempre un rischio, sia naturale sia d'adozione. Ma più rischioso è non averne». Un uomo e una donna che volontariamente «non sviluppano il senso della paternità e della maternità, mancano qualcosa di principale». E poi racconta un aneddoto: «Tempo fa ho sentito la testimonianza di una persona, un dottore, non aveva figli e con la moglie ha deciso di adottarne uno». E quando è giunto «il momento, ne hanno offerto loro uno, dicendo: "Forse può avere qualche malattia"». Il medico, prosegue il Papa, «ha risposto così: "Se mi avesse domandato questo prima di entrare, forse avrei detto di no. Ma l'ho visto: lo porto via con me". Questa è la voglia di essere padre, di essere madre - conclude il Pontefice - anche nell'adozione».

LETTA SCHIERA IL PD CONTRO IL NUCLEARE UE

Enrico Letta schiera il Pd: «No a nucleare e gas tra le energie green». Il leader dem critica la scelta delle commissione Ue. Chiara Braga dice: «Sul tema da Salvini solo pericolosa demagogia». Andrea Carugati sul Manifesto.

«Sul nucleare il Pd batte un colpo. «Non ci piace la bozza di tassonomia verde che la Commissione Ue sta facendo circolare», spiega Enrico Letta. «L'inclusione del nucleare è per noi radicalmente sbagliata. E il gas non è il futuro, è solo da considerare in una logica di pura transizione verso le vere energie rinnovabili». Il leader Pd si smarca dunque dalla posizione del premier tedesco Olaf Scholz che aveva fatto un clamoroso dietrofront sulla proposta avanzata da Bruxelles di inserire il nucleare e il gas naturale in una lista di attività economiche considerate sostenibili dal punto di vista ambientale. Se Scholz dunque si arrende alle posizioni nucleariste di Parigi, il Pd prova a far sentire la sua voce in vista della decisione del governo italiano attesa entro il 12 gennaio. Una decisione difficile visto che il ministro della Transizione ecologica Cingolani è aperto al nucleare e il leader della Lega Salvini ne è un tifoso. «Nella tassonomia proposta da Bruxelles, sul nucleare si dà per scontato che non rechi danno per l'ambiente, ma così non è», spiega Chiara Braga, deputata, responsabile transizione ecologica del Pd. «Ci sono troppi elementi non chiari che riguardano la sicurezza delle centrali, lo smaltimento delle scorie e i costi di produzione. Non è ragionevole inserire questa fonte energetica tra quelle sostenibili». Per i Dem fanno ancora fede i due referendum del 1986 e del 2011. «Gli italiani si sono pronunciati nettamente, per quanto riguarda il nostro paese la scelta di investire sul nucleare di terza generazione sarebbe anche anti-economica», spiega Braga. «Si tratta di una tecnolgia che abbiamo abbandonato da decenni. In altri Paesi come la Francia i costi per la realizzazione delle centrali di terza generazione sono schizzati alle stelle, come ha certificato la loro corte dei conti». Secondo Braga poi «il nucleare di quarta generazione non esiste e non è praticabile». Quanto a Salvini, che agita l'atomo per far fronte al caro bollette, la deputata dem è netta: «Pura demagogia, e anche pericolosa perchè agitare questo spauracchio rischia di rallentare il percorso verso le fonti rinnovabili». Il leghista parla anche di un nuovo referendum. «Io ricordo che quando il governo Conte 2 si è attivato per realizzare un deposito nazionale delle vecchie scorie nucleari italiane Salvini si è scatenato creando allarme sociale», dice Braga. «In ogni regione dove andava diceva "le scorie non devono venire qui". Mi chiedo oggi possa pensare di proporre agli stessi cittadini la realizzazione di nuove centrali. Davvero, fa solo demagogia. Non a caso il governo gialloverde non fece nulla per il deposito delle scorie, tanto che siamo in grave ritardo. Già smaltire le vecchie scorie è un processo complesso e costoso». Ora però deve pronunciarsi il governo italiano. «Il Pd farà sentire la sua voce nelle sedi istituzionali, per noi il nucleare non fa parte del futuro energetico dell'Italia neppure come fonte di transizione», assicura Braga. «Certo, trattandosi di criteri per gli investimenti, dunque di un tema economico, sarà dirimente il parere del Mef». I dem sosteranno la posizione anche al parlamento europeo, dove il no alla tassonomia proposta da Bruxelles è largamente condiviso dai socialisti. «Ci sarà una discussione, ma mi pare che anche gli altri partner socialisti siano d'accordo nel non considerare il nucleare compatibile con il green deal», spiega la componente della segreteria Pd. «Così la pensa anche il capodelegazione a Bruxelles Brando Benifei: «La proposta di qualificare il nucleare come investimento sostenibile è un grave errore, perché oggi tutti gli incentivi devono andare alle fonti di energia realmente sostenibili. Ora il governo agisca». L'uscita di Letta piace agli ambientalisti. «Una scelta politica importante», dice Angelo Bonelli di Europa Verde. «L'inserimento del nucleare e gas nella tassonomia verde Ue non tutela il pianeta e nemmeno gli interessi economici dell'Italia, ma solo quelli dell'industria nuclearista francese, fortemente indebitata, che vuole mettere le mani sui fondi pubblici europei e quindi anche nostri. Ora ci sono le condizioni per costruire insieme al Pd e i Verdi nel Parlamento europeo una maggioranza che possa bocciare la proposta di tassonomia».

L’AMERICA DEL 6 GENNAIO È SPACCATA IN DUE

L’America dell’assalto a Capitol Hill è ancora spaccata in due, dodici mesi dopo quei fatti. Oggi il presidente Usa Joe Biden terrà un discorso proprio al Congresso, mentre l’ex presidente Donald Trump ha cancellato il comizio che aveva annunciato. Alan Friedman sulla Stampa racconta la polarizzazione degli Usa:

«L'economia sarà anche in ripresa ma l'America nel 2022 rimarrà un Paese spaccato dal punto di vista politico e culturale. La variante Omicron ha creato ulteriori divisioni nella società e ha aizzato con un vigore persino maggiore le proteste della folla no-vax e dei teorici del complotto di destra che ormai dominano buona parte del Partito Repubblicano. Vale la pena ricordare che mentre in Italia quasi il 90 per cento della popolazione ha completato il ciclo vaccinale, gli Usa sono fermi al 62 per cento, non di più. Si può ancora entrare in negozi, ristoranti e aeroporti, anzi, ci si può addirittura imbarcare su un volo senza aver ricevuto una singola dose. In Florida due settimane fa ho visto delle persone rifiutarsi rabbiosamente di indossare la mascherina in un supermercato. Le «medaglie al merito» Fattore particolarmente disturbante, essere un no vax è diventato ormai uno status politicizzato al massimo grado: per molti è una medaglia al merito, per quanto persino l'ex presidente in persona abbia raccomandato di farsi vaccinare. Coloro che tendono a sposare le tesi anti vacciniste sono spesso, negli Stati del Sud, gli stessi esponenti della destra sociale che esultano e fanno il tifo per la Corte Suprema che marcia decisa verso la decisione di concedere ai singoli Stati la facoltà di rendere illegale l'aborto. Spesso sono i "nativisti" che vogliono chiudere i confini e sbattere la porta in faccia agli immigranti; sono coloro che temono che nel giro di pochi anni i bianchi non saranno più la maggioranza degli americani. La Grande Bugia Ancora più preoccupante per la democrazia è il fatto che uno stupefacente numero di repubblicani, decine di milioni di americani, credano ancora fermamente alla Big Lie, la Grande Bugia, ovvero l'accusa del tutto priva di fondamento lanciata da Trump secondo la quale ci sarebbero stati brogli alle elezioni e Joe Biden non sarebbe un presidente eletto in modo legittimo. Dai sondaggi più recenti emerge che il 71 per cento dei repubblicani sostengono le false rivendicazioni di Trump di essere il vero vincitore dell'elezione del 2020. Questo non è un Partito Repubblicano razionale: è una massa di adepti di una setta. I moderati vengono messi ai margini a forza di purghe. È passato un anno da quel 6 gennaio in cui i sostenitori di Trump hanno razziato il Campidoglio e adesso i repubblicani minimizzano l'insurrezione, si concentrano efficacemente sulle loro guerre culturali e sulle loro politiche identitarie, i temi elettorali con cui puntano a riprendere il controllo della Camera dei Rappresentanti e del Senato a novembre, con le elezioni di mid term. Ed è probabile che ci riusciranno. Anche perché attivisti del calibro di Steve Bannon e trumpiani vari hanno svolto un'incessante ed efficiente opera di eradicazione dal Partito Repubblicano di chiunque criticasse l'insurrezione dello scorso gennaio. Un certo numero di Stati a trazione repubblicana ha anche introdotto "suppression laws" studiate per rendere più difficile alla popolazione nera povera esprimere il proprio voto alle urne. Stanno letteralmente riscrivendo e ridisegnando i collegi elettorali in modo da strappare seggi ai democratici nel 2022 e poi nel 2024. La prova generale La Grande Bugia e l'introduzione delle "suppression laws" sono le armi principali che vengono utilizzate per erodere i diritti civili, le prassi e le istituzioni della nostra democrazia. C'è chi teme che gli eventi del 6 gennaio 2021 non siano stati che la prova generale per altre violenze che ci aspettano in futuro. Potrebbero sembrare paure eccessive, ma riflettete su questo: un anno dopo che una folla pro Trump ha saccheggiato il Campidoglio un sondaggio effettuato dal «Washington Post» ha rivelato che all'incirca un americano su tre, il 33%, ritiene che la violenza contro il governo possa essere giustificata. Tra i repubblicani la percentuale sale al 40%. Il leader debole Ci sono ormai due nazioni separate: da una parte un'America che crede alle falsità e non percepisce alcuna minaccia alla democrazia, dall'altra parte i democratici. Ma Joe Biden si sta dimostrando un leader debole, incostante. Il suo partito è squarciato dal conflitto intestino che divide l'Estrema Sinistra dai moderati. La variante Omicron si è rivelata una sfida terribile. Il presidente annaspa. Il suo indice di gradimento crolla mentre i repubblicani gli danno la colpa dell'inflazione galoppante, del tasso di criminalità, della cattiva risposta alla pandemia. Il Paese si starà anche godendo una fase di ripresa economica, ma più di due terzi dei suoi abitanti, il 69%, non approvano il modo in cui Biden sta gestendo l'inflazione, mentre più della metà, il 57%, condanna come sta gestendo l'economia nel suo complesso. Il mese scorso Biden non è riuscito a far approvare il suo piano legislativo da 1.750 miliardi di dollari per aumentare la spesa sociale e finanziare la decarbonizzazione, ed è un fallimento che rappresenta un vero disastro per i democratici. Non che il presidente si sia distinto neppure in politica estera: per adesso i ricordi più vividi che ha lasciato sono la débâcle di Kabul e i goffi tentativi di contenere la Cina. E tra poco tutti potremo vedere come se la sarà cavata nella partita a scacchi geopolitica a cui sta giocando Vladimir Putin. Il Congresso in bilico È questo il contesto in cui l'America fa il suo ingresso nel 2022. Sarà il classico "anno vissuto pericolosamente"? Con ogni probabilità, sarà un anno in cui Biden perderà uno o entrambi i rami del Congresso, lasciandoli in mano a un partito che non crede più nei riti e nelle regole della democrazia. È vero che i presidenti possono sempre programmare un ritorno in grande stile, una "Fase Due" del loro mandato, ma di solito questo accade dopo una sconfitta alle elezioni di midterm. Provate a immaginare un anno che si chiude con una Camera e un Senato sotto controllo repubblicano, con un Biden ferito, ridotto a un'anatra zoppa, e con un Donald Trump o un qualche surrogato trumpiano che dalla plancia di comando del Partito Repubblicano lancia un'altra campagna elettorale in salsa nazionalista-populista per il 2024. Non sarebbe per niente una buona notizia. Né per l'America né per il mondo».

RIVOLTA IN KAZAKISTAN PER I RINCARI DEL GAS

In Kazakistan esplode la rivolta in piazza per l’aumento dei prezzi energetici. I cortei contro i rincari del gas sorprendono il vecchio regime: molte vittime negli scontri. Il governo si dimette. La cronaca di Francesco Battistini per il Corriere della Sera.

«Oyan Qazaqstan!», svegliati Kazakistan. Nella capitale più fredda del mondo, dove le acque dell'Iim ghiacciano da ottobre a maggio, in uno dei più congelati regimi post-sovietici, dove da trent' anni comandano ancora i vecchi leader comunisti, ad Almaty e ad Astana bruciano nella notte i blindati della polizia e i palazzi del potere. Oyan Qazaqstan: stavolta il Kazakistan s' è svegliato davvero. E il gran fuoco della rivolta, il primo dall'indipendenza del 1991, acceso il 2 gennaio nelle lontane città petrolifere del Mangystau, impiega poco a incendiare tutto. Ci sono morti, non si sa quanti. Centinaia di feriti, migliaia d'arresti, saccheggi nelle ville degli oligarchi, fiamme nei municipi e alla residenza presidenziale. «Non me ne vado!», ripete sulla tv Jabar 24 il presidente-travicello Kassim-Jomart Tokayev, 68 anni, un passato da ambasciatore dell'Urss, uno che parla in russo a un popolo al 70% turcofono e musulmano. Annuncia due settimane di stato d'emergenza, l'epurazione del premier e ovviamente le riforme: «La risposta sarà dura - promette, lasciando prevedere una repressione di tipo bielorusso -. Questa situazione è tutta colpa di potenze straniere che sobillano!». La causa della rabbia è soprattutto lui: a Capodanno ha liberalizzato i prezzi alle pompe di gpl e permesso che raddoppiassero ovunque. In un Paese grande nove volte l'Italia e dove tutto viaggia su gomma. In un'economia che è fra le prime dieci esportatrici mondiali di greggio e, da sempre, calmiera i carburanti. Tokayev ha fatto subito retromarcia, riabbassando le tariffe, ma s' è capito presto che nella rivolta del gas c'è ben altro che arde. «Cacciate il vecchio!», grida la piazza. Perché l'obbiettivo della rabbia popolare non sono solo i pozzi d'oro nero, ma il pozzo nero del potere più profondo: il vecchio Nursultan Nazarbayev, 81 anni, l'«elbasy», il Caro Leader della Nazione, il più longevo dei vecchi arnesi sovietici, l'ex segretario comunista che per 29 anni ha fatto da padrone assoluto del Kazakistan ed è ancora lì, dopo avere messo al potere il suo tirapiedi Tokayev. Hanno già postato le immagini d'una statua di Nazarbayev tirata giù a Taldykorgan, funi e applausi stile Saddam, fra gente che canta l'inno nazionale. L'eterno Nursultan è stato dimissionato dal Consiglio di Sicurezza Nazionale. Girano voci d'un tentato assalto alla casa di Dariga Nazarbayeva, la potente figlia, che papà ha nominato presidente d'un Senato da lui interamente controllato. Ma il regime ha disattivato internet e telefonini ed è già tanto se qualche notizia rompe la barriera del silenzio, nel regno di Nazarbayev: perfino Astana, la sfavillante capitale dei grattacieli di Norman Foster, qualche anno fa è stata ribattezzata Nursultan in cieca obbedienza al Caro Leader. Lo scossone non era previsto: fra tutti gli «stan» dell'Asia Centrale, ugualmente governati con pugno di ferro da reduci dei soviet, il Kazakistan è quello dove meglio convivono le etnie ed è stata garantita una strabiliante crescita economica. La crisi 2014 del petrolio e il calo del 90% delle esportazioni verso la Cina, causa Covid, per la prima volta in vent' anni hanno portato il Paese in recessione. Quella kazaka, osservano fonti diplomatiche, è anche la prima crisi provocata dai bitcoin: solo nel 2021, quasi 90 mila società di criptovalute si sono spostate qui dalla Cina, allettate dal basso costo dell'energia. Ma così facendo, spiegano, s' è spinto alle stelle il costo della mostruosa quantità d'elettricità necessaria agli algoritmi per «proteggere» i bitcoin. Troppi interessi giostrano intorno a questo gigante centrasiatico. Che è il nono Paese più grande del mondo, siede su enormi giacimenti d'uranio, ha coltivazioni più estese della Russia e dell'Ucraina, flirta sia con Putin che con Erdogan. «Non ammetteremo interferenze», fa sapere il Cremlino: Tokayev ha chiesto l'intervento militare russo. La sveglia è suonata, qualcuno è pronto a spegnerla».

BRENNERO, L’ODISSEA DEI MIGRANTI

L'odissea degli ultimi. Reportage dal Brennero, dove c’è l'ultima barriera: «Servono 800 euro e puoi passare». Nello Scavo, inviato per Avvenire.

«Il convoglio merci che dalla fermata del Brennero attende il fischio del capostazione, trasporta autocarri diretti a Nord. Quando la motrice finalmente accelera spazzando la neve dell'ultima notte, dalla chiglia di uno dei vagoni di coda per un solo istante appaiono delle scarpe: nascosti nella bisarca diretta in Austria alcuni profughi sperano di sfuggire ai doganieri di Vienna. Di solito vengono acciuffati e rimandati indietro. Ma un modo per superare il confine c'è: inviare un messaggio WhatsApp ai trafficanti. Lo snodo è più a Sud, a Tarvisio. Nel Comune più orientale della provincia di Udine arrivano i superstiti della rotta balcanica, con qualche quattrino da poter mettere nelle mani dei passeur. I recapiti si trovano con facilità nei ripari di fortuna bosniaci. Più volte abbiamo raccolto e fotografato su improvvisate lavagne di cartone numeri che cominciano con il prefisso nazionale "+39". Uno di quei cellulari aveva risposto al disertore afghano che avevamo seguito durante il "game" da Bihac, in Bosnia, fino al confine croato. Era la fine di ottobre e dopo vari tentativi ha raggiunto l'Italia. Poi è sparito, per rifarsi vivo in Germania. Dice di avere pagato un bel po' di soldi a un autista che lo ha chiuso in un furgone e lo ha poi lasciato in Austria, dove poi è riuscito a raggiungere il territorio tedesco. Il passaparola tra profughi indica il tariffario dell'ultimo miglio, sempre al rialzo: 800 euro per raggiungere la Svizzera, un po' meno per chi si accontenta di raggiungere un sobborgo austriaco e poi continuare ad arrangiarsi da solo, un po' di più per chi vuole viaggiare senza compagnia e dare meno nell'occhio. Gli annunci della autorità sono fatti per scoraggiare gli attraversamenti. Ma i trafficanti sanno che c'è una scarsissima possibilità di venire intercettati. A meno di mettere in ginocchio l'economia europea, che dal Brennero vede passare una parte consistente degli scambi. Il traffico pesante nel 2021 ha quasi raggiunto il record di pre-pandemia. Alla barriera di Schoensberg, sul versante austriaco del valico, nell'anno appena passato sono stati registrati 2,45 milioni di tir in transito, poco meno del record di 2,47 milioni nel 2019. Vuol dire 280 camion all'ora, quasi 7 mila al giorno. Sarebbe come cercare un ago nel pagliaio. Ogni tanto qualcosa va storto. Anni prima era accaduto anche ad Alidad Shiri, adolescente a cui i talebani avevano sterminato la famiglia. Sbucò dal semiasse di un Tir diretto in Germania. Quando i carabinieri lo presero Alidad reagì come aveva sempre fatto con le gendarmerie asiatiche e balcaniche: offrì un pugno di dollari perché lo lasciassero andare. Finì che il maresciallo gli trovò un centro d'accoglienza dove si sarebbero presi cura di lui. Oggi Alidad ha trent' anni, è un affermato giornalista altoatesino d'adozione e uno scrittore di successo. Giorni fa presentando a Bolzano Via dalla pazza guerra, il suo nuovo libro andato esaurito e in corso di ristampa, tra il pubblico c'era proprio quel maresciallo che al ragazzino scappato da Kabul restituì i soldi, evitò una denuncia per tentata corruzione di pubblico ufficiale, e trovò un luogo dove ricominciare e vincere gli incubi. Storie così non sono una rarità da queste parti. Al mercatino di Natale di Bolzano i responsabili della sicurezza sono profughi. Altri capita di incontrarne tra i monti, a Vipiteno come a Bressanone. Piccoli numeri, ma che raccontano molto della rotta dimenticata. Non ci sono statistiche ufficiali. Ma doganieri di lungo corso e operatori del volontariato stimano che almeno 300 persone al mese riescano a passare il Brennero. In pochi percorrono il sentiero che attraversa l'altopiano fino al passo di Gries am Brenner, il borgo alpino di mille abitanti militarizzato come una fortezza prussiana d'altri tempi. Lungo la tratta però si muore. Ieri per un momento si è temuto un nuovo incidente, come quello avvenuto pochi giorni prima di Natale. Lungo la ferrovia hanno avvistato una carcassa: era quella di un lupo. Ma il 18 dicembre a morire erano stati due marocchini: Mohamed Basser, 26 anni della città berbera di Tiznit, e Mostapha Zahrakame, 46 anni originario di Asafi. In piena notte e nel tunnel ferroviario sono stati travolti senza che neanche il macchinista si accorgesse di nulla. Un'ora dopo venne dato l'allarme. Entrambi avevano presentato domanda d'asilo in Austria, ma per qualche ragione avevano deciso di tornare in Italia. «La militarizzazione del confine e il controllo capillare su ogni treno passeggeri in transito hanno costretto i migranti a scegliere altre rotte o a tentare vie più pericolose per aggirare gli ostacoli», sottolineano gli attivisti di Melting Pot, il progetto editoriale e di comunicazione sociale che da 1996 racconta e analizza i processi di trasfor-mazione del fenomeno migratorio in Italia e in Europa. A favorire il giro d'affari dei passeur è anche l'assenza di una rete organizzata di volontari, come invece avviene nel resto della rotta Balcanica o al confine con la Francia dove, come hanno recentemente raccontato i reportage di Paolo Lambruschi, la presenza di una capillare rete di solidarietà serve anche a tenere alla larga i trafficanti. «Bisognerebbe riprendere in mano il progetto "Antenne Migranti"». È l'auspicio di Emira Kola, della fondazione Alexander Langer, intitolata all'intellettuale e politico altoatesino che per primo aveva compreso come in Europa i diritti umani e l'ecologia integrale dovessero essere considerati come due facce della stessa medaglia dello sviluppo umano. «Essere solidali ed organizzati - aggiunge Kola - è necessario non solo per assistere le persone, ma anche per monitorare la rotta del Brennero». E sottrarla al controllo dei contrabbandieri di uomini».

L’OLANDA COMBATTE LA TRATTA CON UNA LEGGE

L'Olanda multerà i clienti delle prostitute, vittime della tratta. Lucia Capuzzi per Avvenire.

«Non tutto è ciò che sembra ». Dall'inizio dell'anno, la frase si trova scritta sui muri urbani o sulle fiancate dei bus. Così il governo cerca di sensibilizzare l'opinione pubblica sulla tragedia della tratta per lo sfruttamento sessuale. E sulla legge emanata per combatterla. In vigore dal primo gennaio, la normativa punisce con multe da quasi 22mila euro e pene fino a quattro anni di carcere, i clienti delle prostitute forzate. In caso le ragazze siano minorenni, la pena sale fino a sei anni di prigione. Affinché siano perseguibili questi devono essere a conoscenza o quantomeno sospettare che la persona sia obbligata a 'lavorare' nel mercato del sesso a pagamento. Una consapevolezza difficile da dimostrare in un tribunale. La legge, comunque, ha un forte valore simbolico in un Paese dove la prostituzione è legale dal 2000, purché si tratti di maggiorenni non forzate. E le giovani sono addirittura esposte nelle vetrine della zona rossa di Amsterdam e nelle altre undici sparse per la nazione. Negli ultimi tempi, però, il sistema si trova sempre più spesso al centro delle polemiche. Il confine tra 'libera scelta' e 'consenso estorto' è sottile. Secondo molti gruppi di difesa dei diritti delle donne, la prostituzione non è mai un'opzione spontanea. Difficile capire, poi, quanti delle diecimila persone 'impiegate' ufficialmente nel mercato del sesso olandese siano vittime di sfruttamento e vessazioni. Da qui, l'introduzione di criteri più rigidi per l'apertura di un postribolo. Dei 1.350 iniziali, ne sono rimasti 250. Gli abusi, però, continuano. La nuova legge ora attribuisce ai clienti un ruolo attivo nell'eliminarli. In particolare, viene chiesto loro di prestare attenzione a eventuali cicatrici, tatuaggi, lividi sul corpo delle prostitute. Di non rispondere a offerte diffuse attraverso gruppi chiusi di WhatsApp o Telegram. Altri campanelli d'allarme sono la disponibilità della persona h24 o un suo stato palesemente depressivo. Una recente ricerca della sociologa Marijike Malsch, della Open University di Amsterdam, ha dimostrato che i clienti sono in grando di riconoscere i segni dello sfruttamento ma difficilmente denunciano perché non si ritengono parte del problema. Per questo, Shamir Ceuleers, portavoce del centro anti-tratta nazionale, ha affermato che la nuova normativa può essere d'aiuto nel provocare un mutamento di mentalità. «La prostituzione forzata esiste perché ci sono clienti disposti a pagare. Se questi iniziano a farsi domande, le cose possono cambiare».

I FUNERALI DI LUIGI NEGRI

Ieri l'ultimo saluto a don Luigi Negri, la mattina a Ferrara, dove è stato Vescovo, e il pomeriggio a Milano. La cronaca di Annamaria Braccini per Avvenire.

«Un ringraziamento a nome dell'intera Chiesa di Milano. È quello che ha espresso ieri l'arcivescovo Mario Delpini, che ha presieduto in Duomo le esequie di Luigi Negri, arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio, scomparso all'età di 80 anni lo scorso 31 dicembre. «Don Luigi si è sentito milanese e ambrosiano, come attesta la sua scelta che il funerale fosse celebrato anche nella Chiesa di Milano, in rito ambrosiano - ha detto Delpini - qui ha incontrato e coltivato il carisma di don Giussani e la sua appartenenza a Comunione e Liberazione. Qui ora gli amici e tutta la Chiesa ambrosiana lo accompagnano con la preghiera, l'affetto, la gratitudine per il bene ricevuto». A concelebrare dieci tra arcivescovi e vescovi, tra cui alcuni ausiliari di Milano, presuli di diocesi lombarde, l'assistente generale dell'Università Cattolica Claudio Giuliodori e il successore di Negri alla guida dell'arcidiocesi di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego. Una quarantina i sacerdoti presenti, tra i quali l'assistente diocesano di Cl, don Mario Garavaglia. Molti i fedeli: membri della fraternità di Comunione e Liberazione, il presidente Davide Prosperi, autorità civili. Tra i tanti messaggi arrivati, quello dell'arcivescovo emerito di Milano, il cardinale Angelo Scola, che non ha potuto essere presente. «La mia amicizia con don Luigi dura da una vita» ha scritto Scola, ricordando «il dono della fede a cui ci ha conquistato, fin da ragazzi, il servo di Dio monsignor Luigi Giussani». «Monsignor Negri ha vissuto con intensità la sua appartenenza alla Chiesa, al movimento di Cl con i suoi modi perentori e il suo linguaggio tagliente», ha osservato nell'omelia Delpini, un'appartenenza «che è grazia», anche se «la comunità dei discepoli non è una città ideale, ma sempre una trama di rapporti da ricucire, un popolo in cammino». Da qui la conclusione: «Don Luigi renda più profondi i nostri rapporti, più intenso il senso di appartenenza a Cristo, perciò alla sua Chiesa, e più abituali le vie del perdono e della riconciliazione». In mattinata a Ferrara, nella Basilica di San Francesco, aveva celebrato la Messa esequiale l'arcivescovo di Bologna, cardinale Matteo Zuppi, in qualità di presidente della Conferenza episcopale dell'Emilia Romagna. «Viveva con un cuore di fanciullo che non si arrendeva alla realtà, ma provava a cambiarla - ha detto Zuppi rievocando la figura di Negri - con sorriso e ironia graffiante, con il gusto libero della provocazione, consapevole delle sue crociate, dei suoi combattimenti, dei propri oltranzismi, generoso anche negli errori, sempre contrario alla tentazione intellettualistica e spiritualistica, perché il Vangelo è fatto ed esperienza. Mi raccontavano alcuni dei fratelli che lo hanno accompagnato con tanta tenerezza in questi ultimi mesi difficili (li ringrazio per la festa degli ottant' anni, l'ultima da questa parte della riva del mare ma che la riassumeva tanto e anticipava l'altra) che in queste settimane invitava spesso a recitare l'invocazione dell'attesa, di quella attesa che è in realtà sempre la vita degli uomini: "Maranatha, Vieni Signore Gesù". Caro don Luigi, adesso vedi faccia a faccia il volto di Cristo che hai desiderato». La sera prima, nella stessa Basilica, l'arcivescovo Perego aveva espresso così l'omaggio al suo predecessore: «"Tutto di Cristo e tutto per la Chiesa". In queste parole del vescovo Negri ritroviamo la totalità del dono di sé a Cristo e alla Chiesa, con il proprio stile, con le peculiari qualità... la sua lezione di amore a Cristo e alla Chiesa, non contrapponendo mai l'uno all'altra, lo Sposo alla Sposa, rimane il dono più prezioso da custodire».

LA ALEXIEVICH DALL’ESILIO: “TORNA IL GULAG SOVIETICO”

Intervista congiunta di otto giornali europei a Svetlana Alexievich la scrittrice bielorussa, premio Nobel della Letteratura, che oggi vive in esilio a Berlino per aver contestato il regime di Lukashenko. Autrice dell’indimenticabile Preghiera per Chernobyl, traccia un ritratto tragico del suo Paese e cita la recente condanna russa di Memorial, la Ong voluta da Sacharov. La sua tesi è che sta tornando “l’uomo sovietico”. In Italia l’intervista è pubblicata da Repubblica.  

«L'appuntamento con Svetlana Alexievich è a Berlino, nell'enorme e impersonale appartamento dove il Daad (Servizio tedesco per lo scambio accademico) ha accolto la scrittrice nell'autunno del 2020, quando la premio Nobel per la Letteratura 2015 dovette lasciare in fretta e furia la Bielorussia di fronte a un pericolo di repressione ancora reale. «Non so quando potrò tornare nel mio Paese», dice in questa intervista. Alexievich, bielorussa, 73 anni, ha ottenuto la proroga del suo permesso di soggiorno per un altro anno, che spera di trascorrere in una casa più piccola e accogliente. La scrittrice era membro del Consiglio di coordinamento delle proteste contro i brogli e le brutali violenze durante le elezioni presidenziali della Bielorussia, che l'8 agosto 2020 proclamarono vincitore Aleksandr Lukashenko (al potere dal 1994). Durante la repressione che seguì, Alexievich fu interrogata dal comitato investigativo bielorusso. Alcuni diplomatici stranieri e funzionari internazionali, che avevano tenuto sotto osservazione la sua casa a Minsk per diverse settimane, l'accompagnarono all'aeroporto alla fine di settembre per dare l'allarme se ci fossero stati impedimenti alla sua partenza. Non ce ne furono. Alexievich si trova bene in Germania, dove era già stata in esilio nel primo decennio di questo secolo, quando ricevette minacce per il suo libro Ragazzi di zinco (E/O), voci sovietiche della guerra in Afghanistan. «Le mie condizioni di vita sono molto buone, ma sopportare l'esilio ora mi è più difficile che la prima volta, perché allora ero più giovane», spiega. A Berlino, la scrittrice ha iniziato un nuovo libro, e per il momento ha interrotto quello sull'amore e la vecchiaia, a cui ha dedicato tanto tempo e lavoro. Invece di esplorare la felicità personale al di fuori della politica, si concentra adesso su una nuova opera corale, i cui protagonisti sono i suoi stessi concittadini, i bielorussi che - per aver osato chiedere elezioni giuste - sono uccisi, torturati o languono in sinistre prigioni. «Mi piacerebbe finirlo entro un anno, ma vedremo che cosa riesco a fare. Non ho una data, ma ci vogliono nove mesi per partorire una creatura. Non mi dedico solo a elencare orrori, ma cerco uno sguardo nuovo, che faccia riflettere», dice. Da Berlino, Alexievich viaggia in altre città, in altri Paesi europei, per ascoltare le voci provenienti dal Paese che Lukashenko ha trasformato in un "nuovo Gulag". «Oggi abbiamo un "arcipelago Gulag" a misura della Bielorussia. Quello che sta succedendo lì oggi è assolutamente paragonabile al mondo di Alexander Solzhenitsin », dice. «La gente ha paura, perché in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, nelle città o nei villaggi, possono entrare in casa tua e arrestarti», afferma. E continua: «In Bielorussia, la gente vive già come nei libri di Solzhenitsin, con una valigetta di emergenza pronta, un piccolo zaino con l'essenziale, uno spazzolino da denti, un cambio di vestiti, per i primi giorni in prigione». Ci sono differenze di scala e di profondità tra il Gulag sovietico e il Gulag bielorusso. «Stalin aveva delle idee. Ora non ci sono idee, solo il desiderio di mantenere il potere. Lukashenko è riuscito a sporcare di sangue la polizia e le guardie carcerarie mettendole in un vicolo cieco, minacciando rappresaglie se dovesse accadergli qualcosa». In Bielorussia, le guardie del regime «picchiano senza sapere in nome di che cosa ». La scrittrice avverte: «La repressione non ha ancora raggiunto il livello di Solovki (il duro campo di lavoro del Gulag sul Mar Bianco), ma la tendenza è quella. Si può trasformare una persona in un pezzo di carne solo perché vuole libere elezioni, che è ciò che è scritto nella costituzione?». Alexievich dice di essersi sentita male quando ha visto le foto con cui un medico ha documentato le condizioni dei feriti ricoverati al pronto soccorso dopo le manifestazioni. La polizia voleva cancellare ogni traccia e aveva proibito ai medici di scrivere i referti. Racconta poi un testimone: «Il capo di un servizio sanitario si era lamentato con un capo della polizia per le condizioni dei feriti. Il poliziotto, a sua volta, rimproverava il medico per aver mandato medici piagnucolosi e troppo sensibili (nei luoghi dove la polizia era intervenuta contro i manifestanti) e poi riattaccò. Un giovane medico avvertiva coloro che arrivavano all'ospedale con traumi e segni di violenza che era obbligato a denunciarli e raccomandava loro di andare il più lontano possibile». Polonia, Ucraina, Lituania o Germania sono stati la meta di chi ha seguito queste raccomandazioni. Tutti i membri pubblici del Consiglio di coordinamento dell'opposizione bielorussa sono oggi in esilio o in prigione. «Alcuni degli esiliati preferiscono rimanere anonimi per proteggere i loro familiari in Bielorussia», dice. Nel suo Paese, Alexievich non avrebbe potuto scrivere il libro a cui sta lavorando ora, perché «avrei vissuto nella costante paura di essere arrestata e di vedermi confiscare i manoscritti». L'autrice vuole andare oltre una raccolta di testimonianze sulla brutalità e indaga sulle origini del male e le radici del sadismo. Come fonti utilizza interviste, lettere e documenti pubblicati, come "ultime memorie" degli imputati prima del verdetto del tribunale. Alexievich ammette di essere stata troppo frettolosa nel definire finita l'era dell'uomo sovietico. «Non solo non era finita, ma si riproduce nei giovani in uniforme e si mantiene in una parte della popolazione», dice. «Negli anni Novanta scendemmo in piazza chiedendo la libertà, abbattemmo il monumento a Felix Dzerzhinsky (il fondatore della Ceka, la polizia politica sovietica), ma poi divenne evidente che quelle erano solo parole e ora, trent' anni dopo, si aprono musei dedicati a Stalin, si sostiene che l'abbattimento di di Dzerzhinsky fu illegale e si vuole proibire l'associazione per i diritti umani Memorial. Questo significa che la democrazia sta andando indietro», dice. «Una persona che esca dal campo di concentramento dove ha trascorso tutta la vita non può essere libera da un giorno all'altro. Solo ora ci rendiamo conto che c'è molta strada da fare», dice. «Quando stavo scrivendo Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani) e arrivavo a Mosca dopo essere stata nelle province russe, i miei interlocutori non mi credevano se dicevo loro che le persone libere di cui parlavano non esistevano», spiega Alexievich. «In Russia, l'opposizione alla dittatura era uno strato molto sottile. In Bielorussia, l'anno scorso, mezzo milione di persone sono scese in strada e ricordo la sensazione di festa che provavamo, non avevo mai visto così tanta bella gente insieme. Ci guardavamo ed eravamo felici di essere in tanti, di non essere soli. Sembrava che, vedendo quanti eravamo, Lukashenko si sarebbe spaventato e se ne sarebbe andato. Era un'ingenuità totale. Oggi, mezzo milione di persone, le più attive, sono all'estero, perché in Bielorussia rischiano il carcere», dice. Come si può mettere fine al regime di Lukashenko? «È una domanda difficile. Svetlana Tikhanovskaya (la moglie del candidato alla presidenza oggi in carcere Sergei Tikhanovsky, che molti riconoscono come la vera vincitrice delle elezioni del 2020) è maturata. Ognuno deve fare quello che può. Quelli che sono rimasti in Bielorussia devono stare attenti, perché scendere in strada può significare cinque o sei anni di prigione. Il Consiglio di coordinamento rimane attivo e ha molti nuovi membri, i cui nomi sono segreti. Noi che siamo fuori facciamo appelli, scriviamo lettere, ma chi lavora nella clandestinità in Bielorussia fa molto di più. Per me, oggi, la cosa principale è scrivere il mio libro». Secondo le liste compilate dalle associazioni per i diritti umani, il numero di prigionieri politici in Bielorussia è vicino al migliaio. Tra questi c'è Viktor Babarikho, il rispettato banchiere e raffinato mecenate che voleva competere con Lukashenko per la presidenza. Babarikho è stato condannato a 14 anni di prigione da un tribunale che lo ha ritenuto colpevole di riciclaggio e corruzione. Tra i prigionieri c'è Maria Kolesnikova, che aveva diretto la campagna presidenziale di Babarikho, condannata a 11 anni per "cospirazione". Sergei Tikhonovsky è stato condannato a 18 anni di prigione poco dopo questa intervista. In prigione in Bielorussia c'è Alexandr Feduta, politologo, filologo e critico letterario, arrestato a Mosca nell'aprile 2021 ed estradato in Bielorussia, dove è accusato di tentato colpo di Stato. E c'è anche Guennadi Mozheiko, corrispondente in Bielorussia del giornale russo Komsomolskaya Pravda, costretto a lasciare Mosca, dove si era rifugiato, per tornare a Minsk, dove è poi scomparso. Si trova in prigione anche la cittadina russa Sofia Sapega, che accompagnava il blogger Roman Protasevich sull'aereo Ryanair costretto ad atterrare a Minsk lo scorso maggio. «La Russia ha sostenuto Lukashenko fin dall'inizio. È comprensibile, perché le rivoluzioni che portano la democrazia sono contagiose», dice la scrittrice. Mentre parliamo, Alexievich riceve delle telefonate dalla Bielorussia. Sul suo cellulare, arriva la voce della sua amica, la scrittrice Maria Vaitziashonak, che vive ancora a Silichy, in quella dacia bucolica a 40 chilometri da Minsk dove Svetlana avrebbe voluto scrivere, guardando i campi di grano e le colline. L'appartamento che la scrittrice comprò a Minsk dopo aver ricevuto il premio Nobel è rimasto vuoto. Da quel magnifico osservatorio, là dove il fiume Svislach si allarga, la scrittrice si commosse contemplando la marea dei manifestanti che sventolavano enormi bandiere rosse e bianche. Poi presero il sopravvento i carri armati e lei capì che il mondo sovietico non era finito».

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