La Versione di Banfi

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Omicron cambia tutto?

alessandrobanfi.substack.com

Omicron cambia tutto?

La variante sudafricana piomba in Italia. Conseguenza della disuguaglianza vaccinale. La nuova emergenza condiziona economia e politica. Natale a rischio. Colle "congelato"?

Alessandro Banfi
Nov 28, 2021
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Omicron cambia tutto?

alessandrobanfi.substack.com

La variante sudafricana è arrivata ufficialmente anche in Italia, in un paziente malato in Campania. Ma è stata “tracciata” dagli scienziati del Sacco. Presto si avranno elementi per capire meglio la natura e l’aggressività di Omicron, compresa l’eventuale resistenza ai vaccini. Il clima è comunque cambiato repentinamente: dalla cauta voglia di un Natale normale, con divieti confinati ai non vaccinati, si sta rapidamente entrando in una nuova fase d’emergenza. I giornali inglesi stamattina sono i più pessimisti, visto che in Gran Bretagna il governo ha radicalmente di nuovo cambiato linea e in modo brusco. Avvenire e Manifesto tornano a sottolineare fortemente la disuguaglianza della distribuzione dei vaccini nel mondo fra Paesi ricchi e Paesi poveri come vera causa di questi eventi.

Giustamente Nicoletta Dentico vede nella penalizzazione del Sudafrica un simbolo dell’ipocrisia europea: “Johannesburg ha condiviso immediatamente la sequenza genomica della variante Omicron. Un gesto di responsabilità epidemiologica, ma anche di rara coerenza politica. Il Sudafrica - ricordiamolo - è il Paese che insieme all'India ha proposto all'Omc, nell'ottobre 2020, la applicazione di una clausola del diritto commerciale internazionale che prevede la sospensione dei monopoli di proprietà intellettuale”. Il Sudafrica di Mandela, della lotta contro l’Aids (allora teatro di uno scontro storico con i Big Pharma), è oggi contro l’apartheid vaccinale.

La corsa al Quirinale. Da tempo, fra chi esaminava gli scenari possibili sul rinnovo al Colle, si valutava l’eventuale portata di un evento choc esterno. Una “variante modello Capaci” secondo l’espressione dei più cinici. Sarà proprio l’esplosione della variante Omicron a far cambiare idea a Sergio Mattarella? Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, ed Augusto Minzolini, del Giornale, tornano ad insistere per un incarico bis. “Congelare” le poltrone, come dice Sorgi sulla Stampa, in nome dell’emergenza. Socci su Libero la pensa diversamente: Draghi sarebbe il miglior Presidente.   

A proposito di Presidente, ieri Mattarella ha voluto premiare 30 giovani “alfieri” della Repubblica, ragazzi che in modi diversi hanno fatto del bene. Bellissime storie anche queste. La Versione ha scelto di raccontarvi quella della liceale romana Giulia. Dall’estero preoccupano l’Etiopia e di nuovo la Bosnia. Prodi commenta favorevolmente sul Messaggero il Trattato con la Francia. Vaticano e Diaconia di Cl hanno concordato la road map del Movimento dopo Carrón: durerà un anno, con l’interim dell’ex vicepresidente Davide Prosperi.

È ancora disponibile on line il settimo episodio della serie Podcast Le Vite degli altri da me realizzata con Chora media, in collaborazione con Vita.it e con Fondazione Cariplo. Il titolo è: LA CUOCA COMBATTENTE. È la storia affascinante di una 50enne di Palermo, Nicoletta Cosentino, che è sopravvissuta a una relazione abusante, di cui si è liberata a fatica. Oggi Nicoletta accompagna altre donne sullo stesso percorso. Insieme a chi ha avuto una storia simile alla sua ha messo in piedi a Palermo un’impresa sociale che produce dolci, conserve e marmellate. Si sono chiamate “Le cuoche combattenti” e su ogni loro vasetto scrivono una frase, un motto che aiuti le altre a essere più consapevoli. Potete trovare i loro prodotti sul web (https://www.cuochecombattenti.com), grande idea per Natale. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate il sesto episodio:

https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-cuoche-combattenti-v

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Titoli domenicali in gran parte sulla pandemia. Avvenire spiega che la variante è: Nata tra i poveri. Il Corriere della Sera avverte: Nuova variante, un caso in Italia. Il Giornale: La variante è in Italia ma ora niente panico. Il Quotidiano Nazionale registra: La variante Omicron è già in Italia. Il Mattino accusa il colpo: La nuova variante in Campania. Il Messaggero annuncia: La variante Omicron è in Italia. Il Sole 24 Ore ragiona già su che cosa accadrà domani nelle Borse: Covid e mercati, la mappa dei rischi. La Repubblica dà la notizia dell’arrivo della variante usando il verbo dell’invasione: Omicron sbarca in Italia. La Stampa sottolinea il tentativo europeo di fare barriera: Omicron, l’Ue alza il muro. Primo contagio in Italia. La Verità vede già interessi occulti anche nella nuova variante: Il mega business dietro Omicron. Il Fatto vorrebbe tanto dare la colpa al governo Draghi: Omicron c’è da luglio, ma all’Africa zero dosi. Il Domani sceglie il tema Quirinale, anche se lo collega all’emergenza variante: Gli ultimi tentativi per convincere Mattarella a ripensarci sul bis. Libero va sulla notizia della nuova inchiesta penale sui conti della Juventus. Bilanci truccati. Ecco le carte che inguaiano Juve e serie A. Il Manifesto sottolinea la manifestazione delle donne in piazza contro la violenza, ritratte in prima pagina col titolone: Vive.

VARIANTE OMICRON, PRIMO CASO IN ITALIA

La paura della variante Omicron. Il primo caso in Italia è stato isolato dai medici del Sacco di Milano. Il Ministro della salute chiede ai Presidenti di Regione di accelerare sul tracciamento. La cronaca di Adriana Logroscino per Il Corriere della Sera.

«La variante Omicron è arrivata in Italia. In Campania, sulle gambe di un dipendente di un'azienda rientrato più di due settimane fa dal Mozambico, su un volo con destinazione Roma Fiumicino. Vaccinato con due dosi presenta pochi sintomi e le sue condizioni, assicurano dalla Regione, «non destano preoccupazione». A certificare che sia stato infettato dal nuovo ceppo del Covid, con un sequenziamento a tempo di record, è stato l'ospedale Sacco di Milano, nell'ambito delle attività della rete coordinata dall'Istituto superiore di sanità. «Il campione - spiegano dall'Iss - è in fase di ulteriore conferma per avere l'assegnazione definitiva del lignaggio». Familiari contagiati Anche la positività del dipendente campano è stata accertata a Milano, città che aveva raggiunto qualche giorno dopo il rientro in Italia. Positivi al Covid sono risultati anche cinque suoi familiari. Tutti presentano lievi sintomi e sono ovviamente in isolamento. I loro campioni sono in attesa di sequenziamento. Nessun positivo, invece, risulta per ora tra i contatti dell'uomo campano in Lombardia. L'appello del ministro Già prima che venisse confermato il primo caso italiano, il ministero della Salute, a seguito di una riunione coordinata con l'Iss, aveva innalzato lo stato di allerta inviando alle Regioni una circolare che suona come un monito. In via precauzionale, la nota firmata dal direttore della prevenzione del ministero, Gianni Rezza, raccomanda di «rafforzare e monitorare le attività di tracciamento e sequenziamento in caso di viaggiatori provenienti da Paesi con diffusione della variante Omicron e loro contatti, o in caso di focolai caratterizzati da rapido e anomalo incremento di casi» e di «applicare tempestivamente e scrupolosamente le misure già previste per la quarantena e l'isolamento in caso di variante Delta». Nella circolare Rezza riferisce ai presidenti di Regione che il ceppo è stato finora rilevato in Botswana, Sud Africa, Hong Kong, Israele e in Belgio. Nel frattempo, però, la variante arrivava anche in Italia. La nota agli aeroporti Un'altra nota di raccomandazione è stata diramata dagli Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera (Usmaf) dipendenti sempre dal ministero della Salute. Questa sollecitazione è indirizzata ai vettori, agli enti aeroportuali e di volo affinché «vigilino sulla completa e corretta compilazione del Digital passenger locator form»: si tratta dei moduli per fornire informazioni sulla provenienza dei viaggiatori negli ultimi 14 giorni. Verifiche più accurate sulla compilazione di questi moduli, dovrebbero consentire di individuare tempestivamente eventuali arrivi dall'Africa, anche se attraverso scali in altri Paesi: circostanza ormai obbligata dopo che l'Italia, due giorni fa, ha sospeso accessi e voli da otto Paesi dell'Africa meridionale. La mossa di Zingaretti Serve di più per il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che ha chiesto «immediati provvedimenti di controllo alle frontiere» e «di valutare ulteriori scelte di contenimento dei flussi di ingresso verso l'Italia». Il Lazio si muove: chiede i nominativi dei residenti nella regione atterrati a Fiumicino nelle ultime settimane con voli dalle zone interdette, inclusi quindi i passeggeri del volo sul quale viaggiava il campano contagiato. Saranno tutti sottoposti a screening. Il contagio tra i bambini In attesa di capire cosa comporterà l'arrivo della nuova variante, di sicuro indiziata di alta contagiosità, la strategia per gli scienziati resta la stessa di sempre: tracciare i positivi e vaccinare. I numeri che fotografano quotidianamente la circolazione del virus, del resto, inducono alla massima prudenza: 12.877 i positivi, 90 i morti (mai così tanti da giugno scorso). Sale anche il numero dei ricoverati. Il rapporto esteso dell'Istituto superiore di sanità rileva negli ultimi 15 giorni un'impennata dei contagi tra i bambini: il 50% dei casi diagnosticati tra gli under 19, riguarda 6-11enni. A giorni è prevista la valutazione della Commissione tecnico-scientifica dell'Aifa, l'agenzia italiana del farmaco, sull'ammissione alla vaccinazione con il preparato Pfizer, in dose ridotta di un terzo, per i bambini in età scolare. L'Ema, l'agenzia europea del farmaco, l'ha già sdoganata dopo l'analoga approvazione espressa dall'Fda americana».

LA VARIANTE VIENE DALL’AFRICA DIMENTICATA

L’Africa è un continente poco monitorato e abbandonato dai Paesi ricchi. Alessandra Muglia sul Corriere.

«Sembra avere qualcosa a che vedere con la paura del buio il panico generato in Occidente dalla nuova variante africana del coronavirus. Non che non ci siano motivi, anzi, per temere la B.1.1.529 ribattezzata Omicron e aggiunta dall'Oms tra i ceppi «preoccupanti». A iniziare dall'alto numero di mutazioni a livello della proteina Spike, quella su cui agiscono molti vaccini, i contagi aumentati del 258% in una settimana in Sudafrica, i primi casi in Europa. Ma Omicron fa paura anche perché proviene da un continente poco monitorato: i dati sono scarsi, spesso poco affidabili. Gli unici numeri certi sono quelli, preoccupanti, sui vaccini consegnati. Test e tracciamenti Soltanto 1 caso di Covid su 7 viene individuato in Africa, stima l'Organizzazione mondiale della sanità. Il problema è noto: la scarsa disponibilità di tamponi. In un recente report, l'Oms calcola che dall'inizio della pandemia i Paesi africani hanno riferito di 70 milioni di tamponi su una popolazione complessiva di 1,3 miliardi di persone. Gli Usa con un terzo degli abitanti hanno somministrato più di 550 milioni di test: 8 volte tanto. Per dare idea della scarsissima capacità diagnostica del continente indica due cifre Giovanni Putoto, responsabile programmazione e ricerca operativa del Cuamm, ong di Medici con l'Africa: «In Sud Sudan dall'inizio della pandemia sono stati somministrati 230mila test, contro i 400-500 mila al giorno dell'Italia». Certo ci sono tante Afriche: quella in emergenza cronica anche per i conflitti, come Somalia e Congo, dove non esiste alcun tipo di tracciamento; e le parti dotate di una certa capacità di controllo, come Sudafrica, Senegal, Marocco, Egitto, Botswana e Kenya, con più casi rilevati. Caccia alle mutazioni A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, la cosa positiva con Omicron è che si è sviluppato nell'Africa meridionale, vicino al Sudafrica, l'unico Paese africano con una buona capacità di sequenziare le varianti, operazione fondamentale per poter studiare tempestivamente le mutazioni invece di rincorrerle. «Quasi nessun Paese in Africa è in grado di farlo. Per sorvegliare le mutazioni occorrono tecnologie e preparazione, i Paesi ricchi devono tener conto di questo» osserva Putoto. «Se questa variante avesse fatto un altro giro, magari dal Sud Sudan chissà quando sarebbe stata identificata. Quanto avrebbe potuto diffondersi senza essere individuata? - riflette Guglielmo Micucci, direttore generale di Amref - È l'incertezza a generare il panico, questo gioco delle varianti non sappiamo dove può portare. Dove sorgerà la prossima?». Vaccini Il grande argine sono i vaccini. Da mesi in molti ricordano, contro il «nazionalismo delle dosi», che nessun Paese si salva da solo, ma Omicron mostra ora cosa significa un'Africa non immunizzata per il futuro della pandemia: libertà di movimento per il virus e proliferare di mutazioni. Il continente ospita il 17% della popolazione mondiale, ma finora ha avuto accesso solo al 3% delle fiale globali. Attualmente al mondo si somministrano più terze dosi che prime: le nazioni ricche stanno erogando più richiami rispetto alle prime dosi somministrate dalle nazioni povere. Il risultato è preoccupante: solo 15 dei 54 Paesi africani hanno così raggiunto l'obiettivo di immunizzare almeno il 10% della popolazione entro settembre, valuta l'Oms. Questo soprattutto perché Covax, il programma nato per la distribuzione equa dei vaccini, non è stato in grado di reperire dosi al ritmo necessario. No vax africani Ma al basso tasso vaccinale concorre anche un certo scetticismo. Soprattutto in Sudafrica: se all'inizio dell'anno il programma era stato rallentato dalla scarsità di fiale, ora è stata Pretoria stessa a chiedere a Johnson & Johnson e Pfizer di ritardare le consegne. Troppa giacenza: 16,8 milioni di dosi stoccate, ha rivelato la Reuters. Così è l'esitazione ora a rallentare la campagna. Oggi il 35% dei sudafricani è completamente vaccinato, un valore più alto rispetto alla maggior parte delle altre nazioni africane, ma è soltanto la metà dell'obiettivo di fine anno fissato dal governo. «In realtà c'è una buona dose di esitazione anche in molti altri Paesi africani», considera Roberto Zuccolini, portavoce della Comunità di Sant' Egidio, presente in 30 Paesi del continente. «Bisogna tener conto che in Africa sono arrivati diversi vaccini tra cui quelli cinesi che coprono soltanto al 40-50% e il russo Sputnik. Con Covax è arrivato AstraZeneca, un vaccino adatto all'Africa visto che non necessita della catena del freddo ma è stato vissuto da molti come uno scarto dell'Occidente dopo che in Europa diversi stati hanno iniziato a vietarlo. Infine è arrivato Pfizer. Ma bisogna occuparsi di sensibilizzare la popolazione sull'utilità dei vaccini perché la percentuale degli immunizzati è ancora bassissima. Noi stiamo cercando di farlo seguendo il metodo usato contro l'Aids: con il programma Dream, combattendo i pregiudizi».

TUTTI AL SICURO O NESSUNO LO È

Walter Ricciardi, nell’editoriale di Avvenire, torna a spiegare le distorsioni provocate dalla disuguaglianza planetaria nella distribuzione dei vaccini.

«Ce lo aspettavamo e avevamo avvertito che senza una vaccinazione diffusa in tutto il mondo sarebbero emerse varianti virali più contagiose e pericolose. È successo con la variante Delta che ha cambiato le regole del gioco riprecipitando molti Paesi in una situazione persino peggiore rispetto alle prime ondate, con un numero di casi in crescita esponenziale e, dove le coperture vaccinali non sono soddisfacenti, con un numero elevatissimo di morti. È il caso di tutta l'Europa orientale, ma anche parzialmente di quella settentrionale, dove le autorità di governo non hanno agito con prontezza e decisione. Sì, perché appare incredibile, ma a distanza di due anni dall'esordio di questa pandemia la maggior parte dei governi non ha ancora capito che il Sars-CoV-2 va anticipato e non inseguito e che ogni giorno in cui si discute e non si agisce si spalanca al virus un portone per danneggiare la salute dei cittadini, distruggere l'economia, destabilizzare le menti. Sì, perché con l'aumento dei casi sono tornati in molti Paesi i lockdown, il blocco dei voli, la chiusura di attività non essenziali, il ricorso massiccio allo smart working e alla didattica a distanza, come se il tempo fosse passato invano e non avessimo appreso nessuna delle lezioni della pandemia. E ora in uno dei Paesi simbolo delle disuguaglianze, il Sudafrica, emerge una ulteriore variante sulla cui aumentata virulenza e patogenicità ancora non possiamo esprimerci, ma che a prima vista suscita notevoli preoccupazioni per la numerosità delle variazioni del genoma virale, ben 32; per la rapidità sconcertante con cui si è diffusa, in sole due settimane da 0 al 30%; per la contagiosità spiccata, di gran lunga superiore alla variante Delta che già ci stava mettendo in difficoltà. Fino a quando si continuerà a non capire che se non vaccineremo tutti e in tutti i Paesi del mondo continueremo per anni ad avere un'alternanza di ondate pandemiche che disgregheranno ineluttabilmente le nostre società, aumentando instabilità socio-economiche e disuguaglianze? «Date i vaccini all'Africa, o il mondo non si salverà dal Covid»: è questo l'allarme lanciato da Githinji Gitahi, direttore di Amref Health Africa e responsabile della nuova Commissione africana di risposta al Covid-19, perché questa è una pandemia globale. E siccome il mondo è interconnesso nessuno può sentirsi al sicuro fino a che tutti non sono al sicuro. «Non serve proibire i voli dal Sudafrica, come state facendo. Non serve sbarrare le porte e le finestre, perché comunque il virus troverà la sua strada. La strategia più efficace - oltre che la più etica - è assicurarsi che tutti siano vaccinati».

Ieri Avvenire aveva ospitato un suo lucido intervento sulla disuguaglianza vaccinale, oggi Nicoletta Dentico scrive di nuovo, ma per Il Manifesto, a proposito dell’Africa e del Sudafrica:

«Il profilo delle mutazioni lascia predire una significativa capacità di eludere l'immunità vaccinale, e di aumentare la trasmissibilità». In Sudafrica si sono messi subito al lavoro per capirne le implicazioni. Parecchie persone sono state testate positive nel volo da Johannesburg ad Amsterdam. Casi sono stati rintracciati in Belgio, in Israele. Il virus trova agio nella insipienza dell'apartheid vaccinale che segna questo tempo. Il Sudafrica è uno dei pochi Paesi africani dotato di un sistema sanitario, sebbene affiancato dal ruolo alquanto aggressivo dell'industria privata. Ha una significativa capacità scientifica, sviluppata sulla scorta di epidemie parallele che affliggono il paese da decenni, il virus dell'HIV/Aids e la tubercolosi, che qui si manifesta con le forme più ostinate di resistenza alle terapie esistenti. Ma il Paese ha fatto molta strada da quando, vent' anni fa, il 35% della popolazione era sieropositiva. La storia sudafricana dell'HIV/Aids - con passaggi scabrosi come la azione legale delle 39 case farmaceutiche contro il Medicines Act di Nelson Mandela - ha stravolto la vecchia narrazione istituzionale e gerarchica sulla salute. L'ha politicizzata a livello globale, consegnando protagonismo ai pazienti affetti da HIV/Aids: il loro attivismo per rivendicare l'accesso alle cure ha svelato il potere disumano degli accordi commerciali dell'Omc, a partire dai monopoli brevettuali. Da allora il Sudafrica si è affermato sulla scena internazionale con una visione della sanità che ne ha fatto uno dei campioni del diritto alla salute. È con scienza e coscienza che Johannesburg ha condiviso immediatamente la sequenza genomica della variante Omicron. Un gesto di responsabilità epidemiologica, ma anche di rara coerenza politica. Il Sudafrica - ricordiamolo - è il paese che insieme all'India ha proposto all'Omc, nell'ottobre 2020, la applicazione di una clausola del diritto commerciale internazionale che prevede la sospensione dei monopoli di proprietà intellettuale (IP Waiver): la richiesta, forte ormai di un vastissimo consenso internazionale, punta a favorire l'accesso alla conoscenza in campo medico e l'utilizzo della scienza, sviluppata spesso con fondi pubblici, per espandere e rafforzare la capacità produttiva in campo farmaceutico, sì da fronteggiare la pandemia. Non solo per i vaccini. Si tratta di uno dei dossier più caldi dell'attuale negoziato commerciale, insieme al clima e alla riforma dell'Omc. Il Sudafrica è anche uno dei pochi Paesi del sud globale che ha accolto con entusiasmo la proposta del presidente del Consiglio europeo Charles Michel di avviare il negoziato per un trattato pandemico in seno all'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Una proposta sorprendentemente fiancheggiata dall'industria farmaceutica e da Bill Gates. Grazie alla pressione europea comincia lunedì prossimo una sessione speciale dell'Assemblea mondiale della sanità. Il trattato pandemico per la preparazione e risposta alle future pandemie tiene banco nelle sedi alla salute internazionale a Ginevra, non senza malumori. Per diversi governi del sud del mondo è intempestiva - molti sono impegnati a combattere l'infezione con pochi mezzi e senza vaccini - e per altri si tratta di una distrazione dal blocco ostinato che la Commissione Europea oppone alla moratoria sulla proprietà intellettuale all'Omc. L'opinione è condivisa da autorevoli analisti in materia. L'Europa del resto ha sempre osteggiato regimi sanitari vincolanti dentro l'Oms. L'idea motrice di questo trattato è l'impegno a una condivisione rapida delle informazioni sui patogeni, più cooperazione sulla sorveglianza, regimi più forti di sicurezza sanitaria. Esattamente quello che Johannesburg ha fatto. Peccato che l'Europa, insieme a Svizzera e Usa, abbiano risposto alla trasparenza sudafricana bloccandone immediatamente tutti i voli. Un segnale preoccupante sulla neanche tanto impercettibile venatura colonialista che sottende agli sforzi di costruzione della immuno-politica dell'occidente, dopo Covid-19. La sicurezza sanitaria, si sa, va messa in campo per difendersi dai poveracci».

DDL BILANCIO: I FAVORI AI BIG PHARMA

Secondo la Corte dei Conti nella manovra di Bilancio ci sarebbe un favore milionario alle imprese private, nella norma sulla spesa per i farmaci. Un favore ai Big Pharma? Ne scrive Marco Palombi sul Fatto.

«C'è un passaggio, nel centinaio di pagine che compongono le osservazioni della Corte dei Conti sul ddl Bilancio per il 2022, che dovrebbe preoccupare tutti, in particolare le Regioni, ma farà felici le case farmaceutiche. Gli articoli 96 e 97 della manovra, infatti, modificano (aumentandoli, come già accaduto quest' anno) i tetti per la spesa farmaceutica tanto convenzionata che ospedaliera, i quali peraltro vengono costantemente violati da anni: una voce, per capirci sulle dimensioni della cosa, che da gennaio a luglio 2021 vale da sola 11,8 miliardi di euro (dati Aifa). Qual è il problema? È il meccanismo del cosiddetto "payback", vale a dire - citiamo un dossier della Camera - "la particolare procedura introdotta (dal governo Prodi nel 2007 e ampliata da quello Monti nel 2012, ndr) per effetto della quale le aziende del comparto farmaceutico sono chiamate a ripianare - per intero per quanto riguarda la farmaceutica territoriale e per metà relativamente all'ospedaliera - l'eccedenza della spesa farmaceutica, allorché sia superato il tetto stabilito per legge". Tradotto significa che i produttori di farmaci - dopo aver guadagnato il giusto (almeno secondo il sistema dei tetti) - partecipano alla spesa sanitaria totale ridando i soldi alle Regioni: mentre, però, la farmaceutica convenzionata è quasi in pari (anche grazie al payback al 100%), quella ospedaliera è comunque in forte deficit. La manovra del governo Draghi pone a questo meccanismo, già non perfetto, due problemi. Il primo è tecnico: alzando i tetti nei prossimi tre anni finiscono per diminuire anche i fondi dal payback appannaggio delle Regioni. "Di sicuro rilievo - scrive la Corte dei Conti - sono le risorse necessarie a compensare i minori introiti regionali derivanti dalla progressiva modifica dei tetti alla spesa farmaceutica diretta e la conseguente riduzione delle entrate per il payback: si tratta di una riduzione stimabile nell'ordine di oltre 200 milioni nel 2022". Messa in un altro modo: "Guardando ai risultati del primo semestre 2021, con le nuove soglie 7 regioni avrebbero superato il tetto del 7% previsto per la spesa convenzionata", cioè la parte che è normalmente in equilibrio. L'altra è già nei primi sette mesi dell'anno sopra soglia per 1,5 miliardi ed è attesa chiudere attorno ai tre miliardi sopra il tetto a fine anno. La cosa più preoccupante, però, è un'altra: la manovra contiene, per omissione, quello che potremmo definire un disincentivo a rispettare il payback per Big (e Little) Pharma. Com' è comprensibile, le aziende non sono mai state molto felici di pagare e la previsione del ristoro è stata oggetto di un lungo contenzioso: nel 2018 il ministero della Salute, all'epoca guidato da Giulia Grillo (l'unica a protestare oggi), riuscì a chiudere quello 2013-2017 con un accordo da quasi due miliardi e mezzo, ma subito dopo è ripartita la sarabanda delle cause contro Aifa. Per non farla troppo lunga, l'Agenzia del farmaco ha da poco pubblicato lo stato dell'arte del payback farmaceutico aggiornato al 15 settembre scorso: "A fronte di un importo di ripiano per l'anno 2019 pari a euro 1,36 miliardi risulta versato l'importo di euro 757,2 milioni, pari al 56% del totale". In soldi, fanno 604 milioni di euro: tra quelle che stanno facendo miliardi coi vaccini, per dire, risulta che Janssen non ha versato nulla (74 milioni) e Pfizer 47 milioni su 70. A fronte di tutto questo, cosa s' è inventato il governo? Dice la Corte dei Conti: "Deve essere sottolineato come l'eliminazione nel ddl Bilancio 2022 della previsione normativa che condizionava l'aggiornamento dei tetti all'integrale pagamento, da parte delle aziende farmaceutiche, degli oneri per il ripiano degli sfondamenti, a partire da quelli verificati nel 2019, desta qualche perplessità" visto quel che dice Aifa sulla compliance delle imprese. Tradotto: finora si diceva alle case farmaceutiche che i tetti sarebbero stati alzati (meno payback, più guadagno) solo se avessero sganciato i soldi che dovevano allo Stato, da ora la cosa è lasciata al buon cuore loro e alle cure dello stuolo di avvocati con cui alluvionano Aifa di ricorsi. È appena il caso di ricordare che, anche se i privati non pagano, le Regioni iscrivono quei soldi a bilancio come crediti esigibili e li usano per erogare servizi sanitari: il rischio è nascondere il buco sotto al tappeto e poi ricorrere ai famigerati "piani di rientro" che, via tagli, hanno negato e negano a milioni di italiani il diritto alla salute».

IL PAPA SCEGLIE LA PRUDENZA

Niente manifestazioni per l’8 dicembre e Messa di Natale del Papa in san Pietro già anticipata alle 19,30. Molto prudente e quasi immediata la scelta del Vaticano, a protezione dal contagio del virus. Giovanni Pannettiere per il Quotidiano Nazionale.

«La variante Omicron induce alla prudenza la Santa Sede. Anche quest' anno, così come nel 2020, quando il pianeta era alle prese con la seconda ondata della pandemia, le celebrazioni natalizie in San Pietro saranno anticipate di un paio d'ore. In occasione del prossimo 8 dicembre, festa dell'Immacolata concezione, non ci saranno poi eventi pubblici « per evitare assembramenti e il conseguente rischio di contagio», riferiscono da Oltretevere. In pratica si seguirà il copione dello scorso anno. Allora, alle prime luci dell'alba, in una piazza di Spagna deserta, salvo per un manipolo di vigili del fuoco, il Papa depose un mazzo di rose bianche alla base della colonna della statua della Vergine, in ossequio alla tradizione. Passando ai riti natalizi nella basilica di San Pietro, la messa di mezzanotte del 24 dicembre - da Benedetto XVI anticipata alle 21.30 - si terrà alle 19.30. Anche qui Francesco ha voluto seguire la via prudenziale: fra qualche settimana non è chiaro quale sarà lo scenario pandemico in Italia. La liturgia nel tardo pomeriggio consentirà un minor afflusso e quindi meno calca. L'accesso sarà consentito senza Pass. Anche le messe del 24 dicembre nelle chiese italiane potrebbero essere anticipate sulla falsariga del 2020. Molto dipenderà dalle misure che saranno assunte dallo Stato, fanno sapere fonti interne alla Conferenza episcopale italiana».

CORSA AL QUIRINALE, L’EFFETTO OMICRON

La variante sudafricana si abbatte rapidamente anche sul Palazzo. Dopo aver cambiato il corso delle Borse. Molti osservatori stamattina vi vedono anche un effetto sul rinnovo del Quirinale. È il caso dell’editoriale su Repubblica del direttore Maurizio Molinari.

«A inizio febbraio il capo dello Stato, Sergio Mattarella, diede a Mario Draghi l'incarico di formare il governo affidandogli il compito di guidare il Paese per affrontare due emergenze senza precedenti: la lotta alla pandemia Covid 19 e la ricostruzione economica più vasta dal Dopoguerra. A quasi dieci mesi da allora il governo Draghi ha ottenuto importanti e visibili progressi su entrambi i fronti, ma le emergenze restano tali. Sul fronte della lotta alla pandemia, la campagna di vaccinazione affidata al generale Francesco Paolo Figliuolo ha risolto gravi problemi logistici e superato seri ostacoli scientifici riuscendo a immunizzare oltre l'85 per cento dei cittadini e a creare un sistema di sicurezza collettiva - basato sul Green Pass - che gran parte dei Paesi europei ci invidia e non pochi stanno tentando di imitare. Ma l'arrivo della pericolosa variante sudafricana "Omicron", con le sue oltre 32 mutazioni, obbliga l'intera Unione Europea - Italia inclusa - a fare i conti con un nuovo scenario della pandemia ovvero il rischio che dai Paesi con livelli di vaccinazione bassi o inesistenti possano arrivare versioni del virus talmente aggressive da rimettere in discussione le protezioni garantite dai vaccini considerati più sicuri, booster inclusi. Più in generale, ciò significa che il summit del G20 a guida italiana, svoltosi di recente a Roma, ha indovinato nell'indicare la necessità dei Paesi ricchi di donare ingenti quantità di vaccini ai Paesi poveri. Ma tutto ciò sta avvenendo troppo lentamente e dunque la pandemia ha tempo per radicarsi, ad esempio, nell'Africa Australe, per poi tornare a minacciare la sicurezza di Stati Uniti e Unione Europea, Italia inclusa. Le implicazioni per la campagna vaccinale coordinata da Draghi, sotto la responsabilità del ministro Speranza e del generale Figliuolo, sono immediate: bisogna accertarsi che i cittadini già vaccinati siano protetti anche da Omicron, che i non vaccinati non ne diventino vettori di trasmissione e che il sistema di sanità nazionale abbia gli strumenti per affrontare il nuovo avversario. Per non parlare della necessità, a livello di premier, di eseguire gli accordi del G20 con la velocità necessaria per trasferire da Usa ed Europa in Africa e Asia quantità imponenti di vaccini davvero efficaci. Ovvero, il pericolo Covid 19 per noi è tutt'altro che al tramonto, lo stato di emergenza nazionale a fine anno dovrà probabilmente essere rinnovato e l'intera Ue resta vulnerabile al virus con l'Italia nella posizione di poter fare la differenza grazie al know-how sanitario maturato dal fatto di essere stato il Paese colpito prima e dunque con la maggiore esperienza sul campo contro il feroce nemico invisibile. Sul fronte della ricostruzione economica la situazione è per molti versi simile perché se il governo Draghi è riuscito a ottenere la maggioranza dei fondi - aiuti e prestiti - del "NextGeneration Eu", dotandosi di un Recovery Plan in piena sintonia con la Commissione Europea e con i parametri stabiliti da Bruxelles, dall'inizio del 2022 si tratterà di dimostrare di saper spendere gli stanziamenti ricevuti, pena la loro riduzione o addirittura il blocco. Le grida di allarme sollevatesi nelle ultime settimane da numerose amministrazioni del Sud - città e Regioni - lasciano intendere come quasi metà del Paese non è in grado neanche di redigere i progetti necessari per ricevere gli stanziamenti Ue. Per non parlare della situazione in cui versano alcuni dei ministeri a Roma, anch'essi in difficoltà nella fase di definizione di progetti, tempi di realizzazione e spesa. Ciò significa che se il 2021 si chiude con un'Italia in grado di vantare, in Europa e in Occidente, legittimi risultati tanto sulla lotta al virus che sul fronte della ricostruzione, il 2022 si annuncia con una partenza da far tremare i polsi, tutta in salita per la combinazione fra una pandemia alimentata da varianti in arrivo da Paesi senza vaccini e un "Piano nazionale di ricostruzione e resilienza" che minaccia di rallentare prima ancora di iniziare, esponendoci al rischio di dover ammettere l'incapacità di spendere i fondi ricevuti. È questo scenario di una perdurante doppia emergenza che deve suggerire a tutte le forze politiche presenti in Parlamento estrema prudenza e consapevolezza quando si tratterà di scegliere il nome del nuovo presidente della Repubblica, con relative conseguenze sul piano politico. La girandola di nomi per il Quirinale che continua a tenere banco è infatti accompagnata da ogni sorta di speculazioni su alleanze e interessi politici - di ogni matrice possibile - nella totale assenza di valutazione del quadro generale del nostro peculiare interesse nazionale. Che resta, intatto, quello del febbraio scorso».

Un altro direttore, Augusto Minzolini per il Giornale, vede nell’emergenza un motivo potente per scongiurare il “trasloco di Draghi al Quirinale”.

«A vedere i dati dei contagi che aumentano, le nuove varianti che incutono paura, i mercati che precipitano per il virus e tutto quello che resta da fare per rimettere in piedi l'economia quando siamo ancora sotto le bombe della pandemia, la questione in un Paese normale neppure si porrebbe. Invece, a sentire i bene informati, l'argomento di un trasloco di Mario Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale è ancora all'ordine del giorno. Per Matteo Renzi addirittura più di un leader di partito ci sta pensando su, ben sapendo che un cambio del genere si porterebbe dietro le elezioni anticipate a giugno. Motivo per cui una riflessione sul tema andrebbe fatta, partendo innanzitutto dalla natura di questo governo, cioè un esecutivo di emergenza, come quelli che hanno gestito la ricostruzione nel dopoguerra, nato dall'impegno di una larga maggioranza con dentro forze antagoniste, per alcuni versi inconciliabili, che si sono sacrificate sull'altare della responsabilità (basta guardare i sondaggi dei partiti populisti, Lega e 5stelle, che hanno deciso di farne parte). Appunto, la parola chiave è responsabilità. Una parola che mal si concilierebbe con l'immagine di un premier che, sia pure per ambizioni più che legittime, lasciasse il lavoro a metà. Ed è inutile che Draghi ripeta che la situazione è sotto controllo se continua a chiedere responsabilità agli italiani, perché la responsabilità o è di tutti, o è di nessuno. Tanto più che la «variante» Quirinale negli ultimi tempi, con tutto il rispetto, ha già reso meno performante l'azione di governo: là dove forse sarebbe stata necessaria una dose in più di decisionismo (vedi sulla manovra o sul fisco, per parlare degli ultimi capitoli), il premier per non avere problemi in Parlamento si è adagiato sul compromesso. Ora a questo mondo si può far tutto, si può anche chiedere agli italiani pazienza e sacrifici e poi decidere di far bagagli e cambiar Palazzo e Colle. Solo che una scelta del genere, che sarebbe quasi naturale in futuro per un premier che si è speso in un momento dei più difficili della storia del Paese calandosi nei panni dell'eroe, oggi striderebbe non poco di fronte ai problemi del presente. Sarebbe un passaggio innaturale in questo momento, che finirebbe per fare a botte pure con la narrazione a cui ci ha abituato lo stesso Draghi. E a nulla varrebbero le capriole istituzionali di chi vede nell'elezione di Draghi oggi al Quirinale gli albori del semi-presidenzialismo. Sembrano tesi date a posteriori rispetto ad una decisione che oggi sarebbe difficile da motivare. Per cui, mi sia consentito con tutto il rispetto, resterebbe davanti agli occhi di tutti un'unica spiegazione: la metamorfosi dell'eroe in disertore. Un'immagine, il primo a saperlo è l'interessato, che non appartiene a Mario Draghi, che sarebbe ingiusta e che l'ex governatore della Bce non si può certo permettere».

Marcello Sorgi su La Stampa vede nell’eccezionalità della situazione un ottimo motivo per “congelare” Mattarella e Draghi sulle loro attuali poltrone.

«Sussurrata nei corridoi della lunga vigilia del voto per il Colle e all'ombra delle immagini della firma del Trattato del Quirinale, con la coppia Mattarella-Draghi all'opera come in tandem, sta prendendo piede l'ipotesi che un improvviso aggravamento della situazione della pandemia, dovuto alla nuova variante Omicron di cui s' è temuto ieri l'arrivo in Italia, possa spingere per un congelamento dei vertici istituzionali. Lasciando insomma entrambi al proprio posto sia il Capo dello Stato che il presidente del consiglio, e fornendo in particolare una ragione per convincere Mattarella ad accettare il bis, fin qui rifiutato con serie motivazioni costituzionali. Qualsiasi altro assetto infatti, se messo alla prova di una nuova emergenza, potrebbe fornire sorprese sia sul piano interno che su quello internazionale. Se dovesse toccare a Draghi, finora il candidato più forte e il solo spendibile per una prima votazione corale, in cui potrebbe essere eletto da un arco di forze anche più largo di quello che sostiene il suo governo, la successione al Quirinale avverrebbe subito al più alto livello, ma la conseguenza sarebbe un indebolimento del governo, con l'inevitabile crisi che si aprirebbe senza nessuna garanzia di poter essere risolta, e, in caso di mancata soluzione, di non precipitare il Paese verso elezioni anticipate. Nel caso invece - al momento remoto, dato che nessun accordo è all'orizzonte - di elezione di un candidato politico votato dalla quarta votazione in poi, quando il quorum è di 505 voti, la maggioranza raccolta attorno al nuovo Presidente determinerebbe comunque un cambio di quadro politico, destinato a riflettersi sulla larga coalizione che sostiene il governo, e forse a destabilizzarla, in un momento in cui sarebbe necessario il contrario. Naturalmente esistono anche ragioni opposte a quelle che potrebbero spingere alla conferma dell'equilibrio Mattarella-Draghi. La vita politica infatti è per sua natura destinata a produrre un ricambio periodico, specie nei ruoli di alta responsabilità. La questione di cui si discute, tuttavia, non è quella di un congelamento tout court; ma di una stabilizzazione resa necessaria dal possibile aggravarsi di una situazione a tutt' oggi eccezionale, e che non riguarda solo l'Italia». 

Controcorrente rispetto alla prospettiva del “congelamento” di emergenza è Antonio Socci su Libero. Socci resta convinto che la soluzione migliore si quella di Draghi al Colle, come sostengono Sapelli e Festa in un pamphlet appena pubblicato.

«L'elezione del nuovo presidente della Repubblica è un appuntamento che - nelle cronache dei giornali - sembra un gioco a nascondino o un banale Risiko (per qualcuno un "rosico"). I partiti non sanno dove sbattere la testa. In questa nebbia fitta di chiacchiere però ha fatto irruzione finalmente un pensiero, una riflessione geopolitica che fa capire almeno la vera posta in gioco nella partita del Colle. Il piccolo e denso libro di Giulio Sapelli e Lodovico Festa - «due sovranisti molto chic» li ha definiti Giuliano Ferrara - ha un titolo perentorio: «Draghi o il caos. La grande disgregazione: l'Italia ha una via d'uscita?» (Guerini e Associati). Il pamphlet ha dietro l'erudizione storica, politica ed economica di Sapelli, nella prima parte, per sfociare poi nella brillante analisi dell'oggi (e qui si sente di più la prosa giornalistica di Festa). Riprendo, dalle loro pagine, alcuni flash perché aiutano a inquadrare i termini del problema. Cominciamo dal primo, ovvero Mario Draghi che - secondo loro - fu «nominato grazie agli Stati Uniti al vertice della Bce». Perché quella scelta? «Nella contesa globale di potenza» scrivono i due autori «quella americana è una forma di capitalismo differente da quella "renana", franco-tedesca, attribuendo da sempre un ruolo ben diverso alla deflazione e al debito pubblico. E proprio per questo motivo richiede anche forze intellettuali in grado di contestare il verbo tedesco, austero e filocinese». Dunque «l'originalità e la forza di Draghi rispetto alla retorica europeista imperante» scrivono Sapelli e Festa «risiede nel fatto che ha rappresentato la versione americana e non tedesca di tale capitalismo, come prova il suo ruolo - sempre contestato dalla Bundesbank -nella Bce e la lotta che ha condotto per anni contro l'austerità stupida che ancora oggi sta distruggendo l'Europa... e il suo intervento riparatore a Francoforte, intervento che gli ha conferito quella speciale autorevolezza che ora pone al servizio dell'Italia». Veniamo agli altri elementi del titolo: il caos e la «grande disgregazione». Sono un'amara descrizione della situazione dell'Italia, sprofondata in una crisi economica ventennale (che è anche crisi politica, crisi di identità e crisi demografica), ora aggravata dal ciclone del Covid, nonché da una delegittimazione sempre più preoccupante delle istituzioni, dei partiti e del tessuto democratico. Se è stato decisivo che un tecnico come Draghi, uomo delle istituzioni, assumesse quest' anno in prima persona la guida di un governo di unità nazionale, per affrontare l'emergenza più drammatica, è anche vero - secondo Sapelli e Festa - che ora la politica deve riprendere il suo ruolo di governo. PROFILO IDEALE Mentre il profilo di Draghi è perfetto per l'istituzione massima dello Stato: la presidenza della repubblica. Perché «quel che serve alla nostra nazione» argomentano i due autori «è un periodo di garanzia dall'alto che protegga la nostra vita politica e aiuti a far crescere partiti radicati sul territorio dove tra storia, famiglia e piccola impresa si esprime la nostra principale "forza"». Per chiarire il prezioso ruolo che Draghi può svolgere dal Quirinale i due autori ricordano «due "tecnici" senza l'azione dei quali non avremmo avuto lo sviluppo capitalistico nazionale che impetuosamente si è realizzato negli anni Cinquanta per poi consolidarsi fino alla fine degli anni Ottanta. Senza un "tecnico" come Alberto Beneduce, la sua Iri, il salvataggio della Commerciale da lui reso possibile non ci sarebbe stato neanche un "tecnico" come Raffaele Mattioli che poi tra Mediobanca ed Eni, collaborando con i governi Dc e dialogando con i comunisti, è stato tra gli uomini decisivi per porre le basi del miracolo economico post Seconda guerra mondiale. In questo senso la perfetta potenza di un supertecnico» concludono Sapelli e Festa «si manifesta non quando sostituisce il potere politico ma quando con la massima influenza possibile, si affianca al potere politico e lo indirizza verso lo sviluppo». La logica del libro è ferrea: «Se la nostra analisi sullo stato disperato in cui versano le istituzioni italiane è fondata, se si ritiene che la ricostruzione della disgregazione italiana, precipitata del decennio 2010-2020, sia corretta... allora quella che abbiamo definito "la chance" Draghi per salvare la Repubblica, va giocata nella partita del Quirinale con il massimo della consapevolezza». A rinforzo di questa tesi Sapelli e Festa sottolineano che «il caos italiano» è determinato da due fattori: «Una carenza di credibilità internazionale accentuata dalle mosse franco-tedesche tese a semplificare così la loro egemonia sulla governance europea, e una parallela e gravissima rottura tra società e istituzioni italiane». DEM NEL PANICO Tenere ancora Draghi a Palazzo Chigi potrebbe risolvere il primo problema, ma per quanto? Oltretutto le elezioni del 2023 sono dietro l'angolo.... Inoltre così si lascerebbe «andare alla deriva il sistema politico» perché «senza rinascita dei partiti la democrazia italiana non ha futuro». Del resto il caos e la disgregazione riguardano anche l'Unione Europea e continuare a farci commissariare dalla Ue, come è accaduto nel decennio scorso, non solo è disastroso per l'Italia, ma anche per la Ue: «L'Italia ha un ruolo centrale nell'Unione europea: se accetta di essere commissariata» concludono Sapelli e Festa «permette quella dialettica degli egoismi e delle chiusure che abbiamo vissuto particolarmente nell'ultimo decennio; se riacquista un'alta capacità di iniziativa fondata sul risanamento del suo Stato (e conseguentemente fino in fondo della politica) costringe tutti a fare i conti con le esigenze di riforma dell'Unione che sono urgenti quanto quelle italiane». Il libro di Sapelli e Festa merita di essere letto. Si possono avere preferenze diverse sul futuro inquilino del Quirinale, ma bisognerebbe saper sfornare, a supporto, analisi dello stesso valore. Dal Pd - che sembra essere oggi il principale avversario dell'elezione di Draghi al Colle - traspare solo la paura di non poter eleggere ancora una volta uno dei suoi candidati. Politica di piccolo cabotaggio».

5 STELLE, GRILLO CONTRARIO AL 2 PER MILLE

I deputati 5 Stelle non versano più i contributi al Movimento. Conte cerca finanziamenti ma Grillo è contrario al 2 per mille. Matteo Pucciarelli su Repubblica.

«Soldi, maledetti soldi: l'argomento è sempre spinoso in politica, ancor di più in casa 5 Stelle dove attorno al cosiddetto "spirito francescano" ci si è costruita una fortuna politica. Domani e martedì sul sito del Movimento gli iscritti votano se aderire o meno al 2 per mille, la possibilità cioè che hanno tutti i partiti di avere un contributo dai cittadini in fase di dichiarazione dei redditi; considerato finanziamento pubblico (orrore assoluto, nella vulgata delle origini), finora il M5S non aveva mai usufruito di questa possibilità. Ma i tempi cambiano, Giuseppe Conte e la maggioranza dei parlamentari sono favorevoli alla svolta. Non Beppe Grillo: il fondatore - si racconta nel dietro le quinte - è infuriato, un po' perché nessuno lo aveva avvertito della decisione, un po' perché lui stesso per anni si è speso contro ogni tipo di contributi di questo genere. Per ore si sono rincorse le voci di un suo intervento a gamba tesa per invitare a votare no e di mediazioni di big per portarlo a più miti consigli. Il pericolo di una nuova e potente presa di posizione del garante è per ora sventato, la concomitanza con le vicissitudini familiari del comico genovese aiuta, ma il tutto conferma che ad oggi per il M5S Grillo rappresenta un vulcano pronto a esplodere da un momento all'altro, con effetti potenzialmente disastrosi. Fin qui il discorso politico, poi ce n'è un altro strettamente economico, una nube minacciosa all'orizzonte per il Movimento e che può in parte spiegare la necessità di trovare nuove risorse: la minaccia delle "restituzione delle restituzioni". Alcuni parlamentari espulsi si stanno organizzando per intentare un ricorso e richiedere indietro i soldi delle restituzioni versati negli anni passati, 2 mila euro al mese per ogni deputato e senatore, inviati con bonifici trimestrali. Ad oggi ci sono oltre 8 milioni di euro accumulati e che dovrebbero essere destinati ad associazioni come Emergency e piccole e medie imprese; ma, racconta uno dei parlamentari che ha già inviato una diffida ai vertici del M5S, «si è trattato di elargizioni fatte senza forma scritta e per questo le donazioni di non modico valore possono essere cancellate, riavendo indietro quel che si è dato se la richiesta avviene entro cinque anni. Non lo dico io ma il codice civile». Sono 106 gli eletti col M5S che oggi sono passati ad altre forze al gruppo misto: se ognuno di loro seguisse la scia del ricorso, il Movimento dovrebbe rispondere di centinaia di migliaia di euro, se non di più. Un precedente del genere c'è, seppur relativo a un accordo tra le parti: due consiglieri regionali in Liguria che poco più di un anno fa riebbero indietro circa 50 mila euro precedentemente donati. Il sito tirendiconto.it, gestito da Davide Casaleggio e dalla sua associazione Rousseau, dopo la rottura con il M5S non esiste più: serviva a monitorare le restituzioni eletto per eletto. Nei giorni scorsi Vito Crimi ha annunciato che se ne creerà un altro. Oggi ogni parlamentare è tenuto a versare 1.500 euro al mese per il fondo restituzioni e altri mille per il partito. In assemblea congiunta il tesoriere Claudio Cominardi ha invitato tutti a tenersi in regola, dati ufficiali non ce ne sono ma si parla di circa una trentina di eletti indietro con i bonifici, anche di parecchi mesi; un po' per dissidi politici, un altro bel po' per l'incertezza sul proprio futuro, oltre al fatto che rispetto a prima i "morosi" non rischiano più l'espulsione ma semplicemente di non poter avere ruoli interni al partito. Effetto deterrente, di questi tempi, assai modesto».   

LA LEGA E IL SUMMIT POLACCO

Pressing politico dentro la Lega perché si discuta in assemblea, nonostante le restrizioni del Covid. Salvini convoca i congressi cittadini. Ma è incerto sulla partecipazione al raduno sovranista in Polonia il 4 dicembre. Marco Cremonesi per il Corriere.

«La risposta di Matteo Salvini alla domanda che pochi hanno (apertamente) formulato è: «Congressi». Ieri mattina una nota informava che «la Lega accelera ed entro la prima settimana di dicembre sarà in grado di celebrare almeno 200 congressi cittadini in tutta Italia, dopo la paura imposta dal Covid e prima delle nuove restrizioni». In compenso, prosegue il comunicato, «l'assemblea programmatica nazionale, inizialmente prevista l'11 e 12 dicembre a Roma con il coinvolgimento di almeno 2 mila persone in presenza, sarà invece fissata nelle prime settimane del 2022». Ovviamente, «auspicando la cancellazione delle limitazioni in vigore dal 6 dicembre che avrebbero limitato la partecipazione all'evento». Insomma: la discussione nel partito inizia, ma non sarà ancora la «grande discussione» di cui aveva parlato lo stesso segretario qualche settimana fa. A suggerire l'appuntamento, era stato l'intenso consiglio federale convocato all'indomani delle brusche osservazioni del vicesegretario leghista, Giancarlo Giorgetti, riguardo alla leadership del partito e alla necessità di avvicinarsi in Europa ai popolari anziché ai sovranisti. In quell'occasione, Salvini aveva detto sostanzialmente «la Lega sono io», ma aveva anche annunciato l'assemblea programmatica per allontanare le accuse di «uomo solo al comando». In realtà i congressi che, in Veneto come in Lombardia, qualcuno richiede, erano stati annunciati già nel lontano dicembre del 2019. Sennonché, l'arrivo della pandemia aveva bloccato le assemblee politiche così come molto altro. «Il problema - spiega un parlamentare - è che effettivamente il Covid ha diradato la partecipazione alla vita del partito, così come le procedure di tesseramento. Non è una scusa». Resta il fatto che i congressi sono anche fatti per decidere chi comanda e quale è la linea: e al momento non si intravede chi potrebbe insidiare la leadership salviniana: di certo, i governatori di Veneto e Friuli-Venezia Giulia - Luca Zaia e Massimiliano Fedriga - al momento nemmeno ne vogliono sentir parlare. Mentre sull'altra linea di frattura, popolari o sovranisti, è assai probabile un rallentamento. Salvini ha detto chiaramente che l'orizzonte è quello con Le Pen e Orbán. Ma lui stesso, anche se la decisione non è presa, ormai mette in forse la sua partecipazione al summit delle destre europee convocato per il 4 dicembre dal Pis, il partito del premier polacco Morawiecki. Da una parte perché parrebbe brutto non convocare l'assemblea del partito in Italia per il Covid e, soltanto una settimana prima, andare in una Varsavia che ha appena battuto il precedente record di contagi (oltre 28 mila) e di decessi (quasi 500 in un giorno). Certamente, però, pesa anche la decisione di Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d'Italia ha infatti annunciato la sua non partecipazione al summit nonostante il Pis appartenga ai Conservatori e riformisti europei (Ecr), l'eurogruppo di cui lei stessa è presidente. C'è chi osserva che la leader di Fratelli d'Italia si stia spostando su posizioni meno ostili a Bruxelles, ma i leghisti ci vedono un deliberato sgambetto. Determinato dal fatto che «FdI in un gruppo molto più numeroso come quello che si formerebbe in Europa perderebbe di peso». Fatto sta che per lo stesso Salvini sarebbe stato imbarazzante andare solo lui a un raduno delle destre in una Polonia in ormai perenne conflitto con l'Unione. E soprattutto, l'elezione del nuovo capo dello Stato è ormai imminente: una frattura nel centrodestra a due mesi da quell'appuntamento cruciale per il leader leghista sarebbe una jattura».

DROGA, SCONTRO NELLA MAGGIORANZA

«Liberalizzare la cannabis» il ministro del Pd Orlando e la ministra 5S Dadone aprono lo scontro nella maggioranza. Lo stop di Gelmini e Salvini. La cronaca del Corriere della Sera.  

«Hanno parlato i ministri di metà governo ieri alla conferenza nazionale sulla droga a Genova, organizzata dalla pentastellata Fabiana Dadone: Di Maio, Lamorgese, Cartabia, Gelmini, Bianchi, Orlando, Patuanelli, Bonetti. E il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto mandare un messaggio: «Il vasto programma della conferenza è indicativo della dimensione del problema». Erano dodici anni che la Conferenza nazionale non veniva convocata, dal 2009, ai tempi di Gianfranco Fini. Ai tempi di una politica fortemente proibizionista, ieri messa in discussione. «L'approccio repressivo degli ultimi anni non si è fatto carico della fragilità: ogni anno nel nostro Paese c'è più di un morto al giorno per overdose», l'esordio dell'intervento del ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd) che, subito dopo, ha dato il via alla polemica della giornata che ha spaccato la maggioranza: la legalizzazione della cannabis. Ha aggiunto Orlando: «Nel momento in cui un partner non proprio irrilevante e un alleato non proprio trascurabile come la Germania sembra cambiare profondamente linea credo sia inevitabile che qualche riflessione si faccia anche nel nostro Paese, anche perché quella scelta determinerà riflessi per il nostro Paese, il mercato è unico e senza frontiere». Il riferimento è al programma di governo annunciato da Scholz, il prossimo premier, dove si parla anche di cannabis legale. Da fuori della Conferenza la reazione immediata del leader della Lega Matteo Salvini. «È molto preoccupante che un ministro della Repubblica parli con leggerezza di droga. Orlando si occupi di lavoratori, precari e cassaintegrati, lasci la lotta alla droga a famiglie, esperti e comunità». Ma ci pensa la ministra Dadone a rilanciare il tema: «La legalizzazione della cannabis è una scelta che l'Italia dovrebbe valutare. Io sono favorevole ma bisogna riuscire a raggiungere la maggioranza in Parlamento». Alla Camera è stato adottato un testo unificato (a prima firma Magi di +Europa) che prevede la depenalizzazione della cannabis e che ieri anche il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha preso in considerazione per la lotta al narcotraffico come «soluzione per controllare il fenomeno». Dalla Conferenza, però, contro la legge si è espressa la ministra Mariastella Gelmini: «Sono contraria a qualsiasi forma di legalizzazione e sono convinta che non esista una libertà di drogarsi». E da fuori è insorta la leader di FdI Giorgia Meloni: «Le parole dei ministri Orlando e Dadone lanciano un messaggio devastante». Oltre la cannabis, però, ci sono altri dati che preoccupano, e non poco. È stata la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese a riportarli a Genova. Il primo allarme sui giovani: «Il 19% tra i 15 e i 19 anni ha assunto sostanze psicoattive illegali». Poi l'aumento di consumi che si evince dai sequestri: «Nel 2020 rispetto al 2019 il sequestro delle droghe è aumentato dell'8%. E il record mai raggiunto prima spetta alla cocaina: 13 tonnellate». Punto molto dolente degli ultimi anni sono le droghe sintetiche: la ministra dell'Interno segnala un aumento dei sequestri del 13,9%».

IL TRATTATO DEL QUIRINALE FRA ITALIA E FRANCIA

Romano Prodi nel suo commento domenicale per Il Messaggero analizza il Trattato del Quirinale fra Italia e Francia. Prima conseguenza importante: un’alleanza strategica a favore di un’Europa economica in espansione e non bloccata dall’austerità.

«Il trattato del Quirinale è oggettivamente importante, non tanto perché intende porre rimedio ad alcune divergenze che, nel recente passato, hanno turbato i rapporti fra Francia e Italia, ma perché pone le premesse per una convergenza tra i due Paesi su molti capitoli della futura politica europea, dalla difesa alla cultura, dalle politiche giovanili all'emigrazione. Nulla a che vedere con il significato dell'accordo firmato tra Germania e Francia del 1963. Un accordo che voleva porre fine a una tragedia secolare, che aveva insanguinato tutta l'Europa in un modo irreparabile. Come scrive Le Monde, i rapporti fra Francia e Italia sono stati certamente complicati, ma i due Paesi sono stati nemici solo per poco tempo. L'accordo ha quindi lo scopo di mettere in luce la comunanza di interessi e di obiettivi che i due Paesi hanno oggi e pone le basi per un'alleanza ancora più stretta nel futuro, soprattutto attraverso l'adozione di una politica comune in ambito europeo. Il testo conclusivo elenca in modo analitico il cammino per raggiungere alcuni traguardi concreti, come il lavoro comune necessario per regolare i flussi migratori e le cooperazioni nel campo della giustizia e della sicurezza. Tutto questo è estremamente utile a entrambi i Paesi, ma il più importante e immediato risultato dell'accordo del Quirinale è la prospettiva di una stretta collaborazione per preparare una comune politica economica e monetaria in ambito europeo. Tanto Macron, quanto Draghi, sono infatti convinti che si debbano rafforzare i legami costruiti con il Next Generation Eu e che si debba radicalmente riformare il patto di stabilità, in modo da evitare la ripetizione delle politiche di austerità che hanno guidato la politica europea nel periodo che ha preceduto il Covid. Non mi sembra peraltro casuale che il contenuto dell'accordo arrivi in Germania quando il nuovo governo sta cominciando il proprio lavoro in presenza di una oggettiva differenza di vedute fra il cancelliere socialista Scholz, sostenitore di una politica di equilibrio fra disciplina di bilancio e indebitamento, e il ministro delle finanze, il liberale Lindner, fautore di una politica finanziaria europea estremamente rigorosa. La strategia comune fra Francia e Italia non può che giovare a entrambi i protagonisti, ma occorrerà apprestare in tempi brevi non solo gli indispensabili schemi di governance, come le previste riunioni ministeriali, ma anche i contenuti delle azioni da mettere in comune. Dal punto di vista strettamente politico, la necessaria priorità sarà quella di armonizzare una comune strategia per la Libia. Non dimentichiamo infatti che anche le passate divergenze fra Francia e Italia hanno favorito l'entrata in campo di attori che, come la Turchia e la Russia, nulla hanno a che fare con la Libia stessa. Inoltre non esiste solo la macroeconomia, ma anche la microeconomia e soprattutto la politica industriale, che ha visto in passato un'oggettiva prevalenza degli interessi francesi, accompagnati in molti casi da una politica pubblica molto più attenta e in possesso di strumenti molto più efficaci di quelli di cui l'Italia dispone. Credo quindi che gli incontri ministeriali comuni debbano non solo trovare una soluzione concordata riguardo ai noti problemi dei cantieri navali, ma debbano progettare una comune strategia e comuni iniziative nei settori del futuro, come l'aerospaziale e le nuove energie. E non vedo perché il governo italiano e il governo francese, approfittando di una efficiente azienda che già posseggono in comune (STMicroelectronics) non si pongano come obiettivo la creazione di un'impresa europea dominante nel campo dei semiconduttori più raffinati. Le alleanze globali, come quelle previste dall'accordo del Quirinale, si consolidano infatti non solo con la chiusura delle passate controversie, ma con la messa in comune degli strumenti per costruire il futuro. Al termine di queste nostre brevi considerazioni, viene naturale riflettere sulla convenienza, a tempo dovuto, di costruire un analogo rapporto fra Italia e Germania. Credo che sia possibile e positivo. Possibile in quanto, in politica estera, la strategia dei due Paesi è da molti anni quasi perfettamente allineata e, nel campo economico, il processo di integrazione, nonostante le differenze strutturali, ha compiuto inimmaginabili progressi. Ancora più importante è tuttavia l'osservazione che, con un accordo fra Italia e Germania, si verrebbe a creare un triplice legame che, pur con la flessibilità contenuta nei diversi trattati, avrebbe la conseguenza di costruire un primo nucleo di un'Unione Europea molto più coesa e capace di rispondere alla sfida che Stati Uniti e Cina stanno portando a tutto il mondo. Non ho infatti paura di un'Europa a più velocità, ma di un'Europa immobile. Se Germania, Francia e Italia si muovono insieme, tutta l'Europa si metterà a correre».

PROFUGHI 1, LA FRONTIERA DI VENTIMIGLIA

Reportage di Marco Imarisio per il Corriere della Sera da Ventimiglia. Bivacchi, ronde, proteste e l'ultimo migrante ucciso, fra coloro che sono diretti in Francia.

«Sotto il ponte del fiume Roja ci sono giacche a vento, sacchi a pelo, imballaggi di cartone, e una pozza di sangue rappreso. Non c'era bisogno dell'ennesima tragedia per capire che i migranti alla vana ricerca del passaggio in Francia, non hanno più un posto dove andare, e dove aspettare. E quindi si fermano qui dopo essere stati respinti dalla polizia di frontiera. La scorsa notte un giovane ancora senza nome, nemmeno trentenne dicono i Carabinieri, forse di origine sudanese, è stato ucciso a coltellate da un suo compagno di disgrazia. Lo hanno ritrovato riverso sul suo giaciglio, e forse proprio la titolarità di quel posto dove passare la notte è all'origine della lite con il suo assassino. Intanto, a Ventimiglia. Ancora una volta, ancora di più. Nel 2021 gli episodi di violenza tra profughi sono aumentati a ritmo vertiginoso, quasi uno alla settimana. L'edizione locale del Secolo XIX titola «La città ostaggio dei disperati», ed è una buona sintesi. L'atrio della stazione sembra un dormitorio, una lunga fila di corpi sdraiati ai quali nessuno ormai fa più attenzione, come fossero diventati elementi abituali del paesaggio. I migranti hanno ripreso a bivaccare sul greto del fiume, davanti al cimitero, e adesso anche nella città vecchia, tra gli sguardi indifferenti dei pochi turisti francesi. La Asl ordina al Comune la bonifica dell'intera frazione di San Secondo, «a causa dei problemi di carattere igienico-sanitario derivanti dalla presenza di decine di persone migranti nelle aree ferroviarie». I treni sono l'unico mezzo per evadere da un Paese nel quale non vogliono stare, perché i gendarmi francesi esercitano un controllo draconiano e spesso violento sui valichi di terra. Li rimandano sempre indietro, non prima di avere tagliato a metà le loro scarpe con una fresa. Tre mesi fa, due adolescenti sono morti folgorati sul tetto del vagone dove si erano rifugiati. Negli ultimi due anni, sono almeno venti le persone che hanno subìto questa sorte. Alcuni sono invece annegati, altri sono stati investiti in autostrada. I commercianti protestano in piazza, mentre il Comune organizza ronde notturne nei quartieri. La distribuzione dei pasti avviene sotto la campata del ponte, la stessa dove la scorsa notte è avvenuto il delitto. La fila è così lunga che quando piove non c'è spazio per proteggere le persone in attesa. Se ne occupano pochi gruppi di volontariato, la Caritas, la Diaconia Valdese e l'associazione We world. Perché dall'inizio della pandemia non c'è più nulla a regolare il flusso e le necessità dei migranti. Negli ultimi giorni, don Ferruccio Bortolotto ha aperto le porte della chiesa di Sant' Agostino, nel centro del paese, per ospitare una decina di migranti che gli sono stati consegnati dalla Polizia. «Non c'è più un luogo dove poter accogliere queste persone in transito. Mi chiedo spesso come sia possibile parlare sempre di emergenza ed esser così impreparati». Quel posto esisteva. Il campo di prima accoglienza della Croce Rossa era arrivato a ospitare anche seicento persone. Non è mai stato una soluzione definitiva, ma aveva almeno attutito le tensioni tra gli abitanti e i locali. Ognuno per sé, a ognuno il suo spazio. Nell'agosto del 2020, il centro di prima accoglienza è stato chiuso, su decisione della prefettura. Gaetano Scullino, civico sostenuto da tutti i partiti del centrodestra, lo aveva promesso alla cittadinanza durante la campagna elettorale. «Premesso che io non ho imposto nulla, è vero che non funzionava più, ormai era diventato un albergo». L'attuale sindaco rivendica i risultati ottenuti a colpi di ordinanze che proibiscono il bivacco, la vendita di alcolici ai migranti, il divieto di abbeverarsi alle fontane pubbliche per i non residenti. Ma adesso è tornato il casino, ammette con il suo linguaggio colorito, arrivando a riconoscere che sotto il profilo dell'accoglienza «la nostra città non sta dando una risposta adeguata». «Per molto tempo si è scelto di stare fermi in base a una semplice motivazione ideologica» sostiene invece Enrico Ioculano, consigliere regionale pd e predecessore di Scullino. Comunque sia, il risultato è un eterno ritorno casella di partenza. La soluzione individuata per risolvere una emergenza perpetua che si sta aggravando con l'arrivo dei profughi afgani è l'apertura di un altro centro di prima accoglienza, chiesta anche dalla attuale amministrazione. Come quello che c'era prima, solo un po' più lontano. Oltre i famosi giardini Hanbury, quasi al confine con la Francia. Anche se poi ci sarà da convincere gli ospiti a salire fin lassù. La nuova struttura aprirà tra sei mesi, forse. Mentre lasciamo Ventimiglia, due elicotteri volano nel buio alla ricerca di un giovane migrante disperso nei boschi.».

PROFUGHI 2, STORIA DI MARYAM

Ieri i giornali inglesi e francesi la raccontavano in prima pagina. È una storia straziante che emerge dalla tragedia dei profughi morti nella Manica, la storia di Maryam, una giovane curda di 24 anni. Maryam stava raggiungendo il suo fidanzato a Londra, l’ultimo messaggio diceva: "Imbarchiamo acqua". Enrico Franceschini per Repubblica da Londra.

«Il gommone si sta sgonfiando. Imbarchiamo acqua e cerchiamo di svuotarlo. Non preoccuparti, spero che qualcuno verrà a soccorrerci, ci rivedremo presto». L'ultimo messaggio si è concluso così. Poco dopo Maryam Amin è finita nella Manica ed è affogata con altre decine di migranti: il bilancio attuale parla di 27 morti, ma le autorità temono che siano molti di più. La giovane curda di 24 anni che sperava di ricongiungersi con il fidanzato in Inghilterra è la prima vittima identificata con certezza nella tragedia di questa settimana sul tratto di mare tra Calais e Dover. La sua odissea era iniziata nell'Iraq settentrionale, ha attraversato la Germania, ha raggiunto la costa della Francia. Mancava l'ultima tappa, per toccare terra sul suolo britannico e riabbracciare l'uomo di cui era formalmente la promessa sposa, Mohammed Karzan, proveniente come lei dal Kurdistan iracheno ma già inserito nel Regno Unito, dove aveva ottenuto asilo, cittadinanza e un lavoro da barbiere a Bournemouth, una delle località affacciate sul canale. Anche lei aveva chiesto due volte un visto all'ambasciata britannica di Baghdad per entrare legalmente in Gran Bretagna, ma era stata respinta. Allora ha provato ad andarci da clandestina. «Sono disperato», dice il 25enne Karzan al Daily Mail . «Non sapevo che Maryam avrebbe cercato di arrivare da me in un modo così pericoloso. Voleva farmi una sorpresa. Mi ha chiamato soltanto quando stava partendo da Calais e da quel momento siamo rimasti in contatto via Snapchat per quattro ore e mezza. Poi, dopo l'ultimo messaggio, più niente. Che tristezza, per lei, per me, per tutti. Era una donna felice». Un cugino di Maryam, raggiunto telefonicamente in Iraq dal quotidiano londinese, aggiunge un altro tassello: «I genitori sono sconvolti. Aveva tutta la vita davanti. Capisco perché tanta gente si mette in viaggio in cerca di una vita migliore, ma quella dei barconi in mano ai trafficanti di esseri umani non è la strada giusta. Per favore, vorrei dirlo ad altri, non fatelo, guardate che fine ha fatto Maryam. Il fidanzato la aspettava in Gran Bretagna, lei stava studiando l'inglese, era molto intelligente. Che tragedia». Iman Hassan, un'amica di famiglia, racconta che alla festa di fidanzamento in Kurdistan Maryam fantasticava sul futuro insieme in Inghilterra: «Diceva che avremmo abitato in due case vicine. Aveva un gran cuore». Testimonianze dal campo profughi di Dunkerque illustrano come è andata. I trafficanti avevano predisposto due gommoni per una cinquantina di persone, ma il motore di una delle imbarcazioni non ha funzionato: «Allora hanno ordinato a tutti di stringersi in un gommone, puntando la pistola su chi faceva obiezioni, non volevano perdere i soldi già pagati per un posto a bordo», dice dal nord dell'Iraq Sanger Hamed, amico di altre due vittime della fatale traversata. «Ma anche quello era in pessime condizioni». Quasi 7mila migranti sono arrivati in Inghilterra con analoghi mezzi di fortuna nel mese di novembre, 26mila dall'inizio dell'anno, rispetto a 8mila nel 2020 e meno di 2mila nel 2019. Sperava di farcela anche Maryam».

ETIOPIA, IL MONDO FERMI IL GENOCIDIO

Il vescovo cattolico di Adigrat in Tigrai, Tesfay Medhin, lancia l’appello e denuncia una «guerra contro un popolo, come fosse straniero». Addis Abeba impone altre censure ai media, mentre il premier etiope Abiy Ahmed si fa ritrarre al fronte in divisa militare. Paolo Lambruschi per Avvenire.

«Il mondo fermi il genocidio. Dal Tigrai assediato è il vescovo cattolico di Adigrat a bucare la cortina del silenzio con un coraggioso video di denuncia della drammatica situazione nella regione. «Desolazione e distruzione, fame e spada, chi ti consolerà?» Cita il profeta Isaia (51:19) il vescovo dell'eparchia cattolica di Adigrat Tesfay Medhin per denunciare, in un video trasmesso dalla tv del Tigrai, le sofferenze della sua gente, paragonata all'antico popolo di Gerusalemme. Il prelato accusa il governo federale di aver scatenato una «guerra molto distruttiva, di pulizia etnica» contro un popolo trattato «come fosse straniero ». Denuncia la morte per le ma-lattie nuove e vecchie provocate dalla mancanza di medicinali per il blocco degli aiuti e la fame dilagante. Anche la Chiesa cattolica - prosegue - è stata colpita in questa «guerra genocida », con attacchi fisici, psicologici e spirituali «a laici, preti e suore» mentre le strutture ecclesiastiche sono state saccheggiate e danneggiate. Molto critico l'eparca di Adigrat anche contro il rapporto congiunto dell'Alto commissariato Onu e della Commissione etiope per i diritti umani del 4 novembre sui crimini di guerra definito incompleto e ingiusto, che tacerebbe sulle peggiori atrocità contro i civili commesse in questi 13 mesi. Il vescovo del Tigrai chiede quindi a tutta la chiesa cattolica etiope di «uscire dal silenzio levando la propria voce contro le atrocità genocidarie e le persecuzioni» che colpiscono i cattolici tigrini in ogni diocesi, condanna la detenzione del superiore provinciale (tigrino) dei Salesiani di don Bosco e dei suoi confratelli della comunità di Addis Abeba, ricorda che in tutto il Paese son avvenuti arresti di cattolici tigrini. E chiede ad Addis Abeba di fermare i bombardamenti aerei che hanno ucciso civili e provocato distruzione e di fermare la pulizia etnica con gli arresti arbitrari e alla comunità internazionale di intervenire. Il presule non ha mancato di esprimere la propria vicinanza a tutta la popolazione etiope sofferente. Intanto dall'Irob, distretto montuoso del nord del Tigrai abitato da una minoranza etnica e in buona parte occupato dalle truppe eritree, giungono rarissime testimonianze della carestia. Nella zona sono infatti proibiti i cellulari, ma è trapelato che gli aiuti non arrivano nella zona controllata dagli asmarini e la gente sopravvive grazie alle scorte di fichi d'India piantati 170 anni fa da San Giustino de Jacobis che portò qui la fede cattolica. Sulla guerra oscurata cala un ulteriore velo. Venerdì Addis Abeba ha annunciato nuove misure restrittive contro media e social che trasmettono informazioni sulle battaglie, minacciando sanzioni contro giornalisti e blogger. In tv per decreto vanno insomma solo le immagini del premier Aby Ahmed, Nobel per la pace 2019, intervistato in divisa militare al fronte per guidare l'offensiva contro le forze tigrine. Che intanto diramano altre immagini di case del capoluogo Macallè bombardate dai droni poche ore dopo la visita dell'ambasciatore britannico spedito dal presidente della regione, Debretsien Gebremichael, a cercare un improbabile spiraglio di pace».

BOSNIA, L’INCUBO DI UNA NUOVA GUERRA

Il reportage di Fabio Tonacci dalla Bosnia per Repubblica. Torna l'incubo di una guerra dopo l’escalation di atti secessionisti del leader nazionalista serbo Milorad Dodik. Atti che minacciano gli stessi accordi di Dayton che sancirono la fine della guerra civile nei Balcani.

«All'ipotesi di un'altra guerra balcanica qui non vuol credere nessuno. E se non ci trovassimo nella Repubblica serba di Bosnia sarebbe una notizia confortante. Anche trent' anni fa, però, quando cominciarono i primi ammazzamenti dalle parti di Vukovar sul Danubio (maggio 1991) e quando i serbi di Sarajevo presero a scavare trincee nel quartiere vicino all'aeroporto (giugno 1991), da queste parti non ci credeva nessuno. Sappiamo poi come è finita: solo in Bosnia più di 100mila morti e due milioni di profughi. Dunque è da prendere con estrema serietà l'ultimo report dell'Alto rappresentate Onu Christian Schmidt, garante degli accordi di pace di Dayton siglati nel 1995. Non più tardi di un mese e mezzo fa, di fronte alla ricostituzione di un esercito indipendente deciso dai separatisti serbi, Schmidt ha avvertito il Consigio di sicurezza delle Nazioni Unite che, nella complicata terra dei Balcani, «il rischio di un nuovo conflitto civile è concreto». Eppure nella gelida Banja Luka si finge di non vedere, si nega, si parla d'altro. All'eventualità che l'escalation di provocazioni, atti e dichiarazioni secessioniste del sessantaduenne Milorad Dodik, componente serbo della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina, conduca a un altro conflitto non crede Bojan. È uno dei camerieri del Balkon, il più famoso e frequentato bar ristorante di Banja Luka, la capitale della Repubblica serbo-bosniaca. «Dodik è un bravo politico e sa quello che fa, nessuno qui pensa che ci trascinerà in un altro inferno», dice Bojan, mentre regge un vassoio con quattro bicchieri di rakija, il distillato locale col 70 per cento di contenuto alcolico. Sono le 5 del pomeriggio, il Balkon è pieno di giovani ed è avvolto da una cappa di fumo di sigaretta. Le mascherine per proteggersi dal Covid non le indossa nessuno. Un violinista suona per strada. Si va per negozi a fare shopping. La crisi diplomatica interessa poco. Che Dodik abbia incassato il sostegno della Serbia e della Russia di Putin, cosa che dà sostanza e credibilità ai suoi proclami, interessa anche meno. «Se la Ue ci darà sanzioni, proclameremo l'indipendenza e ci difenderemo da soli», ha detto il leader serbo. «Se ci risponderanno minacciando l'intervento Nato chiederemo ai nostri amici, che ci hanno fatto capire che non ci abbandoneranno, di aiutarci ». Sfide e allusioni, per testare fin dove può tirare la corda. L'analista politico ed ex diplomatico Luciano Kaluza, che si professa «di sinistra e non nazionalista», ritiene lo scontro armato una possibilità remota. «Bojan non è un separatista - dice a Repubblica - sta solo difendendo la Srpska (la Repubblica serba, l'entità a maggioranza serbo-ortodossa che con la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza invece bosgnacca e croata, compone lo Stato, ndr ) dall'aggressione dei politici di Sarajevo che vogliono togliere potere ai serbi». A Banja Luka, la città che «sapeva di kerosene», come la ricorda durante la guerra Paolo Rumiz nel suo libro- reportage Maschere per un massacro, si tende a minimizzare. Se non addirittura a ribaltare la lettura che fanno a Bruxelles delle manovre spregiudicate di Dodik, già presidente della Srpska (2010-2018) e leader del partito nazionalista serbo maggioritario. Pochi giorni fa nove europarlamentari in rappresentanza di quattro partiti (Popolari, Verdi, Socialisti Democratici e i liberali di Renew) hanno scritto una lettera ai ministri degli Esteri dell'Unione per chiedere urgentemente sanzioni contro Dodik, e chiunque lo sostenga, per violazione dell'accordo di Dayton. «Siamo indubbiamente di fronte alla più seria crisi politica dai tempi della fine del conflitto», si legge nella lettera. «Il boicottaggio alla legge che punisce i negazionisti di Srebenica e dei crimini di guerra, la creazione di un esercito autonomo e le esercitazioni paramilitari vicino a Sarajevo dimostrano che Dodik sta portando avanti la sua agenda separatista, con il sostegno indiretto di Serbia e Russia e nell'assenza di risposta da parte dell'Unione Europea». La Commissione, sulla questione Bosnia, continua a essere afona. Dodik paventa la secessione da almeno 15 anni, però a questo giro alle parole sono seguiti i fatti. La temperatura si è alzata quando l'Alto rappresentante Onu quest' estate ha imposto, nell'ordinamento normativo bosniaco, un emendamento che punisce i negazionisti del genocidio di Srebrenica (8mila civili massacrati) e tuttora messo in discussione da una parte dei nazionalisti serbi. «C'è chi sostiene che non sia mai avvenuto e che le vittime erano già morte prima - spiega l'analista di Ispi Giorgio Fruscione - altri dicono che le cifre dei morti siano molto inferiori, altri ancora che si sia trattato di una normale operazione militare». La legge sul negazionismo è stata il pretesto per Dodik per riaffermare la dannosità del cappello Onu, annunciare la messa al bando della magistratura, delle forze di sicurezza e dell'intelligence bosniache, e avviare l'escalation. Non prima, però, di essersi incontrato l'11 ottobre a Belgrado con il ministro degli Esteri russo Serghej Lavrov in occasione del summit dei Paesi non allineati. Pochi giorni dopo, il 20 ottobre, il primo atto concreto: l'assemblea dell'entità serba ha approvato la creazione di un'agenzia per l'approvvigionamento dei medicinali. Autonoma, separata dalle istituzioni di Sarajevo, serb only . «Non voglio né la guerra né la secessione», va ripetendo Dodik. «Ma l'autorità dei serbi deve rimanere ai serbi». Vojin Mijatovic, che nell'assemblea di Banja Luka siede sui banchi dell'opposizione nelle file dei socialdemocratici, conosce bene Dodik, non foss'altro perché ne è stato il braccio destro per anni. «È uno degli uomini più ricchi d'Europa - sostiene Mijatovic, fornendo una lettura diversa dei reali motivi della crisi diplomatica - e il vero intento del suo attivismo è coprire più di vent' anni di malefatte. Teme di essere arrestato».  

I GIOVANI ALFIERI DELLA REPUBBLICA

Il Capo dello Stato ha premiato ieri 30 giovani italiani che, lo scorso anno, si sono contraddistinti per i più svariati meriti civili e sociali. Alessia Guerrieri per Avvenire racconta la storia di Giulia, maturanda in un Liceo romano.

«All'arrivo della telefonata dalla scuola per l'inattesa notizia, la madre dall'altro capo della cornetta ha pensato venisse contattata per gli esami di maturità che Giulia dovrà sostenere a giugno. Invece sentendo il motivo della chiamata «quasi non credevamo a quelle parole: io Alfiere della Repubblica. Sono sotto choc e devo ancora metabolizzare questo riconoscimento per cui sono felicissima e onoratissima. I miei si sono anche commossi, nessuno poteva aspettarsi una gioia del genere ». Giulia Galieti, 18 anni, è tra i trenta Alfieri nominati ieri da Mattarella, per il suo impegno in favore della sensibilizzazione alla vaccinazione nonostante ripeta spesso: «Non penso di aver fatto nulla speciale». La studentessa del liceo artistico Cine-Tv 'Roberto Rossellini' di Roma, lo scorso anno, in fase di avvio della campagna della vaccinazione, ha realizzato un video con la tecnica dell'animazione per spiegare i vantaggi del siero anti Covid. E invogliare le persone più perplesse e timorose sugli effetti della vaccinazione a farla senza paura. La scintilla creativa «mi è venuta guardando al tg le prime manifestazioni no vax a Milano in cui venivano distrutte vetrine e auto - dice - lì mi sono chiesta cosa potevo fare io nel mio piccolo per aiutare ad uscire da questo periodo e tornare alla normalità». Il vaccino non è una scelta, questo il titolo della clip di due minuti in cui Giulia racconta la storia di una persona all'inizio contraria alla vaccinazione, ma poi convinta ad accettarla dalle sofferenze e dalla morte di altre persone di sua conoscenza. «All'inizio il video ha girato nelle chat di famiglia e tra gli amici - spiega ancora Giulia - poi mia zia che si occupa di vaccini ha cominciato a portarlo come esempio nelle conferenze che organizza nelle scuole. La realtà è che il vaccino è l'unico strumento che abbiamo per tornare alla normalità, per evitare chiusure e dad». Anche tra i compagni di classe e di scuola, il lavoro di Giulia è stato talmente apprezzato che campeggia sulla homepage dell'istituto che frequenta. «Non sono una scienziata, non ho competenze mediche per convincere a fidarsi della scienza, ma volevo dire la mia soprattutto ai miei coetanei a cui il video era indirizzato in principio», aggiunge, perché è convinta che le cose possono cambiare solo se «ognuno nel proprio quotidiano fa qualcosa di buono. Con piccoli gesti si può fare la differenza, può sembrare una frase fatta ma è la verità. Oggi sono ancora più contenta di averlo fatto».

CL: INTERIM DI PROSPERI, UN ANNO PER IL RINNOVO

Come Presidente ad interim Davide Prosperi sarà alla guida di Cl per i prossimi anni. Lo stesso Prosperi, chiamato a suo tempo da Carrón alla Vice presidenza, lo ha annunciato ieri con una lettera ai membri della Fraternità. Ora Cl ha di fronte un anno in cui elaborare nuove regole e metodo di definizione della nuova dirigenza.

«Davide Prosperi è il nuovo presidente ad interim di Comunione e liberazione. Succede a don Julián Carrón che si è dimesso il 15 novembre scorso per favorire il cambio di guida chiesto da papa Francesco a tutti i movimenti. Prosperi fa sapere che il cardinale Farrell gli ha riconosciuto «i pieni poteri dell'incarico fino a quando si svolgeranno nuove elezioni, come prevede il Decreto generale promulgato l'11 giugno 2021 ed entrato in vigore a far data dall'11 settembre scorso. Ciò non potrà avvenire prima che siano trascorsi dodici mesi dalla data di inizio del mio incarico». Non solo. Prosperi fa sapere che Cl avrà un nuovo statuto il quale sarà approvato dietro la supervisione del Vaticano: per preparare le elezioni del nuovo presidente, infatti, il primo atto consisterà nel via libera a un nuovo regolamento. «Il processo di revisione - sottolinea - dovrà prevedere anche consultazioni interne alla Fraternità. Lo scopo è far sì che le nuove norme riflettano nel modo più adeguato possibile l'originalità del nostro carisma e quindi l'identità specifica della Fraternità di Cl all'interno della Chiesa».

Leggi qui tutti gli articoli di domenica 28 novembre:

https://www.dropbox.com/s/g1dmu3hmfs7o245/Articoli%20la%20Versione%20del%2028%20nov.pdf?dl=0

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