La Versione di Banfi

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Omicron, chiusi i confini

alessandrobanfi.substack.com

Omicron, chiusi i confini

Decisione drastica per bloccare la diffusione della variante. La Ue furiosa. Da oggi obbligo di vaccini per scuole e forze di polizia. Fico convocherà i grandi elettori. Sedia vuota per Navalnyj

Alessandro Banfi
Dec 15, 2021
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Omicron, chiusi i confini

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Mario Draghi tira dritto anche rispetto agli altri Paesi europei, suscitando l’ira di Bruxelles. L’Italia chiude i confini a chi proviene dalle altre nazioni della Ue, con controlli anche per chi ha il Green pass. Il motivo è evidente: salvaguardarci il più possibile da Omicron che sta galoppando nel resto del continente. Gli scienziati hanno avvertito che le prime due dosi non bastano ad arginare il contagio (anche se sono salva vita nella maggior parte dei casi), dunque il Green pass ha un valore relativo, se si vuole davvero fermare la variante sudafricana. Fra i pdf trovate l’approfondimento sul Corriere del DATAROOM di Gabanelli e Ravizza: spiega com’è cambiato il virus.

Non solo dunque stato d’emergenza prolungato ma è arrivata una nuova stretta dal Consiglio dei Ministri. Ieri record di decessi in Italia dopo tante settimane con numeri più bassi: 120. Ma impressiona paragonare le cifre di un anno fa. I contagi sono pressoché identici (intorno ai 12 mila), ma oggi terapie intensive e morti sono un terzo, perché dodici mesi fa non c’erano ancora i vaccini. La campagna di Figliuolo mantiene un ritmo sostenuto, siamo di nuovo sulle 500 mila dosi al giorno. Oggi primo giorno di obbligo vaccinale per personale scolastico, forze dell’ordine e militari.

La Giunta del Senato ieri ha votato contro l’operato dei Pm che hanno indagato su Open: sarebbero andati contro la Costituzione, entrando nelle chat del senatore Renzi. Il Fatto di Travaglio si straccia le vesti perché anche i 5S si sono astenuti (oltre che i Pd): un “suicidio”, sostiene. Per il resto la politica è tutta concentrata sul Quirinale: ieri il presidente della camera Fico ha confermato che spedirà la convocazione ai grandi elettori il 4 gennaio. Se, come da prassi, il preavviso sarà di 14 giorni, la prima votazione è già possibile per il 18 gennaio.

Dall’estero: la Ue vuole rivedere le regole sui migranti, proprio mentre esce il quinto rapporto di Migrantes sugli arrivi in Italia. Il rischio è che venga indebolito il diritto d’asilo a tutto vantaggio di un’Europa fortezza che si arrocca dietro muri e fili spinati. In Francia Macron comincia a temere la rivale Pécresse, candidata dai gollisti alle prossime presidenziali. David Sassoli non si presenterà per il rinnovo della carica a Presidente di Strasburgo, proprio per l’opposizione dello stesso Macron, intanto scrive a Repubblica, ricordando la battaglia di Navalnyj, che ha vinto il premio Sacharov. In Libia è probabile un rinvio delle elezioni, che dovrebbero svolgersi il 24 dicembre. Interessante approfondimento di Avvenire a 50 anni dal primo libro sulla Teologia della Liberazione.

È disponibile un nuovo episodio da non perdere del mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. È intitolato: LA SCUOLA DI VITA. Protagonista è Rosalba Rotondo, Preside dell’istituto intitolato a Ilaria Alpi e Carlo Levi, elementari e medie nel cuore del quartiere Scampia di Napoli. La scuola conta 1300 studenti di cui 300 di etnia Rom. Un esempio di vera integrazione, premiato anche in Europa. Un piccolo miracolo dove la cultura e l’istruzione contendono ogni giorno il terreno al degrado e alla criminalità. Rosalba interpreta tutto questo in modo vitale, vulcanico, quasi esplosivo. Così facendo, porta la sfida nel cuore dei ragazzi, nelle famiglie, fin nei campi rom di Giugliano. Un racconto da non perdere. DOMANI L’ULTIMO EPISODIO DELLA SERIE. Cercate questa cover…

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Trovate questa VERSIONE ancora nella vostra casella di posta entro le 8. Mi scuso ancora per ieri mattina, perché la spedizione non si è perfezionata alle 7.47, ora in cui ho lanciato la rassegna nei social. L’ho poi rispedita in tarda mattinata, quando mi è stato segnalato l’inconveniente tecnico. Mi ha scritto giustamente Roberto Perrone che mi sono comportato come la Uefa per il sorteggio di Champions: ho incolpato il server. Spero che il ritardo della mia Versione abbia creato meno conseguenze del pasticcio calcistico. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera racconta l’Italia che ferma gli accessi in chiave anti pandemica: Frontiere chiuse ai no vax. Il Manifesto è ironico: No pass lo straniero. La Repubblica sottolinea lo scontro con Bruxelles: L’Italia si blinda, ira Ue. Quotidiano Nazionale è dello stesso avviso: Stretta sui viaggi, il governo irrita la Ue. Il Mattino si preoccupa del Natale: Covid, la stretta delle Feste. Il Messaggero è sempre sul contrasto con la Ue: L’Italia: tamponi alle frontiere. Ma l’Europa non è d’accordo. La Stampa riporta le rassicurazioni del Commissario: Figliuolo: “Natale sicuro, ecco il piano”. Il Giornale polemizza col governo: Stato d’emergenza su tutto tranne che sulle tasse. La Verità è sconsolata: Pass o no, è sempre emergenza. Anche Avvenire va sul quadro generale: Il Covid non cede rimane l’emergenza. Domani tematizza le violenze in carcere che arrivano in aula: Inizia a Santa Maria Capua Vetere il processo alla mattanza di stato. Il Fatto è furioso per il voto in Senato che mette in mora i Pm anti Open: Salvati Renzi&Cesaro. Il M5S tenta il suicidio. Libero legge i dati dell’ultimo rapporto Migrantes: Immigrazione. Con Salvini meno morti che con la Lamorgese. Il Sole 24 Ore riporta i numeri dei nuovi acquisti immobiliari dei giovani: Boom dei mutui casa agli under 36.

EMERGENZA OMICRON. L’ITALIA CHIUDE LE FRONTIERE

L’Italia chiude i confini ai No vax. Ci saranno test e quarantena per chi entra. L’ordinanza è valida per gli arrivi da tutti i Paesi della Ue. Il Green pass rafforzato in zona bianca è stato prolungato fino al 31 marzo 2022. La cronaca di Sarzanini e Guerzoni per il Corriere.

«L'Italia si blinda in vista delle festività natalizie e, per arginare la corsa della variante Omicron, alza il muro difensivo alle frontiere. Non solo: il governo decide di prorogare fino al 31 marzo il green pass rafforzato in zona bianca che scadeva invece il 15 gennaio. Una stretta ulteriore decisa per tentare di frenare la risalita della curva epidemiologica. Chi arriva in Italia da tutti i Paesi dell'Unione Europea e non è vaccinato dovrà rimanere in quarantena per cinque giorni oltre ad effettuare un test antigenico nelle 24 ore precedenti all'ingresso, oppure molecolare nelle 48 ore precedenti. Il test diventa obbligatorio anche per i vaccinati. Le nuove regole contenute nell'ordinanza firmata nel tardo pomeriggio di ieri dal ministro della Salute Roberto Speranza e condivisa dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, entrano in vigore nel giorno in cui il governo decide di prorogare lo stato di emergenza fino al 31 marzo 2022 e saranno valide fino al 31 gennaio 2022. Norme severe, non troppo diverse da quelle già in vigore per gli arrivi dai Paesi extra-europei, che però suscitano l'ira della Commissione Ue tanto che la vice presidente Vera Jourová in serata è categorica: «L'Italia deve spiegare». Speranza, preoccupato per l'impennata di casi di Covid-19 e per l'aumento dei morti, è però convinto che sia «necessario e urgente» rinnovare le misure restrittive per chi arriva dai Paesi extraeuropei e aumentare il rigore anche nei confronti dei viaggi dall'Europa. Paesi Ue Il provvedimento prevede che chi arriva da «Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria, Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera, Andorra, Principato di Monaco» e non è vaccinato rimanga cinque giorni in isolamento fiduciario. Chi invece ha ricevuto il vaccino deve aver effettuato il test prima di entrare in Italia. La regola vale anche per gli italiani che vanno all'estero al momento di tornare in patria. Paesi extra Ue Per chi arriva da tutti gli altri Stati, italiani compresi, se non si è vaccinati la durata della quarantena è di dieci giorni. Chi invece è vaccinato deve effettuare «un test molecolare nelle 72 ore antecedenti all'ingresso» oppure «un test antigenico nelle ventiquattro ore antecedenti all'ingresso». Per chi arriva «dalla Gran Bretagna e dall'Irlanda del nord il test molecolare deve essere effettuato nelle 48 precedenti all'ingresso». Corridoi Covid free Rimane la possibilità di andare all'estero in sicurezza per motivi turistici attraverso i corridoi Covid free «operativi verso Aruba, Maldive, Mauritius, Seychelles, Repubblica Dominicana, Egitto (limitatamente alle zone turistiche di Sharm El Sheikh e Marsa Alam)». Divieti dall'Africa È stato invece prorogato fino al 31 gennaio il divieto di ingresso per chi arriva da Sudafrica, Lesotho, Botswana, Zimbabwe, Malawi, Mozambico, Namibia, eSwatini. I cittadini italiani con «residenza anagrafica in Italia precedente al 26 novembre, unitamente ai figli minori, al coniuge o alla parte di unione civile» possono entrare ma devono effettuare la quarantena di dieci giorni e comunque presentare l'esito negativo di un tampone molecolare effettuato nelle 72 ore precedenti all'ingresso».

Draghi ha deciso di tirare dritto e di andare oltre le regole europee. La partita infatti è una corsa contro il tempo. Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«C'è un report che ha convinto il governo ad alzare una barriera ancora più robusta alle frontiere, imponendo test anche ai vaccinati con il Green Pass in tasca. E a farlo anche a costo di irritare Bruxelles. È una "flash-survey" condotta dall'Istituto superiore di sanità per fotografare la diffusione della variante Omicron nel Paese. Il campionamento, effettuato in tutte le venti Regioni italiane durante 24 ore, sarà pubblicata oggi e presenta due dati solo apparentemente in contraddizione. Primo: la circolazione del nuovo virus è al momento poco sotto l'1%. Secondo: i casi sono cresciuti in pochi giorni in modo esponenziale. Fino all'altro ieri, infatti, ne erano stati censiti una trentina in totale, adesso oltre cento in un giorno. Per questo, non c'è tempo da perdere. E per questa ragione, il governo andrà dritto con le nuove regole decise dal ministero della Salute. Facendo però attenzione a non entrare mai in polemica con la Commissione. È evidente, il tema esiste e nessuno ai vertici dell'esecutivo lo nega. Fissare tamponi in ingresso anche per chi ha il passaporto vaccinale sembra un passo indietro rispetto alla filosofia seguita finora nell'Unione europea con la carta verde. Ma anche Bruxelles, in fondo, ammette che la scelta è "legale". Roma dunque non tentenna. E lo fa in nome di una necessità: comprare tempo. Sfruttare il vantaggio rispetto ad altri partner continentali, già invasi dal nuovo ceppo. Coprire nel frattempo con la terza dose, unico argine reale alla Omicron, la fetta della popolazione più a rischio. Ancora più brutalmente: salvare quante più vite possibile. Il ragionamento è semplice: proprio perché la Omicron corre, ma per ora si attesta su percentuali non maggioritarie, non c'è un secondo da perdere. Diventerà dominante, ormai è una certezza. Ma anche solo rallentare questa curva con test alle frontiere risulta decisivo. Ogni dieci giorni guadagnati, l'Italia è capace di somministrare 4,5 milioni di booster, mettendo al sicuro cittadini che altrimenti - con due dosi - avrebbero una significativa probabilità di contagio. E poi c'è dell'altro. La diplomazia prevede che nelle prossime ore altri Paesi europei seguiranno l'esempio italiano. Il Portogallo l'ha già fatto, diverse capitali inaspriranno i controlli, determinando quella reciprocità "di fatto" che al momento manca. È una corsa contro il tempo, come detto. E in questo sprint Draghi cerca di difendere con ogni mezzo la campagna per il booster. È la ragione per la quale ieri, in consiglio dei ministri, ha stroncato con poche e taglienti parole le lamentele dei ministri leghisti, critici sulla proroga dello stato d'emergenza. «A un certo punto - ha alzato la mano Giancarlo Giorgetti - dovremo porci il problema di andare oltre questa situazione eccezionale. Non possiamo continuare così all'infinito». Il premier ha ascoltato, poi ha replicato: «In futuro torneremo ad analizzare i dati e decideremo di conseguenza. Ma al momento non esistono le condizioni per non rinnovare lo stato d'emergenza». Non esistono margini, per il momento. Ed è presumibile che non ci siano neanche nelle prossime settimane. A Natale, infatti, si prevedono almeno trentamila casi al giorno. E i morti, ieri 120, sono destinati a crescere. È la ragione per la quale Draghi potrebbe riunire la prossima settimana i capidelegazione per una nuova cabina di regia. Un appuntamento ancora non fissato, ma che potrebbe servire a valutare i dati raccolti sulla Omicron - quelli che saranno resi noti oggi e quelli che arriveranno nei prossimi giorni - per stabilire se procedere con nuove misure. Ieri, intanto, l'opzione di imporre le mascherine all'aperto per il periodo natalizio è stata congelata. La richiesta era giunta da Maria Stella Gelmini, a nome delle Regioni. Per il premier, però, la soluzione migliore passa da una decisione autonoma dei sindaci e dei governatori, sul modello di quanto già stabilito in città importanti come Roma e Milano. Anche in questo caso, il tempo stringe: se un territorio entra in zona gialla, le mascherine per strada diventano comunque obbligatorie. Sul tavolo, infine, resta anche la possibilità di rafforzare il Super Green Pass - il cosiddetto 2G - estendendolo a trasporti locali, treni, aerei e ai negozi al dettaglio».

NO VAX, PERCHÉ MANCA LA FIDUCIA?

Marina Corradi su Avvenire si chiede che cosa sta succedendo nel nostro Paese: perché così tante persone non si fidano dei vaccini? Fino al punto di morire in ospedale, rivendicando la scelta No vax?

«Leggi di questi no-vax irriducibili che, pure ricoverati in gravi condizioni, strappano le mascherine a medici e infermieri, o rifiutano il ricovero. Di gente che con 38 di febbre e i sintomi del Covid va in un supermercato, e poi se ne vanta su Facebook. Per dimostrare cosa? Che il virus non esiste? Che i morti negli ospedali sono finti? Se cerchi di capire le ragioni no-vax sul web, vieni travolto da ponderosi studi di guru americani che fatichi a leggere, tanto elevata è la barriera di un'arrabbiata ideologia. Amici intelligenti, colti, che hanno aderito a 'quel'partito, ti sono di colpo distanti. Una psicosi collettiva, è stato detto. Ma quando un no-vax che non respira arriva a rifiutare le cure, sembra che ci sia dell'altro. Se sei grave e rifiuti le cure, vai a morire. Una determinazione talmente assoluta da far pensare che il pensiero no-vax sia in realtà un credo. Solo per qualcosa cui ti affidi totalmente, rischi di morire. L'idea novax è dunque un credo? Piuttosto, un non-credo. Non credo nel governo, non credo ai medici, non credo nelle statistiche di malati e morti. Non credo nei giornali, tutti venduti, né alla televisione. Non credo nemmeno ai miei parenti e amici che cercano di convincermi. Non credo insomma a nessuno, e soprattutto alla medicina ufficiale. Questo non-credo, declinato per mesi da minoranze virulente, da un lato meraviglia, perché sembra la prima rivolta di piazza contro la Scienza, dal positivismo in poi. Dall'altro inquieta, perché una sfiducia nel prossimo eretta a sistema non porta da nessuna parte. Tutta la nostra vita è un continuo fidarci: ci fidiamo di chi ha costruito la nostra casa, dei maestri dei figli, dei conduttori dei treni, dei produttori di alimentari. Beviamo l'acqua dal rubinetto perché ci fidiamo del prossimo, crediamo che non voglia avvelenarci. Gli esseri umani stanno insieme nel nome della reciproca fiducia. E invece di colpo queste vistose barricate, e alcuni ultras pronti persino a morire per il loro non-credo. Come è potuto succedere? Una prima radice stava forse nella difficoltà del rapporto medico-paziente, ben anteriore alla pandemia. Medici frettolosi, o percepiti come tali, talmente specializzati da guardare solo l'organo di loro competenza, come se il paziente non fosse uno solo. Medici, insomma, sentiti come ormai incapaci di guardare il malato come un uomo. C'era così, già prima del Covid, non poca insofferenza di pazienti che si rivolgevano a ogni tipo di cura alternativa, valida o no. Forse il primo humus dell'idea no-vax sta in un precedente deteriorato rapporto con i medici, che solo dopo il Covid sono stati di nuovo chiamati eroi: quel dubbio per cui cominci a cercare sul web e trovi di tutto, promesse, terapie improbabili, santoni. Infine incappi in un guru magari sconosciuto, ma perfettamente convincente. Lui sì che sa tutto sul Covid: curatevi a casa con l'aspirina, spiega, eccetera. E tanto più quel sito è remoto e nascosto, tanto più ci si convince di aver trovato finalmente chi dice il vero. A 'esperti' di ogni tipo si crede in maniera cieca, oltre ogni evidenza. Il web ha generato un impazzimento del sapere, che non ha più gerarchie e né garanzie? Basterebbe, forse, avere un medico di famiglia di cui ti fidi, perché ti ha sempre curato bene. Se quel medico ti spiega le ragioni del vaccino, a lui credi. Credi alla sua faccia, alla vostra amicizia. A un uomo. La pandemia del non credo, gran fragore di voci lontane e incontrollate, denuncia un problema fra gli uomini del XXI secolo: hanno ogni sapere a disposizione, ma non sanno distinguerli. Sospettano nemici ovunque. Vorrebbero, ma non lo sanno, la faccia di un uomo, di cui fidarsi».

IL CALO DELLE NASCITE: COVID E NON SOLO

Calo di 20 mila nati in Italia nell’ultimo anno, mentre l'età media del parto sale a 31,4 anni. La fotografia dell’Istat. Rosaria Amato per Repubblica.

«Nel 2020 in Italia sono nati 15 mila bambini in meno rispetto al 2019, ma nel 2021 il calo potrebbe anche arrivare a 20 mila. Già lo scorso settembre, rileva l'Istat, si contavano 12 mila 500 nascite in meno, una riduzione quasi doppia rispetto a quanto era avvenuto nel 2020. Perché visto che il Covid si è abbattuto sull'Italia nel febbraio dell'anno scorso, il calo del 2020 è da attribuire agli effetti della pandemia solo da novembre in poi. Le ragioni, per il resto dell'anno, sono quelle che, a partire dal 2008, ci hanno portato a ridurre sempre di più il numero di figli per donna. E che già quest' anno porteranno il numero dei bambini nati sotto i 400 mila annui, così quello della popolazione crolla sotto i 59 milioni di abitanti. Intanto, già nel 2019 il numero delle donne in età fertile (tra i 15 e i 49 anni) era sceso di un milione rispetto al 2008. Le difficoltà economiche, inoltre, spingono i giovani a rimanere in casa con i genitori sempre più a lungo: già prima del Covid, rilevava sempre il rapporto Istat, oltre il 56% dei giovani tra i 20 e i 34 anni viveva stabilmente con mamma e papà. Adesso va anche peggio: i dati del Report sulla natalità mostrano che a rimandare i figli a un momento non ben definito, sono proprio le donne più giovani. In Italia si arriva al parto tardìI: l'età media per la nascita del primo figlio nel 2020 è di 31,4 anni. Ma nell'unico momento di ripresa che si è avuto quest' anno - a marzo (più 4,5%, seguito da un più 1% ad aprile e poi è tornato il segno meno) per effetto delle "aperture" estive, che ci avevano illuso di esserci lasciati il Covid alle spalle - a partorire sono state soprattutto le italiane tra i 35 e i 44 anni, le giovani hanno aspettato e le straniere pure. Eppure, negli anni 2000, ricorda Cinzia Castagnaro, una delle autrici del Report, sono state proprio le straniere a tirare su il numero delle nascite: «Nel 1995 avevamo raggiunto il minimo storico del numero medio di figli per donna, 1,19. Poi però all'inizio degli anni 2000, grazie anche al contributo delle straniere, la fecondità ha ripreso ad aumentare portando nel tempo a un'inversione tra Nord e Sud, perché è nel Settentrione che la presenza straniera è più radicata. Dal 2012 è sceso per la prima volta il numero dei nati con almeno un genitore straniero». Con la pandemia l'effetto scoraggiamento sugli stranieri è anche maggiore: a novembre e dicembre 2020 il calo delle nascite è dell'11,5% contro il 9,2% degli italiani, e nei mesi successivi la forbice si allarga. E nel frattempo però il numero di figli per donna di cittadinanza italiana è di 1,17, il più basso di sempre. Includendo anche le straniere si arriva a 1,24. Se continua così, prevede l'Istat, a metà del secolo in corso i morti saranno più del doppio dei nati. A non nascere nel 2020 sono ormai anche i "primi figli" (se ne contano ottomila in meno). Non solo i secondi o i terzi. Tra le donne nate nel 1980 una su quattro non ha figli».

BOLLETTE, NUOVO INTERVENTO ANTI RINCARI

La manovra economica: il governo azzera i rincari in bolletta alle famiglie più povere. In Consiglio dei ministri anche aumenti per gli insegnanti e un fondo contro i disturbi alimentari. La cronaca del Corriere.

«Meno Iva e meno oneri sulle bollette di gas e luce, soprattutto per le famiglie fragili. E possibilità di rateizzarle per le imprese. Il governo ha deciso come spendere i 3,8 miliardi stanziati in manovra - in due tempi - contro l'impennata del costo di elettricità e gas. Il punto di caduta - discusso ieri in Consiglio di ministri - finirà nel maxi emendamento alla legge di bilancio attes o per oggi in Senato. Dentro c'è la ripartizione del fondo da 8 miliardi per tagliare le tasse, concordata con i partiti di maggioranza, tra Irpef, Irap e decontribuzione per i redditi bassi. Oltre alla norma "Salva-Napoli": 150 milioni in soccorso dei Comuni in pre-dissesto se avviano il risanamento. In testa il capoluogo campano con un rosso record, segna la la Ragioneria, da 2,47 miliardi. Quasi la metà dei 3,8 miliardi contro il caro-bollette del primo trimestre 2022 - 1,8 miliardi - sarà usata per azzerare gli oneri generali di sistema per le utenze elettriche fino a 16,5 kilowattora, dunque quelle domestiche. Altri 600 milioni verranno impiegati per ridurre l'Iva sul gas al 5% per tutti e dunque anche le società personali e le partite Iva, 500 milioni per azzerare gli oneri di sistema sul gas e 900 milioni per annullare l'impatto degli aumenti di gas e luce ai clienti domestici fino a 8.264 euro di Isee o famiglie numerose e fragili. Il governo studia poi una forma di rateizzazione che consenta alle imprese di spalmare il costo delle bollette su più mesi. «Valutiamo come aumentare la quota di produzione nazionale del gas, a parità di consumi interni, riducendo le importazioni», dice Roberto Cingolani, ministro della Transizione Ecologica. «Non si tratta di trivellare di più, ma di usare di più i giacimenti che ci sono già, che sono chiusi e che possono essere riaperti in un anno». Nel frattempo il 2022 si presenta con rincari stimati del 20-25% per l'elettricità e del 35-40% per il gas. Le risorse stanziate in manovra tamponano la situazione del primo trimestre, ma il problema si riproporrà in aprile. Nel 2021 sono stati già stanziati - in quattro diversi provvedimenti - già 5,45 miliardi per calmierare le bollette. Per il 2022 ci sono 3,8 miliardi in manovra. La legge di bilancio - in attesa del maxi emendamento - vive in una fase di stallo. Arrivata in ritardo in Senato, la votazione in commissione Bilancio inizierà solo in questo fine settimana, con un approdo in Aula il 22 dicembre per il voto di fiducia. La Camera non potrà far altro che ratificare: voto previsto tra 27 e 30 dicembre. La dote a disposizione dei senatori per le modifiche è salita da 600 a 770 milioni. Questo consente il varo di un importante pacchetto per la scuola da 200 milioni destinati al personale Ata per il Covid e per aumentare gli stipendi degli insegnanti, allineandoli agli altri comparti pubblici, oltre a fondi per le scuole di infanzia e paritarie. C'è accordo anche sui fondi per la ricostruzione post-sisma nelle regioni dell'Italia centrale. Sull'esenzione da Tosap/Cosap per i tavolini all'aperto per altri tre o sei mesi. Sul Superbonus edilizio: il tetto Isee per le villette dovrebbe saltare, ma l'impatto economico dell'intero pacchetto dal 2023 in poi è impegnativo. In arrivo anche il ritocco dell'Ape sociale per ridurre da 36 a 30 anni la contribuzione degli edili e per ricomprendere nelle nuove categorie di lavori gravosi anche i "precoci", quanti hanno iniziato a lavorare da minorenni. Allo studio anche uno stanziamento importante per contrastare i disturbi alimentari che provocano 10 morti al giorno, quasi 4 mila morti all'anno. Scaramucce tra Forza Italia e Pd sulle cartelle fiscali. Non ci saranno nuove rottamazioni. Probabile un allungo a 180 giorni dalla notifica del tempo per saldarle».

È stata presentata ieri una ricerca Sociometrica-format research per l'associazione LibertàEguale sull’opinione che hanno gli italiani di Mario Draghi. La cronaca di Avvenire.

«Gli elettori italiani, in un ruolo o nell'altro, vorrebbero che Mario Draghi restasse saldamente al timone del Paese». Il 70% degli intervistati lo vorrebbe ancora a Palazzo Chigi, mentre il 12% preferirebbe la sua elezione a presidente della Repubblica. Solo il 18% vorrebbe che non rivestisse nessuno dei due incarichi. Dunque oltre l'80% vorrebbe un suo ruolo guida. È «il risultato forse più evidente» dalla ricerca 'Il fattore Draghi e la politica italiana. Il pensiero degli elettori', realizzata su un campione rappresentativo di 1.000 persone per l'Associazione LibertàEguale da un gruppo di lavoro di Sociometrica e Format Research diretto da Antonio Preiti (Sociometrica), Pierluigi Ascani e Gaia Petrucci (Format Research). La ricerca è stata presentata ieri alla Camera con gli interventi di Enrico Morando, Debora Serracchiani, Luigi Marattin, Carlo Calenda, Marco Bentivogli e Stefano Ceccanti. L'indagine, di tipo demoscopico, parte dalla centralità della figura di Draghi e dall'azione politica del governo in particolare sull'azione contro la pandemia, il Pnrr la questione, molto polarizzante, del Green pass, ma non si focalizza sulla valutazione del confronto politico. Emergono, comunque, dati da cui, sta scritto nel rapporto, «si rimane abbastanza sorpresi». Il gradimento per Draghi è, infatti, trasversale agli elettori delle forze politiche di maggioranza. Agli intervistati è stata chiesta un'indicazione del partito che voterebbero adesso se si tenessero le elezioni politiche. E tutti so- no nella media generale. Solo gli elettori di Fratelli d'Italia sono qualche punto sotto. Il massimo consenso per la permanenza di Draghi alla Presidenza del Consiglio arriva dagli elettori di Azione, con l'88%. Mentre nelle preferenze verso la sua eventuale elezione alla presidenza della Repubblica i consensi minori si registrano tra gli elettori di Forza Italia (9%), del M5s (11%) e di Azione (12%). Sui primi potrebbe pesare «l'opzione dell'elezione di Berlusconi». Inoltre «il massimo del consenso per Draghi al Colle arriva dai giovani (18-24 anni)». Il 57% degli italiani è contento dell'operato del governo, contro il 43% di scontenti. Il report sottolinea che «quanti dicono di essere to- talmente soddisfatti» sono gli elettori di Azione (40%), seguiti da Fi (31%) e Pd (22%). Fra chi esprime un giudizio nettamente negativo, invece, al primo posto non ci sono né gli elettori di Fdi, né della Lega (al secondo posto), bensì quelli più a sinistra (Articolo 1 e Sinistra italiana) dove i totalmente contrari arrivano al 44%. Per quanto riguarda la percezione politica di Draghi gli elettorati di Pd, Fi e Azione sono quelli che tendono maggiormente a vederlo come 'proprio', mentre la ricerca segnala «la minima 'auto-appropriazione' di Draghi fra gli elettori del M5s», solo l'1% ritiene che il premier «possa in qualche modo essere avvicinato» al Movimento. L'analisi guarda anche al giudizio sul 'carattere' di Draghi. Gli elettori di Fdi ne apprezzano «il senso di indipendenza », mentre «l'autorevolezza » viene rilevata soprattutto da Pd e Forza Italia, «che su Draghi sembrano avere visioni molto prossime e convergenti». Gli elettori della Lega ne valutano lo «stile riservato», mentre quelli di Azione apprezzano la «capacità decisionale». Infine, «gran parte delle accuse di 'autocrazia', eccesso di assertività e 'arroganza' » provengono dai contrari al Green pass».

INCHIESTA OPEN, AL SENATO VINCE RENZI

L'inchiesta Open al Senato subisce una battuta d’arresto, con l’astensione di Pd e 5S. La giunta ritiene infatti che i Pm abbiano violato le regole sulle chat di Matteo Renzi. La cronaca sulla Stampa.

«Voti favorevoli 14, tutto il centrodestra e Renzi, 4 astenuti, Pd e M5S, e 2 contrari, Grasso e De Falco. Con una maggioranza schiacciante, la Giunta per le immunità del Senato ha accolto la richiesta della forzista Fiammetta Modena di sollevare un conflitto di attribuzione contro l'acquisizione dei pm di Firenze che indagano su Open di alcune mail e chat di Matteo Renzi, all'epoca senatore. Per il centrodestra, e ovviamente per Renzi, le conversazioni erano "inviolabili" in quanto di un parlamentare in carica, e i pm avrebbero dovuto chiedere l'autorizzazione. L'ultima parola spetta all'aula, ma i voti fanno ipotizzare un sì al conflitto. Nonostante il Pd, con la responsabile Dem per la Giustizia Anna Rossomando abbia chiesto di acquisire i documenti che Renzi ha solo citato, ma che la giunta non possiede. Mentre Piero Grasso di Leu si è visto bocciare la pregiudiziale con cui chiedeva di attendere l'eventuale richiesta di autorizzazione dei pm di Firenze. Le conversazioni di Renzi sono finite agli atti dopo essere state acquisite presso terzi. Come l'imprenditore Vincenzo Manes, non indagato, cui l'ex premier aveva chiesto in una chat un passaggio per volare a Washington, e come Marco Carrai, storico braccio destro del leader di Italia Viva, una delle 11 persone indagate (insieme a Lotti, Boschi e Alberto Bianchi) dalla procura di Giuseppe Creazzo. Per Renzi e Modena la corrispondenza dei senatori è inviolabile e i giudici devono chiedere l'autorizzazione preventiva e non successiva come per le intercettazioni, anche casuali. Per i pubblici ministeri le conversazioni sono «documenti», perché acquisiti dopo il loro invio. L'ultima parola spetta alla Consulta. Ma tutto ciò potrebbe allungare i tempi dell'indagine e la Procura potrebbe congelare nel frattempo le richieste di rinvio a giudizio. Renzi, intanto, torna all'attacco: «La Giunta riconosce a larghissima maggioranza che esiste una violazione della Costituzione da parte dei pm fiorentini». E ancora. «In altri casi alcuni colleghi hanno chiesto di utilizzare l'articolo 68 della Costituzione per evitare il processo. Io no. Chiedo che si sanzioni il comportamento illegittimo e incostituzionale».

QUIRINALE 1. PARLA ANCORA LA MELONI

Venanzio Postiglione per il Corriere intervista Giorgia Meloni. Che spiega l’idea del Presidente “patriota”, formulata alla festa di Atreju.  

«Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia: ieri Corriere.it, ora sul giornale. Alla festa di Atreju tanti leader, molti messaggi. Qual è l'idea più forte? «Si chiamava il Natale dei conservatori, perché esiste un'alternativa al modello che le sinistre vogliono imporre alle società occidentali. Ci sono due grandi fronti che si contrappongono, uno è quello progressista e l'altro è quello conservatore, che noi vorremmo costruire anche qui e che Fratelli d'Italia si candida a guidare. E poi il messaggio che si può stare all'opposizione senza essere marginali, come baricentro di una politica che dialoga con gli altri. Ma anche la difesa delle tradizioni: c'era un mercato di Natale fantastico». Gli ospiti, certo. Però alla fine il suo discorso è stato molto identitario. Una scelta o una contraddizione? «Penso che le due cose siano una condizione dell'altra. Intanto è il luogo del confronto per eccellenza. È l'apertura tipica delle identità forti e definite, lei troverà sempre ad Atreju un pubblico rispettoso degli avversari. Però è curiosa questa deriva italiana per cui il rapporto tra i partiti o è la criminalizzazione o è l'inciucio. C'è una gamma intermedia molto ampia». (…) Sia Conte che Letta hanno detto che bisogna coinvolgere Giorgia Meloni nella scelta del presidente della Repubblica. Ma se deve essere un percorso condiviso, come si concilia con l'indicazione di Silvio Berlusconi? «Tendenzialmente si concilia, poi bisogna vedere quali sono i numeri e quali sono le disponibilità. Però quelli che dicono che bisogna coinvolgere gli altri in verità vogliono partire da una proposta propria. La sinistra pensa che la convergenza si debba e si possa trovare sempre e solo su persone del loro campo. Noi riteniamo che in questa fase il centrodestra abbia i numeri per contare e facciamo le nostre proposte. E credo che le nostre proposte debbano essere considerate con la stessa serietà e disponibilità. Noi abbiamo avuto quasi tutti i presidenti della Repubblica della stessa cultura politica». Berlusconi è l'unico candidato del centrodestra? «Beh, questo dipende dalle convergenze possibili, non solo da noi. È un'ipotesi che prendiamo in seria considerazione, ma poi ci sono i numeri e le disponibilità: non abbiamo da soli i numeri per eleggere un capo dello Stato di centrodestra e quindi bisognerà cercare le strade. Sia chiaro però che il centrodestra in questa fase può e deve contare. Cioè noi abbiamo, numeri alla mano, una grande occasione e non possiamo perderla. Nessuno pensi di poter eleggere oggi un capo dello Stato senza di noi, ma dobbiamo anche dimostrare di essere molto compatti». Se ci fosse l'accordo condiviso tra i partiti lei direbbe sì a Mario Draghi al Quirinale? «È chiaro che nell'attuale contesto sia una figura italiana autorevole, vista anche l'uscita di scena di Angela Merkel: potrebbe riequilibrare i rapporti di forza dopo lo strapotere franco-tedesco. L'Italia può difendere e rafforzare il suo peso in Europa. Mario Draghi giocherebbe questo ruolo oppure no? Non ho gli elementi per una risposta e credo che prima di tutto bisogna chiedere a Draghi che cosa intenda fare». Lei ha proposto il presidenzialismo: pensa a un modello francese o americano? «In Parlamento c'è una proposta di legge a prima firma della sottoscritta che propone il semipresidenzialismo alla francese. Ma siamo aperti a ogni discussione: si può disegnare un nostro modello. La mia proposta è che ci sia un presidente eletto che risponda direttamente ai cittadini per le riforme coraggiose di cui l'Italia ha bisogno. Io sono anche favorevole all'elezione di un'Assemblea costituente contestuale al voto per il nuovo Parlamento. Si può rifondare l'Italia assumendosi tutti la responsabilità di un assetto istituzionale più adeguato al Paese».

QUIRINALE 2. LA SPINTA PRESIDENZIALISTA FAVORISCE DRAGHI

Stefano Folli su Repubblica ragiona sui sondaggi e sostiene: la spinta per il presidenzialismo, tanto condivisa dagli italiani e rilanciata dalla Meloni, potrebbe nella sostanza favorire Mario Draghi.  

«Ilvo Diamanti ha stimato su questo giornale che oltre il 70 per cento degli italiani sono oggi favorevoli all'elezione diretta del capo dello Stato. Diretta vuol dire con votazione popolare come in Francia e negli Stati Uniti, anziché attraverso una procedura parlamentare come in Italia (o in Germania). È un tema antico che periodicamente si ripropone, mai però con risultati così clamorosi. E si capisce perché. Elezione popolare vuol dire eleggere una guida, una figura che assume su di sé la responsabilità di indicare e garantire l'indirizzo politico. Di fatto, il capo dell'esecutivo. E questo anche se esiste, come in Francia, un primo ministro destinato comunque a un ruolo subordinato. Non avrebbe senso infatti eleggere per via popolare il presidente della Repubblica e poi non conferirgli una serie di poteri conseguenti. Si creerebbe una contraddizione molto pericolosa - come spiegò a suo tempo Giovanni Sartori - tra un capo dello Stato investito del massimo di legittimazione (il popolo), eppure confinato a compiti di "garanzia" e di rappresentanza, e un presidente del Consiglio legittimato dal Parlamento, ma dotato di poteri reali. Non potrebbe funzionare e anzi creerebbe drammatiche contraddizioni. Infatti chi vuole l'elezione diretta - come di recente Giorgia Meloni - vuole anche la repubblica presidenziale o semi-presidenziale, secondo l'ipotesi francese. Il che implica una revisione costituzionale molto profonda che fino a oggi non è stata mai nemmeno tentata (il presidenzialismo fu sconfitto alla Costituente). Peraltro il sondaggio di Diamanti indica che l'opinione pubblica non gradisce più la procedura barocca attraverso cui si arriva a scegliere il presidente. Sappiamo che a suo tempo (1947-'48) tale percorso fu codificato nella Costituzione proprio perché si temeva l'emergere di un altro "uomo forte" - dopo l'esperienza del noto ventennio - nutrito nel disprezzo del Parlamento. Adesso tale percezione sembra mutata nel sentimento collettivo; ma ovviamente non in quello delle forze politiche che sono conservatrici per natura, a maggior ragione quando sentono di avvitarsi in una crisi senza fine. Una crisi di ideali e di prospettive. Eppure non è un caso che il tema del "presidenzialismo" sia ormai sul tavolo, benché posto in modo approssimativo e quindi confuso. Quando si scrive che l'eventuale ascesa al Quirinale permetterebbe a Mario Draghi di sommare nelle sue mani le funzioni oggi svolte da Mattarella, cioè dall'interprete scrupoloso della Carta, e "di fatto" quelle del presidente del Consiglio (carica che sarebbe assegnata a un fidato collaboratore), si compie un salto concettuale verso un nuovo assetto istituzionale. Un assetto diverso da quello immaginato dai costituenti e perciò bisognoso di una riforma costituzionale tutt'altro che banale. In tale riforma troverebbe posto anche l'elezione diretta del capo dello Stato. Un passaggio logico, in quel caso, dal momento che sarebbe bizzarro mantenere l'elezione parlamentare vecchio stile, diciamo così, in una Repubblica che si vuole trasformare in presidenziale. In altre parole, se stiamo ai dati di Diamanti, c'è una maggioranza del Paese che d'istinto vuole voltare pagina. Ciò significa che la spinta per Draghi presidente della Repubblica equivale alla spinta per una nuova Repubblica di tipo presidenziale. O semi-presidenziale. Forse qui è il "non detto" del confronto sul Quirinale».

QUIRINALE 3. PATTO LETTA-CONTE PER STARE INSIEME

Conte vuole mantenere una linea comune con Letta. Luca De Carolis per il Fatto:

«Per l'avvocato che vuole uscire indenne dal voto segreto del Quirinale, la soluzione migliore sarebbe lasciare tutti dove stanno: Mario Draghi a Palazzo Chigi e Sergio Mattarella al Colle. È questa, almeno per ora, la linea di Giuseppe Conte a un mese o poco più dall'apertura delle urne. Così ripete nei colloqui di queste ore, e così ha fatto capire nella prima riunione della cabina di regia del M5S sul Quirinale, lunedì sera: "dove però non si sono fatti nomi di candidati", assicurano. Con Conte c'erano i ministri, i vicepresidenti e i capigruppo del Movimento. E il più atteso era ovviamente Luigi Di Maio, che - raccontano - è intervenuto poco. A parlare è stato soprattutto Conte, che si sarebbe soffermato sull'esigenza che Draghi resti premier, visto il perdurare della pandemia e l'esigenza di attuare il Pnrr. "Ma i giochi veri si faranno dopo la manovra di Bilancio, con il confronto tra i leader" assicurano fonti vicine all'ex premier. Tradotto: preclusioni personali su Draghi non ce ne sono. Però è un fatto che la gran parte del Movimento ritenga un eventuale trasloco del premier al Quirinale la miccia per un voto anticipato che tra i 5Stelle tutti temono. Per questo Conte, seppure non contrario pregiudizialmente a Draghi, per adesso si attesta su un'altra rotta. Intanto ieri sera il presidente del Movimento ha partecipato alla presentazione del libro La legge della fiducia, alle radici del diritto alla Camera, assieme al segretario dem Enrico Letta. "Ritengo che sul Quirinale debba esserci sia il più ampio coinvolgimento di tutti partiti" ha sostenuto il leader del M5S , che ha poi aperto a un'intesa col Pd: "Non escludo affatto una iniziativa comune su una figura di alto profilo morale". Di sicuro Conte un nome nascosto non ce l'ha, e ieri lo ha ammesso: "Ho in mente un profilo, non un nominativo, e può essere un uomo o una donna". Ma a guidare il gioco sarà il centrodestra? "Nessuno ha numeri sufficienti per farlo" ha ribattuto l'ex premier».

MIGRANTI. LA UE CAMBIA SCHENGEN

La Ue cambia Schengen per intervenire sulla crisi dei migranti. La proposta è di nuovi controlli di Polizia alle frontiere per bloccare i movimenti secondari. E c’è un’obiettiva stretta sul diritto di asilo. Carlo Lania sul Manifesto.

«La stretta era nell'aria ma la crisi ancora in corso alla frontiera tra Polonia e Bielorussia, con alcune migliaia di migranti bloccati da mesi al gelo e per ora senza via d'uscita, ha dato a Bruxelles il pretesto per intervenire sul codice Schengen, il trattato che garantisce la libertà di movimento tra gli Stati membri e fino a ieri uno dei principi fondativi dell'Unione europea. Che adesso, se Parlamento e Consiglio daranno il via libera, viene cambiato inserendo nuovi limiti per svolgere controlli alle frontiere interne ma soprattutto ampliando la possibilità di limitare gli spostamenti dei migranti all'interno dell'Unione. Ufficialmente, infatti, le nuove norme serviranno per far fronte a emergenze come quelle dettate dai rischi legati al terrorismo o alla salute pubblica, come ad esempio la pandemia. Di fatto rappresentano l'ennesimo ostacolo, più volte chiesto da Paesi come la Francia a cui spetta il prossimo turno di presidenza Ue, ai cosiddetti movimenti secondari, gli spostamenti di quei migranti che una volta sbarcati cercano di trasferirsi in Nord Europa, in particolare verso Germania, Belgio, Olanda e la stessa Francia, che adesso avranno la possibilità di rimandarli più velocemente verso i Paesi di primo approdo, come Spagna e Italia. «I movimenti secondari sono qualcosa che sta succedendo e non è previsto dalla legge. Si tratta del movimento non autorizzato di migranti irregolari», ha spiegato il vicepresidente della Commissione Margaritis Schinas, che con la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson ha messo a punto la proposta di modifica del codice. «Quello che proponiamo oggi è stabilire una procedura in modo che quando una pattuglia intercetta qualcuno al confine, lo può trasferire nello Stato da dove proviene». La premessa è che ogni Stato potrà ripristinare i controlli alle frontiere per motivi eccezionali ma «prevedibili», come indicato dall'articolo 25 del trattato, fino a un massimo di due anni. Attualmente il temine è fissato in sei mesi, che però possono essere prorogati all'infinito. Cosa che di fatto rende definitiva la chiusura. «A oggi sono sei i Paesi Ue che hanno controlli interni. Andando avanti di sei mesi in sei, alcuni sono a sei anni di controlli interni», ha spiegato Johansson. Chi vorrà chiudere i confini dovrà «giustificare la proporzionalità e necessità della sua azione tenendo in considerazione l'impatto sulla libertà di circolazione». Prevista la modifica anche di un altro articolo, il 28, che oggi indica la possibilità di bloccare in maniera unilaterale le frontiere nel caso si verifichino eventi imprevisti per 30 giorni estendibili fino a tre mesi (oggi i limiti sono fissati in 10 giorni iniziali che possono essere prolungati fino a un massimo di due mesi). L'azione di contrasto dei migranti potrà avvenire però soltanto alle frontiere e la Commissione invita per questo gli Stati a organizzare pattugliamenti misti, con agenti di entrambi i Paesi confinanti. «L'unica area che copriamo con questo regolamento per quanto riguarda i movimento secondari - ha proseguito Schinas - è quella dei pattugliamenti congiunti al confine dove è la polizia che stabilisce effettivamente l'arrivo di un irregolare da uno Stato membro e può intervenire per rimandarlo indietro». Ma a Bruxelles si guarda anche a quanto accade ai confini orientali dell'Unione e in particolare all'uso dei migranti fatto dalla Bielorussia di Alexander Lukashenko. Per questo nel codice vengono introdotte nuove misure per contrastare «attacchi ibridi» come quelli visti ai confini di Polonia, Lituania e Lettonia. Tra queste il via libera a una limitazione dei passaggi alla frontiera e l'intensificazione dei controlli, ma anche la possibilità di estendere fino a quattro settimane il termine per la registrazione delle richieste di asilo che potranno essere esaminate direttamente alla frontiere. Un giro di vite inizialmente previsto solo per i tre Paesi interessati dalle manovre di Lukashenko ma che ora rischia di diventare valido per tutti gli Stati membri».

Presentato il quinto Rapporto sul Diritto d'asilo di Migrantes. Monsignor Perego sostiene: bisogna superare la «sindrome dell'emergenza » nelle politiche migratorie. Perché i numeri, delle richieste di asilo come degli sbarchi, sono i più bassi degli ultimi anni. La cronaca di Avvenire.

«Alla presentazione del V Rapporto 2021 sul Diritto d'asilo della Fondazione Migrantes, organismo Cei, monsignor Giancarlo Perego, arcivescovo di Ferrara e presidente di Migrantes, invita a un approccio più razionale e meno propagandistico del fenomeno, ormai strutturale nel mondo globale. A creare allarme, dice il segretario generale della Cei monsignor Stefano Russo, devono essere piuttosto «la violenza lungo la rotta balcanica, le navi con le persone salvate tenute fuori dai porti, i migranti bloccati al confine tra Bielorussia e Polonia». E i naufragi: ai primi di novembre 2021 la stima (minima) dei migranti morti e dispersi nel Mediterraneo ha già superato il totale del 2020, 1.559 contro 1.448. Con «circa 53mila arrivi» dal Mediterraneo «tra gennaio e ottobre 2021», ricorda infatti il Rapporto, si registra un numero di migranti che sono «sì, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo del 2020, ma anche un terzo degli oltre 159mila nel medesimo periodo del 2016 e meno della metà rispetto al 2017». Migrantes lancia quindi all'Europa e all'Italia un appello a «fare di più», superando i Centri di accoglienza straordinaria, e continuando invece sulla strada dell'accoglienza diffusa. Sul fronte rifugiati, i numeri incoraggerebbero ad un maggiore impegno: «Nel 2020 pandemico - si sottolinea - sono riuscite a presentare domanda d'asilo in Italia appena 26.963 persone, con un crollo del 38% rispetto al 2019». Meno solo nel 2013, circa 26.600 richiedenti. «Fra gennaio e agosto - continua il dossier - il 2021 ha registrato circa 30.500 richiedenti protezione, +93% rispetto allo stesso periodo del 2020, ma con una prospettiva di fine anno paragonabile alla situazione del 2018 e del 2019. Ben al di sotto, dunque, di quella del biennio 2016-2017, nel quale avevano chiesto protezione rispettivamente 124mila e 130mila persone». A preoccupare Migrantes, oltre alla condizione dei cittadini afghani, è l'escalation di detenzioni nei «campi di prigionia» in Libia: «Nel 2021, fino al 6 novembre la guardia costiera libica ha intercettato in mare e riportato in territorio libico 28.600 migranti, dato senza precedenti (dal 2016, il totale supera ormai le 100mila persone)». Per quanto riguarda l'Afghanistan, monsignor Russo, ricorda che a novembre la Cei ha firmato con il Viminale un protocollo per l'attivazione di un corridoio umanitario dal Pakistan e dal-l'Iran che porterà nel nostro Paese 1.200 profughi afghani. Nel Rapporto c'è spazio quindi anche per la denuncia della «criminalizzazione » delle Ong e per un quadro generale non positivo dal momento che «alle soglie dell'inverno 2021-2022» tanto nel Mediterraneo quanto sulla frontiera italo-francese, l'assistenza e l'accoglienza dei migranti «in transito» continua a pesare «in gran parte su volontari, società civile e risorse private, in un grave disinteresse istituzionale». Anche sulla scorta dell'enciclica Fratelli tutti e dell'ultimo viaggio apostolico del Papa a Lesbo, monsignor Perego chiede ancora all'Ue di attivare «politiche d'ingresso legale» che «ci aiuterebbero a chiudere finalmente i campi di prigionia in Libia e i campi di contenimento lontano dagli occhi e lontani dal cuore ai confini europei». I corridoi umanitari, che in 5 anni hanno portato circa 4mila persone in tutta Europa e poco più di 3.000 in Italia «sono un segno importante ma non sufficiente. E talora rischiano di risultare un alibi per le nostre responsabilità politiche».

UNA SEDIA VUOTA PER NAVALNYJ

David Sassoli Presidente del Parlamento europeo spiega in una lettera su Repubblica, che oggi nell’emiciclo di Strasburgo ci sarà una sedia vuota per Aleksej Navalnyj, oppositore di Putin, ingiustamente in carcere, e vincitore del premio Sacharov.

«Caro direttore, al Parlamento europeo esiste una sedia vuota. A volte ospita una foto, altre una bandiera. Solo talvolta riesce ad accogliere la persona a cui è destinata. Quella sedia spesso resta vuota perché in alcune parti del mondo le eroine e gli eroi dei valori democratici sono costretti all'isolamento fisico, alla carcerazione, alla segregazione. Quella sedia è la sedia del Premio Sacharov, che ogni anno celebra coloro che difendono con intenti e azioni straordinari i diritti umani e le libertà fondamentali. Oggi il riconoscimento va a Aleksej Navalnyj, esponente dell'opposizione russa e attivista anti-corruzione. Il Premio Sacharov per la libertà di pensiero è stato assegnato per la prima volta nel 1988 a Nelson Mandela (in quell'anno il premio andò, postumo, anche al dissidente russo Anatoly Marchenko). In quell'occasione, Mandela non poté ritirarlo perché incarcerato per la sua resistenza al regime segregazionista sudafricano. Quest' anno, neanche Navalnyj, che è prigioniero politico, potrà essere presente alla cerimonia. In sua vece si sarà la figlia Daria Navalnaya, a cui consegnerò il premio. Aleksej Navalnyj è un esempio di eccezionale coraggio. La sua insistente campagna contro la corruzione del regime di Vladimir Putin testimonia una strenua difesa dei valori democratici. Attraverso i suoi account social e le campagne politiche, ha contribuito a denunciare gli abusi interni al sistema riuscendo ad attivare milioni di persone in tutta la Russia. Intorno alla sua figura si sono mobilitate le forze che resistono al regime di Putin. Nell'agosto 2020, Navalnyj fu avvelenato e collassò a bordo di un aereo partito dalla Siberia e diretto a Mosca. Trascorse diversi mesi in convalescenza a Berlino per poi essere arrestato al suo ritorno a Mosca nel gennaio 2021. Attualmente sta scontando una condanna di tre anni e mezzo di prigione presso una colonia penale di alta sicurezza. Navalnyj ha iniziato un lungo sciopero della fame alla fine di marzo 2021 per protestare contro la mancanza di accesso alle cure mediche. Nel giugno 2021, un tribunale russo ha qualificato gli uffici regionali di Aleksej Navalnyj e la sua Fondazione anti-corruzione come estremisti e non ammissibili dalle autorità russe. A nome del Parlamento europeo, chiedo il suo rilascio immediato e incondizionato. L'anno scorso il Premio Sacharov è stato conferito all'opposizione bielorussa per la difesa del pluralismo e dello stato di diritto nel Paese, a dimostrazione della vicinanza rispetto alle istanze di libertà di quel popolo. Dato il periodo che stiamo vivendo, l'assegnazione del Sacharov a Navalnyj ha un ulteriore valore simbolico. Fra le tensioni con la Russia e la crisi migratoria sul confine tra Polonia e Bielorussia, il Parlamento europeo esprime attenzione e preoccupazione verso quell'area geografica, così vicina ai nostri confini eppure tormentata dalla violazione dei valori democratici. Valori nei quali crediamo e per i quali ci spendiamo. Certi principi, che sono universali, restano per noi prioritari. Va infatti ricordato che i diritti umani sono integrati nei trattati dell'Unione e nella Carta dei diritti fondamentali, nonché nelle politiche di relazioni esterne dell'UE, tra cui il piano d'azione per i diritti umani e la democrazia 2020-2024. Nelle sue relazioni con i Paesi terzi, l'Unione ha l'obiettivo di promuovere la democrazia, lo Stato di diritto, l'universalità e l'indivisibilità dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il rispetto della dignità umana, i principi di uguaglianza e solidarietà e il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni unite e del diritto internazionale. Il Premio rappresenta infatti per noi un'iniziativa faro nel quadro del nostro impegno in favore dei diritti umani, diritti che sono al centro dei nostri valori comuni. Diventa uno strumento di scambio e sostegno dato che la rete del Premio stesso permette ai vincitori di entrare in contatto e stabilire rapporti fra loro, perché la battaglia per il rispetto dei diritti umani deve essere una battaglia universale. Lasciatemi poi spendere una parola anche per le finaliste di quest' anno, le donne afghane, rappresentate da undici attiviste per i diritti umani, che hanno ricevuto una menzione speciale. Il Parlamento europeo non le dimentica e non dimentica la loro difficilissima situazione e la loro lotta per non perdere le conquiste acquisite negli ultimi venti anni. Infine voglio ricordare che diversi vincitori del premio Sacharov, tra cui Nelson Mandela, Malala Yousafzai, Denis Mukwege e Nadia Murad, sono stati successivamente insigniti anche del Premio Nobel per la Pace. I vincitori, ma anche i finalisti, del Premio Sakharov rappresentano alti esempi di lotta politica e civica. Sono e sono stati una costante fonte di ispirazione, non solo per le loro comunità. Questa occasione deve servire a dare risalto alla situazione di Navalnyj e alla sua ingiusta detenzione. E deve continuare a ricordarci che diritti e libertà vanno sempre tenuti vivi nella prassi della vita democratica. Per rendere dignità alla loro universalità e, quindi, a ogni cittadino».

SORPRESA GOLLISTA, ORA MACRON TEME PÉCRESSE

Il presidente Macron preferirebbe confrontarsi con l’improbabile Zemmour o l’eterna sconfitta Le Pen. Teme infatti l’ascesa della gollista Valérie Pécresse che potrebbe rivelarsi una rivale temibile per le presidenziali. Leonardo Martinelli sulla Stampa.

«Emmanuel Macron non l'aveva calcolata. Eletta a sorpresa candidata dei Repubblicani alle presidenziali dalle primarie di questo partito della destra moderata e dalla tradizione neogollista, Valérie Pécresse si sta rivelando un candidato temibile per lui. I due sono molto vicini politicamente (probusiness e proeuropeisti), ma Valérie ha una carta in più: è una donna. Nel 2007, nella sfida contro Nicolas Sarkozy, la socialista Ségolène Royal soffrì del fatto di esserlo, ma oggi in Francia le cose sembrano cambiate. Pécresse si definisce «un terzo di Thatcher e due terzi di Merkel». Sottovalutata a lungo dalla sua stessa formazione politica (giudicata troppo scolastica e prima della classe), i sondaggi la stanno premiando. Uno l'ha data addirittura vincente al ballottaggio finale contro Macron. In precedenza, per le altre inchieste erano l'attuale presidente e Marine Le Pen a superare il primo turno, con Macron (sempre) vittorioso al secondo. Contro la zarina dell'estrema destra, lui può far giocare la carta «tutti con me in difesa della democrazia», ma con Pécresse, una sua copia al femminile, è diverso. Ieri un nuovo sondaggio (di Odoxa-Mascaret) indicava che il 61% degli elettori di Macron ha una buona opinione di Pécresse. E che lei è, dietro all'ex premier Edouard Philippe, la seconda personalità politica più apprezzata dai francesi (dal 36%, dodici punti percentuali in più rispetto al mese precedente). Che i macronisti abbiano paura, è chiaro. Ieri Gabriel Attal portavoce del governo e molto vicino al presidente, ci è andato giù duro, affermando che Pécresse «ha la febbrilità come motore e l'ipocrisia come carburante». Lei fa notare che Macron è circondato solo da uomini (tutti uguali, urbani e superlaureati). Valérie, 54 anni, proviene da una famiglia dell'alta borghesia. Il padre dirigeva Bolloré Telecom, del gruppo della famiglia di Vincent Bolloré. Ha vissuto tutta la sua vita tra Neuilly-sur-Seine, sobborgo chic di Parigi, e Versailles, città simbolo della destra cattolica. Studentessa modello, ha preso la maturità con due anni di anticipo e si è poi laureata a Hec, rinomata scuola di business, e all'Ena, l'alta scuola di amministrazione. Ministra dell'Università e poi del Bilancio sotto Sarkozy, è presidente dell'Ile-de-France, la regione di Parigi, dal 2015. È sposata a un noto manager: hanno avuto tre figli. Questa è la grande occasione della sua vita».

6 GENNAIO, GLI AVVERTIMENTI A TRUMP

Il 6 gennaio anche Fox news avvertì Donald Trump: "Capitol Hill è una rovina". La commissione del Congresso, che sta indagando sulle violenze, rivela le chat: Donald Junior e le star televisive chiesero al Presidente di frenare i suoi ultrà. Giampiero Gramaglia sul Fatto.

«Nella giornata del 6 gennaio, il capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows, ricevette chat e sms da diversi esponenti della destra più vicina a Donald Trump: tutti sollecitavano il presidente e i suoi consiglieri a fermare l'attacco al Congresso da parte di migliaia di esagitati 'trumpiani' sobillati dal magnate stesso. A Meadows scrisse Donald jr, il figlio maggiore del presidente, mentre Ivanka, la 'prima figlia', la più influente della famiglia, invitò di persona il padre, insieme al marito Jared Kushner, a fare qualcosa. Tutti si rendevano conto della gravità di quanto stava accadendo. Tutti tranne Trump, che ne pareva compiaciuto, e Meadows, che fece quello che sa fare meglio: niente. Come - dice - non aveva fatto nulla quando, giorni prima, aveva ricevuto dal colonnello in congedo Phil Wardon un vero e proprio piano per un colpo di Stato: proclamare lo stato d'emergenza nazionale, esautorare il Congresso, congelare il risultato delle elezioni e garantire la permanenza al potere di Trump. Quel piano, Meadows lo ha da poco trasmesso alla commissione della Camera che indaga su quanto avvenne il 6 gennaio: il capo dello staff della Casa Bianca sostiene di non averne informato Trump; ma neppure allertò i servizi di sicurezza. Tutto ciò e la reticenza a deporre davanti alla commissione gli sono ieri valsi l'accusa di oltraggio al Congresso: adesso, il Dipartimento della Giustizia deve decidere come procedere, ma Meadows potrebbe fare la fine dell'ex guru di Trump Steve Bannon, che il mese scorso è stato brevemente arrestato prima di essere rimesso in libertà su cauzione. Chi contattò Meadows, mentre una folla di energumeni dava l'assalto al Congresso e interrompeva le operazioni di certificazione del risultato elettorale? Da Donald jr ai commentatori di Fox News, gli unici giornalisti ascoltati dal magnate presidente, tutti chiedevano a Meadows di indurre Trump a fermare le violenze dei suoi ultrà: "Mark, il presidente deve dire alla gente sul Campidoglio d'andare a casa". Molti dei 'trumpiani' avevano quindi capito la delicatezza della partita che si giocava quel giorno. Donald jr, che pure non è il più saggio né il più politico dei figli, scriveva: "Serve un messaggio dallo Studio Ovale", un discorso del presidente; "Le cose si sono spinte troppo oltre, sono sfuggite di mano". Sean Hannity suggeriva: "Chiedigli di rilasciare una dichiarazione in cui invita a lasciare il Congresso". Laura Ingraham avvertiva: "Quello che sta accadendo sta distruggendo la sua eredità e tutti noi". Che ne sia stato informato o meno, Trump solo tardivamente fece una dichiarazione che non suonò, però, una presa di distanza dall'assalto al Campidoglio, ma piuttosto un "Grazie ragazzi! Avete fatto la vostra parte. Ora, tornate a casa". Quanto al piano di Wardon, un texano, una delle voci più forti della campagna Stop the Steal, "Stop al furto" - delle elezioni, il cui risultato sarebbe stato truccato -, lo avevano anche ricevuto alcuni senatori 'trumpiani'; ed era probabilmente noto a Rudolph Giuliani, l'avvocato di Trump, che conosce bene Wardon e ne citò più volte le fantasiose tesi cercando, senza alcun successo, d'ottenere l'avallo dei tribunali dell'Unione alle accuse di brogli. L'ex colonnello sostiene che Paesi come la Cina e il Venezuela avevano acquisito il controllo delle infrastrutture elettorali in gran parte degli Stati Usa. Tutti questi sviluppi non paiono turbare Trump che, invece, agita la politica statunitense con l'idea di fare lo speaker della Camera, dopo le elezioni di midterm del 2022, senza essere deputato, sempre che i Repubblicani riconquistino la maggioranza. La posizione gli consentirebbe di tenere sotto tiro l'Amministrazione democratica di Joe Biden fino alle Presidenziali 2024, quando Trump ha sempre in animo di ricandidarsi».

VERSO IL RINVIO DEL VOTO IN LIBIA

Le elezioni in Libia potrebbero slittare per garantire un voto regolare, mentre continuano gli scontri tra le milizie di Haftar a Tripoli. Vincenzo Nigro per Repubblica.

«In Libia la guerra è durata troppo. Anche per questo è così difficile far ripartire la pace, per esempio confermando regolarmente le elezioni presidenziali fissate per il 24 dicembre. Verranno rinviate, si spera soltanto di poche settimane, per non interrompere un processo politico che tutto sommato sta rimpiazzando la guerra. Ma nessuno al momento si assume il compito di annunciare il rinvio, anche se tutti hanno capito che sarà necessario. In questi giorni ambasciatori stranieri come l'italiano Giuseppe Buccino, e innanzitutto l'inviata dell'Onu Stephanie Williams, hanno incontrato leader politici e anche il presidente della Commissione elettorale Imad Al Sayeh. L'alto funzionario nelle ultime settimane è diventato una sorta di oracolo della democrazia: tutti attendono una sua parola, un suo pronunciamento. Nessuno fra i politici vuole annunciare apertamente il rinvio, anche perché molti temono la furia della Williams: l'Onu preparerebbe sanzioni finanziarie contro chi dovesse bloccare il processo elettorale. Non è un mistero che la Commissione elettorale in incontri riservati abbia ammesso che c'è ancora troppo da fare per garantire un voto regolare, e soprattutto che i risultati dello scrutinio siano poi accettati responsabilmente da tutti. «Per questo ci aspettiamo che la settimana prossima, a ridosso del voto, venga annunciato un rinvio», dicono fonti diplomatiche a Tripoli. A farlo dovrebbe essere proprio Al Sayeh, che però va avanti con le consultazioni. Un breve rinvio non sarebbe un problema; ma la Libia è ancora un Paese in armi, percorso da decine di milizie i cui interessi spesso non coincidono neppure con la volontà dei leader politici delle regioni che i miliziani controllano. Un Paese in cui l'esercito di Haftar e le varie milizie di Tripoli e Misurata sono ancora in aperta rivalità. L'altro ieri a Sebha, la capitale del Sud, gli uomini di Haftar hanno attaccato una brigata fedele a Tripoli per sequestrare le 11 autoblindo che i poliziotti avevano appena ricevuto. Ieri la "116esima brigata" tripolina ha provato ad attaccare in città alcune postazioni della "Libya National Army" di Haftar per recuperare le blindo sottratte o perlomeno vendicarsi dell'affronto. Gli haftariani si sono difesi a cannonate, per alcune ore è andata avanti una battaglia che ha costretto gli abitanti a fuggire. Il problema è che questa volatilità, questa propensione allo scontro militare è intrecciata a filo doppio con la politica: 15 giorni fa per bloccare un ricorso in tribunale di Saif Al Islam Gheddafi (il figlio del Raìs escluso dal voto e adesso iscritto nuovamente fra i candidati), le truppe di Haftar avevano circondato il tribunale di Sebha. Per giorni hanno proibito ai giudici di entrare perché Haftar vede Saif come un rivale pericolosissimo nelle elezioni, e non voleva che fosse riammesso in lista. Un altro personaggio che in queste ore viaggia in "immersione" è il premier Abdelhamid Dbeibah: ha dimostrato di essere molto capace e manovriero, nel mantenere contatti e nel cercare consensi nel Paese, forte del suo incarico istituzionale. Ma sarebbe incandidabile, perché si era impegnato a non presentarsi alle elezioni diventando premier di un governo di emergenza. Un altro dei misteri di questo processo elettorale che ancora non riesce a portare al voto, ma che per ora non riporta indietro la guerra».

CHE COSA RESTA DELLA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

Che cosa resta, 50 anni dopo l’uscita del primo libro di Gutiérrez, della Teologia della Liberazione? Roberto Beretta su Avvenire ha posto la domanda ad alcuni studiosi.

«Credo che la Chiesa stia pagando lo scotto di essersi liberata troppo facilmente della Teologia della liberazione ». Lapidario l'intellettuale uruguayano Alberto Methol Ferré, amico e maestro del cardinal Bergoglio, quando anni fa scolpì il giudizio sulla Tdl in un bisticcio di parole. In effetti oggi, a cinquant' anni esatti dall'uscita del libro di Gustavo Gutiérrez che lanciò l'omonima corrente teologica latino-americana, calmate sia le vampate rivoluzionarie dei preti-guerriglieri sia (grazie soprattutto a papa Francesco) le acque dei pregiudiziali sospetti che impedivano un esame più obiettivo delle idee del pensatore peruviano, l'anniversario impone di soppesare un bilancio che non può essere manicheo. Che cosa ci ha lasciato la Teologia della liberazione? È stata un pericolo di marxismo scampato oppure un'occasione perduta per la Chiesa? Anzi, ancor prima: è viva, ha tuttora qualcosa da dire? Massimo Borghesi, professore di Filosofia morale a Perugia, è uno degli esperti italiani in materia: «Sì, tracciare un bilancio in chiaroscuro è opportuno. Lo ha fatto d'altronde il fondatore stesso della Tdl, che nella seconda edizione della sua opera (1988) ha tracciato un'autocritica molto profonda sulla subordinazione alla metodologia marxista di cui la Teologia della liberazione ha subìto il fascino. Il grande equivoco che ha trascinato migliaia di giovani lontani dalla fede fu l'interpretazione dicotomica della realtà, per esaltare la controviolenza dei poveri e identificare costruzione del socialismo e regno di Dio. L'elemento religioso serviva solo da carburante, ma poi metodo e azione si svolgevano secondo un'idea classista, rifiutando ogni riformismo "borghese". L'effetto pratico in America Latina furono le dittature militari». Ma poi sono caduti i muri, il socialismo reale ha dimostrato tutti i suoi fallimenti «E in quel momento doveva essere favorito un autentico impegno per la liberazione, in cui la presenza cristiana si facesse carico anche del sociale senza perciò rinnegare l'appartenenza ecclesiale. Invece a partire dagli anni Novanta la Chiesa si è trincerata in una cittadella, ha avuto paura ed è prevalsa una rassicurante teologia dell'ordine. Abbiamo perso una grande occasione». Tdl bruciata, dunque? «Sicuramente papa Francesco - che si riconosce nella Scuola del Rio de la Plata, la teologia del pueblo - l'ha riportata in primo piano nella sua forma autentica, e infatti lo accusano di marxismo. È evidente in lui l'attenzione preferenziale per i poveri, la critica a un capitalismo finanziario senza misericordia, la valorizzazione della dimensione popolare. Sa che cosa le dico? Paradossalmente avremmo bisogno di ricostituirla in Occidente, la Tdl...». Convenirne è immediato per il missionario padre Alex Zanotelli: «La Teologia della liberazione? Mai come oggi è di attualità profonda! Ricordo di aver letto il libro di Gutiérrez quando ero ancora in Sudan, mi ha molto impressionato e sono grato all'autore (che purtroppo ha pagato molto per quell'opera) perché è stato un'ispirazione per molte teologie dell'Africa e dell'Asia. La Tdl in questi 50 anni è diventata ormai un patrimonio ecclesiale, soprattutto ha stimolato le comunità cristiane a capire che la fede - spesso intesa in senso intimistico - dev' essere unita alla vita, cioè alla dimensione politica, economica, ambientale, sociale. Papa Francesco non viene direttamente dalla Tdl, ma ne è stato molto influenzato; quando afferma "Questa economia uccide", o in vari passaggi dell'enciclica sull'ambiente, riprende di fatto la Teologia della liberazione pur senza usarne il termine - che potrebbe urtare qualcuno. Solo in Europa e negli Stati Uniti c'è più difficoltà ad accettarla, perché siamo troppo legati al sistema che ci sta portando al baratro». Al contesto internazionale allude pure il professor Andrea Riccardi, ma da storico della Chiesa: «La Teologia della liberazione ha rappresentato anzitutto l'orgoglio dell'America Latina di avere una teologia, nel periodo in cui si discuteva della dipendenza economica e politica del subcontinente. Ratzinger mi confessò che si era mancati nel darne una valutazione positiva, epurandola del marxismo e legandola a un'autentica liberazione dell'uomo; è un giudizio condivisibile. Però la Tdl di ieri è comunque datata a un mondo che non esiste più, a un marxismo che non c'è più... Forse la teologia del popolo, con il fatto di essere legata alla metropoli di Buenos Aires, ha aspetti più durevoli in un contesto culturale di globalizzazione». Mi permetto di tradurre: bisogna andare oltre. «Più ancora, il problema oggi è una mancanza di pensiero teologico: ecco la gravissima questione. La Tdl perlomeno ha mosso una vita della Chiesa, ha avanzato proposte capaci di stimolare un dialogo; ora invece vedo un inaridimento dell'attrazione della teologia accademica e d'altra parte non mi sembra che sorga nemmeno il pensare dal basso. Una teologia che nasca dalla vita ecclesiale è fondamentale; e una Chiesa senza pensiero, senza visione, senza dibattito rischia di essere soltanto amministrazione dei sentimenti. I segni dei tempi, sappiamo ancora leggerli? Abbiamo parlato tanto di secolarizzazione e non abbiamo proposte sulla globalizzazione; basterebbe pensare al fenomeno delle migrazioni». Ma la Teologia della liberazione ha davvero qualcosa da dire in tale mutato contesto? Suor Antonietta Potente, teologa domenicana che ha vissuto a lungo in America Latina, punta sull'aspetto metodologico: «Questa continua a essere la forza della Tdl: guardare la realtà e cercare il mistero al suo interno. La Teologia della liberazione non ha definizioni a priori, nasce da quanto si constata nella vita e dalla domanda: come parlare di Dio partendo dalla sofferenza degli innocenti? Poi cambiano tempi e contesti, si possono applicare teorie sociali e filosofiche diverse, ma il metodo ha ancora attualità». La critica però è venuta proprio dall'appoggio ricercato nel marxismo. «All'epoca sembrava uno dei sistemi più applicabili alla realtà. Ma la Tdl è stata guardata con sospetto anche per mancanza di conoscenza, un certo tipo di Chiesa si è spaventata perché non ne conosceva la pratica: se avessero considerato la vita e l'impegno gratuito di migliaia di religiosi e di cristiani, il giudizio sarebbe stato diverso e ci sarebbero stati meno sospetti. Comunque tutto questo è passato. La Tdl continua a essere viva, ha generato le teologie contestuali (indigena, femminista, nera) e soprattutto ha lasciato tante tracce nei cuori e negli stili di tante persone. Quelle che hanno trasformato la loro vita grazie ai suoi stimoli».

Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 15 dicembre:

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