La Versione di Banfi

Share this post

Omicron e spread, incubi di fine anno

alessandrobanfi.substack.com

Omicron e spread, incubi di fine anno

Oggi Cts e governo discutono di nuove misure su quarantene, pass e tamponi. Caos per i test in tutta Italia. Record di contagi. Sul Colle l'incubo spread, ripartito. Brutte notizie da Russia e India

Alessandro Banfi
Dec 29, 2021
1
Share this post

Omicron e spread, incubi di fine anno

alessandrobanfi.substack.com

Ieri è stata una giornata record per i contagi da Covid in Italia. Sono stati quasi 80 mila in un giorno. È la quantità e la velocità della variante Omicron a preoccupare: la malattia infatti sembra cambiata in meglio, nel senso che ha conseguenze più lievi, ma il sistema sanitario vacilla. A cominciare dal tracciamento dei tamponi. Anche su quel fronte ieri giornata record con più di un milione di test fatti in un giorno. Ma lunghissime file e disagi ci sono stati in tutto il Paese, finito nel caos. Si teme che un simile collasso arrivi anche negli ospedali. Come purtroppo sta già succedendo in Francia, ieri 180 mila casi, e in Gran Bretagna, ieri 130 mila. Stamattina Cts e governo devono intervenire. L’esperienza della Germania (lockdown per i non vaccinati) suggerisce una via possibile. L’altra è ridurre gli obblighi e i tempi di quarantena, almeno per i circa 18 milioni di italiani che hanno ricevuto la terza dose. Vedremo che cosa decideranno.

Parere personale: è sbagliato affidare la comunicazione sul Covid ad un militare, come il generale Figliuolo. È sacrosanto che l’esercito si occupi della logistica ma è inopportuno che, ad esempio, sul caso tamponi nelle Regioni parli un militare. Com’è successo in questi giorni. Stamattina Michele Serra su Repubblica difende la sua “franchezza alpina”. Sarà, a noi sembra fonte di equivoci e problemi. Sogno uno come Joaquim Navarro (vi ricordate il portavoce di Giovanni Paolo II?), ma anche come un Giovanni Grasso (attuale portavoce di Mattarella) che faccia finalmente questo lavoro: sentire tutti gli esperti scientifici e responsabili logistici per poi mandare i messaggi giusti agli italiani.

Il Sole 24 Ore stamattina anticipa le decisioni del governo sulla maturità: dovrebbe tornare la prova scritta d’Italiano, mentre la seconda prova è una tesina che andrebbe preparata entro maggio. Polemiche sul voto di fiducia a proposito della Legge di Bilancio. Quest’anno si è discussa solo in Senato e per pochi giorni.

Corsa al Quirinale. Oltre ad Omicron, l’altra emergenza che non va dimenticata è quella segnalata dai mercati. E si chiama spread: il differenziale dei titoli di Stato italiani da quelli tedeschi. Ieri mattina all’apertura squillo di tromba: 143. Volete qualche dato di confronto? All’inizio del governo Draghi era stabile a 90. Durante il Conte 2 nel 2020, in piena pandemia, era arrivato a 262. Il 9 novembre di dieci anni fa, alle dimissioni di Berlusconi da premier, era a 575. Nel momento in cui i partiti sembrano voler liquidare Mario Draghi, i mercati lanciano un segnale preciso. Daniele Manca sulla prima pagina del Corriere ricorda che “non possiamo distrarci”.

Dall’estero la pessime notizie riguardano Russia e India. Da Mosca arriva la condanna della Ong “Memorial”. Condanna gravissima perché, come nota Anna Zafesova sulla Stampa, riporta “l’orologio di Putin” a prima della caduta del comunismo. Il regime, sempre più autocratico, arriva a rivendicare come positivi per la nazione gli anni di Stalin e il sistema dei Gulag. Drammatica anche la situazione dei cristiani in India. Il governo Modi ha deciso di impedire i finanziamenti esteri alle suore di Madre Teresa.

Qual è il significato del Natale? Comunque la pensiate, è la memoria di un dono, di una nascita, di una vita data per gli altri. L’invito che vi faccio è allora tornare ad ascoltare, in questi giorni più tranquilli e familiari di festa e di riposo, il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Simone Weil nel suo libro La persona e il sacro scrive: “Dalla prima infanzia sino alla tomba, qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini, compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”. Il Natale conta su questo cuore. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

Trovate questa VERSIONE di nuovo nella vostra casella di posta, e anche domani l’appuntamento orario resta intorno alle 9. Guadagno un’ora di sonno in giornate che, anche se feriali, spero siano più rilassate per tutti voi. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Il virus contagia anche i titoli e continua a dominare la scena della stampa italiana. Per Avvenire siamo: Sotto effetto Omicron. Il Corriere della Sera insiste sui non vaccinati: Contagi record, stretta sui no vax. Domani sottolinea la questione test: Quasi 80 mila contagi in un giorno e la situazione tamponi è nel caos. Il Fatto rivela che a Malpensa, pagando, si fa un tampone immediato: Lombardia: 160 euro per molecolari subito. Il Giornale nota: Mai così tanti contagi. Quotidiano Nazionale vede anche il fantasma di un Capodanno bloccato: Record di contagi, incubo paralisi. La Repubblica cerca di essere ottimista: Omicron dilaga ma fa meno paura. La Stampa è oggettiva: Omicron, la quarta ondata. La Verità ironizza: Salgono i contagi, calano le quarantene. Libero però chiede a gran voce: Basta tamponi ai sani. Il Mattino pensa ad una stretta per gli impiegati: Lavoro, avanza il SuperPass. Il Messaggero mette fra virgolette la proposta del ministro Brunetta: «Super pass per lavorare». Scuola, il Sole 24 Ore anticipa come sarà la prova di fine d’anno e annuncia che torna lo scritto d’italiano: Ecco il nuovo esame di maturità. Il Manifesto si occupa della chiusura delle centrali nucleari in Germania: L’atomo fuggente.

OGGI CTS E GOVERNO DECIDONO SU TAMPONI E NO VAX

Il Cts si riunisce stamattina e forse già oggi il Consiglio dei Ministri prenderà nuove misure: allo studio green pass rafforzato per tutti i lavoratori, nuove regole per la quarantena per chi ha fatto tre dosi, lockdown per i no vax. Il punto sul Corriere della Sera è sempre della coppia Sarzanini  e Guerzoni.

«Il green pass «base», rilasciato anche con il tampone, ha i giorni contati. Se nella maggioranza passerà la linea dura, a tutti i lavoratori italiani sarà richiesto il certificato «2G», che si ottiene solo con la guarigione dal Covid o con il vaccino. Un altro (deciso) passo verso l'obbligo vaccinale generalizzato. Quasi ottantamila nuovi contagi e 202 morti sono numeri choc, numeri che costringono il governo ad alzare ancora il muro difensivo dalla variante Omicron. Tra Palazzo Chigi e il ministero della Salute, tecnici e politici sono al lavoro per dosare le nuove misure. E il tema, prima ancora della durata della quarantena, è la stretta sull'obbligo vaccinale: per i 25 milioni di lavoratori, o per tutti gli italiani? Se ne parlerà già oggi in un Consiglio dei ministri convocato con altro ordine del giorno, ma in cui, sulla forza drammatica dei numeri, si discuterà della nuova ondata pandemica che sta sconvolgendo l'Europa e l'Italia. Green pass rafforzato I 180 mila casi registrati ieri dalla Francia indicano la strada: bisogna correre. E la direzione verso cui si muove il governo di Mario Draghi è l'estensione del green pass rafforzato a tutti i lavoratori. Un «obbligo mascherato», che lascerebbe a casa tutti coloro che si rifiutano di sottoporsi al vaccino. «Con i dati di Omicron io applicherei il "super certificato" a tutto il mondo del lavoro, che conta 25 milioni di persone - conferma la rotta il ministro Renato Brunetta -. Il punto di arrivo è il lockdown per i non vaccinati». La gradazione delle nuove regole dipenderà dall'esito del confronto politico. Roberto Speranza è molto preoccupato e, come i ministri del Pd, spinge per il massimo rigore. La Lega è contraria all'obbligo vaccinale e molte perplessità mostra anche il M5S, che in asse col Carroccio aveva stoppato l'imposizione del vaccino proposto da Brunetta per la Pubblica amministrazione. Draghi però era d'accordo e vista l'impennata della curva epidemiologica l'obbligo per la Pa potrebbe essere un primo passo. Le Regioni Il presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, ha convocato per le 9.30 una seduta straordinaria in cui si discuterà la proposta dei governatori per alleggerire la quarantena e potenziare il tracciamento. Nel documento inviato al Cts si chiede al governo di ridurre o azzerare la quarantena per i vaccinati con tre o due dosi. Quarantena Oggi in caso di contatto con un positivo chi non è immunizzato è obbligato al confinamento di 10 giorni, mentre chi ha fatto due dosi si ferma solo 7 giorni. Le Regioni chiedono che «tutti i contatti non vaccinati» continuino a fare la quarantena e che i contatti vaccinati con terza dose (o con seconda da meno di quattro mesi) passino «dalla quarantena all'auto-sorveglianza», rivolgendosi al medico curante in caso di comparsa di sintomi. Positivi Sempre stando al documento delle Regioni, un positivo può uscire dalla quarantena dopo dieci giorni dal contagio se da tre giorni non ha sintomi, senza nemmeno ripetere il tampone. Ma alla Salute non concordando con la richiesta di allentare le regole, perché riducendo le quarantene si aumenta il rischio di far circolare persone infette. Il Cts Toccherà agli scienziati decidere se recepire - con una circolare - le proposte delle Regioni. Ma nel Comitato tecnico scientifico, dove c'è chi ritiene il documento delle Regioni «irricevibile», si discute della necessità di stringere anziché allentare le maglie, fino a eliminare il green pass che si ottiene col tampone. Diversi tecnici ritengono «da brividi» l'idea di azzerare la quarantena: «Sembrerebbe un liberi tutti in un momento drammatico». La mediazione possibile è ridurre la quarantena dei vaccinati con booster, che abbiano avuto un contatto stretto ma siano asintomatici, a cinque, massimo quattro giorni. E si discute anche sulla definizione di «contatto». La scuola Le regioni, sulla base dell'alta incidenza di contagi tra i più giovani, spingono per il prolungamento delle vacanze natalizie. Ma il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi assicura che le scuole riapriranno in presenza il 10 gennaio «a eccezione di quelle dove ci sono molti casi». Il presidente Draghi è determinato a scongiurare il ritorno in dad, ma se nella settimana del 3 gennaio i dati saranno ancora in aumento, non è escluso che vengano presi provvedimenti di chiusura in alcune aree. I tamponi La dura lezione di queste ore è che i tamponi rapidi, soprattutto fai-da-te, hanno un margine troppo ampio di errore. Per questo alcuni scienziati e i presidenti delle Regioni chiedono di rivedere il sistema di testing. «Se il governo deciderà di obbligare tutti i lavoratori a vaccinarsi - spiega un ministro - i tamponi antigenici non serviranno più per il green pass base e potranno essere eliminati». Le mascherine Disagi e problemi sta presentando anche l'obbligo di indossare le mascherine Ffp2 sui mezzi di trasporto locali. Il dispositivo è più costoso rispetto alle «chirurgiche», per cui si discute della possibilità di calmierare i prezzi».

FRANCIA E GRAN BRETAGNA TRAVOLTE DAI CONTAGI

180 mila contagi in Francia, 130 mila in Gran Bretagna. L’Europa è travolta da un’ondata potente. Preoccupano i ricoveri, aumentati in maniera decisa nell'ultima settimana a causa della variante Omicron. Enrico Franceschini per Repubblica.

«Sospinta dalla variante Omicron, la pandemia dilaga in Europa. Il numero dei contagi raggiunge nuovi picchi: 180 mila in Francia, 130 mila nel Regno Unito, dove il totale sarebbe ancora più alto perché mancano i dati di Scozia e Irlanda del Nord. La Danimarca registra il più alto tasso di infezioni al mondo: 1612 positivi ogni 100 mila abitanti. In Olanda il lockdown ha rallentato la crescita del virus, ma Omicron ha superato la Delta e potrebbe causare un rialzo dei focolai per la facilità con cui si diffonde. La forma di coronavirus emersa per prima in Sudafrica è ora diventata dominante anche in Portogallo e Svizzera. E se in Belgio il Consiglio di Stato ha annullato il decreto governativo sulla chiusura di cinema e teatri, in Finlandia l'esecutivo ha vietato l'ingresso a tutti gli stranieri non vaccinati di età superiore ai 16 anni. Due cittadini italiani, risultati positivi allo scalo di Helsinki, sarebbero stati chiusi in un gabinetto dell'aeroporto per l'isolamento, secondo l'interrogazione della deputata di Fratelli d'Italia Augusta Montaruli, che ha chiesto l'intervento del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Soltanto la Germania sembra reggere grazie a un lockdown di fatto per coloro che non hanno ricevuto il vaccino. Subito prima di Natale, vari studi hanno valutato la variante Omicron come meno letale in termini di ricovero ospedaliero, avvertendo tuttavia che il gran numero di contagi può lo stesso mettere in difficoltà il sistema sanitario. Un monito che sembra trovare conferma in quello che sta verificandosi nel Regno Unito, la nazione europea colpita per prima dalla nuova forma di Covid. Nelle ultime 24 ore, i ricoveri negli ospedali britannici sono saliti di più di mille, da 8474 a 9546: + 38% rispetto al 21 dicembre e il livello più alto da marzo, sebbene ancora lontano dal massimo raggiunto l'inverno scorso con oltre 34 mila. La rapidità dell'incremento preoccupa gli esperti anche perché il virus causa un sempre più alto numero di assenze tra medici e infermieri. Il 43 per cento dei casi di personale malato negli ospedali di Londra è attualmente dovuto al coronavirus, afferma il dottor Chaand Nagpaul, presidente della British Medical Association, sostenendo che Boris Johnson, con la decisione di non imporre nuove limitazioni agli incontri e ai locali notturni, «ignora l'elefante nella stanza», perché di questo passo gli ospedali non saranno più in grado di curare i malati, anche se le persone ricoverate per Covid, diversamente dall'inverno 2020-'21, non finiscono per la maggior parte in terapia intensiva e vengono dimesse dopo 3-4 giorni. Il timore è che la maggiore socialità fra Natale e Capodanno provochi nelle prossime settimane picchi di contagi ancora più alti».

TAMPONI NEL CAOS, LA FRANCHEZZA DI FIGLIUOLO

In Lombardia code e rabbia per i test. Per un tampone con Ats, prenotato ieri, bisogna aspettare fino al prossimo 5 gennaio. A Malpensa offrono un molecolare in poche ore alla cifra record di 160 euro. Test rapidi a 7 euro nel ristorante cinese. La cronaca di Andrea Sparaciari per Il Fatto.

«"Era meglio quando c'era Gallera, non funzionava un cavolo uguale, ma almeno ogni tanto si rideva". È la battuta che circolava ieri tra le decine di milanesi in coda alla farmacia di via Ravizza. Disperati in cerca di un tampone. Un'odissea trovarlo in una regione allo sbando. Come testimoniano le almeno 75 mila persone segregate in casa durante le feste solo a Milano (il calcolo è del Corriere), 1 su 18, molte già giunte oltre il limite della quarantena, ma che non possono liberarsi perché non riescono a tamponarsi. Un esercito di reclusi destinato a crescere: ieri i nuovi casi hanno toccato quota 28.795, il tasso di positività il 12,8%; le terapie intensive i 193 pazienti (+6); le non intensive i 1.698 (+159) e i morti sono stati 28. Una disfatta, alla quale l'assessore Letizia Moratti tenta di rispondere con i dati dei vaccinati e con l'immancabile task force. Che lunedì ha partorito l'idea di aprire altri due centri tampone (nei prossimi giorni, però), di aumentare alcune linee in un hub; di chiedere a medici di famiglia e pediatri di tamponare i positivi. Il presidente Attilio Fontana dal canto suo propone di diminuire la quarantena a chi ha la terza dose, perché "è più difficile che si contagi". Ciò che Moratti non ammette, è il fallimento del sistema lombardo: sia di previsione, sia di gestione. Basti pensare al portale di prenotazione dei tamponi di Ats in tilt da giorni che impedisce ai medici di famiglia di prendere appuntamenti. Per un molecolare con Ats si deve attendere il 5 gennaio. Certo, c'è il privato: all'hub di Malpensa con 160 euro ti fai il molecolare e hai il risultato in due ore. Ma non tutti possono permetterselo. E anche il privato inizia ad essere pieno zeppo. Così si va per tentativi. Spesso infruttuosi: "Alcune strutture sanitarie stanno mandando via cittadini che vogliono farsi il tampone nonostante abbiano la prescrizione del medico. È un fatto grave", tuonava ieri Roberto Carlo Rossi, il presidente dell'Ordine dei Medici. Nei giorni scorsi, Rossi per ovviare alle bizze del portale, aveva ottenuto dalla Regione che bastasse presentarsi nelle strutture sanitarie con un foglio di ricettario o email del medico per avere il test. Evidentemente non tutti i sanitari lo sanno. Enormi disagi stanno vivendo anche i contatti di positivi - molti all'interno della stessa famiglia -, costretti a vivere in stanze separate, perché non ci sono i Covid Hotel. Tanto che molti non si denunciano più ad Ats, per evitare di entrare in un circolo burocratico che non funziona più. Tanto in casa ci stanno ugualmente. L'assenza delle Usca impone invece ai positivi con febbre alta di fare le file al freddo. La disfatta è testimoniata dalla nota inviata dalle scuole il 23 dicembre scorso, con la quale si diceva che gli studenti risultati positivi o "sospetti positivi" il 22 dicembre (ultimo giorno di scuola) erano esentati dal tampone. Una misura pensata per non sovraccaricare il tracing, ma che certo non ha contenuto il contagio. E, nel delirio, ci si arrangia: chi comprando mascherine per strada (ieri la Polizia locale ha sequestrato 1.050 Ffp2 vendute in una bancarella in via Dogana, in pieno centro a Milano), chi cercando sul mercato "parallelo" gli introvabili test fai da te. Come F.R., appena liberata dalla quarantena, ma con ancora due figli positivi e un marito negativo, sparsi per le stanze di casa: "Ho un amico ristoratore cinese che riesce a procurarsi stock di test a China Town. Sono gli stessi nasofaringei che vendono in farmacia a 18 euro l'uno. Lui me li fa pagare 7!". Un mercato che vola: "La settimana scorsa mi aveva procurato 15 tamponi singoli, ma li abbiamo finiti noi. Così li abbiamo ricomprati lunedì, ma erano rimaste solo confezioni da 25. Ne ho prese due, perché nel frattempo ce li hanno chiesti amici e parenti. Mi ha procurato anche 20 Ffp3 a 1 euro l'una. In pratica abbiamo speso più in tamponi che nel cenone di Natale!"».

Michele Serra nella sua Amaca per Repubblica difende il generale Figliuolo. In nome della “franchezza alpina”.

«Il generale Figliuolo, forse perché non ha elettori da blandire, ha messo a paragone una coda voluttuaria (per accaparrarsi merci con lo sconto) e una coda necessaria, quella per i tamponi, invitando gli italiani a non fare troppe storie e a pazientare per la coda necessaria così come fanno per la coda voluttuaria. Insomma: se fate la coda per uno smartphone, potete anche farla per la salute pubblica. Ogni volta che la classe dirigente dice qualcosa di ruvido bisogna rallegrarsi, perché la regola è non scontentare nessuno e cercare di dire sempre cose popolarissime, secondo demagogia e secondo ruffianeria. Non solo i politici con gli elettori, anche le aziende con i clienti fanno di tutto per non urtare suscettibilità e, come si diceva una volta, lisciare il pelo. Ciò che terrorizza chi parla non è dire fesserie, o menzogne, è dire cose che possano irritare questa o quella lobby dei permanentemente offesi, questo o quel crocchio social, questa o quella piccola centrale emotiva in grado di scatenare il malumore, sia pure per lo spazio di un mattino. Tremendo pericolo dell'epoca è la sottomissione di pensieri e parole agli indici di gradimento e alle classifiche di popolarità. La paura del giudizio altrui esiste da sempre, ma da quando il giudizio altrui si manifesta come un'armata, e organizza lo stigma con la medesima arroganza una volta monopolio del potere, parlare chiaro e parlare in proprio diventa sempre più complicato. Figliuolo è un alpino, non un politico, non un intellettuale, bisognerebbe che politici e intellettuali ritrovassero una certa franchezza alpina».

MATURITÀ, TORNA LO SCRITTO D’ITALIANO?

Il Sole 24 Ore anticipa le decisioni del governo sull’esame di maturità. La linea è quella di un “graduale ritorno alla normalità”. Ecco la bozza del ministero dell'Istruzione sulle nuove regole per i 500mila maturandi di giugno 2022: salta la seconda prova d'indirizzo, confermata la tesi di diploma del 2021. Per licenza media maxi orale e un elaborato. L’articolo è di Claudio Tucci ed Eugenio Bruno.

«Neanche il tempo di aspettare il via libera finale alla manovra, atteso per oggi, che il ministero dell'Istruzione è già pronto ad attuare la delega prevista dalla stessa legge di Bilancio per "rivedere" la maturità 2022. In arrivo, causa pandemia, c'è la terza deroga in tre anni rispetto all'assetto normale degli esami di Stato. Dopo la prova solo orale del 2020 e la tesina+colloquio del 2021 all'orizzonte, per l'anno in corso, c'è il binomio prova di italiano+tesi di diploma. Una soluzione di compromesso che consentirebbe al ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, di proseguire nel solco del «graduale ritorno alla normalità» che sta caratterizzando il suo mandato. E di andare incontro alle richieste sia di una parte della sua maggioranza, sia di linguisti e studiosi che, nelle scorse settimane, hanno chiesto a gran voce il ripristino del "tema". Alla base di una scelta del genere c'è un ragionamento molto semplice: è vero che dalla scorsa primavera la didattica in presenza è tornata a essere la regola ma il milione circa di ragazzi che dovrà essere esaminato a giugno (500mila alla maturità, altrettanti più o meno alle medie dove dovrebbe essere confermato il maxi-orale) ha comunque alle spalle due anni di pandemia (e tanta Dad) che hanno scavato un solco profondo negli appredimenti difficile da recuperare nel breve periodo. Secondo l'ipotesi tecnica messa in piedi dall'Istruzione, la maturità 2022 si strutturerà in tre momenti: una prova scritta d'italiano di carattere nazionale comune a tutti gli indirizzi di studio; una "tesi di diploma", con argomento assegnato ai maturandi entro aprile e riconsegnato entro maggio; e un colloquio orale strutturato in più fasi. La prova d'italiano, sulla falsariga delle indicazioni nazionali elaborate dalla cosiddetta "commissione Serianni", voluta nel 2018 da Valeria Fedeli, vedrà assegnare ai ragazzi diverse tracce non legate allo svolgimento di specifici programmi disciplinari, ma trasversali a tutti gli indirizzi e con argomenti di ampio respiro. Insomma, ci si muove su una logica multidisciplinare. Le tracce potranno fare riferimento, ad esempio, agli ambiti artistico, letterario, storico, filosofico, scientifico, tecnologico, economico, sociale. La tesi di diploma L'evoluzione dell'elaborato dello scorso anno si chiama "tesi di diploma". Sarà incentrata sulle specifiche discipline d'indirizzo e avrà un respiro, anche qui, multidisciplinare, spingendo i ragazzi al lavoro di approfondimento e di ricerca. L'argomento della tesi di diploma sarà assegnato dai propri docenti (le commissioni, salvo sorprese dell'ultima ora, resteranno interne, ad eccezione del presidente esterno) e nello svolgimento del lavoro lo studente sarà seguito dai professori delle discipline coinvolte e affiancato da un "docente di riferimento". L'idea di sostituire il secondo scritto di indirizzo con la "tesi di diploma" terrebbe anche conto delle difficoltà tecnico-organizzative di prevedere prove suppletive in caso di impossibilità di svolgimento della prova caratterizzante per emergenza Covid. Il colloquio Per quanto riguarda il colloquio, si aprirà con la discussione della "tesi di diploma". Nelle fasi successive i candidati dovranno dimostrare la preparazione nelle discipline che hanno caratterizzato il percorso di studi e di saper utilizzare le conoscenze acquisite, anche mettendole in relazione tra di loro. Come lo scorso anno, nel corso dell'orale, saranno esaminati argomenti e i materiali scelti dai docenti e si potranno esporre le esperienze di scuola-lavoro. Voti "generosi" (non per Invalsi) Chissà se il graduale ritorno alla normalità, unito all'ammissione agli esami (che resta confermata), servirà a rendere la maturità 2022 diversa da quella degli ultimi due anni, dove gli studenti sono stati praticamente tutti promossi e con voti più elevati rispetto al periodo pre-Covid. Insomma, con docenti di manica piuttosto "larga". In controtendenza, a ben vedere, con i risultati delle prove Invalsi, diffusi lo scorso luglio, che, al contrario, hanno mostrato tutti i danni che l'emergenza sanitaria e la scarsa qualità della Dad hanno provocato sugli apprendimenti: in quinta superiore, lo si ricorderà, il 44% di studenti non è arrivato al livello minimo in italiano (eravamo al 35% nel 2019) e addirittura il 51%, vale a dire uno su due, in matematica (42% nel 2019). Con performance peggiori nei territori del Mezzogiorno, specie in Puglia e Campania, dove le scuole sono state chiuse di più. Alle medie orale ed elaborato Poche novità invece in terza media. Con oltre 10mila classi in Dad (ultimo dato disponibile, inizio dicembre), e un tasso di copertura vaccinale tra gli studenti delle medie più basso rispetto ai colleghi delle superiori, l'esame conclusivo del primo ciclo di istruzione ricalcherà, praticamente, quello "light" svolto nel 2021. Non ci saranno quindi scritti, incluso il compito d'italiano, e resterà solo una unica prova orale avviata dalla discussione di un elaborato assegnato preventivamente agli studenti dai consigli di classe (vale a dire dagli stessi professori interni). La strategia sugli esami di Stato 2022 è stata già condivisa in via informale con palazzo Chigi prima di Natale e tornerà d'attualità in coincidenza con il rientro in classe post-festività in calendario quasi ovunque per il 10 gennaio. Emergenza epidemiologica e fibrillazioni politiche permettendo».

L’ANNO NERO DELLA LEGGE DI BILANCIO

Battute finali della Legge di Bilancio alla Camera, che non viene modificata rispetto al dibattito in Senato. Il governo ha posto la fiducia. Andrea Fabozzi per il Manifesto.

«Nessuna sorpresa, ieri alla camera la commissione ha chiuso il lavoro in tarda mattinata, l'aula ha esaurito la discussione generale in un pomeriggio e alla sera il governo ha posto la questione di fiducia. La legge di bilancio anche quest' anno è una formalità. Montecitorio l'approverà definitivamente domani, senza spostare una virgola del testo del Senato. Nessuno e nessuna, intervenendo in aula, ha trascurato di criticare il modo in cui la legge di bilancio (non) è stata esaminata dal parlamento. Stessi toni, allarmati per il destino del parlamento, sia che intervenisse la maggioranza sia che intervenisse l'opposizione. Si sono anzi potuti cogliere, dall'una e dall'altra parte, accenti preoccupati per il prossimo taglio dei parlamentari che, si prevede, peggiorerà la sottomissione delle camere al governo. Lo pensa oggi soprattutto chi ieri è stato a favore del taglio. Unica attenuante per gli allarmi è stata la generale considerazione che «non è la prima volta», anzi «ormai è prassi» che la legge di bilancio sia esaminata da un solo ramo del parlamento (quest' anno il Senato) e blindata con la fiducia nell'altro. Anche se non è esattamente così. È solo negli ultimi tre anni, infatti, che il monocameralismo si è affermato come metodo di elezione per l'approvazione della manovra di bilancio. Fino al 2018 - la prima prova di questa legislatura - è stata salvaguardata la possibilità per la seconda camera di intervenire sul testo. Anche se le modifiche hanno preso la forma del maxiemendamento del governo. Ed era andata così, tre letture e non solo due per approvare la legge, tutti gli anni della precedente legislatura dal 2013 al 2017. Con la sola eccezione del 2016 ma solo perché il 4 dicembre di quell'anno fu clamorosamente bocciata nel referendum popolare la riforma costituzionale di Renzi. Fu improvvisamente chiaro che il governo era finito, così tre giorni dopo la pratica del bilancio fu chiusa per non rischiare l'esercizio provvisorio. A sette anni fa, sessione di bilancio 2014, risale invece l'ultima volta in cui un ramo del parlamento (la camera) ha fatto passare il bilancio senza che il governo ponesse la questione di fiducia. Ma la vera differenza, se si guardano i precedenti di questa e della scorsa legislatura, sta nei tempi che il governo ha lasciato al parlamento per discutere effettivamente la legge più importante dell'anno. Tempi che dipendono in parte dal rispetto delle scadenze nella presentazione del disegno di legge governativo, sempre arrivato entro ottobre nella precedente legislatura (al più presto il 23 ottobre, al più tardi il 29) e mai in questa legislatura (al più presto il 1 novembre, al più tardi il 18). Non solo. Nella precedente legislatura la discussione del provvedimento in commissione è cominciata pochi giorni dopo il deposito del testo, dando così tre settimane di tempo per l'esame in referente in prima lettura e fino a due settimane anche in seconda lettura. Deputati e senatori potevano, cioè, effettivamente ancora discutere i loro emendamenti. Tutto è cambiato in questa legislatura. Nel 2018 sono passati 26 giorni tra il deposito della legge di bilancio e l'inizio effettivo dell'esame in commissione, nel 2019 sono passati 38 giorni, di nuovo 26 giorni nel 2020 e 39 giorni quest' anno. In questo modo le inevitabili mediazioni nella maggioranza e qualche trattativa con le opposizioni si sono regolarmente svolte lontano dalla commissione. La sessione di bilancio è diventata così per i parlamentari una sessione di lunghe attese vuote e poi di forsennate corse, in genere notturne e comunque di poche ore. Se è da anni che va così, quest' anno è andata peggio».

QUIRINALE 1. RISCHIO FOCOLAIO FRA GLI ELETTORI

I partiti sono preoccupati del contagio in occasione dell’elezione del  nuovo capo dello Stato. Stefano Ceccanti, del PD, propone il voto a distanza ma da dentro il Parlamento. Le aperture dei 5 Stelle al centro destra. Giuseppe Alberto Falci per il Corriere.

«La recrudescenza dei contagi che ieri sono arrivati a sfiorare quota 80 mila potrebbe avere un impatto sulla partita del Quirinale soprattutto sulle modalità di voto. Al punto che a sera il deputato del Pd Stefano Ceccanti propone il voto a distanza. L'obiettivo è di evitare di trasformare Montecitorio in un grande cluster: «Non capisco perché - sostiene il democrat - vista l'evoluzione dell'emergenza virus, invece di ammassare più di 1.000 persone nell'aula di Montecitorio che in questo caso è solo seggio elettorale, e quindi senza problemi di dibattiti, non si possa far votare noi deputati con un pc, spalmati dentro varie sedi della Camera (per carità, tutti nel Palazzo), i senatori suddivisi in analoghe sedi dentro Palazzo Madama e i delegati regionali dal rispettivo Consiglio. Andrebbe deciso, ma so che non si farà». Tutto questo succede mentre l'aula della Camera discute la manovra di bilancio e mentre fuori e dentro il palazzo i partiti lavorano sottotraccia per provare a raggiungere un accordo sul successore di Sergio Mattarella. Giuseppe Conte, ad esempio, riunisce i vertici del M5S, partito che ha il gruppo più ampio in Parlamento, per tratteggiare il profilo più gradito alle truppe grilline. Per i pentastellati l'identikit rimanda a una personalità di alto valore morale anche se dovesse essere un nome in quota di centrodestra. Allo stesso tempo si rafforza l'ipotesi di una candidatura al femminile, una carta che Conte vorrebbe portare al tavolo di confronto del centrosinistra. Già, il centrosinistra. Da quelle parti nessuno osa sbilanciarsi. Si registra una presa di posizione della deputata Pd Alessia Rotta che ai microfoni dell'Aria che tira su La7 non solo sferza il leader di Italia viva, Matteo Renzi - «dovrà decidere se guardare al centrodestra o se dialogare con il centrosinistra» -, ma sostiene che il futuro capo dello Stato debba essere eletto «con un metodo condiviso e tenendo a mente la necessità di tenere salde le istituzioni in uno snodo molto complicato e in una congiuntura così complessa». Renzi non accetta di essere descritto come «l'ago della bilancia» e nella consueta e-news replica piccato: «Saremo impegnati per garantire un quadro istituzionale utile all'Italia, non a inseguire interessi di bottega». Resta in campo la candidatura, non ancora resa ufficiale, di Silvio Berlusconi. Il leader azzurro sogna il Quirinale ma non svela le carte. Non ha dubbi Paolo Romani: «Il Cavaliere - afferma - gioca questa partita in prima persona e fino a quando la sua candidatura avrà le gambe per camminare non si può escludere nulla». Mentre Carlo Calenda ritiene che «Berlusconi sta impallando tutto su una cosa che non accadrà mai».

QUIRINALE 2. NIENTE DRAGHI? RIPARTE LO SPREAD

Oltre ad Omicron, torna un altro rischio: quello dello spread. Negli ultimi giorni è tornato a farsi sentire. Appena i partiti hanno dato l’impressione di voler liquidare Mario Draghi, si è alzata la cifra incubo del 2011. Non possiamo distrarci. Daniele Manca per il Corriere.

«Che qualcosa stia accadendo sui mercati finanziari, ancora una volta ce lo segnala lo spread, il differenziale tra titoli di Stato italiani e quelli tedeschi. In altre parole, gli interessi in più che il nostro Paese deve pagare per farsi prestare soldi dagli investitori internazionali, dai risparmiatori e dalle istituzioni finanziarie italiane. Gli ordini di grandezza non sono nemmeno paragonabili ad altri periodi della nostra storia quando si ragionava in termini di centinaia di punti. Dal marzo scorso, lo spread viaggiava tranquillo attorno a quota 100. Una quota che gli analisti ritengono sia la corretta differenza di competitività tra il sistema Italia e quello tedesco. Ma dalla fine di novembre è iniziata una lenta quanto costante crescita fino a ieri mattina quando ha aperto a 143 punti. E questo nonostante il Parlamento si appresti a dare il via libera alla legge di Bilancio. Legge considerata il prolungamento di una politica fiscale che da mesi sostiene la crescita dell'economia, condizione che i mercati considerano essenziale perché il debito sia sostenibile. Sarebbe poco saggio, allora, non tenere in conto che ci si sta avviando a un inizio di anno importante per l'assetto istituzionale del Paese. Gli ultimi due mesi le forze politiche, i partiti, li hanno trascorsi a discutere in modo più o meno palese di Quirinale. Prima chiedendo velatamente al premier Mario Draghi di chiarire le sue intenzioni. E poi reagendo con malcelata sopportazione alle parole del premier che ha ribadito come sia nelle mani del Parlamento e delle forze politiche l'onere della scelta. È come se il messaggio che si sta dando ai mercati sia ancora una volta quello di un'Italia che considera il governo come un'attività di secondo piano. Di mera amministrazione se non attuazione di scelte politiche che possono prescindere dalla situazione del Paese. Come se avere un debito pubblico al 155% rispetto al prodotto interno lordo (la ricchezza che il Paese crea in un anno), sia lo stesso che averlo al 130 o addirittura sotto. Questo non per un generico richiamo al rispetto dell'equilibrio dei conti pubblici, o perché l'Italia non possa fare fronte alle prossime sfide. In questi mesi si è potuto vedere concretamente anche per merito dei partiti che hanno con responsabilità scelto di dare vita a un governo con una maggioranza non facile, che il Paese è meno diviso di quanto si pensi quando c'è da perseguire degli scopi che sono comuni. Ma se si torna a sentir parlare giustamente di «primato della politica», questo non può trasformarsi in astrazione dalla realtà della situazione. Siamo un Paese che sta godendo di un'inedita congiuntura positiva. La Banca centrale europea con il suo ombrello di acquisti di debito pubblico ci sta dando una mano. Ma fino a che punto potrà farlo a fronte di un'inflazione che mostra chiari segni di ripresa? L'Europa ha finalmente compreso il valore della solidarietà che si è manifestata non solo con il Next generation Eu, ma anche con una certa disponibilità a rimettere in discussione le regole che sottendono all'Unione. Si inizia a intravvedere un percorso che può portare a una modifica delle regole di bilancio che hanno mostrato tutto il loro essere figlie di un'altra epoca. Il Patto di Maastricht data 1993. Di tutto questo c'è poca traccia nella discussione che dovrà portare a decidere assetti istituzionali importanti. Non si può pensare che basti decidere un nome per una carica o per un'altra senza che il tutto venga legato a politiche che necessariamente devono avere un orizzonte lungo per un Paese troppo spesso abituato a reagire alle emergenze. Affiora una certa superficialità nel parlare di incarichi istituzionali, di assetti di governo, come se non venissimo da durata medie degli esecutivi di circa un anno. E come ricordava ieri Sabino Cassese, l'architettura istituzionale di un Paese è decisiva per garantire quella dialettica democratica alle quali le forze politiche si richiamano. Un sondaggio condotto tra gli operatori finanziari dell'associazione che li raccoglie (Assiom-Forex con il Sole24 ore Radiocor) si aspettava nei prossimi mesi uno spread sotto quota 150, ma sottolineando la volatilità dovuta proprio agli snodi che il Paese si appresta ad affrontare. Un antico detto in Borsa dice che i risparmiatori e gli investitori hanno memoria di elefante e gambe di lepre. Sono pronti cioè a fuggire in fretta quando si ritrovano a vivere situazioni di cui hanno già avuto esperienza. È vero che non possono essere i mercati finanziari a decidere le politiche di un Paese. Hanno logiche diverse da quelle di comunità estese come una nazione. Ma spesso funzionano da termometro. E se la temperatura sale lo segnalano».

QUIRINALE 3. LA VERA AMBIZIONE DI RENZI

Wanda Marra sul Fatto prova a decifrare le ambizioni di Matteo Renzi che non vuole perdere il suo ruolo di king maker. Per il Quirinale ma anche per Palazzo Chigi.

«Il sogno di essere il king maker del prossimo presidente della Repubblica, Matteo Renzi ce l'ha. E non solo per questioni di utilità, ma anche per pure ragioni narcisistiche. Fu lui a far fallire l'accordo Pd-M5S subito dopo le elezioni del 2018, lui a dare il via al governo giallorosso nel 2019, lui ad aprire la strada a Mario Draghi nel 2021. Alla vigilia del voto per il Quirinale del 2022, vagheggia l'enplein. È attivissimo l'ex premier, concentrato su tutti i plurimi tavoli sui quali gioca. In questi giorni è prevalente l'opzione che lo vede lanciare Draghi al Colle. Per ora, è l'unico che può farlo: il centrodestra è incartato con la candidatura di Berlusconi, Giuseppe Conte cerca altre opzioni, Enrico Letta deve tener conto di un Pd che rema contro. Per Renzi, dunque, si apre un'opportunità. Che va accompagnata da un accordo parallelo sul premier. Raccontano che ci sono due schemi: il primo vede Renzi candidare Draghi, poi accettare a Palazzo Chigi un tecnico, in cambio soprattutto di una legge elettorale che lo garantisca. Il secondo, il più accreditato, vede sempre Draghi al Colle, ma il premier diventa politico. Matteo Salvini resta - con il suo consenso - fuori dalla maggioranza e si va verso il proporzionale. Il dialogo di Renzi con il leader della Lega ne uscirebbe rafforzato: a Salvini non regalare l'opposizione alla Meloni serve in chiave elettorale. E non restare troppo schiacciato sulla linea di Giancarlo Giorgetti è utile in chiave interna. La maggioranza Ursula resta un pallino prima di tutto del Pd. Che peraltro potrebbe a quel punto incassare il premier: in prima fila c'è Dario Franceschini (che nei momenti clou un dialogo con Renzi lo ha sempre mantenuto), gira pure il nome di Letta (che però a Palazzo Chigi ci punta da vincitore delle elezioni). Una parte dei dem gioca ancora di sponda con il leader di Iv, come fu quando lo utilizzarono per bombardare il Conte 2: l'obiettivo era il Conte ter, arrivò Draghi. E infatti in questo frangente Renzi corteggia anche Luigi Di Maio: come premier può andar bene, non fosse che per creare qualche problema a Conte. Per quel che riguarda la legge elettorale, il proporzionale va bene a tutto il centro che Renzi coltiva, ma con il quale non conclude. Giovanni Toti aspetta ancora un incontro con lui. Carlo Calenda, per ora, sfugge all'ipotesi di ritrovarsi nello stesso contenitore. Mentre c'è chi lavora a un'operazione che tenga insieme tutti, come Gaetano Quagliariello: della serie, l'unione fa la forza. E in fondo per "Matteo" la condizione base è quella di essere rieletto senza sforzo, per tenersi l'immunità parlamentare e continuare a dedicarsi ad altro. Draghi, nella conferenza stampa di fine anno, ha chiarito che si aspetta la stessa maggioranza di adesso fino a fine legislatura. Ma la trattativa su cosa accade nel caso che lui vada al Colle è aperta. A Palazzo Chigi sanno che qualche mediazione con il Parlamento dovrà pur farla. Il medesimo Renzi al premier ha fatto sapere che a lui la performance pre-natalizia non è piaciuta: troppo impositiva. Segnali di appoggio condizionato. Resta la tempistica per il "lancio" di Draghi. Con Berlusconi in campo, difficile che ci si arrivi per la prima votazione. Bisogna aspettare almeno la quarta. Con il centrodestra che nelle prime tre vota scheda bianca e il centrosinistra magari Anna Finocchiaro. Mentre alla quarta, se Berlusconi resta in campo, i franchi tiratori del centrodestra continuano a votare scheda bianca. Dopodiché, il nome di Draghi si può fare. La trama oggi è questa, ma con Renzi regista il film può cambiare in corsa. Con Amato o Casini che diventano protagonisti.».

MEMORIAL CONDANNATA, PUTIN COME STALIN

Le cronache dall’estero si aprono con una pessima notizia che arriva dalla Russia. La giudice Alla Nazarova ha condannato alla chiusura l’Ong Memorial. Marta Ottaviani su Avvenire.

«My budem zhit vsegda», noi vivremo per sempre. Era scritto su un cartello ieri mattina fuori dalla Corte Suprema di Mosca, poco prima che venisse emessa la sentenza sulla chiusura dell'organizzazione Memorial International. Un verdetto che, purtroppo, era stato ampiamente annunciato ed è stato reso noto appositamente sotto Capodanno, quando tutta la Russia è avvolta dal clima ovattato delle feste. Memorial International, la più importante organizzazione di denuncia dei crimini del comunismo (e non solo) è stata chiusa perché viola l'ormai tristemente nota legge sugli agenti stranieri. Il provvedimento, in vigore dal 2012, bolla come «agenti stranieri», un'espressione che in Unione Sovietica era comparata a quella di «spia», le organizzazioni che ricevono fondi dall'estero e le cui azioni sono ritenute contrarie agli interessi della Russia. Sotto la sua mannaia, nel giro di pochi mesi, hanno cessato le pubblicazioni o sono stati chiusi numerosi media di opposizione e Ong. Fra queste, c'è anche la Fondazione Anti Corruzione di Alexeij Navalny, il maggiore oppositore al presidente Vladimir Putin, a sua volta in carcere, ufficialmente per appropriazione indebita. In particolare, Memorial è stata accusata di aver «denigrato la memoria dell'Unione Sovietica» e delle sue vittorie, e di aver riabilitato i «criminali nazisti». Durante l'udienza di ieri un pubblico ministero ha affermato che Memorial «crea una falsa immagine dell'Urss come stato terrorista e denigra la memoria della Seconda guerra mondiale». Quella di Mosca come potenza vincitrice sul nazismo e liberatrice di Berlino è un'immagine alla quale decine di milioni di russi sono molto affezionati e sulla quale si basa buona parte della retorica nazionalista. Il fato a volte sa essere davvero spietato e ha voluto che questa sentenza arrivasse a tre giorni dal trentesimo anniversario della dissoluzione dell'Unione Sovietica. Segno che la componente ideologica può essere venuta a mancare e che il sistema economico possa essere in parte cambiato. Ma la repressione del dissenso e la quasi totale mancanza di una vera opposizione, accentuatasi dal 2010 in poi, rendono la differenza fra i due periodi sempre più labile. «Si tratta di una sentenza politica, che arriva dai livelli più alti dello Stato - hanno detto da Memorial ad Avvenire, senza menzionare direttamente il presidente, Vladimir Putin -. Una decisione che colpisce non solo il nostro lavoro di indagine storica, ma anche quanto fatto per difendere i diritti umani. E si tratta di un messaggio terribile per la società civile russa. Da questo momento ormai davvero nessuno può sentirsi al sicuro. Questa sentenza dimostra anche la mancanza di indipendenza della magistratura». L'organizzazione già ieri ha fatto sapere che farà appello in Cassazione per annullare la sentenza e di essere pronta ad arrivare fino alla Corte Europea dei Diritti Umani. La sezione italiana dell'organizzazione ha chiesto un incontro con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio per sollecitare un suo intervento ufficiale. «Se l'appello dovesse andare male - hanno spiegato ancora da Mosca ad Avvenire - troveremo il modo di continuare a lavorare come comunità di volontari, che poi è come siamo nati. Anche se sappiamo che questo potrebbe rendere la nostra vita ancora più difficile». Se fuori dai confini nazionali, Memorial International è conosciuta e molto rispettata per il suo lavoro di denuncia storica, il mese scorso, un sondaggio del Levada Centre, istituto di ricerca indipendente e anch' esso iscritto nella lista degli agenti stranieri, ha rivelato che appena un terzo dei russi è a conoscenza dell'esistenza dell'organizzazione. Durante la conferenza di fine anno, Putin ha difeso la legge sugli agenti stranieri, dicendo che negli Stati Uniti è in vigore un provvedimento analogo ancora più severo. Intanto, la comunità internazionale si mobilita. Amnesty International ha definito la chiusura di Memorial «un attacco alla società civile» e un «tradimento alla memoria delle vittime dei gulag».

Anna Zafesova sulla Stampa ragiona sulla dittatura che vuole processare anche la storia. L'obiettivo di Putin è quello di tornare a prima che Gorbaciov sciogliesse il comunismo sovietico.

«Ksenia Fadeeva è stata trascinata nell'aula del tribunale in manette, una ragazza minuscola chiusa dai poliziotti in una gabbia per sentirsi dire che rischia fino a 12 anni di carcere per «organizzazione di comunità estremista con l'utilizzo della posizione ufficiale». Ksenia guidava la cellula dei sostenitori di Alexey Navalny a Tomsk, la città siberiana dove è stato avvelenato nell'agosto del 2020. La "posizione ufficiale" grazie alla quale avrebbe propagato "estremismo" è quella di deputato del consiglio regionale, dove è stata eletta grazie alle denunce della corruzione delle autorità locali. Il suo collega di opposizione, il deputato Andrey Fateev, ha lasciato la Russia per non venire arrestato. Zakhar Sarapulov è stato fermato a Irkutsk: aveva fondato un sito sul quale denunciava la corruzione e criticava il comportamento delle autorità nella pandemia. Non potrà usare Internet e incontrare nessuno che non sia un familiare, in attesa del processo per estremismo, stessa misura scelta dai giudici per Ksenia e per altri attivisti arrestati a Barnaul, Engels, Arkhangelsk. Abubakar Yandulbaev, coordinatore del "Comitato contro le torture" nel Caucaso, è stato sequestrato dalla polizia per ore per un "interrogatorio" senza avvocato. Pochi giorni prima aveva dichiarato che dopo le sue rivelazioni sugli abusi della polizia quaranta suoi parenti erano diventati "desaparecidos" in Cecenia. Yuri Dmitriev, storico e attivista di Memorial che lavorava per identificare le vittime e i carnefici del terrore staliniano, si è visto incrementare la condanna per presunti "atti di pedofilia" da 13 a 15 anni di carcere. Evgeny Roizman, ex sindaco di Ekaterinburg e unico oppositore ad aver guidato una grande città negli ultimi vent' anni, è stato avvertito di un imminente arresto. Ha reagito partecipando a una asta di beneficienza. OVD-Info, l'Ong che offre assistenza legale agli arrestati per motivi politici, ha lanciato una petizione contro l'oscuramento del suo sito e delle sue pagine social, dopo essere stata censurata dal governo per "sostegno al terrorismo e all'estremismo", senza nemmeno la decisione di un giudice. Questo è accaduto in Russia nel giro di appena 24 ore. 24 ore qualunque, prese a caso, uguali a tanti altri giorni, se non fosse per la sentenza della Corte Suprema della Federazione Russa che ha liquidato Memorial. La più vecchia Ong russa, fondata da Andrey Sakharov, e messa al bando nel centenario della sua nascita. Un monumento vivente a un premio Nobel per la pace, ma il Cremlino è rimasto sordo alla sua memoria, come alle suppliche di altri due Nobel, Gorbaciov e Dmitry Muratov. Meno che mai si è fatto commuovere da decine di appelli, di governi, intellettuali, attivisti e comuni cittadini, inclusi quei milioni di russi ai quali Memorial aveva restituito la dignità della memoria dei loro genitori e nonni inghiottiti dal Gulag. È anche questo è un messaggio: il sistema non riconosce i dubbi, non ammette gli errori e non fa marce indietro. Non si blocca di fronte a una deputata legittimata da migliaia di voti, né a una reputazione internazionale confermata da riconoscimenti prestigiosi, né alla stima di milioni di cittadini, né al clamore mediatico: equipara il fermarsi a una debolezza. I rinvii della sentenza su Memorial fanno intuire che sia stata un vero Rubicone perfino per l'élite putiniana. I falchi hanno però avuto la meglio, come sempre negli ultimi anni in Russia, che ormai appare governata dalla polizia e non più dalla politica, 69 anni dopo che la morte di Stalin aveva istituito un tabù condiviso a lungo da comunisti e postcomunisti: non dare troppo potere agli "organi di sicurezza", indipendentemente dal nome che portano. È la conclusione di una regressione iniziata molti anni fa, e accelerata drammaticamente: in meno di un anno, iniziato con l'arresto di Alexey Navalny, la Russia si è trasformata in una dittatura. Chiunque si chiedeva come fosse stato viverla, negli Anni 30 per esempio, può seguire il processo in tempo reale. E Memorial, l'organizzazione che si era dedicata a tenere viva la memoria delle vittime del Gulag, non poteva non essere una vittima simbolica: nella sua arringa il procuratore ha accusato l'Ong di «difendere i traditori della patria» e di «screditare la nostra Storia». Cioè lo stalinismo, il fantasma mai esorcizzato del Cremlino. Quello contro Memorial è stato un processo alla Storia, ordinato da una classe politica che vorrebbe far correre l'orologio all'indietro: non al 1997, prima dell'allargamento della Nato, come chiede Putin nel suo recente ultimatum, non al 1991 quando è collassata l'Urss, come chiede Putin quando rivendica l'Ucraina come suo protettorato, ma al 1985, prima che Gorbaciov condannasse il comunismo sovietico e ponesse fine alla Guerra fredda».

LA CINA ACCUSA MUSK DI INQUINARE LO SPAZIO

La Cina apre una dura polemica col magnate americano Elon Musk. I suoi satelliti, dicono i cinesi, sono un pericolo per la nostra stazione spaziale. Massimo Gaggi sul Corriere della Sera.

«La Cina accusa Elon Musk alle Nazioni Unite: «I satelliti Starlink che mette in orbita a migliaia minacciano la nostra stazione spaziale Tiangong: abbiamo già rischiato due collisioni». L'Onu tace in attesa di verifiche: i rischi connessi alla «spazzatura spaziale» effettivamente crescono da tempo, ma anche la Cina, che in passato ha fatto esperimenti militari con armi anti-satellite facendo esplodere ordigni, ne è responsabile: secondo i calcoli dell'Esa, l'ente spaziale europeo, intorno alla Terra già ruotano 34 mila satelliti, detriti, oggetti abbandonati in orbita. È, però, anche vero che il gran numero di satelliti Starlink di Musk (ne ha già lanciati 1.900 e prevede di arrivare a 12 mila per completare la più avanzata rete Internet a banda larga, che sarà disponibile in tutto il mondo) sta diventando un problema: lo sostengono anche astrofisici e autorità spaziali indipendenti. Il genio miliardario della Silicon Valley per ora non replica, ma una possibile soluzione (per un futuro non imminente) viene ipotizzata da Gwynne Shotwell, direttrice generale di SpaceX, la sua società spaziale: la Starship, la grande astronave argentata, oggi in fase di sperimentazione, che dovrebbe portare l'uomo sulla Luna e poi su Marte, potrebbe essere, più prosaicamente, usata anche come spazzino spaziale: per raccogliere detriti e satelliti malfunzionanti non ancora distrutti dal rientro nell'atmosfera. Per il resto Starlink sta cercando di ridurre il numero di satelliti da lanciare e di abbassarne l'orbita in modo da recuperarli più facilmente in caso di guasti. Per Musk, l'uomo più ricco del mondo, reduce da due anni di enorme crescita del valore delle sue società, il problema è serio. Starlink, anche se non è la realizzazione più nota, dovrebbe essere il suo programma più redditizio: capace di finanziare coi profitti dei sistemi di comunicazione le avventure spaziali dell'imprenditore visionario. E la Cina, per Tesla, è un Paese essenziale: un grande mercato per le sue vetture elettriche e un vitale centro di produzione di auto e batterie. La sortita di Pechino non viene, quindi, presa sottogamba, anche perché sta provocando un'ondata d'indignazione tra i consumatori cinesi. La Repubblica Popolare ha notificato qualche settimana fa alle Nazioni Unite l'incidente che ha costretto la stazione Tiangong a cambiare orbita due volte, ma la notizia è divenuta ufficiale solo ora. Il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino ha criticato Musk e ha invitato gli Stati Uniti a comportarsi responsabilmente. Sui social media, a cominciare da Weibo, il Twitter cinese, sono subito partiti gli attacchi a Musk: post che accusano («noi gli diamo soldi comprando le sue auto e lui lancia satelliti che rischiano di distruggere la nostra stazione spaziale») o nei quali si invita addirittura a boicottare le auto della Tesla, sono stati già visti decine di milioni di volte. Non sono le prime spine cinesi per Musk. Il leader Xi Jinping - che lo ammira e considerava il sudafricano trapiantato negli Stati Uniti un imprenditore sostanzialmente «apolide», interessato solo alla tecnologia - gli aveva fatto ponti d'oro per attirarlo in Cina. Ma i rapporti si sono raffreddati da quando Donald Trump, da presidente, oltre ad alzare lo scontro dialettico con Pechino, ha bloccato le esportazioni di alta tecnologia attraverso il Pacifico. Quando, poi, Washington ha accusato TikTok di rastrellare dati personali di cittadini Usa che potrebbero essere trasferiti in Cina, i cinesi hanno cominciato a sospettare che le auto Tesla vendute nel grande Paese asiatico, praticamente dei computer su quattro ruote, raccolgano dati sui cittadini cinesi che potrebbero finire negli Stati Uniti. Sospetto che Tesla, ovviamente, respinge».

INDIA, LA GUERRA A MADRE TERESA

Il governo indiano vuole impedire il sostegno economico internazionale alle suore di Madre Teresa. Finora i 130 centri di accoglienza sono rimasti in vita grazie ai fondi esteri. Il motivo? Il presunto proselitismo delle religiose. Le aggressioni da parte degli estremisti indù sono raddoppiate contro i cristiani indiani. Carlo Pizzati per La Stampa.

«Appena saputa la notizia, la governatrice del Bengala occidentale è andata su tutte le furie e ha subito digitato un tweet indignatissimo: «Sono scioccata nel sentire che proprio nel giorno di Natale il ministro dell'Unione ha bloccato i conti in banca delle Missionarie della Carità di Madre Teresa in India! I loro 22 mila pazienti & dipendenti sono rimasti senza cibo & medicine. La legge va rispettata, ma gli sforzi umanitari non devono essere compromessi». La potente Mamata Banerjee ha sbagliato solo un dettaglio, cioè che il governo di Modi non ha bloccato direttamente i conti in banca delle suore di Santa Teresa, ma ha proibito loro di ricevere finanziamenti dall'estero, il che equivale ad affossare tutte le loro attività caritatevoli come orfanotrofi, scuole, cliniche, ospedali, centri di accoglienza per minorenni e lebbrosari che sopravvivono grazie a queste donazioni. Certo, i contributi dall'India sono sempre concessi, ma non c'è paragone con gli 8,7 milioni di dollari ricevuti dall'estero nel 2021, o il miliardo e 230 milioni di euro del 2020 per tenere in attività 130 centri e dare sussistenza a più di tremila suore. «Irregolarità nella contabilità», per questo, secondo il ministero, è stata rifiutata la registrazione annuale all'elenco che regolamenta le donazioni dall'estero. Non avrebbero «i requisiti necessari» per qualificarsi poiché sono arrivati degli enigmatici «input anomali». Qual è la verità? Che pochi giorni prima, nello Stato del Gujarat, da dove proviene il premier Narendra Modi, la polizia aveva dichiarato d'aver trovato 13 Bibbie in un centro d'accoglienza delle Missionarie della Carità, dove le ragazze lì rifugiate sarebbero state «costrette a leggere il Vangelo, recitare preghiere cristiane e indossare la croce al collo». Le Missionarie hanno negato di voler convertire le ragazze abbandonate, ma quest' accusa riverbera da anni in India, anzi da decenni, ed è stata ripetuta anche nel 2014 da Mohan Bhagwat, leader delle Rss, organizzazione di fondamentalisti indù dalle cui fila proviene anche Modi: «Le opere di carità di Madre Teresa sarebbero anche state buone, ma le ha usate con un unico scopo: convertire al cristianesimo le persone che aiutava». Da allora, con la tracotanza induista raddoppiata da quando il partito fondamentalista del Bjp ha stravinto con la rielezione di Modi nel 2019, per le suore di Santa Teresa la vita è più complicata anche a causa di nuove e rigide leggi anti-conversione, in un contesto sempre più repressivo verso minoranze religiose come quella islamica, già ferocemente bersagliata. La direttrice per il Sud asiatico di Human Rights Watch, Meenakshi Ganguly, ha commentato così: «È davvero una sventura che dopo orribili aggressioni ai musulmani, ora il prossimo bersaglio siano sempre più spesso i cristiani». Le accuse mosse dalle Rss e dal Bjp sono queste: con la carità voi non fate altro che convertire poveri indù e indigeni plagiandoli con denaro, scuole gratis e centri d'accoglienza. Dal 2014 a oggi, quest' atteggiamento bellicoso verso una minoranza di 28 milioni di credenti (appena il 2,5% della popolazione indiana) ha innescato l'aumento del 220% negli attacchi violenti ai cristiani, secondo i dati della Ong americana Alliance Defending Freedom. La tattica di questo governo nei confronti di ciò che viene percepito come un problema ricollegabile ai finanziamenti esteri è di soffocare il flusso dei fondi. L'anno scorso, l'amministrazione Modi ha sospeso i conti bancari indiani di Greenpeace e poi di Amnesty International, organizzazioni che assumevano posizioni giudicate come troppo critiche nei confronti della politica ufficiale. Ora è la volta dei cristiani. Poco importa che Madre Teresa, che fondò il primo centro delle Missionarie della Carità a Calcutta nel 1950, abbia vinto il Nobel per la Pace nel 1979 e sia divenuta Santa nel 2016 proprio grazie a Papa Francesco che, su invito di Modi incontrato in Vaticano lo scorso ottobre, dovrebbe visitare l'India l'anno prossimo, o al più tardi nel 2023. Nonostante questo avvicinamento diplomatico, è caccia grossa ai cristiani. O forse proprio per questo? Che sia un modo di strozzare le attività dei cristiani per poi allentare la presa e farla passare come una concessione? Non si può escludere. Ma questo Natale è stato uno dei peggiori per i cristiani indiani. Oltre a una statua di Gesù Cristo frantumata nella notte del 25 dicembre nella Chiesa del Redentore ad Ambala, nell'Haryana, e altre sette città dove si è dato fuoco a pupazzi di Babbo Natale, interrompendo messe e canti cristiani, nel 2021 ci sono stati più di 300 episodi violenti contro i fedeli di Cristo. Un Annus horribilis che si conclude con un triste Natale per le suore che seguono l'esempio della loro amata Santa Teresa di Calcutta».

IL CARTEGGIO ANDREOTTI-GORBACIOV

Filippo Ceccarelli per Repubblica recensisce un libro che raccoglie lettere e documenti fra Giulio Andreotti e Mikhail Gorbaciov, scambiati negli anni a cavallo della caduta del Muro di Berlino: dal 1985 al 1991. Due protagonisti della storia recente travolti dalla fine della divisione del mondo in due blocchi: divisione che pure avevano cercato di superare.

«Così Andreotti e Gorbaciov persero la Guerra fredda. Ma per quello che vale, fu una sconfitta all'altezza di un piano grandioso che puntava a ridisegnare gli equilibri del mondo. A distanza di 30 anni, il tempo di una generazione, i documenti diplomatici aiutano a capire lo svolgersi di quel processo per lampi, sussulti e confidenze in tono quasi famigliare. A proposito della riunificazione della Germania, «i tedeschi - confida Mikhail a Giulio - vi sono molto concentrati, fino ad avere il mal di testa»; mentre sul Medio Oriente: «È più facile volare fino a un'altra galassia che mettere d'accordo gli arabi!». Riguardo all'America, del resto, il presidente italiano così ne parla con l'interlocutore sovietico: «Gli Usa sembrano sempre aver bisogno di un "diavolo" (Ortega, Castro, Gheddafi) per propria propaganda politica. Anche voi - concede - eravate un po' diavoli». Ma non solo per questi sprazzi è interessante perdersi nel gran librone diplomatico che le rinate Edizioni di Storia e Letteratura, hanno dedicato ad Andreotti e Gorbaëv. Lettere e documenti 1985-1991 , a cura di Massimo Bucarelli e Silvio Pons (pagg. 380, euro 28; disponibile sul sito www.storiaeletteratura.it e in libreria dalla seconda metà di gennaio). Le fonti sono 81 documenti che provengono dalla Farnesina, ma soprattutto dalle carte andreottiane depositate all'Istituto Sturzo. In quel lasso di tempo il Divo è agli Esteri e poi a Palazzo Chigi, comunque alle prese con Chernobyl, la fine dell'occupazione russa dell'Afghanistan, la crisi dell'Achille Lauro, il crollo del Muro, la riunificazione tedesca, il cambio Reagan-Bush alla Casa Bianca, la prima Guerra del Golfo, fino al fallito golpe anti- Gorbaciov e alla dissoluzione dell'Urss. Altri personaggi compaiono: Craxi, che raccomandando "riservatezza" ed "elementi confidenziali" riceve l'ambasciatore russo Lunkov subito dopo il bombardamento americano della Sirte; De Michelis che si scontra con Guido Carli su certe restrizioni del Tesoro ai crediti sovietici; più diversi e importanti ambasciatori, Vattani, Bottai, Salleo, ma soprattutto Sergio Romano che da Mosca invia rapporti che restano straordinari per vivace e preveggente lucidità. Se Andreotti è il primo politico occidentale a cogliere la novità di Gorbaciov e a puntare sul successo della perestroika, consigliandolo (no a spese per gli armamenti, basta finanziamenti a Cuba) e personalmente accreditandolo presso gli europei e la Casa Bianca, Romano diffida ed è più che scettico sulla riuscita della riforma interna avvertendo che un atteggiamento troppo disponibile è rischioso. Al che Andreotti gli risponde con sbrigativa degnazione. Presto lascerà Mosca (dove peraltro i russi cercano di arruolare un segretario d'ambasciata). A prima vista sfugge la vastità e l'ambizione dell'impegno italiano. Più che la fine dei blocchi, "Andreottov", come lo chiamava in quegli anni Montanelli, lavora per una conservazione degli equilibri e un bipolarismo "normalizzato" da ottenersi, a partire dal destino della Germania, ma anche della Polonia, senza accelerazioni né scosse. In realtà, osservando più da vicino il suo schema, si capisce che Andreotti guarda al ruolo che può giocare la nuova Russia pensando soprattutto al Mediterraneo e più in generale al Medio Oriente, vedi il fattivo incoraggiamento, di sponda con la Santa Sede, alla mediazione sovietica per scongiurare, ma invano, la guerra nel Golfo. Fra i sintetici appunti presi da Andreotti durante un colloquio a Mosca, luglio 1990, riguardo all'Achille Lauro si legge: «Lettera di Arafat; no, non è stato Abu Nidal, è stato Abbash. Forse posso dire ad Arafat (detto agli Usa): liberati di Abbash (magari dallo a noi) e così si apre negoziato con Israele; ma temo che Shamir non vuole negoziato per non restituire territori occupati. Questo può voler dire la fine di Arafat (troppo moderato) se Israele non gli va incontro - è un rischio serio». Gorbaciov ricambia l'amicizia, rimanendo tuttavia più abbottonato dell'interlocutore. C'è una lettera in cui conferma «immutata fiducia nella saggezza» di Andreotti, ritenendolo «unico fra i grandi statisti » ad aver compreso i suoi sforzi. Il punto è che questi sono troppi e su troppi fronti. Lo smantellamento del bipolarismo rappresenta per lui un passaggio fondamentale per concentrarsi sulla transizione interna e la riforma di un sistema già sconvolto dalla crisi economica e dalle nazionalità già in rivolta. Si tratta di una vera lotta contro il tempo. Molti, forse troppi anni sono passati per stabilire cosa esattamente si sapeva e cosa di nuovo rivelano i documenti. Di sicuro non si sapeva che nel luglio del 1990, con la premessa «pongo un tema delicato», Andreotti chiese a Gorbaciov «qualche notizia utile retrospettiva » sul ruolo del super terrorista Carlos in Ungheria e in Cecoslovacchia e «i nostri terroristi». Il leader sovietico risponde che «attiverà gli uffici». L'italiano insiste: «Può essere che alcuni si coprono dietro il Kgb per protezioni anche da loro?». E Gorbaciov: «Non può escluderlo»; anche se, in altro verbale, aggiunge: «Non recentemente comunque». Chi ama la storia sa che i buchi della serratura esistono anche per guardare quel che c'è dietro le porte, così come i caratteri delle persone hanno un rilievo narrativo irresistibile. Perciò il rapporto che si crea fra i due leader è tanto autentico quanto asimmetrico: Gorbaciov è un riformatore ateo fin troppo impetuoso, Andreotti un conservatore di eccezionale sottigliezza cattolica che in diplomazia contempla l'efficacia delle cose «dette all'orecchio», testuale, e l'importanza dei risvolti umani sulle grandi questioni, dal senatore americano che amministrava i beni di Reagan, al figlio di Bush che vivendo in Florida sperimenta sulla sua pelle il problema degli esuli cubani. Più diversi i due non potrebbero essere. Ispirato, brillante e istrionico il sovietico, «Come a primavera i piccoli piccoli ruscelli» esordisce una volta; così come un'altra volta interrompe Andreotti che sta parlando degli italo-americani esclamando in italiano: «Cosa nostra!». Il leader democristiano ovviamente non raccoglie. Nei faccia a faccia risulta abbastanza severo con Walesa («Importanza storica, però populista»); propone la restituzione simbolica di un'anonima salma di soldato italiano per chiudere il problema degli italiani scomparsi; porta i saluti del Papa («È un uomo straordinario che lavora per l'umanità» riconosce Gorby); si fa venire l'idea di una maratona attorno al 38° parallelo in Corea e fa assegnare al suo interlocutore il Premio Fiuggi (500 milioni di lire, by Ciarrapico). Ma tutto al dunque - oh vanitas vanitatum! - risulta inutile. Il colpo di Stato a Mosca indebolisce la perestroika; la fine dell'Urss completa la catastrofe trascinandosi dietro anche gli investimenti geopolitici del Divo. Nell'ordine mondiale troppe cose si erano messe in movimento perché i due statisti potessero fermarle. Né Gorbaciov, né Andreotti sopravvivono alla Guerra fredda. Una doppia scommessa persa, con qualche scrupolo si direbbe un unico destino».

Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 29 dicembre:

https://www.dropbox.com/s/ptcl2k6q67e4ftz/Articoli%20La%20Versione%20del%2029%20dicembre.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Share this post

Omicron e spread, incubi di fine anno

alessandrobanfi.substack.com
Comments
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing