La Versione di Banfi

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Omicron ci fa le Feste

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Omicron ci fa le Feste

La variante del virus condiziona Natale e Capodanno. Salvini inchioda Draghi a Palazzo Chigi. Macron ci critica sui confini. Il Papa festeggia gli 85 coi profughi. Putin propone una pace per l'Ucraina

Alessandro Banfi
Dec 18, 2021
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Omicron ci fa le Feste

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Da lunedì saranno 12 milioni gli italiani in fascia gialla perché a a Calabria, Friuli Venezia Giulia e provincia di Bolzano si aggiungeranno Liguria, Marche, Veneto e la provincia di Trento. Non è neppure escluso che qualcuna di queste regioni, o delle altre già in giallo, Friuli in primis, possa passare all'arancione. Se non il 27, più probabilmente da lunedì 3 gennaio 2022. Incubo Giallo sul Natale dunque ma anche Arancione sul Capodanno, come titola stamane il Quotidiano Nazionale. È una corsa contro il tempo, per rallentare l’inevitabile avanzata del virus, variante Omicron. Macron e Scholz hanno criticato la linea italiana del tampone alle frontiere. Ma Draghi tira dritto, è una competenza nazionale.

Ci saranno altre misure di contrasto in Italia? I giornali ne ipotizzano due: un lockdown mirato per i non vaccinati sul modello austriaco, per impedire che le Feste diventino la fiera del contagio. Oppure una riduzione della validità del Green pass solo a chi ha già fatto anche la terza dose. Vedremo se davvero, in questi pochi giorni, si procederà in questo senso. Stretta anti furbetti della scuola: vaccino obbligatorio anche per chi è a casa malato.

Intanto sul fronte economico, il governo ha finalmente presentato l’emendamento alla legge di Bilancio in Senato. Molte le misure contenuto nel documento. Gian Antonio Stella sul Corriere giustamente solleva il tema dell’Iva chiesta al Terzo settore. “No alle tasse sulla bontà”, aveva detto Sergio Mattarella, non dimentichiamocelo. Il Foglio ipotizza che Draghi annuncerà il varo (quasi) completo del Pnrr alla conferenza stampa di mercoledì 22. Missione compiuta? Intanto lunedì sarà a Roma il nuovo cancelliere Scholz e con lui si parlerà del nuovo patto di stabilità europeo.

Nella corsa al Quirinale, il premio dell’Economist a Draghi, con la raccomandazione che resti a palazzo Chigi, ha mosso i pensieri dei leader. “La nebbia è ancora fittissima” scrive Bruno Vespa su QN commentando la clamorosa uscita di Matteo Salvini, che per Repubblica è un “veto” contro Supermario al Colle. Silvio Berlusconi teme i suoi alleati e cioè di fare la fine di Prodi. Vedremo.

Ieri Papa Francesco ha festeggiato 85 anni. Ricevendo al Palazzo Apostolico un primo gruppo di una decina di rifugiati in Italia giovedì sera grazie a un accordo tra la Santa Sede, le autorità italiane e quelle cipriote. A proposito di migranti, sono state pubblicate le motivazioni, molto dure, della condanna di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace. Mentre la Cassazione ha riconosciuto che soccorrere i migranti è un diritto.

Dall’estero importante passo di Vladimir Putin che ha proposto agli Usa e alla Nato un documento, “trattato di pace”, sull’Est Europa e sull’Ucraina. Difficile che Washington lo possa accettare nel merito, ma il gesto contiene comunque una volontà di dialogo (anche se di controllo dell’area, come nota Anna Zafesova sulla Stampa). Si vota in Cile. Notizia di economia: Gubitosi esce definitivamente da Tim, forse ora sarà valutata l’Opa degli americani.  

Non perdetevi il decimo e ultimo episodio del mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Disponibile da ieri. È intitolato: IL RITORNO DALL'INFERNO. Protagonista è Chiara Amirante, fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti. Il racconto della sua vita comincia in quell’inferno particolare che erano una volta i sotterranei della stazione Termini a Roma. Luoghi dove allora nessuno, né ferrovieri, né volontari della Caritas, né poliziotti, osava mettere piede. Un porto franco ma anche un rifugio per gli invisibili, gli ultimi, spesso i moribondi. Una terra di nessuno lasciata al dolore e alla disperazione. Quella discesa, 30 anni fa, cambiò la vita di Chiara Amirante. Da allora aiuta i giovani e i poveri di strada ad uscire dalle dipendenze e dal degrado. Oggi ha 56 anni ed è una personalità conosciuta in tutto il mondo. Nel 1993 ha fondato la comunità Nuovi Orizzonti, impegnata nel recupero degli emarginati, dei giovani con problemi di tossicodipendenza, alcolismo oppure costretti alla prostituzione, attiva nelle carceri e con i bambini di strada. La sua è una storia di ascolto e di Vangelo, perfetta per introdursi al Natale. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate l’ultimo episodio disponibile e potrete anche ritrovare tutti gli altri:

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Si corre davvero per evitare che la variante Omicron rovini le Feste. Il Corriere della Sera sintetizza così: Corsa per salvare il Natale. La Stampa dice che potremmo seguire l’esempio austriaco: Natale, ipotesi lockdown per i no vax. Quotidiano Nazionale proietta i dati delle regioni in giallo da lunedì e prevede: Giallo Natale, Capodanno arancione. La Verità resta su una linea molto critica: Le contraddizioni degli ultrà dei vaccini. Di politica e anzi di Quirinale si occupa La Repubblica: Il veto di Salvini su Draghi. Il Fatto pubblica una rivelazione giudiziaria anti Cav: Graviano: “C’è la carta del nostro patto con B.”. Mentre il Giornale sottolinea le beghe interne alla magistratura: Il pm delle molestie perdonato dal Csm. Sono state rese note le motivazioni della sentenza di condanna per l’ex sindaco di Riace. Scelgono questo argomento il Domani: «Mimmo Lucano faceva reati a fin di bene e pure per visibilità politica». E Libero: Le carte che inchiodano Lucano e la sinistra. Si delinea la legge di Bilancio e su questo tema vanno Il Mattino: Napoli è salva. Bollette a rate e bonus tv. Il Messaggero: Bollette, rate per le famiglie. E ritorna il bonus per la Tv. E su un altro aspetto Il Sole 24 Ore: Nuovo patente box, no dalle imprese. Il Manifesto critica invece il governo su quello che definisce il “buffetto alle multinazionali sulle delocalizzazioni”, titolo: A buon mercato. Avvenire è l’unico giornale che dedica l’apertura alla tragedia nel foggiano, dove due bimbi di 4 e 2 anni sono morti nel rogo di un campo rom: Bruciano vivi i figli dei «dimenticati».

LA MINACCIA OMICRON E LA CORSA CONTRO IL TEMPO

Oltre 28 mila casi di contagi ieri, mai così tanti nell'anno. La variante Omicron è osservata speciale. Gli epidemiologi suggeriscono di rivedere i tempi del Green pass e produrre una stretta su mascherine e  viaggi. Il governo decide entro pochi giorni. La cronaca di Alessandra Ziniti ed Elena Dusi per Repubblica.  

«Dieci, quindici giorni al massimo e poi, alla mano dati più certi su diffusione e letalità della variante Omicron, il governo deciderà se ridurre ulteriormente da 9 a 6 mesi la durata del Green Pass come sollecitato da molti scienziati e tecnici. Gli oltre 28.000 contagi e i 120 morti di ieri sono il dato peggiore del 2021 (non se ne contavano tanti dal 26 novembre 2020, quando le vittime però erano state 822). In Italia fino ad ora i casi di Omicron acclarati sono solo 55 ma è del tutto evidente che il numero è sottostimato, anche perché il tracciamento è ormai fuori controllo. «Omicron cresce, il virus corre soprattutto tra gli under 20, fascia d'età in cui aumentano anche i ricoveri, ed entro un mese ci attendiamo un aumento delle ospedalizzazioni in tutte le Regioni, anche se dopo il booster il rischio infezione crolla ad ogni età» spiega Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità. Il ministero alla Salute sta preparando una circolare per mettere in guardia le Regioni su un possibile aumento della curva epidemica che potrebbe avere come conseguenza una crescita dei ricoveri. Si chiede di prepararsi a potenziare il sistema ospedaliero e i letti dedicati al Covid, in particolare quelli di terapia intensiva. L'azione è tra quelle indicate nel piano cosiddetto della "preparedness", in base al quale i servizi sanitari vanno modulati a seconda della circolazione epidemica. «La nuova variante corre molto più veloce di Delta» conferma Stefania Salmaso, dell'Associazione italiana di epidemiologia (Aie). «L'incubazione è ridotta rispetto a Delta e il tempo di raddoppio è circa 3 giorni. Diminuisce la distanza fra il momento in cui compaiono i sintomi nella persona che infetta e in quella che viene infettata. Dovremmo accelerare i risultati dei tamponi, ma siamo già al limite della capacità». E abbiamo ancora Delta, in Italia. «L'arrivo di Omicron si innesterà in una situazione di circolazione già molto sostenuta». Mascherine all'aperto, maggior tracciamento dei contatti e lavoro da casa sono alcune delle raccomandazioni che l'Aie ha stilato in vista dell'arrivo della nuova variante. Con Veneto, Liguria, Marche e provincia di Trento da lunedì in giallo insieme a Friuli Venezia Giulia, Alto Adige e Calabria, la mappa d'Italia si colora sempre più e a Capodanno anche Lazio, Lombardia ed Emilia Romagna corrono il concreto pericolo di passare di fascia. Nessuno, al momento, rischia l'arancione per l'ultimo dell'anno ma il governo studia già le prossime mosse per scongiurare le chiusure. L'efficacia dei vaccini, a fronte della galoppata della variante Omicron, è decisamente ridotta. Con due dosi, dopo 5 mesi, non ci si può più ritenere protetti dall'infezione. Sollecitare l'anticipo del booster e mantenere la validità del Green Pass a 9 mesi potrebbe essere rischioso. Ecco perché, nelle stesse ore in cui la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen annuncia la presentazione di un atto delegato per uniformare in tutta Europa la validità della certificazione verde a 9 mesi, come già accade in Italia dal 15 dicembre, a Palazzo Chigi si fa strada l'ipotesi di un'ulteriore riduzione del Green Pass a 6 mesi. Dopo l'introduzione dei tamponi anche per i vaccinati che arrivano dall'estero, con un'eventuale ulteriore riduzione della certificazione verde l'Italia prenderebbe ancora una volta in contropiede l'Europa. Addirittura c'è chi, come il professore Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza, o Guido Rasi, consulente del generale Figliuolo, si spinge a proporre di dare il Super Green Pass solo a chi fa la terza dose. «Bisogna adeguare il passaporto verde alla protezione. Se questa diminuisce ed è necessario fare la terza dose, bisogna dare il Green Pass solo a chi fa la terza dose. Oppure deve essere ridotto il tempo per cui viene rilasciato» dice Ricciardi a "Metropolis", il podcast di Repubblica condotto da Gerardo Greco. «Bisogna accelerare pure sulle prime dosi. I non vaccinati con questa variante è sicuro che si contagiano. Per ora non sono necessarie nuove restrizioni. Dobbiamo stare attenti negli ambienti chiusi e frequentare solo persone vaccinate, avere comportamenti saggi. Questo vale soprattutto per le cene di Natale e di Capodanno». «I dati ci sono e ci dicono che dopo 5-6 mesi il Green Pass perde ogni giorno un po' di validità» spiega Guido Rasi. «Se fossimo in un momento di bassa circolazione non sarebbe un problema, perché il vaccino ci protegge dalla malattia e dalla morte, ma in un momento di alta circolazione come questo purtroppo bisogna anche pensare di ridurne la durata. Una riflessione che si imporrà entro 10-15 giorni, quando si saprà di più sulla variante Omicron».

Nel retroscena di Paolo Russo per La Stampa si ipotizza che una misura potrebbe essere quella del lockdown di Natale e Capodanno per i non vaccinati. Sul modello austriaco.

«I contagi continuano a salire anche senza Omicron e il governo comincia a guardare all'Austria per scongiurare il pericolo che cene e cenoni natalizi mettano il turbo alla pandemia. Così, dopo aver copiato il modello a due G, quello che consente lo svago solo ai vaccinati, ora il ministro della salute austriaco, Wolfang Mueckstein, annuncia un Natale in quarantena per i No Vax, che dal 24 al 26 dicembre e per la fine dell'anno potranno lasciare casa «solo per visitare una persona cara». Un coprifuoco identico a quello vissuto anche in Italia durante le feste dello scorso anno, ma nell'era dei vaccini da noi potrebbe essere riservato ai non immunizzati e contenuto alle ore di punta dei grandi raduni tra parenti e amici, ossia dalle 19 alle 24 la notte della Vigilia, dalle 12 alle 16 il giorno di Natale e durante la notte di capodanno. Per ora autorevoli esponenti del governo ed esperti della Salute non smentiscono, segno che l'idea è qualcosa in più di una semplice suggestione. Fermo restando che sul tavolo ci sono anche l'obbligo del tampone rapido anche per gli immunizzati che vogliano partecipare ad eventi con più di cinquemila persone, come i concertoni di fine anno e l'obbligo di mascherina all'aperto in tutta Italia, richiesto già da tempo dai governatori. Del resto non sono solo i numeri sempre più in crescendo ad agitare il sonno al premier e ai suoi, perché a spingere a fare qualcosa in più per correre ai ripari sono anche i risultati dei nuovi studi sulla Omicron che arrivano da Oltremanica. Secondo una ricerca del prestigioso Imperial College di Londra, il rischio di reinfezione con la nuova versione del virus è di 5,4 volte superiore rispetto alla Delta. Ma soprattutto con Omicron la protezione dei vaccini calerebbe vistosamente, rispetto alla malattia sintomatica con due dosi si ridurrebbe infatti tra lo zero e il 20%, per risalire tra il 55 e l'80% quando si è fatto il booster. In più la quota di Omicron sul totale dei contagi è andata raddoppiando ogni due giorni fino all'11 dicembre. Lo studio non ha invece trovato prove che la nuova variante generi forme meno severe di malattia. Anche se Donato Greco, epidemiologo del Cts e padre fondatore degli Ecdc europei, rivela che «gli ultimi studi dei genetisti che abbiamo potuto osservare mostrano come gli epitopi, ossia le piccole parti degli antigeni che si legano agli anticorpi specifici, si fermino nelle prime vie respiratorie, impedendo così al virus di provocare le polmoniti che sono la prima causa di ospedalizzazioni e morti». «Ma Omicron ha una trasmissibilità elevata e anche se in questo momento nel nostro Paese è presente in meno dell'1% dei casi è comunque destinata a dilagare anche da noi», precisa sempre Greco. E i numeri di ieri della Gran Bretagna sono una conferma che vale più di qualsiasi parola: oltre 93mila contagi in 24 ore, che pur ipotizzando una minore patogenicità della Omicron fanno prevedere all'Università di Birmigham la cancellazione di 100mila interventi chirurgici da qui a febbraio. A spaventare il governo non è solo lo stato di pre-allerta dei nostri ospedali, che grazie ai vaccini dovrebbero comunque tenere, quanto piuttosto la tenuta sociale davanti a uno scenario con 100mila contagiati al giorno, che considerando un minimo di 10 contati stretti per ciascun positivo significherebbe ogni 24 ore mettere in quarantena un milione di persone. Numeri in grado di far collassare produzione e servizi essenziali nel giro di una, due settimane al massimo. Del resto nessuno si illude che quanto accaduto in Gran Bretagna possa non ripetersi da noi. Per ora siamo alla fase dei suggerimenti, con il commissario Figliuolo che loda gli italiani ma li invita «ad essere responsabili nel momento di compere e assembramenti», mentre il direttore della prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza, invita per cene e cenoni ad «evitare grandi assembramenti» e a correre piuttosto a fare la terza dose. Ma per i non vaccinati potrebbe arrivare qualcosa di più che un semplice consiglio».

MACRON NON VUOLE I TAMPONI AI CONFINI

Macron boccia la linea italiana. Anche se la Francia va verso l'obbligo e chiude ai cittadini inglesi, chiedendo il tampone. La cronaca del Corriere è di Francesca Basso da Bruxelles.

«Non è ammissibile che il rifiuto di qualche milione di francesi (sei milioni, ndr) di farsi vaccinare metta a rischio la vita di tutto un Paese e rovini gli sforzi fatti da una immensa maggioranza di francesi dall'inizio dell'epidemia». Ieri sera il premier francese Jean Castex ha annunciato un disegno di legge che verrà presentato in Parlamento all'inizio di gennaio per trasformare il pass sanitario di fatto in certificato vaccinale: «Soltanto il vaccino conterà per l'ottenimento del pass, non più i tamponi». Un passo in più verso l'obbligo di vaccino evocato dal Presidente Emmanuel Macron nell'intervista di mercoledì sera. Intanto giovedì notte, al termine del Consiglio europeo, proprio Macron ha indirettamente criticato in un tweet la scelta di quei Paesi, tra cui l'Italia, di chiedere ai vaccinati anche un tampone negativo per l'ingresso nel loro territorio: «Di fronte alle varianti del virus, dobbiamo continuare ad agire da europei. Le persone vaccinate non dovranno farsi il tampone per viaggiare fra i Paesi membri dell'Unione europea». Nella conferenza stampa congiunta con il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz, Macron ha poi spiegato ai giornalisti che Parigi non prevede di introdurre test Covid molecolari all'interno della Ue «perché noi siamo attaccati al buon funzionamento dello spazio comune». La Francia ha però ripristinato dal primo novembre i controlli alle frontiere fino al 30 aprile 2022 indicando tra le motivazioni - unica tra i Paesi europei - anche il coronavirus. A dimostrazione che di fronte al Covid i Paesi Ue navigano a vista. La Germania ha detto che seguirà Parigi sui tamponi: «La libertà di movimento in Europa è importante», ha detto Scholz, spiegando che sulla possibilità di nuove restrizioni «stiamo seguendo le orme della Francia». Berlino sta anche pensando alla vaccinazione obbligatoria da febbraio. Scholz, quando era ancora cancelliere in pectore , aveva infatti assicurato che il Parlamento tedesco sarebbe arrivato a una decisione entro fine anno. I tamponi I Paesi Ue da settimane si stanno muovendo in ordine sparso di fronte all'evidenza che la doppia vaccinazione è condizione necessaria ma non più sufficiente a bloccare la diffusione del Covid-19. Ha cominciato il Portogallo, con la richiesta del tampone per l'arrivo nel Paese anche agli immunizzati dal primo dicembre, e l'ha seguito poi l'Irlanda. Da mercoledì anche l'Italia esige l'esibizione di un test negativo fatto al massimo 24 ore (antigenico) e 48 ore (molecolare) pima dell'ingresso nel territorio nazionale. La Grecia da domani fino al 10 gennaio chiederà il tampone per tutti coloro che entrano nel Paese dagli altri Stati Ue. I leader comunitari nelle conclusioni del Consiglio europeo hanno concordato che «occorre proseguire gli sforzi coordinati» e che «qualsiasi restrizione sia basata su criteri oggettivi e non comprometta il funzionamento del mercato unico né ostacoli in modo sproporzionato la libera circolazione tra gli Stati membri o i viaggi verso l'Ue». Il green pass La prima mossa sarà un aggiornamento della durata del green pass. La Commissione europea mercoledì prossimo presenterà un atto delegato per modificare le regole attuali, le novità dovrebbero essere applicate dal primo febbraio 2022. Il certificato Covid dell'Ue durerà nove mesi dalla seconda dose: sei mesi più tre nei quali si dovrà fare la terza. Il timore più diffuso è che si torni al caos di regole precedenti alla creazione del green pass e a quando gli Stati membri hanno chiuso le frontiere per bloccare il virus, ovviamente senza successo. La Gran Bretagna Confini e sanità sono però competenze nazionali e ogni Stato membro può decidere in autonomia come preservare la salute pubblica. Parigi ha chiuso agli ingressi dalla Gran Bretagna: da oggi potranno entrare solo «residenti in Francia e loro familiari». Per gli altri sono possibili eccezioni per motivi urgenti, ma non per turismo e lavoro. Tutti i viaggiatori che provengono dal Regno Unito, vaccinati o no, dovranno presentare, alla partenza, il risultato negativo di un test».

Draghi è stupito della linea presa da Macron e Scholz. Lo scrive Ilario Lombardo nel suo retroscena per La Stampa. Per Draghi “Omicron dev' essere fermata”.

«La macchina è pronta davanti all'hotel Amigo. Sono le dieci del mattino di ieri, Mario Draghi è chiuso nella sua stanza, nell'albergo del centro di Bruxelles. Lo staff aspetta che il presidente del Consiglio scenda, per dirigersi all'aeroporto e tornare a Roma. Nella sala delle colazioni si fa cenno a quello che nella notte ha detto Emmanuel Macron, durante la conferenza notturna congiunta con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, contro i tamponi all'ingresso tra i Paesi dell'Ue anche per i vaccinati. Frasi che non si possono definire esattamente in sintonia con la linea espressa dal premier italiano. Il tentativo di minimizzarle e di mascherare l'irritazione, all'interno dell'entourage, non cancella lo stupore di aver letto su Twitter il presidente francese smarcarsi ulteriormente da Draghi dopo il Consiglio europeo, invitando tutti ad «agire da europei» per combattere le varianti. È inequivocabilmente una frase che suona ancora più brutale se diretta al premier italiano, che ha sempre rivendicato multilateralismo e coordinamento europeo come fondamenta della sua azione. Anche perché Macron non si limita a dire che la Francia non adotterà la stessa strategia italiana, ma usa un verbo, riferito alle persone vaccinate - «non dovranno fare il test» - che è di sfida verso la scelta del governo di Roma. D'altronde, segnali di un certo nervosismo tra i francesi c'erano già stati nella tarda serata di giovedì, quando viene annunciato che Macron e Scholz, nonostante l'ora tarda, avrebbero tenuto una conferenza stampa congiunta. Solo loro due. È il primo Consiglio europeo del cancelliere socialdemocratico, il primo senza Angela Merkel. Macron fa il padrone di casa. Presentarsi davanti alla stampa insieme è un modo per rivendicare quel rapporto, tra Francia e Germania, che salda il progetto europeo e viene prima di tutto e di tutti, anche se a guidare l'Italia è Mario Draghi. L'ex banchiere, invece, poco dopo mezzanotte va dritto in albergo. E, come previsto, non tiene una conferenza stampa. Quello che sentiva di dover dire, lontano dalle domande dei giornalisti, lo dice al tavolo dei leader, durante il summit, quando si parla di Covid e della travolgente avanzata della variante Omicron. Draghi non cambia la sua tesi nemmeno di fronte ai tentativi di Macron e di Scholz di isolarlo. Sul tema, confermano fonti di Palazzo Chigi, non c'è stata una operazione concordata. L'Italia si è mossa in autonomia perché sulle misure di contenimento sanitario è possibile farlo: «Ciascuno adotta le misure che ritiene più opportune». Draghi è convinto della sua scelta perché vuole «mantenere il vantaggio» sulla Omicron «a ogni costo», rallentarne «il più possibile» il dilagare in Italia dove è meno diffusa, in un momento, ha spiegato ai collaboratori, in cui stanno scadendo gli effetti delle due dosi di vaccino e c'è da intraprendere una nuova campagna sulle terze dosi. Se il ritmo delle immunizzazioni procede con i numeri degli ultimi giorni, «in dieci giorni è possibile arrivare a proteggere 5 milioni di persone». Draghi vuole evitare a tutti i costi che quest' obiettivo venga affossato dall'ingresso in Italia di chi non si è vaccinato o chi viene da Paesi dove il virus circola di più perché i controlli sono meno rigidi. Decidere che ognuno può imporre o meno restrizioni ai confini ulteriori a quelle comuni è «il compromesso», così lo definiscono a Palazzo Chigi, tra leader con posizioni e strategie lontane tra loro. Macron, come altri partner europei, avrebbe però gradito che il governo italiano avesse informato la Commissione Ue prima di adottare la decisione di imporre i tamponi. Alla fine, per evitare questa dissonanza non è bastata l'armonia del Trattato del Quirinale, che pure Draghi e Macron hanno siglato tra grandi manifestazioni di stima e di affetto per curare le ferite del passato. Nemmeno è sufficiente il progetto comune, di imminente pubblicazione, di revisione radicale del Patto di stabilità, che di sponda con Scholz servirà a cambiare la cornice delle regole finanziarie europee. Qui si tratta di vedute, sulle misure sanitarie, che appaiono irrimediabilmente distanti».

SCUOLA, OBBLIGO ANTI FURBETTI

Tre giorni dopo che è scattato l’obbligo di vaccino per il personale scolastico, si pensa a come affrontare la questione dei “furbetti” che si danno malati. Valentina Santarpia sul Corriere.

«Niente più «furbetti» del vaccino a scuola: il ministero dell'Istruzione ha stabilito in una circolare che l'obbligo vaccinale si applica a tutto il personale scolastico, compreso quello assente per motivi legittimi, come una malattia. Il documento è stato stilato all'indomani di alcune segnalazioni su casi di docenti o ausiliari che avevano preferito assentarsi dal lavoro piuttosto che vaccinarsi. Si tratta di casi sporadici, perché il personale scolastico è quasi al 95% vaccinato, ma per evitare che anche una piccola fetta possa esimersi dall'immunizzazione, il ministero detta ora regole chiare. Il dirigente scolastico deve quindi, «senza indugio, procedere alla verifica della regolarità della posizione vaccinale sia del personale presente in servizio che di quello assente e invita quanti non in regola con l'obbligo vaccinale a produrre, entro cinque giorni, la documentazione comprovante l'effettuazione della vaccinazione; l'attestazione relativa all'omissione o al differimento; la presentazione della richiesta di vaccinazione da eseguirsi in un termine non superiore a venti giorni; l'insussistenza dei presupposti per l'obbligo vaccinale». La circolare ricorda inoltre che non è previsto «l'obbligo tout court, quanto piuttosto la possibilità, per il datore di lavoro, di adibire il personale esente/differito dalla vaccinazione a mansioni diverse da quelle ordinariamente svolte». Il dirigente scolastico valuta la possibilità che il personale prosegua nello svolgimento della prestazione lavorativa cui è normalmente adibito, si legge nelle circolare. Nel caso in cui dalla valutazione tecnica emerga un rischio elevato, il preside individua, con la collaborazione dei tecnici, interventi che consentano di ridurre il rischio. Tra i provvedimenti protettivi adottabili, la nota indica mascherine Ffp2, visiere professionali paraschizzi aggiuntive all'utilizzo di mascherine, aule di maggiore ampiezza, con studenti più distanziati e in numero ridotto, potenziamento dell'aerazione. Se anche questi provvedimenti non consentono di ridurre in maniera accettabile il rischio, «il dirigente provvede ad assegnare il lavoratore a mansioni alternative».

MANOVRA. L’ EMENDAMENTO DEL GOVERNO

Tasse, bollette a rate e bonus tv: ecco che cosa cambia nella manovra 2022 secondo l’emendamento alla legge di Bilancio presentato dall’esecutivo in Senato. Il punto di Andrea Ducci per il Corriere.

«Atteso da giorni è arrivato l'emendamento omnibus del governo al Ddl di Bilancio. Un passaggio necessario all'iter di approvazione della manovra ferma in commissione Bilancio del Senato. Il corposo pacchetto di modifiche depositate dall'esecutivo è frutto dell'intesa raggiunta, non senza fatica, con i partiti di maggioranza. Nell'elenco figurano le due misure che più di altre connotano la manovra per entità e caratteristiche: il taglio di Irpef e Irap per 8 miliardi e il fondo da 3,8 miliardi per calmierare il rincaro delle bollette di luce e gas (sarà possibile, tra l'altro, rateizzare quelle oggetto di rincaro). Ma nell'emendamento omnibus ci sono anche alcune novità come il rifinanziamento, con uno stanziamento di 68 milioni, del bonus tv, la riscrittura del patent box (la tassazione agevolata per i redditi derivanti dall'utilizzo di software protetti da copyright e di brevetti industriali)e una norma che destina 2,67 miliardi al salvataggio dei comuni con i bilanci in dissesto. In particolare, la misura riguarda i capoluoghi di città metropolitane in crisi con un disavanzo procapite superiore a 700 euro, circa 1,3 miliardi di euro saranno utilizzati per il comune di Napoli. Le richieste arrivate dai settori maggiormente colpiti dal prolungarsi della pandemia sono, almeno in parte, soddisfatte dallo stanziamento presso il ministero dello Sviluppo Economico di un fondo ad hoc da 150 milioni di euro da dirottare sui settori del turismo, dello spettacolo e dell'auto. Il riparto delle risorse avverrà in accordo tra i vari ministeri competenti appunto su turismo, spettacolo e automotive. Per la scuola il provvedimento inserisce ulteriori 180 milioni, di cui 100 milioni per finanziare la proroga dei contratti del personale Ata. Il resto delle risorse aggiuntive verrà utilizzato nel fondo di valorizzazione dei docenti. Un'ulteriore novità introduce, dopo un complicato negoziato tra Lega e Pd, un giro di vite alle regole per le imprese che traslocano all'estero. Una norma prevede una sanzione pari al doppio del contributo di licenziamento se l'azienda non presenta un piano per la delocalizzazione o se nel piano mancano elementi, come, per esempio, la gestione degli eventuali esuberi. Ma in serata sono emerse tensioni tra parlamentari di maggioranza e il governo. In due diverse riunioni, su delocalizzazioni e giustizia, sono emersi i malumori dei senatori, secondo quanto riporta l'Ansa. In tema di delocalizzazioni, il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti avrebbe parlato di «compromesso» raggiunto da posizioni molto distanti e il ministro del lavoro Orlando di risposta alle le chiusure «selvagge». I senatori, però, avrebbero criticato le scelte del governo soprattutto perché presentate in extremis e paventato il rischio di «incidenti» nell'approvazione in corsa della manovra».

IVA E VOLONTARIATO. NO ALLE TASSE SULLA BONTÀ

«Vanno evitate “tasse sulla bontà”» disse Mattarella nel messaggio di Capodanno 2018. Ora passerà il diktat di aprire decine di migliaia di Partite Iva peri volontari? Ne scrive oggi Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera.

«Vanno evitate "tasse sulla bontà"». Così disse Mattarella nel messaggio di Capodanno 2018 lodando il Terzo Settore e i No profit «che rappresentano una rete preziosa di solidarietà» e «meritano maggiore sostegno da parte delle istituzioni, anche perché, sovente, suppliscono a lacune o a ritardi dello Stato...». Tanto bastò perché grillini e leghisti facessero marcia indré cancellando il raddoppio dell'Ires. Evviva. Ma ora? Passerà il diktat all'Italia più generosa di aprir decine di migliaia di partite Iva impelagandosi in lacci e lacciuoli? Per carità, immaginiamo che ogni mezzemaniche a suo agio tra un'«affrancazione canone gravante sulla quota n.327 fg. 74 part. 16 del demanio quotizzato del Comune» e un «Art. 135 quinquies decies», dirà che stavolta non ci son soldi a carico del volontario ma solo il disbrigo di una pratica. Che sarà mai aprire una partita Iva anche se un po' tutti i siti Web specializzati spiegano che non è un'operazione affatto gratuita e men che meno facile? Sempre meglio che il tentativo tre anni fa di imporre alle Ong senza fini di lucro il passaggio dell'Ires dal 12% al 24%. Quella delle maison del lusso. Idea allora bollata da Silvio Garattini come «stupida prima ancora che ingiusta». Nonché «un cattivo affare per lo Stato stesso» che dal volontariato riceve più di quanto sparagnino dona. Parole che potrebbe ripetere oggi. Basti, per capire, l'elaborazione aggiornata dei dati ufficiali dell'Istat nella scia di un metodo di calcolo impostato anni fa dalla Johns Hopkins University: «Quanto vale il volontariato in Italia? I circa 5,5 milioni di volontari italiani rappresentano il lavoro equivalente di circa 585.000 dipendenti funzionali senza retribuzione», spiega Riccardo Bonacina, fondatore e direttore editoriale di Vita, «Calcolando in venti ogni mese le ore donate in media da ogni volontario alla comunità si calcolano 1.320 milioni le ore annuali spese dai volontari per un valore economico stimato in oltre 12 miliardi di euro, calcolati col metodo del costo di sostituzione. E sono stime per difetto». Una somma enorme. Una generosità enorme. Che come ricordava tre anni fa Mattarella tappa mille buchi lasciati dallo Stato. Vale la pena di scaricare addosso a questo mondo di buona volontà, che non chiede protocolli né timbri e per precipitarsi a soccorrere chi è nei guai, una cornice burocratica come la partita Iva, con annessi e connessi, che rischia di scoraggiare chi è pronto a dedicare la vita agli altri ma ha l'orticaria per le scartoffie? Il servizio ambulanze dell'Alto Agordino, nel bellunese, per fare un esempio, si basa su 7 associazioni locali con 15 ambulanze (comprate dalle croci verdi e bianche) e 300 volontari (ricompense: zero) per coprire 400 chilometri quadrati al servizio di 12 comuni e 250 frazioni montane per un totale di 14 mila persone. Una struttura che va, senza partita Iva. Ma se dovesse arrabattarsi in pignolerie burocratiche? «Noi, da due anni, ce l'abbiamo la partita Iva», sorride Don Dante Carraro, presidente del Cuamm, «Ma abbiamo una organizzazione collaudata. In grado di contenere i costi. È un appesantimento, ma reggiamo. Il problema sarà per le associazioni piccole, a volte piccolissime. Non so quante ce la faranno». Si pensi a qualche associazione parrocchiale che insegna l'italiano agli immigrati: chi glielo fa fare di adeguare gli Statuti alle nuove norme, chiedere consulenze, tenere un libro dei verbali delle assemblee, uno dei verbali del consiglio direttivo, uno dei soci... Perché, gira e rigira, il problema resta sempre lo stesso: un conto è la trasparenza, un altro l'esasperazione abnorme e caricaturale della trasparenza. Quello è il timore del Terzo Settore, che conta su oltre 359 mila istituzioni non profit, ha più di 63 mila dipendenti e(come ha raccontato Buone Notizie) si è sollevato con decine di associazioni, in testa la portavoce del Forum Nazionale Vanessa Pallucchi, contro la decisione del governo, contestata a parole perfino da un po' tutti i partiti di destra e di sinistra prima che fosse approvata dalla Camera in via definitiva col Decreto fiscale. Tra i più delusi i promotori della candidatura all'Unesco del volontariato come «Patrimonio immateriale dell'umanità». I quali hanno scritto a Mario Draghi ricordandogli quanto lui stesso, il premier, aveva detto a fine ottobre: «Voi lavoratori e volontari del Terzo settore avete fatto tanto per l'Italia, soprattutto per i più deboli. Ora tocca a noi aiutarvi, perché possiate continuare ad aiutarci». Parole che gli esponenti del volontariato si aspettavano fossero seguite da scelte diverse. Arriverà, magari fuori tempo massimo, nella legge di bilancio, un rattoppo? Si vedrà...».

PNRR, MISSIONE QUASI COMPIUTA

L’unico giornale apertamente schierato per Mario Draghi al Quirinale è il Foglio. Oggi scrive che Draghi si prepara ad annunciare “missione compiuta” per il Pnrr. Lo farà mercoledì in conferenza stampa. Valerio Valentini.

«Essere puntuali è l'imperativo. Stupire, se possibile, l'ambizione. Di certo per ora c'è la data dell'annuncio: il 22 dicembre prossimo, nel corso della conferenza stampa di fine anno, Mario Draghi annuncerà il raggiungimento dei 51 obiettivi fissati nel Pnrr, e dunque l'invio del dossier a Bruxelles. Atto, questo, che secondo gli uffici della Commissione europea potrebbe accadere tra Natale e Capodanno. E che però a Palazzo Chigi, e qui sta il senso dell'ambizione, vorrebbero anticipare, provvedendo già nei prossimi giorni. Passaggio decisivo, in ogni caso, per fare sì che l'italia possa avere fin d'ora la certezza di ricevere dalla Commissione europea, nel giro di due o tre mesi, la prima tranche ordinaria dei fondi del Recovery. E basta la cifra a dare l'idea dell'importanza dell'appuntamento. Perché dalla capacità dell'italia di ottemperare agli obblighi fissati passano infatti oltre 20 miliardi: 11 di finanziamenti e poco meno di prestiti. E' quasi il 10 per cento di quello che nel complesso Roma si vedrà recapitare, a patto di rispettare gli impegni del Pnrr, ed è poco meno dei 25 miliardi che, sotto forma di anticipo, il governo ha ricevuto in estate da Bruxelles. Ci vorranno mesi, in realtà, per il bonifico: perché prima la Commissione dovrà vagliare tutti i piani, poi erogherà le risorse. E a Palazzo Berlaymont, dove le formule di cautela sono di prassi, dicono che le operazioni si concluderanno "entro Pasqua": metà aprile, dunque. Ma non è solo una questione contabile. E' la voglia e la necessità, da parte di Draghi, di dimostrare che è vero quel che Paolo Gentiloni, da commissario europeo agli Affari economici, dice dell'italia: e cioè che siamo "well on track". E occorre dimostrarlo subito, fin dalla prima delle molte scadenze previste. Anche per questioni di spazio diplomatico. Il 2022 sarà infatti l'anno della rinegoziazione del Patto di stabilità e delle normative sugli aiuti di stato. Sarà l'anno, secondo gli auspici di Palazzo Chigi, di un'inversione di rotta sulle politiche finanziarie. "Ma siccome gli altri Paesi, compresi i nordici, hanno accettato di tassarsi per finanziare il Recovery di cui l'Italia sarà il principale beneficiario, è per noi essenziale dimostrare - ripete Draghi ai suoi ministri - che questo sforzo sarà ripagato, anche per togliere alibi a chi vuole impedire la revisione dei parametri di bilancio". Rispettare gli impegni, quindi, per avere potere negoziale nel Consiglio europeo. E allora è anche per questo che il premier ha chiesto a tutti i ministeri uno sforzo. A volte anche personalmente, lo ha chiesto, alzando il telefono e chiamando i funzionari dei vari dipartimenti impegnati sui dossier più complicati. Coi tecnici del Mite di Roberto Cingolani, a esempio, qualche problema c'è stato. E anche la normativa sulla revisione degli appalti, gestita direttamente dagli uffici di Palazzo Chigi, ha presentato le sue difficoltà ancora nei giorni passati. Il tutto scandito dal sottosegretario Roberto Garofoli, metronomo e controllore. E se anche gli ultimi dettagli verranno, come sembra, limati nelle prossime ore, allora la cabina di regia insediata presso il Mef riuscirà a mandare il plico a Bruxelles in tempo per la chiusura dell'anno, forse già prima di Natale. Arriveremmo subito dopo la Spagna, che ha chiuso la pratica all'inizio del mese, ma insieme a Francia e Grecia, comunque nel novero dei solerti. Una tabella di marcia che comunque permetterà a Draghi di rivendicare il conseguimento della missione nel corso della conferenza di fine anno. Un incontro con la stampa insolitamente anticipato al 22 dicembre, forse per rendere meno incombente la scadenza quirinalizia e dunque più eludibili le domande che al riguardo di sicuro arriveranno. Ma di certo, nella narrazione che Palazzo Chigi vuole suggerire, il traguardo parziale del Pnrr è un elemento fondamentale. Che darebbe l'idea, pur con una pandemia ancora in corso e non nella sua fase calante, di un paese in ordine. Forse non il migliore del mondo, come vorrebbe l'Economist, ma in ogni caso in grado di concedersi un'elezione del presidente della Repubblica senza vincoli o costrizioni. Senza cioè l'impossibilità, da parte del premier, di trasferirsi al Colle, con ciò che potrebbe conseguirne in termini di efficienza sul Pnrr. Per fine gennaio, quando cioè il risiko quirinalizio sarà stato risolto, sarà forse più chiaro anche l'impatto di eventuali elezioni anticipate sugli impegni di un Paese coinvolto nell'attuazione del Recovery. Perché il Portogallo, che al voto andrà il 30 di quel mese, con Bruxelles ha concordato una tabella di marcia con lievissime variazioni nelle scadenze del suo Pnrr, lasciando però attive, nonostante l'interruzione della legislatura, le strutture governative preposte alla realizzazione del piano. Sarà il primo osservato speciale. E poi chissà.».

UN NUOVO PATTO DI STABILITÀ PER LA UE

A proposito di politica economica della Ue, l’Italia continua a lavorare per un nuovo patto di stabilità. Parigi e Roma concordano sulla necessità di aggirare i veti sul 3% e vogliono convincere il nuovo Cancelliere tedesco, che sarà lunedì in Italia. Da Parigi Ginori  e da Berlino Mastrobuoni per Repubblica.

«Aggirare i veti sulla famosa regola del 3% puntando su golden rule e revisione del fiscal compact . Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno cominciato a mettere sul tavolo le loro proposte sulla riforma del Patto di stabilità. I due leader hanno aperto la discussione in modo informale, allargandola ora con il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz, che arriva lunedì in Italia. L'idea di Macron, in vista della presidenza francese della Ue che comincia a gennaio, è riuscire a lanciare un documento o una lettera comune di un gruppo di Paesi in modo da far convergere poi tutti gli altri. Nel paper che ha cominciato a girare, anche al livello dei dicasteri economici, sono elencati tre obiettivi per la nuova governance che dovrebbe essere avviata entro il 2022, quando finirà la clausola sospensiva del Patto di Stabilità. Il primo è la golden rule, ovvero un trattamento differenziato della spesa pubblica per investimenti nella transizione verde e digitale. Il secondo obiettivo è la revisione del fiscal compact nella "regola del ventesimo", secondo cui ciascun Paese deve ridurre di un ventesimo all'anno lo stock di debito eccedente la soglia del 60% del Pil. Un criterio che il ministro dell'Economia francese ha già definito «obsoleto». Il terzo obiettivo è permettere a ciascuno Stato membro di concordare con la Commissione un cammino pluriennale di riduzione dello stock di debito pubblico. «Ogni Stato si assumerebbe la responsabilità di proporre la propria traiettoria di riduzione della spesa pubblica e di risanamento delle finanze pubbliche e del debito, con un certo numero di riforme e un calendario», ha spiegato il ministro Bruno Le Maire durante l'ultimo Ecofin. Nella visione esposta negli ultimi giorni da Macron ai suoi interlocutori una riforma del genere permetterebbe di evitare il dibattito sul parametro del 3% deficit/Pil che lui stesso ha definito «superato». Il leader francese è convinto che sia possibile trovare un'intesa sulla base di questa piattaforma di misure. Oltre all'adesione del premier spagnolo Pedro Sanchez, quasi scontata, l'ambizione è quella di incassare anche la firma di Scholz e del premier olandese Mark Rutte. Il capofila dei "frugali" ha appena nominato un nuovo governo con un approccio economico più espansivo che alimenta speranze a Parigi. Una tappa decisiva nelle trattative in corso è l'incontro tra Draghi e Scholz. Sarà un colloquio di un'ora e ruoterà intorno ad alcuni temi cruciali come la pandemia, la riforma del Patto di stabilità o l'immigrazione. Ma nell'appuntamento di lunedì una domanda sarà inevitabile, da parte tedesca: «Quanto sarà stabile l'Italia nel 2022?». Fonti tedesche non negano che il cancelliere verrà a Roma anche con la testa rivolta alla situazione politica nel nostro Paese, che rischia di essere terremotata dalle elezioni per il Quirinale. Ma la scelta di Scholz di venire in Italia subito dopo l'insediamento è un messaggio importante. I primi viaggi del cancelliere sono state tappe di rito: Parigi, Bruxelles e, per contingenze urgenti come la crisi russa, Varsavia. Se Scholz ha accettato immediatamente l'invito di Draghi è per mandare un segnale forte. Sul tema caro a Italia e Francia, la riforma del Patto di stabilità, da Berlino fanno notare che il governo ha giurato da pochi giorni e deve ancora concordare una posizione comune sui dettagli. Ma intanto le rigidità del partner di governo Fdp sono sparite: la riforma si farà. E il nuovo ministro "rigorista" Christian Lindner ha già detto persino che la Germania si deve porre in una posizione di mediazione tra "frugali" e Paesi come l'Italia e la Francia. Berlino stessa ha un bisogno vitale di fare investimenti per garantire la svolta energetica ed ecologica promessa dal governo. E sia Scholz sia Lindner non possono dunque negare gli spazi per fare investimenti anche ai partner europei, al di là dei paletti di Maastricht. È presto ancora per dire se accetteranno una golden rule per aggirare le regole sul deficit. Ma è una proposta che i Verdi, ad esempio, avevano fatto in campagna elettorale. Anche sul secondo punto caro a Italia e Francia, l'aspirazione a concedere che ogni Paese percorso di taglio del debito autonomo, da Berlino fanno notare che anche nessuna decisione è stata presa e che la discussione comincia adesso. Ma una discussione è già avviata alla Commissione Ue. Ed è difficile che Ursula von der Leyen si muova senza sentire la Germania, su un tema così delicato. Peraltro, proprio su questo punto si registra il sostegno di una liberale come la vicepresidente del Parlamento Ue Nicola Beer».

QUIRINALE 1. SALVINI CONTRO DRAGHI

Sfogo di Matteo Salvini con i cronisti durante la trasferta palermitana, dovuta al processo sulla Open Arms. Dice il capo della Lega: “Io devo governare col Pd e lui se ne va? Ha ragione l'Economist”. E silura anche Cartabia. Emanuele Lauria per Repubblica.

«Ma come, io faccio lo sforzo enorme di governare con il Pd e lui se ne va?». Matteo Salvini stringe Mario Draghi in un abbraccio soffocante. E con determinazione senza precedenti, con fare sarcastico, lo blocca sulla poltrona di Palazzo Chigi. Cimentandosi con successo, cioè, in quello che è diventato lo sport preferito dei leader di partito: fermare il cammino (eventuale) del premier verso il Quirinale. Sono le tre del pomeriggio quando il capo della Lega approfitta di una pausa del processo Open Arms per smettere i panni dell'imputato e liberare l'energia compressa in sei ore di diligente presenza in prima fila nell'aula bunker di Pagliarelli. Quel che ne viene fuori è una raffica di considerazioni taglienti e battute. Si parte dal giudizio dell'Economist, che lodando il governo italiano insinua dubbi sull'eventuale trasloco di Draghi sul Colle: «Sono d'accordo con l'Economist: il premier deve restare dov' è». E davanti a chi eccepisce che l'ex banchiere potrebbe non essere allettato dal continuare a guidare un esecutivo che a ridosso delle elezioni minaccia di diventare rissoso e instabile, Salvini replica senza indugi: «Siamo tutti impegnati in un'esperienza di unità nazionale che impone sacrifici. E poi faccio fatica a pensare che, con lo stato d'emergenza prorogato al termine di marzo, a gennaio ci troviamo senza premier». La mascherina «Prima l'Italia» non contiene la verve dialettica del numero uno del Carroccio, che è deciso a svolgere fino in fondo il ruolo di play-maker: «Credo che fra Natale e Capodanno potrà già riunirsi il tavolo dei segretari. Troveremo un nome autorevole e decideremo bene e, se non tutti insieme, a larga maggioranza». L'ipotesi Draghi non lo convince anche perché, sottolinea, «se sposti un tassello poi c'è il rischio che venga giù tutto». Sono concetti che il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani rilancia poco dopo: «Che Draghi rimanga a Palazzo Chigi è un fatto di interesse nazionale: non dimentichiamo che il Covid non è battuto, è stato prorogato lo stato di emergenza, c'è il Recovery. Ormai tutti dicono la stessa cosa: lo dico io, lo dice Salvini, ma anche Letta, Conte, Washington e Bruxelles». Eccolo, l'assedio nei confronti del primo ministro, spinto a non muoversi ancor prima che lui abbia comunicato cosa fare. E quando interviene anche il segretario del Pd Enrico Letta, non lo fa per smentire o correggere i due esponenti del centrodestra, tutt' altro. Lo fa per dirsi solo convinto che «la decisione finale sarà supportata dalle forze politiche con il più largo consenso possibile». A questo punto anche ciò che sembrava scontato fino a qualche tempo fa, ovvero il fatto che quel "largo consenso" per l'elezione del Capo dello Stato possa comporsi attorno alla figura di Draghi, è ora messo in dubbio. Si torna a Palermo, nella fredda aula di un tribunale di periferia. Dove qualcuno - nei tempi morti dell'udienza - ricorda come anche un nome "blindato" come quello di Ciampi, nel 1999, fu ostacolato da 180 franchi tiratori. «E allora non c'era il rischio di elezioni anticipate... » sibila Salvini, pronto ad ammettere che 22 anni fa esisteva anche la certezza di partiti più compatti: «Letta e Conte si siederanno al tavolo delle decisioni ma siamo sicuri davvero che rappresentano appieno i loro partiti?». Comincia un toto-nomi un po' surreale, visto il contesto giudiziario, fra la deposizione di un testimone e l'altra. Il segretario leghista è freddo su Marcello Pera: «A differenza di quello che scrivono i giornali non lo vedo e non lo sento da tempo». E boccia con eleganza Marta Cartabia. Appena si cita la Guardasigilli sgrana gli occhi perplesso: «La sua riforma del processo penale ha cercato di accontentare tutti, e non mi sembra che le migliori riforme nascano così. Stesso discorso vale per quella del Csm». Si snocciolano altre ipotesi, si fanno calcoli: «Aspettando anche di capire cosa vuole fare Berlusconi», rammenta Salvini. Che aggiunge sornione: «Lui i numeri sulla carta ce li avrebbe...». Al pressing dei partiti sul secondo tempo di Draghi al governo si sottrae Fratelli d'Italia. Che capisce che non c'è aria di tornare alle urne e alza il tono della sfida: Con il mandato di Mattarella termina anche quello di questa maggioranza e si torna alle urne», auspica Giovanni Donzelli, responsabile organizzativo di un partito che vuole capitalizzare la crescita di consensi attribuitagli dai sondaggi. È esattamente la posizione della presidente Giorgia Meloni, che dà corpo all'ultimo paradosso quirinalizio: l'unica forza politica interessata a "promuovere" Draghi è quella che gli fa opposizione in Parlamento».

QUIRINALE 2. BONOMI CAMBIA IDEA

Nel retroscena di Francesco Verderami si registra un cambiamento di opinione del Presidente della Confindustria.

«Anche il presidente di Confindustria era convinto che Draghi dovesse restare alla guida del governo. Fino all'altro ieri. Qualcosa nel frattempo dev' essere successo se giovedì scorso, al termine del consiglio generale di Confindustria, Carlo Bonomi ha iniziato a discutere sull'andamento delle cose politiche, manifestando forti timori ed esplicitando un ripensamento rispetto a quanto aveva detto in precedenza. Bonomi è persuaso che l'Italia non possa permettersi di perdere Draghi. Ma se non andasse al Quirinale, con ogni probabilità non resterebbe nemmeno a palazzo Chigi. Di qui la svolta, che è dettata (anche) dalla preoccupazione per l'atteggiamento dei partiti, dal rischio che possano avvitarsi nella competizione per la corsa al Colle, perdendo di vista quelle che - a suo giudizio - sono le priorità del Paese. D'altronde aveva appena esaminato insieme ai consiglieri di Confindustria un'analisi del loro Centro studi che - partendo dall'aumento «abnorme» dei prezzi delle commodity - disegna uno scenario a fosche tinte per il sistema industriale italiano, nonostante il 2022 prospetti un forte aumento del Pil. Perciò Draghi viene vissuto come lo scoglio a cui aggrapparsi. Questione di punti di vista. Perché per i partiti quello scoglio è un pericolo contro cui temono di infrangersi. E l'idea di confinare Draghi a palazzo Chigi - a cui ieri Salvini ha dato voce - accomuna (quasi) tutte le forze di centro, di destra e di sinistra. Su questo c'è convergenza, sul successore di Sergio Mattarella no. Ed è vero che di qui a fine gennaio c'è tempo per arrivare a un'intesa, ma - come spiega un rappresentante del governo - «a fronte di una marea che porta verso Draghi le forze politiche non hanno un'alternativa comune altrettanto solida». E quindi su Draghi potrebbero alla fine andare a sbattere, magari dopo una sequenza di votazioni a vuoto. Perché Silvio Berlusconi non pare disponibile a mollare: «Sono convinto di potercela fare», ha spiegato infatti la scorsa settimana a un amico di sinistra, avvertendolo che «appena finite le feste di Natale verrò a Roma. Per restarci». E siccome il Cavaliere (quasi) tutto il Pd non può votarlo, viene proposto in alternativa Giuliano Amato. Ma Amato è indigesto ai cinquestelle, che per quanto non abbiano un ruolo hanno comunque i voti. E allora se non è Amato c'è Pierferdinando Casini, a cui Romano Prodi concede «le maggiori chance se si arrivasse alla ventesima chiama. Altrimenti». Altrimenti il Professore vede «Draghi alla prima votazione». Il fondatore dell'Ulivo conosce le regole del gioco e fa capire ciò che un autorevole ministro del Pd spiega: «Se i partiti puntassero subito su Draghi, potrebbero sempre sostenere di averlo scelto. Formalmente riaffermerebbero il primato della politica e potrebbero ripartire da lì. Se invece decidessero di far da soli e per qualsiasi motivo non riuscissero a chiudere la questione del Quirinale, si troverebbero costretti ad andare da Draghi. Ma in quel caso sarebbe un'offerta successiva a un fallimento. Per la politica sarebbe il disastro». Il bivio è questo e i partiti devono studiare bene il loro percorso. Anche se nell'esecutivo c'è chi - forte di una ventennale esperienza maturata sul campo - vede aggirarsi troppi apprendisti stregoni e avverte che la strada del premier per arrivare al Colle non si esaurirebbe alla prima votazione: «Dopo la decima fumata nera tornerebbe in gioco. Anche perché la sua agenda, dopo gennaio, è vuota». Deve aver intercettato un po' di queste conversazioni Bonomi, se l'altro ieri si è mostrato preoccupato in Confindustria. Dove confidano nel premier e aspettano un suo segnale pubblico. Per ora di segnali Draghi non ne offre nemmeno in Consiglio dei ministri: «Questo aspetto lo affronteremo in primavera», ha detto l'altro giorno su uno dei tanti provvedimenti in esame. Tutti hanno provato a scrutarlo, ma lui niente. Una sfinge».

QUIRINALE 3. BERLUSCONI: DOPO DI ME IL DILUVIO

Intanto Silvio Berlusconi punta al Quirinale anche se teme franchi tiratori tra Lega e Fdi. Carmelo Lopapa per Repubblica.

«Il sospetto ha iniziato a insinuarsi da un paio di giorni nei saloni di Villa San Martino ad Arcore addobbati a festa. Come uno spiffero infido e sgradevole dal quale è impossibile difendersi. Matteo Salvini e Giorgia Meloni - nonostante i veti apparenti su Draghi - non stanno giocando una partita limpida nella complicata trattativa per il Colle: di questo si sta via via convincendo Silvio Berlusconi, mentre al centralino di casa il tam tam delle telefonate somiglia sempre più a quello della batteria del Viminale. Ieri il fuoco di fila dal centrodestra sulla scalata dell'attuale presidente del Consiglio: «Resti premier». Eppure, il capo di Forza Italia si fida ogni giorno meno di chi dovrebbe sostenere la sua corsa. «Non voglio fare la fine di Romano Prodi», ripete, per nulla entusiasta di quella sorta di mini-consultazione che il leader della Lega ha lanciato coi colleghi degli altri partiti. La ciliegina poi ieri, da Palermo, quando a margine del processo Open Arms l'ex ministro dell'Interno si è lasciato sfuggire con schiettezza: «Non dico che dobbiamo scegliere uno dei nostri, ma proviamo a fare la scelta più condivisa possibile». Per il Cavaliere, il sigillo sui peggiori auspici, generati anche dalle mezze frasi sfuggite a Giorgia Meloni («Berlusconi è una ipotesi seria, ma servono i numeri»), che pure lo aveva definito "un patriota". Il veto di Enrico Letta ai leader di partito ha fatto il resto. E Gianni Letta non fa nulla per smontare la tesi secondo cui il capo del Pd sta giocando di sponda proprio con i leader di Lega e Fdi per neutralizzare Berlusconi. «Se alla prova del voto mi mancheranno quindici voti vorrà dire che mi sono giocato la mia partita - è il ragionamento dell'anziano ex presidente del Consiglio riferito da chi è stato spesso con lui di recente. Ma se me ne mancheranno centoquindici, allora vorrà dire che sono venuti meno ai patti i nostri alleati. E per me il centrodestra sarebbe finito lì». Trasposizione berlusconiana della storia dei 101 franchi tiratori di Romano Prodi. Considerazione amara che sa di avvertimento. Da parte del leader del partito certo più modesto, fra i tre che compongono la coalizione. Ma pur sempre patron delle reti Mediaset, quelle nelle quali Salvini e Meloni scorrazzano, saltellando da un talk a un tg, lucrando consensi. Come dire, se le cose dovessero andare tanto male nella corsa al Colle, cambierebbe tutto lo scenario, nel centrodestra. Politico, ma anche mediatico. Sono gli uomini rimasti vicini al Cavaliere a destarlo dal sogno quirinalizio carezzato da settimane: «Presidente, guardi che siamo certi soltanto dei nostri parlamentari e se non dovesse farcela non bisognerà scomodare Agatha Christie per risalire al colpevole». Berlusconi annuisce in silenzio, comunque convinto di poter giocare le sue carte dalla quarta votazione, evitando accuratamente di bruciarsi nelle prime. E chissà se ad alimentare le speranze non siano state nelle ultime settimane le frequenti, insospettabili telefonate con Giuseppe Conte: l'ex presidente del Consiglio targato M5S, il partito più lontano dalla storia politica berlusconiana. Sui loro voti (e su quelli degli ex grillini) paradossalmente confida l'uomo di Arcore. Nessuna delle fonti attendibili dei due partiti riesce a spiegare cosa ci sia dietro, sta di fatto che è nata tra loro una sorta d'intesa all'insegna di un vago "moderatismo". «Ho saputo che Berlusconi può contare sull'appoggio di almeno 7 grillini alla Camera », confidava ieri sera all'Adnkronos Gregorio De Falco, ex capitano di fregata, ex senatore 5S oggi nel Misto. «Berlusconi? Il punto è che potrebbe essere affossato dallo stesso centrodestra», insinuava ieri con voluta malizia Luigi Di Maio intervistato dal Corriere.it. Ad ogni modo, Berlusconi continua a tessere la sua tela sostenuto (solo) dai suoi. «La strada è in salita e Forza Italia ormai ha imboccato una parabola discendente - raccontava l'altra sera Gianfranco Rotondi in una cena natalizia - ma se dovesse concludersi con Silvio al Colle per tutti noi sarebbe un finale più che dignitoso». Detto questo, il Cavaliere sa bene di essere la "seconda opzione", lo confessa con scaramanzia a tutti. Ma con l'incognita Omicron anche il futuro di Mario Draghi sta diventando meno scontato. Poi, se già alle prime votazioni per l'ex presidente della Bce dovessero spalancarsi le porte del Quirinale, allora il leader forzista si farà trovare plaudente nella tribuna vip dei grandi elettori».

I FRATELLI DIMENTICATI NEL ROGO DI FOGGIA

Campo rom di Stornara, nel Foggiano: ieri mattina due fratellini di 4 e 2 anni sono morti nell'incendio divampato in una baracca. I Vigili del fuoco si sono imbattuti in uno scenario raccapricciante: di quel rifugio di fortuna, non è rimasto altro che cenere e detriti. La cronaca di Avvenire.

«Avevano 4 e 2 anni i bimbi di nazionalità bulgara, fratello e sorella, che hanno perso la vita nel rogo di una delle tante baracche del campo rom alla periferia di Stornara, paesino agricolo poco lontano da Cerignola, nel Foggiano. I due bambini ieri mattina dormivano quando le fiamme, con ogni probabilità sviluppatesi da un braciere rudimentale a legna ricavato in un bidone per conservare l'olio, hanno completamente avvolto e distrutto la loro capanna costruita con legname e plastica. Il dramma si è consumato in pochissimo tempo perché il fuoco, alimentato anche dal forte vento, ha divorato il materiale infiammabile e ogni altra cosa, senza che i piccoli abbiano avuto neanche la percezione di quanto stava accadendo. Il papà di 27 anni era al lavoro nei campi. È stata la madre 21enne, che si era allontanata, a tornare di corsa verso la baracca, assistendo poi quasi inerme allo sconvolgente propagarsi dell'incendio. I Vigili del fuoco, arrivati tempestivamente per le operazioni di spegnimento, si sono imbattuti in uno scenario raccapricciante, trovando i corpi carbonizzati dei due bambini. Di quel rifugio di fortuna, non è rimasto che cenere e detriti. Altre tre baracche situate nelle vicinanze sono andate distrutte. Sul posto sono giunti il prefetto di Foggia, Carmine Esposito, e il pm di turno Roberta Bray che ha avviato le indagini. Sono intervenuti anche i carabinieri della scientifica del Comando provinciale di Foggia per effettuare i rilievi ed accertare le cause dell'incendio che, secondo gli inquirenti, sarebbe scoppiato per una stufa a legno improvvisata. La tragedia ha scosso l'intera comunità di Stornara, riaprendo tutti gli interrogativi su un insediamento in cui, da alcuni anni, si sono insediate circa mille persone, prevalentemente cittadini bulgari, che sono lo specchio inquietante delle periferie abbandonate degli agglomerati urbani. Le parole del sindaco di Stornara, Rocco Calamita in un post su Facebook, sono state piuttosto eloquenti: «Difficile trovare la forza per esprimere il dolore mio, dell'intera amministrazione e di tutta la popolazione di Stornara. Né mi dà conforto il fatto che questa amministrazione avesse in più occasioni segnalato e portato a conoscenza a tutte le autorità competenti la situazione drammatica, anche sotto il profilo sanitario, del campo rom. Simili episodi non dovrebbero verificarsi, anche perché troppo spesso a pagarne le conseguenze sono gli unici realmente non colpevoli». Il primo cittadino ha poi rivolto un appello alla politica nazionale, «perché affronti e risolva questo fenomeno tragico che ormai non ha più confini e interessa tanto la nostra comunità, quanto quella foggiana, pugliese e persino internazionale ». Un evento luttuoso che ha turbato anche i rappresentanti delle istituzioni. L'assessore regionale al welfare, Rosa Barone ha dichiarato: «Ho espresso la mia solidarietà al sindaco per questo dramma che colpisce l'intera comunità. Il compito delle istituzioni è garantire a tutti condizioni di vita dignitose, che non c'erano nelle baracche andate a fuoco oggi. Con i miei uffici stiamo lavorando per la convocazione di un tavolo intersettoriale con tutti gli attori interessati, in modo da dar vita a progetti per l'integrazione sociosanitaria». Cordoglio e sconcerto è stato espresso anche dalle associazioni di volontariato e promozione sociale presenti sul territorio. In una nota l'Arci Travel Aps di Stornara parla di ennesima tragedia annunciata. «È una notizia devastante. Non ci sono parole per descrivere la rabbia e l'amarezza. Dobbiamo chiederci se abbiamo fatto abbastanza, per aiutare chi vive ai margini delle nostre periferie. Non ci sono più lacrime, non possiamo più girare la testa dall'altra parte. Sono morti due bambini e nella maniera più crudele. Siamo vicini alla famiglia e alla comunità».

MIGRANTI 1. LE MOTIVAZIONI CONTRO MIMMO LUCANO

Depositate le motivazioni della dura condanna contro Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace. La cronaca di Repubblica.

«Il dominus indiscusso» di un sistema che «ha strumentalizzato l'accoglienza a beneficio della sua immagine politica». Il capo «di un sistema clientelare». È un ritratto lontano anni luce da quel Mimmo Lucano che in tanti hanno imparato a conoscere quello che emerge dalle novecento pagine che il giudice di Locri, Fulvio Accurso, ha messo insieme per spiegare perché lo abbia condannato a 13 anni e 2 mesi. Una pena quasi doppia rispetto a quella invocata dal procuratore Luigi D'Alessio e dal pm Michele Permunian. La tesi è che a Riace ci sia stato un modello virtuoso di accoglienza, ma nel tempo si sia trasformato in un sistema basato «su meccanismi illeciti e perversi, fondati su cupidigia e avidità», anzi «un vero e proprio arrembaggio ai finanziamenti». Per i giudici, i fondi destinati ai migranti sarebbero finiti in «progetti di rivalutazione territoriale che si sono tradotti in plurimi investimenti» necessari a Lucano per costruire clientele, «un trampolino di lancio per la sua visibilità politica» e persino una sorta di tesoretto per il futuro. E le sue tasche notoriamente bucate? «Mera apparenza». Si infuria Lucano: «Se io mi sono arricchito, dove sono questi soldi? ». Amareggiato, sottolinea «non mi aspettavo complimenti ma neanche bugie per giustificare la condanna. In appello si ristabilirà la verità».

MIGRANTI 2. GLI AUGURI A PAPA FRANCESCO

Ieri papa Francesco ha compiuto 85 anni. Auguri al Papa sono arrivati da tutto il mondo, ma non c’è stata alcuna occasione ufficiale. La breve cronaca di Libero.

«Papa Francesco non si è risparmiato nemmeno nel giorno del suo compleanno. Ieri, infatti, ha compiuto 85 anni e tutto il mondo gli ha espresso il suo affetto, tra cui il presidente russo Vladimir Putin. Nel mentre, ha incontrato gli ambasciatori di Moldova, Kyrgyzstan, Namibia, Lesotho, Lussemburgo, Ciad e Guinea Bissau, e ha poi abbracciato il gruppo di rifugiati arrivati nel Belpaese dopo l'accordo tra Santa Sede, Italia e Cipro. «Ci hai salvato», gli ha detto, commosso, un ragazzo congolese, mentre da un rifugiato afgano ha ricevuto un dipinto che raffigura il tentativo di attraversare il Mediterraneo. Poi l'appello per un accesso ai vaccini che non lasci fuori nessun Paese».

MIGRANTI 3. LA CASSAZIONE CONTRO SALVINI E TONINELLI

La Cassazione ha confermato il «diritto al non respingimento» verso «un Paese non sicuro» come la Libia. Smentiti gli allora ministri Salvini e Toninelli. Per Avvenire Nello Scavo.

«Sono bastate nove righe alla Corte di Cassazione per sconfessare la narrazione ufficiale sulla Libia e assolvere due migranti accusati di resistenza per essersi opposti al respingimento in Libia. La sesta sezione penale ha ribadito il «diritto al non respingimento » verso «un Paese non sicuro». Quel Paese è la Libia con cui proprio l'Italia ha rinnovato e rifinanziato gli accordi per respingere i profughi. La domanda riportata nel dispositivo della suprema corte riguardava la legittimità della «condotta di resistenza al pubblico ufficiale da parte del migrante che, soccorso in alto mare e facendo valere il diritto al non respingimento verso un Paese non sicuro, si opponga alla riconsegna alla Stato Libico ». I giudici hanno risposto con una sola parola: «Affermativa». La corte (presidente Mogini, estensore Silvestri) ha risposto senza girarci intorno, ribadendo di avere fondato il verdetto sul codice penale italiano, sui pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell'uomo e di tutte le Convenzioni internazionali sugli interventi di soccorso in mare. I due migranti erano stati definiti «dirottatori» dall'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini (Lega) e «facinorosi» dall'allora ministro dei Trasporti (competente per i porti) il pentastellato Danilo Toninelli. Questo perché secondo una prima ricostruzione delle autorità italiane, poi smentita dalla Marina Militare, avevano minacciato di morte l'equipaggio dal momento in cui avevano notato che il rimorchiatore Vos Thalassa, dopo averli soccorsi anziché dirigersi verso l'Italia stava puntando la prua in direzione della Libia. Era il 10 luglio 2018 quando i migranti vennero accusati di avere dirottato la nave. Una versione negata pochi giorni dopo da fonti dello Stato Maggiore. Un elicottero della Marina, infatti, aveva imbarcato un team di incursori che avrebbe dovuto compiere un blitz per ristabilire l'ordine e prendere il timone del rimorchiatore che aveva preso a bordo i 67 'facinorosi'. «Eravamo pronti a saltare sulla nave per prenderne il controllo », avevano spiegato dalla Marina ad Avvenire. Non ce ne fu bisogno. «La situazione era sotto controllo, l'allarme non era giustificato, nessun pericolo né per l'equipaggio né per i migranti». Il velivolo con la squadra speciale si era tenuto a distanza, senza farsi notare, ma aveva osservato e registrato tutti i movimenti sul vascello. Nelle stesse ore in cui il ministro dell'Interno parlava di «dirottamento », gli specialisti tornavano alla base non prima di avere comunicato l'annullamento della missione, assicurando che non vi era stato alcun ammutinamento dei migranti, poi trasbordati sull'ammiraglia della Guardia Costiera "Diciotti" e infine sbarcati a Trapani. La «notizia decisione» della Suprema corte contiene affermazioni che da ieri sono giurisprudenza. Viene ribadito il «diritto al non respingimento » di migranti che in caso contrario verrebbero riportati «verso un Paese non sicuro». Perciò giustificando l'opposizione «alla riconsegna allo Stato Libico». Invece i governi italiani (da Gentiloni a Conte a Draghi) e i vertici di Bruxelles hanno continuato a sostenere gli accordi con le autorità libiche allo scopo di riportare a Tripoli i migranti scampati ai campi di prigionia. L'intera politica di trattative, molte delle quali riservate e dai contenuti tuttora sconosciuti, si infrange contro questa sentenza che disconosce la Libia quale Paese sicuro. Soddisfazione è stata espressa dagli avvocati Fabio Lanfranca e Serena Romano e dal team legale dello studio dell'avvocato Alessandro Gamberini. La decisione, inoltre, apre la strada ai ricorsi di quanti, con il sostegno politico e materiale dell'Italia, sono stati catturati dalla cosiddetta guardia costiera libica e riconsegnati alle milizie che gestiscono i campi di prigionia che Papa Francesco ha definito «nuovi lager».

UCRAINA. LA NUOVA YALTA DI PUTIN

Due giorni fa, ma lo si è appreso solo ieri, Mosca ha proposto un patto a Nato e Usa in un documento sulla crisi ucraina. Nel piano per l’Est Europa proposto da Putin si chiede che l’Ucraina non sia mai inclusa nell’Alleanza atlantica. Anna Zafesova sulla Stampa.

«La nuova Yalta che Vladimir Putin ha auspicato per la prima volta pubblicamente sei anni fa, dalla tribuna dell'Onu, prende per la prima volta una forma concreta. Mentre le truppe russe continuano a concentrarsi al confine con l'Ucraina, in assenza di qualunque segnale di de-escalation dopo la video-call tra Joe Biden e Putin, il ministero degli Esteri russo ha pubblicato i «progetti» dei trattati che Mosca vorrebbe firmare con gli Stati Uniti e con la Nato. Le famose «garanzie di sicurezza» che Putin aveva chiesto a Biden, che nella bozza di trattato si trasformano in un ultimatum: l'Europa, nella visione del Cremlino, deve tornare a venire spartita in due sfere d'influenza, lungo una linea che coincide più o meno con quella della Cortina di ferro, negoziata nel 1945. La prima condizione di Mosca è quella di chiudere le porte della Nato all'Ucraina, fermando ogni ulteriore allargamento verso Est. Non solo il Cremlino esige lo stop, ma chiede una marcia indietro: la Nato dovrebbe impegnarsi a non collocare armamenti e truppe nei Paesi che non ne facevano parte prima del maggio 1997, di fatto cancellando l'adesione degli Stati dell'Europa dell'Est retroattivamente. Inoltre, gli Usa separatamente e l'Alleanza nel suo insieme dovrebbero astenersi da qualunque tipo di attività e/o cooperazione militare con i Paesi post-sovietici, e Mosca specifica cosa intende: Ucraina, Europa dell'Est, Caucaso e Asia Centrale. Quindi non solo lo spazio «post-sovietico» sul quale il Cremlino da anni reclama i diritti, dopo aver strappato a Ucraina e Georgia pezzi dei loro territori, ma anche zone ormai nell'orbita della Cina e della Turchia, e soprattutto Paesi già membri della Nato e dell'Ue come Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e gli Stati Baltici, che avevano bussato alle porte di Bruxelles già trent' anni fa, proprio per timore di venire rivendicati come colonie di Mosca. Circostanza che il Cremlino si rifiuta di prendere in considerazione, in una esplicitazione brutale di quella visione del mondo che la diplomazia russa ha promosso già da anni, dove l'Europa è soltanto un territorio da spartire da grandi potenze, e gli europei asserviti a Washington. Che resta, secondo Mosca, l'unico vero interlocutore con il quale negoziare la sorte dei vassalli, rivendicando quello status di «partner pari grado» che Putin oppone al declassamento a «potenza regionale» di Barack Obama, e alla priorità di fronteggiare la Cina proposta sia da Donald Trump sia da Joe Biden. Le bozze dei due trattati pubblicate dal ministero degli Esteri russo però vanno ben oltre la parità: mentre a Washington e Bruxelles vengono imposte una serie di condizioni e di marce indietro, la Russia si guarda bene dall'assumere alcun impegno oppure offrire qualunque garanzia agli Stati sovrani che rivendica come sua sfera d'influenza. Tutte le altre misure ipotizzate nei due documenti sono simmetriche, come il reciproco impegno a non espandere fuori dai propri confini gli arsenali nucleari, a non collocare missili di corto o medio raggio, navi e bombardieri in zone dalle quali possano colpire il territorio nemico. Queste ultime misure potrebbero anche essere un passo avanti nel ricostruire un'architettura di sicurezza reciproca soprattutto in Europa, dopo che Trump aveva colto il pretesto di un test missilistico russo per demolire il trattato Inf sugli «euromissili». Se non fosse che l'offerta del Cremlino fondamentalmente si traduce in un'ammissione: la Russia si considera nemica e avversaria dell'Occidente, e vorrebbe un patto di non aggressione. In altre parole, Putin vuole tornare al 1985, più o meno, concludendo la sua trasformazione di revisionista che ritiene la perestroika, e la fine dell'«impero del male», una tragedia. L'obiettivo della politica estera, come già di quella interna, diventa un «back in the Ussr», incluso una restituzione dei territori che la Russia dichiara sottratti alla sua sfera strategica, almeno dal punto di vista militare. La differenza con l'Urss è che Mosca oggi non possiede minimamente quel potenziale militare, politico, economico e ideologico che poteva avere Nikita Krusciov quando picchiava con la scarpa sulla tribuna dell'Onu. Stalin aveva negoziato la spartizione di Yalta dopo aver liberato mezza Europa da Hitler, con milioni di vite di soldati sovietici. L'ultimatum putiniano, per quanto coerente con la sua ideologia neosovietica, appare più una nuova partita a poker che una proposta diplomatica vera, se non altro perché un trattato di non aggressione tra Mosca, Washington e Bruxelles - che non era esistito peraltro nemmeno durante la guerra fredda - si negozia, e non si pubblica, già pronto, sul sito del ministero degli Esteri. Viene quasi il dubbio che quella di una nuova Yalta sia una proposta fatta per venire rifiutata, un'altra vecchia tecnica della diplomazia sovietica».

IL CILE VA AL VOTO

Dopo la morte della vedova di Pinochet, la “dictadora”, il Cile va al voto. Sara Gandolfi per il Corriere.

«Se io fossi a capo del governo, sarei molto più dura di mio marito». I giornali cileni ieri ricordavano così Lucia Hiriart, vedova di Augusto Pinochet, morta a 99 anni. Era la «dictadora», ben più oltranzista del generale che pure sulla coscienza aveva 3216 morti e «desaparecidos», donne e uomini i cui corpi non sono mai stati ritrovati. «Fossi io al comando, metterei tutto il Cile in stato d'assedio» disse nel 1984 la «primera dama» mentre a Santiago imperversavano le proteste contro il regime militare, che sarebbe caduto solo sei anni dopo. Non è un caso che, all'annuncio della sua morte, migliaia di persone siano scese in piazza per festeggiare. Lucia e Augusto Pinochet, sposati nel 1943, ebbero cinque figli, ma è stata una nipote a dare la notizia ufficiale: «La mia amata nonna lascia un segno immenso nei nostri cuori», ha scritto sui social media Karina Pinochet. C'era anche lei nella stanza in cui nel 1973 si decise il golpe contro Salvador Allende, secondo l'autobiografia dello stesso Pinochet: «Una notte mia moglie mi portò nella stanza dove dormivano i nipotini e mi disse: "Saranno schiavi perché non sei stato in grado di prendere una decisione"». E così lui agì. Balli, cori, spumante e cartelloni con le foto e i nomi dei «desaparecidos» hanno riempito mercoledì sera Plaza Italia a Santiago. Anche Lucia, per molti cileni, non ha mai pagato per le oltre 40.000 vittime di violazioni dei diritti umani compiute fra il 1973 e il 1990 (Rapporto Retting) e in gran parte impunite grazie alla Legge d'amnistia del 1978, tuttora in vigore, che ha di fatto imposto l'oblio in nome della pacificazione. L'ombra dei Pinochet pesa come un macigno sul tesissimo ballottaggio presidenziale di domani tra due candidati agli estremi dell'agone politico, e destinati a un testa a testa ricco di suspence. José Antonio Kast del Fronte Sociale Cristiano (estrema destra), che la sinistra ha bollato come erede di Pinochet o «il Bolsonaro del Cile». E Gabriel Boric della coalizione Apruebo Dignidad (sinistra), l'ex leader delle proteste studentesche che la destra definisce «il Maduro del Cile». Sarà un voto cruciale, dopo due anni di crisi economica e pandemica, mentre è in corso la stesura della Costituzione che dovrà sostituire quella ereditata da Pinochet. La morte della vedova Pinochet ha colto di sorpresa entrambi i candidati, nell'ultimo giorno di campagna elettorale. Via Twitter, Boric ha dichiarato: «Lucía Hiriart muore impunemente nonostante il profondo dolore e la divisione che ha causato al Paese. I miei rispetti alle vittime della dittatura di cui faceva parte». Kast ha giocato d'understatement , pur avendo più volte elogiato il regime di Pinochet: «Non voglio fare di questo evento luttuoso un fatto politico». Comunque vada, il Paese è spaccato e molti cileni si sentono «orfani» di quel centro liberista che ha gestito la transizione dal 1990 ad oggi. I toni sono aspri e divisivi, a conferma di una riconciliazione più che imperfetta. Kast, 55 anni, ha dichiarato ieri che «il Cile non è e non sarà mai un Paese marxista o comunista, con quei discorsi di pace e amore non ci inganneranno». Al primo turno ha superato il rivale con il 27,9% dei voti contro il 25,8%. Boric, 35 anni, però è riuscito ad ottenere per il ballottaggio il sostegno di tutti i partiti di centrosinistra della Concertación, che governò il Cile per due decenni dopo la fine della dittatura. Ha chiuso la sua campagna a pochi metri dal palazzo presidenziale di La Moneda, dichiarando che Kast «porterebbe solo instabilità, odio e violenza, mentre noi siamo quelli che hanno lottato per trasformare il Cile in un Paese più giusto e degno».

TELECOM, OPA AMERICANA ANCORA SOTTO ESAME

Nuovo passaggio nella telenovela Tim. Gubitosi esce anche dal Consiglio d’Amministrazione, e forse ora l’Opa del fondo americano Kkr sarà presa in considerazione. Antonella Olivieri per Il Sole 24 Ore.

«Luigi Gubitosi lascia il Cda Telecom spianando la strada alla sua successione. A consiglio ancora in corso è filtrata la notizia che il board ha approvato all'unanimità l'accordo raggiunto tra il manager e l'azienda. Al manager andrà una liquidazione contrattuale di 6,9 milioni, da corrispondere entro il 3 gennaio. A quanto risulta, ci sarebbe poi a favore di Gubitosi una manleva standard "contrattuale", tipica per la gestione manageriale di un amministratore delegato. Secondo alcune indicazioni il direttore generale Pietro Labriola, che gode anche dell'appoggio del primo azionista, Vivendi, potrebbe essere cooptato in consiglio, e nominato amministratore delegato, a una prossima riunione del board che dovrebbe tenersi a breve. Salvo che Spencer Stuart abbia bisogno di qualche giorno in più per scremare una rosa di nomi per seguire appieno il percorso indicato dal consiglio del 26 novembre, come vorrebbe una parte degli amministratori indipendenti. La nota emessa ieri al termine del cda ribadisce a riguardo che consiglio e comitato nomine, assistiti dal cacciatore di teste, continueranno a lavorare al processo di successione finalizzato alla nomina di un nuovo ad e lo ultimeranno compatibilmente con i tempi necessari. Il posto lasciato libero in consiglio da Gubitosi, che ieri non era presente alla riunione, non dovrebbe comunque restare vacante a lungo in una fase nella quale occorre confrontarsi con Kkr anche sul piano dei progetti industriali. Ieri non è stata presa alcuna decisione in merito alla manifestazione d'interesse avanzata ormai un mese fa dal fondo Usa che si propone per un'Opa totalitaria al prezzo indicativo di 50,5 centesimi ad azione, sia ordinaria che di risparmio. Il progetto connaturato a un fondo di private equity, qualunque sia, passa necessariamente da uno spezzatino delle attività per farne emergere il valore a multipli differenziati. Nel caso specifico l'ipotesi è quella di una separazione dell'attività commerciale da quella infrastrutturale, con l'idea di offrire la rete alla Cdp per replicare il modello "Terna". L'incognita è il golden power, ma il Governo non si esprimerà prima che un'offerta sia stata concretamente formalizzata. Gli advisor, incaricati di assistere il comitato ad hoc presieduto da Salvatore Rossi - Goldman Sachs e Lion Tree - incontreranno nei prossimi giorni gli advisor del fondo - JP Morgan, Morgan Stanley e Citi - per approfondire i contenuti della proposta, prima ancora dal lato industriale che da quello finanziario. Solo quando le parti saranno più vicine si potrà dare il via libera alla due diligence di quattro settimane, che Kkr ha chiesto per poter lanciare un'offerta vera a propria. Per farlo occorrerà però che sia perlomeno in fase avanzata il piano industriale che Labriola si è impegnato a portare al consiglio insieme al bilancio 2021. La data del cda è stata spostata dal 23 febbraio al 2 marzo e l'assemblea annuale dal 31 marzo al 7 aprile. Anche Vivendi, che ambisce di tornare a esercitare il ruolo di primo azionista con una quota alla soglia dell'Opa, ha fatto capire di essere orientata nell'ottica della suddivisione delle attività di Telecom, con una serviceCo e una netCo, della quale sarebbe disposta a discutere la cessione della maggioranza a favore di Cdp. La Cassa peraltro si è ben guardare dall'ammiccare a riguardo, senza esprimersi nè nei confronti degli americani, che passerebbero da un'Opa, nè nei confronti dei francesi, che la eviterebbero. Il comunicato Tim precisa che è in corso, oltre alla valutazione della proposta di Kkr, anche un'analisi comparativa rispetto ad alternative strategiche e prospettive future della società. Nel frattempo il terzo profit warning è arrivato, molto pesante sul fronte domestico con l'ultimo trimestre dell'anno che potrebbe terminare, secondo le stime degli analisti, con un crollo dell'Ebitda dell'ordine del 25%-30%. Da una parte questo potrebbe gettare ombre sulla tenuta delle performance future della compagnia, dall'altra, di fatto, l'evento, per quanto negativo, sgombra parte delle incognite sulla due diligence chiesta da Kkr, che comunque, al più presto, non potrà partire prima di fine gennaio. In Borsa il titolo ha chiuso pressoché invariato da giovedì, appena sotto i 44 centesimi».

Leggi qui tutti gli articoli di sabato 18 dicembre:

https://www.dropbox.com/s/75uzk0a5snalkbh/Articoli%20La%20Versione%20del%2018%20dicembre.pdf?dl=0

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