Omicron, linea dura
Il governo studia nuovi divieti per Capodanno. Oggi parlano le Regioni. Quirinale, spunta la Moratti. In Cile vince la sinistra. Dossier pedofilia in Spagna. Il Papa intervistato dagli ultimi in tv
Incubo arancione sulle feste e in particolare sul Capodanno. Fra 72 ore e nell’anti vigilia di Natale il governo varerà nuove misure di contrasto alla pandemia, fronteggiando l’ondata di Omicron. “Linea dura” è la parola d’ordine che rimbalza sulle cronache dal Palazzo. L’Europa va in ordine sparso con divieti e lockdown dall’Olanda alla Danimarca, alla Germania. Verrà ridotta la validità del Green pass? Verrà legato alla terza dose? Oppure ci si concentrerà sull’obbligo vaccinale per chi lavora e sulla discriminazione di chi non vuole fare il vaccino? Oggi saranno consultati i Presidenti di Regione, come sempre in prima linea a combattere il virus. Il Lazio chiederà l’obbligo vaccinale per tutti. Vedremo quali decisioni alla fine verranno prese.
Nel frattempo Ursula Von der Leyen, parlando alla Cattolica di Milano, torna a elogiare la nostra economia e la capacità italiana di ripresa, sulla linea di quanto scritto dall’ Economist. Per l’economista francese Fitoussi, intervistato dal Fatto, quella di Mario Draghi è una ripresa che premia solo i ricchi, non arriva ai poveri. Mercoledì il nostro Premier terrà la conferenza stampa di fine d’anno, dove farà anche il punto sul Pnrr. La Stampa oggi propone un’inchiesta bilancio su questo tema.
Ovviamente a Mario Draghi verrà chiesto della corsa al Quirinale. Difficile che si sbilanci, ma non si sa mai. Intanto i leader del centro destra ragionano su quello che è ufficialmente un piano di riserva rispetto alla candidatura di Silvio Berlusconi. Oggi Repubblica rivela che la Meloni ha incontrato segretamente Letizia Moratti. Nelle ultime ore infatti Renzi ha fatto intendere che dalla quarta votazione potrebbe esserci una maggioranza (col centro destra), una volta superata l’opzione Berlusconi. Ecco dunque tornare forti le candidature da quelle parti. Oltre alla Moratti sono in pista Casellati (impallinata da Domani) e Pera (foto in prima pagina su Libero), oltre al sempre in forma Casini.
Dall’estero due importanti notizie “elettorali”: in Cile vince un leader 35enne della sinistra. Prevale sul concorrente populista, che aveva spaventato centro e moderati di destra. In Francia diventa più concreta, con la candidatura della gollista Valérie Pécresse, la possibilità di una futura presidenza moderata e non populista dopo Macron. Si festeggiano i 50 anni di Medici senza frontiere. Papa Francesco è stato intervistato da quattro “ultimi” in uno speciale del Tg5 in prima serata.
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LE PRIME PAGINE
Ancora incubo pandemia sui giornali di stamattina. Il Corriere della Sera scommette sull’accorciamento della validità del certificato verde: Un green pass più breve. Stesso tema di apertura per La Repubblica: Green pass a sei mesi. Il Giornale è preoccupato: l’Italia rischia la zona arancione. Il Quotidiano Nazionale prevede nuove chiusure per San Silvestro: Capodanno blindato, il piano di Draghi. Il Mattino avverte i mondani: Vietate le feste nei locali. Il Messaggero dà voce ad una richiesta dell’Assessore regionale Alessio D’Amato al governo: Il Lazio vuole l’obbligo. Libero sottolinea: La piaga dei medici No vax. Mentre si schierano gli scettici, come Il Fatto: Vaccini, altro che primi in Ue: l’Italia sola quinta in classifica. E La Verità che critica il: “Vaccino obbligatorio per lavorare”. La Stampa torna sulla morte dei tre operai per il crollo della gru: La tragedia di Torino. “Siamo tutti colpevoli”. Domani entra nella corsa al Quirinale, criticando frontalmente Elisabetta Casellati: Molti nemici e troppa ambizione per il Colle. Il Sole 24 Ore fa il punto sulle nostre tasche: Detrazioni addio, assegno unico in banca.
LINEA DURA IN ATTESA DI OMICRON
Preoccupazione e attenzione nel governo per il contagio del Covid 19 che continua ad aumentare. Si studia il giro di vite coi Presidenti delle Regioni. Per il Corriere Adriana Logroscino
«Nel governo c'è «preoccupazione». Il contagio continua ad aumentare e la variante Omicron, che nel resto d'Europa dilaga, qui è ancora minoritaria, forse sottostimata. «Non abbiamo ancora preso decisioni - assicura il ministro per la Salute, Roberto Speranza - ma ci stiamo confrontando e valuteremo le soluzioni possibili. In una fase del genere, bisogna tenere altissima l'attenzione. Tutti: le istituzioni e i cittadini con i loro comportamenti durante le feste». Quella del ministro è una chiamata a restare uniti nella lotta contro il virus. Come in tutti i passaggi difficili di questi due anni di pandemia. Pd e M5S si schierano col presidente del Consiglio, Mario Draghi, che prepara una stretta delle misure. «La linea dura del governo - si espone Luigi Di Maio - serve a tutelare la salute dei cittadini e a fare ripartire l'Italia, evitando nuovi lockdown. Avanti così». Quasi le stesse parole del segretario dem, Enrico Letta: «Il governo metterà in campo proposte che avranno bisogno dell'impegno di tutti per evitare nuovi lockdown. Noi ci siamo». Parole che dovrebbero arginare le obiezioni da parte dell'opposizione di Giorgia Meloni: «È l'ennesima giravolta del governo, non hanno una strategia». Ma anche dall'interno della maggioranza: «Faremo di tutto per impedire lockdown e chiusure - annuncia il segretario della Lega Matteo Salvini -. Gli italiani sono stati responsabili e pazienti». Dall'asse pd-M5S, sull'ipotesi di richiedere il tampone per accedere ai grandi eventi, si sfila il ministro della Cultura, Dario Franceschini, che raccoglie l'appello dei gestori di cinema e teatri: «Hanno applicato le regole, per entrare in sala occorre il green pass rafforzato. I rischi non sono lì ma nei luoghi in cui si sta senza mascherina». Il processo per arrivare al varo delle misure si avvia oggi con la convocazione delle Regioni. L'orientamento dei governatori è favorevole al giro di vite. Infatti da giorni prendono provvedimenti locali restrittivi, come l'imposizione di indossare mascherine all'aperto e l'annullamento delle feste in piazza. Al governo oggi chiederanno sostegno per le attività di tracciamento e sequenziamento. Convocando la cabina di regia già per giovedì 23, è stata impressa un'accelerazione. A imporre nuove valutazioni, sono i dati sul contagio: ieri ancora 24.259 positivi e 97 morti. E le parole dei medici in prima linea. «In base al trend - avverte Alessandro Vergallo, presidente dell'associazione anestesisti - nelle prossime 2-3 settimane ci aspettiamo un aumento del 70% dei posti occupati in intensiva». E non saranno gli ospedali a poter garantire più letti: «Manca il personale». Guido Rasi, consulente del commissario Figliuolo, ammette: «Con questi numeri temo che ci avviciniamo alla zona arancione».
Quali sono le misure cui si sta pensando per intervenire in modo drastico? Il punto di Sarzanini e Guerzoni sempre per il Corriere.
«Riduzione della durata del green pass e obbligo di tampone ai vaccinati per partecipare a feste e grandi eventi. Sono queste le principali misure di cui si discute in vista della riunione convocata per il 23 dicembre a Palazzo Chigi dal premier Mario Draghi, per contenere l'avanzata del Covid- 19 e la corsa della variante Omicron. La linea del presidente del Consiglio rimane ferma sulla volontà di mantenere aperte tutte le attività, ma i dati cominciano a fare paura, spaventa la velocità della progressione. Dunque bisogna limitare i contatti soprattutto nei luoghi più affollati e anche fare i conti con la copertura dei vaccini che - come ormai appare chiaro dagli ultimi studi - cominciano a perdere efficacia dopo i primi quattro, cinque mesi. La discussione è aperta tra i ministri e con i presidenti di Regione per arrivare a un provvedimento condiviso, che non spacchi la maggioranza in un momento delicatissimo dal punto di vista politico e, soprattutto, che non danneggi alcune categorie economiche. Ecco perché il test aggiuntivo per chi ha già il green pass rafforzato alla fine potrebbe essere obbligatorio soltanto dove si creano assembramenti e dove è impossibile mantenere il distanziamento, come le discoteche e le feste. Prevedendo comunque un «filtro» all'ingresso dei centri commerciali. Matteo Salvini è da sempre contrario a restrizioni troppo drastiche, ma visti i dati dei contagi nella maggioranza molti pensano che non farà le barricate. Obbligo vaccinale Resta sul tavolo l'ipotesi estrema di introdurre l'obbligo generalizzato. Ma non è tema di oggi. Prima il governo dovrà esaminar la «flash survey» dell'Iss che fotografa l'andamento del virus (e della variante Omicron) in tutto il Paese. Confindustria e sindacati erano favorevoli all'obbligo e potrebbero approvare, come primo passo del governo, la scelta di estendere il green pass rafforzato a tutti i lavoratori, così come già accaduto per il personale sanitario, quello scolastico e le forze dell'ordine. Green pass rafforzato Il decreto scade il 15 gennaio, ma sembra scontato che il green pass rilasciato a guariti e vaccinati venga prorogato almeno fino al 31 marzo, quando scade lo stato di emergenza. È obbligatorio per andare al ristorante e negli altri locali dove si mangia al chiuso, nei cinema e nei teatri, negli stadi, in discoteca e per partecipare agli eventi pubblici e alle feste, non legate a cerimonie religiose. I tempi del permesso Alcuni Stati europei hanno diminuito la durata dell'intervallo tra seconda e terza dose di vaccino rispetto ai cinque mesi stabiliti dalle agenzie regolatorie. L'Italia pensa invece di ridurre la validità del green pass rafforzato dagli attuali nove mesi a sette, se non addirittura a cinque come suggerisce il ministro Brunetta. La misura potrebbe dare un'ulteriore spinta alle vaccinazioni, eppure non tutto il governo è favorevole. «Non è scontato che si decida di ridurre la durata del green pass», anticipa un ministro rivelando il timore di spiazzare gli italiani che si sono vaccinati contando su un pass di lungo periodo per partecipare alla vita sociale. Feste e discoteche Sono i luoghi ritenuti maggiormente a rischio perché è difficile mantenere il distanziamento e, per bere e mangiare, si toglie la mascherina. Attualmente si entra con il green pass rafforzato (vaccinati e guariti) ma nel governo si ragiona sull'ipotesi di imporre anche un tampone negativo già dal 27 dicembre, in tempo per il Capodanno. Mascherina all'aperto Diversi ministri spingono per reintrodurre su scala nazionale l'obbligo di indossare la mascherina all'aperto. Però la misura non convince il presidente Draghi, che preferisce lasciare la decisione ai sindaci e ai governatori. Centri commerciali Allo studio c'è invece un possibile filtro per i centri commerciali che possa impedire gli assembramenti. I tecnici stanno valutando l'opportunità di rendere obbligatorio almeno il green pass base come già accade per treni, aerei e mezzi di trasporto pubblico. L'alternativa potrebbe essere quella di contingentare gli ingressi come già accade nei grandi magazzini. Le case private Nessuna misura può essere adottata per le abitazioni private, ma è probabile che i nuovi provvedimenti siano accompagnati da una «raccomandazione forte ad evitare situazioni di rischio», soprattutto in occasione delle festività, come del resto ha già fatto ieri il ministro della Salute Roberto Speranza intervenendo a Che tempo che fa su Rai3 con un appello ai cittadini».
L’EUROPA CHIUDE IN ORDINE SPARSO
Panico in Europa. Il Corriere della Sera fa il punto di chiusure e nuovi divieti che stringono in una morsa il nostro continente.
«Mentre Omicron avanza velocissima, l'Europa si divide sulle misure da prendere. Ci sono Paesi che intendono blindarsi subito, e altri che puntano a spingere ancora di più sui vaccini. L'Irlanda, dove la nuova variante è già diventata dominante, ripristina il coprifuoco alle 20. Il 52% dei 5.124 nuovi contagi è riconducibile al nuovo ceppo, hanno annunciato ieri le autorità sanitarie di Dublino. Soltanto lunedì scorso stimavano un'incidenza dell'11%. In Olanda prevedono che la nuova variante diventi dominante tra Natale e il 31 dicembre e per tentare di contenere l'ondata ieri è scattato il primo lockdown europeo alla vigilia delle feste. Ricorre alla chiusura parziale la Danimarca, dove si registrano contagi record: il premier ha annunciato la chiusura di cinema, teatri e parchi di divertimento, oltre a orari ridotti per caffè e ristoranti. Nuove restrizioni da oggi anche in Svizzera: solo vaccinati e guariti potranno accedere a ristoranti, cinema, centri fitness e musei. Diversa la linea difensiva messa in atto a Berlino. «In Germania non ci sarà un lockdown prima di Natale», ha assicurato il ministro della Salute Karl Lauterbach. «Questa ondata non può più essere completamente fermata, ma può essere combattuta con i vaccini obbligatori. La mia preoccupazione ora è portare avanti la campagna di richiamo e le prime dosi il più rapidamente possibile». Anche la Francia spinge sulle immunizzazioni: Oltralpe Omicron dovrebbe diventare dominante a inizio del nuovo anno, ha pronosticato il primo ministro Jean Castex, in un discorso ai francesi in cui ha preannunciato l'adozione del super green pass, per il quale conta solo il vaccino e non il tampone. Per far fronte alle richieste di fiale, la Commissione Ue ha concordato ieri con Pfizer di accelerare le consegne e di rifornire i Paesi membri di 20 milioni di dosi in più rispetto alle 195 milioni previste nel primo trimestre 2022. In Gran Bretagna dove i casi Omicron sono triplicati in 24 ore (oltre 12 mila ieri), gli esperti chiedono un lockdown parziale. Il ministro della Salute Sajid Javid, per il quale «potrebbe essere troppo tardi per reagire» alla nuova variante, ipotizza un'ulteriore stretta prima di Natale, per guadagnare tempo: far avanzare la campagna vaccinale e proteggere il sistema sanitario. Ma le restrizioni in vigore hanno già provocato fronde interne e le dimissioni del ministro e capo negoziatore Brexit, David Frost, che ha parlato di «politiche coercitive». L'avanzata di Omicron ha già indotto alcuni Paesi, come Italia, Portogallo, Grecia e Irlanda, a imporre un tampone all'ingresso. E Israele ha reso di fatto impossibile volare verso altri 10 Paesi, tra cui l'Italia».
MEDICI NO VAX, PROTESTA CONTRO L’ORDINE
Clamorosa protesta dei medici No vax che hanno fatto irruzione con insulti e spintoni all’assemblea dell’Ordine dei medici a Roma, assemblea che è stata sospesa. La cronaca del Quotidiano Nazionale.
«Proseguono i cortei di chi nega l'emergenza Covid e non si placano le proteste dei no vax. Ieri le manifestazioni di dissenso sono arrivate persino all'assemblea dell'Ordine dei medici a Roma: una cinquantina di sanitari ha protestato durante l'incontro, che si stava svolgendo all'hotel Villa Palace nella Capitale, contro l'obbligatorietà del vaccino e la sospensione dei sanitari non vaccinati, che viene fatta su segnalazione delle Asl. Sono volati insulti e persino qualche spintone, con i no vax che hanno urlato «vergogna» e «mafiosi» e l'intervento di polizia e carabinieri, per ristabilire l'ordine. L'assemblea, che era stata riunita per discutere dell'approvazione del bilancio, è stata rinviata. I medici no vax hanno accusato il consiglio dell'Ordine di «non aver sospeso chi era moroso e invece di aver sospeso i medici che non si sono vaccinati». Un atteggiamento definito «strumentale» da parte dell'Ordine e che «di fatto ha impedito il normale svolgimento dell'assemblea». «Nell'Ordine - dice una dei medici no vax presenti in assemblea, una cinquantenne romana che lavora nell'azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini - ci sono professionisti che non pagano la tassa annuale, ma invece ci si sbriga a sospendere i medici che non sono vaccinati. Per il fatto di non essere vaccinata sono stata demansionata: ora il mio compito è contattare i pazienti per fissare gli appuntamenti sull'assistenza medica». Dopo quanto successo, il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha sentito telefonicamente il presidente dell'Ordine dei medici di Roma, Antonio Magi, per esprimergli «sostegno e solidarietà» oltre che «gratitudine per il lavoro quotidiano svolto a tutela del diritto alla salute». «Siamo sempre stati aperti al dialogo, ma - sottolinea lo stesso Magi - bisogna discutere in maniera serena. Le contrapposizioni vanno evitate. Non so ancora se prenderemo provvedimenti, valuteremo i vari comportamenti. Quel che è certo è che ascolterò chiunque vorrà manifestare pacatamente il proprio pensiero. Oggi (ieri, ndr) purtroppo queste persone hanno perso un'occasione di dire la loro». «Solidarietà al presidente Antonio Magi e a tutto il consiglio direttivo dell'Ordine dei medici di Roma. Inaccettabile, e intollerabile nei tempi e nei modi, la protesta dei medici non vaccinati, che ha impedito il regolare svolgimento dell'annuale assemblea dell'Ordine», così il presidente della Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordini dei medici), Filippo Anelli, che al ministro Lamorgese chiede «impegno per mettere in sicurezza gli Ordini dei medici». A Milano, sempre ieri, circa trecento manifestanti, alcuni dei quali vestiti da 'indiani d'America', scortati dalle forze dell'ordine, al grido di «no Green pass» e «la gente come noi non molla mai», hanno sfilato da piazza Castello all'Arco della Pace. Il corteo dei movimenti 'no Green pass' di Veneto e Lombardia, autorizzato dalla questura, era aperto da uno striscione con la frase «Fuori i big pharma dallo Stato e no alle multinazionali». Era il primo corteo autorizzato dopo la stretta sulle manifestazioni voluta dal governo Draghi, al quale tra l'altro è stato dedicato il coro: «Draghi vai via, sei tu la pandemia». Chi si trova in prima linea nella lotta alla pandemia, come gli anestesisti, chiede al governo una svolta contro i no vax. «La soluzione per affrontare la prevedibile crescita dell'ondata pandemica non sta nell'aumentare all'infinito i posti di terapia intensiva e area medica, bensì nell'adottare misure di contenimento sociale più drastiche per frenare la circolazione del virus, come il lockdown stringente per i non vaccinati», dice Alessandro Vergallo, presidente dell'Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani (Aaroi)».
SULL’ITALIA URSULA È COME L’ECONOMIST
Ursula Von der Leyen elogia la ripresa italiana, sulla scia dell’Economist. Intanto la legge di bilancio arriva in Senato. Rosaria Amato per Repubblica.
«L'economia italiana sta crescendo più in fretta che in qualunque altro momento dall'inizio di questo secolo»: un elogio di peso, perché arriva dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. A Milano per il centenario e l'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica, Von der Leyen assicura che il Pil italiano «ritornerà ai livelli pre-crisi già entro la metà del prossimo anno», una ripresa dovuta alla solidarietà europea, ma anche alla «capacità dell'Italia di gestire efficacemente la pandemia». Una promozione piena per l'Italia, che arriva a pochi giorni dalla scelta del settimanale britannico Economist di incoronare l'Italia Paese dell'anno. E nel frattempo maggioranza e governo, dopo una domenica di fitte riunioni, trovano la quadra sui principali dossier della legge di Bilancio. Salta il tetto Isee da 25 mila euro per i proprietari delle villette che utilizzano il Superbonus al 110%, purché entro il 30 giugno sia stato completato il 30% dei lavori. Raggiunto l'accordo anche sui lavori "trainati" dal Superbonus, inclusi fino al 2023, e sul tetto di spesa in base al quale è calcolata la detrazione del 50% per il bonus mobili e elettrodomestici, che sale da 5 mila a 10 mila euro. Il costo delle modifiche ai bonus edilizi è di 350 milioni, ed assorbe dunque circa la metà dei fondi a disposizione del parlamentari per emendare la manovra. L'intesa sarà tradotta in un emendamento che dovrebbe arrivare oggi in Senato, dove già alle 11.30 è prevista la prima riunione della commissione Bilancio. Trovata la quadra anche sulla richiesta dei ristoratori di non pagare la Tosap per l'occupazione di suolo pubblico: l'esenzione verrà prorogata per il primo trimestre 2022. Accordo anche sul rifinanziamento del "bonus" per gli psicologi che, nelle scuole, aiutano i ragazzi a fronteggiare i disagi causati dal Covid. Tra i dossier rimasti aperti c'è la questione sollevata ieri dal M5S dell'assunzione degli insegnanti di educazione fisica per le scuole elementari: «Nella bozza della legge di Bilancio erano stati stanziati 180 milioni, che non sono più previsti - spiega il senatore Vincenzo Presutto - perché si utilizzeranno gli insegnanti già assunti. Noi vorremmo il ripristino delle risorse, per potere assumere anche insegnanti specializzati».
L’economista francese Jean Paul Fitoussi in un’intervista di Antonello Caporale sul Fatto contesta l’immagine dell’Italia davvero in ripresa, immagine condivisa da Economist e Von der Leyen. Per Fitoussi è una ripresa che premia solo i ricchi.
«"In Italia c'è una confusione tra Mario Draghi e il Paese. Nel senso che si parla del primo, generalmente con toni riveriti e stima amplissima, ma non ci si cura del secondo".
Jean-Paul Fitoussi pensa che la luce su Draghi si illumini a prescindere da ciò che accade in Italia?
Penso che una cosa è ciò che appare e un'altra è ciò che è. Misuro una certa distanza tra le parole, i propositi e poi i fatti. L'Economist incorona l'Italia e naturalmente Draghi come simbolo di un cambiamento enorme, di una galoppata che ha premiato il Paese nell'ultimo anno. Temo che l'Economist premi Draghi, non l'Italia. E il giornale dell'élite riconosce il premier italiano come suo membro benemerito.
I media amano premiare i divi europei. Lei disapprova?
L'ho apprezzato al tempo della guida della Bce. Ha fatto meglio di Trichet, il predecessore. Ma una cosa è guidare una banca centrale, un'altra un Paese.
Cos' è che non la convince invece del suo lavoro da primo ministro?
Ricordo che giustamente riferì al Parlamento che questo fosse il tempo di dare, non di togliere. Dare - immagino - a chi aveva ricevuto di meno. Riequilibrare ciò che non era più in asse. Domando: alle parole sono seguiti i fatti?
La sua non è una domanda.
No, è già una risposta. Non significa nulla dire: diamo di più, se poi quel di più non va a chi dovrebbe andare. Non significa nulla gloriarsi della crescita se poi la crescita gonfia le tasche di chi già ha.
Draghi non è keynesiano quanto lei.
Keynes insegnava le basi del rapporto tra domanda e offerta. Se dai a chi ha poco sei sicuro che tutto quel di più sarà speso. E quindi ne beneficeranno i consumi, e cioè il Paese intero. Se dai invece a chi già ha un solido conto in banca, sii certo che il maggior raccolto sarà stipato nei depositi. I consumi crescono se la distribuzione si orienta verso i ceti più economicamente deboli. In Italia l'ultimo decennio ha visto crescere la povertà delle famiglie in modo impressionante. Erano circa novecentomila nel 2011, sono divenute due milioni oggi. Ecco il travisamento, la confusione tra Italia e Draghi. Il boom economico? Il rimbalzo? A che serve se lascia per strada due milioni di famiglie? Se hai perso, faccio un esempio, dieci punti di Pil, i sei che guadagnerai ti fanno felice? Significa comunque che sei sotto di quattro.
L'Italia ha fatto meglio degli altri Paesi, così si dice.
Ok, già è una risposta più misurata. L'Italia è stata la migliore tra i peggiori. Cosa non la convince di Draghi? Non ha dato seguito alle sue parole. Dare a chi più ha bisogno.
Potrebbe risponderle che decine sono gli strumenti di sostegno ai ceti deboli messi in campo.
Certo, la crisi sanitaria ha fatto crescere le diseguaglianze. Ma a questa premessa non è corrisposta la determinazione a raddoppiare gli sforzi per affrontarle. Chi teorizza o aderisce all'idea salvifica della flessibilità nei rapporti di lavoro come balsamo per l'economia di mercato, aderisce all'idea di rendere stabile la precarizzazione. Flessibile per me significa precario. E precario significa povero.
Comunque il premier ha il più alto indice di gradimento.
Non discuto della sua rispettabilità pubblica. Contesto le scelte economiche. Oggi l'immagine pubblica è orientata dalla comunicazione. Ciò che appare non sempre è. Lei pensa che gli italiani nel seggio elettorale diranno il contrario di ciò che affermano oggi? Oggi la rappresentazione politica del vincente è frutto della qualità della sua comunicazione pubblica e di quella della élite che si stringe intorno. Il cuore omogeneo dei media in questo caso aiuta molto. Quando invece il peso si farà nella cabina elettorale le sorprese arriveranno. E noi saremo stupìti? Come sempre. Presi dallo stupore, forse dallo sconforto che i poveri abbiano idee diverse di quelle dei ricchi e, purtroppo per questi ultimi, siano in un numero enormemente maggiore. E per fortuna aggiungo».
RECOVERY, OBIETTIVO RAGGIUNTO?
Inchiesta-articolo per La Stampa di Fabrizio Goria e Alessandro Barbera. Tema: davvero il Pnrr ha centrato i suoi primi obiettivi?
«Nonostante le tensioni, un'italianissima struttura burocratica, nonostante la corsa contro il tempo per raggiungere l'obiettivo, il governo di Mario Draghi riuscirà a centrare gli impegni fissati con l'Europa nel 2021 per il piano nazionale di riforme. O meglio, il 22 dicembre, nella conferenza stampa (anticipata) di fine anno, rivendicherà di averli raggiunti. Lo farà con l'approvazione di una relazione, che verrà subito dopo votata dal Parlamento e trasmessa agli uffici competenti della Commissione europea. Se non ci saranno obiezioni, verrà riconosciuta la seconda tranche degli aiuti previsti dall'accordo firmato lo scorso luglio: sono circa ventuno miliardi di euro fra contributi a fondo perduto e prestiti. E' solo il primo traguardo di una maratona che finirà nel 2026. La parte più difficile della corsa sarà l'anno prossimo, in particolare fra aprile e giugno. Il piano sottoscritto con l'Unione prevede l'approvazione di tutta la riforma della concorrenza, dell'amministrazione fiscale, nuove assunzioni nei tribunali civili, penali e amministrativi, una vera infrastruttura statale per l'archivio e la protezione dei dati digitali, nuove norme per rendere più efficiente la macchina degli appalti pubblici. La somma di tutti questi impegni nel 2022 vale quaranta miliardi di euro, da suddividere più o meno equamente in due rate, una per semestre. Se il voto sul Quirinale dovesse produrre una crisi di governo e il voto anticipato, sarà improbabile sperare di raggiungere gli obiettivi. Per chi l'avesse dimenticato, di qui al 2026 il piano vale per l'Italia più di 190 miliardi di euro. Detta diversamente, la Banca d'Italia stima una crescita aggiuntiva del cinque per cento sul Pil di qui al 2024. E' per questo che qui mercati e in molte cancellerie europee c'è allarme sull'ipotesi Draghi al Quirinale: se si andasse al voto, addio crescita aggiuntiva e addio alla tenuta del debito italiano nel lungo periodo, quando verranno meno gli acquisti straordinari di titoli pubblici della Banca centrale europea. La scorsa settimana, in lunghe e faticose sedute notturne, la Commissione Bilancio della Camera ha approvato decine di emendamenti per centrare intanto gli obiettivi del 2021. Molte norme sono state approvate, su altre la struttura tecnica di Palazzo Chigi e Tesoro troverà soluzioni creative, soprattutto in materia di appalti. Il calendario è deciso: una cabina di regia, quasi certamente domani, approverà la relazione, in tempo per essere esposta in conferenza stampa. Il voto del Parlamento, già oberato dalle scadenze della Finanziaria (in gravissimo ritardo) dovrebbe avvenire entro il 27. Nel frattempo, sempre domani, l'aula della Camera voterà la fiducia sul decreto 152 di attuazione del Recovery Plan. Al Senato ci sarà giusto il tempo per il voto, senza nessuna discussione. Entrare nel dettaglio di quanto fatto è a dir poco complicato. Per capire quanto il processo è faticoso e certosino, basterà qui elencare alcune delle norme approvate: sulla gestione delle risorse idriche, il turismo, la transizione digitale, la distribuzione delle risorse ai Comuni del Sud per la messa in sicurezza degli edifici e del territorio. Durante l'iter c'è stato anche uno scontro fra governo e Parlamento. E' accaduto quando, fra le pieghe del decreto, il governo aveva introdotto poteri speciali di attuazione per il ministero del Tesoro. Si trattava dello stesso tentativo fatto dal secondo governo Conte due quando ministro era Roberto Gualtieri, e allora finito sulle prime pagine di tutti i giornali. I poteri erano previsti dai commi sei e dodici dell'articolo nove del decreto. Quando la Commissione Affari costituzionali e il comitato per la legislazione della Camera hanno notato il dettaglio, è stato chiesto al governo di cambiare la norma. Tutti i decreti di attuazione del Tesoro, prima di essere emanati, ora devono passare dal parere del Parlamento. La scorsa settimana, durante le comunicazioni prima del Consiglio europeo, Draghi ha dato per scontato che il traguardo del 2021 è tagliato: «I cinquantuno obiettivi del piano sono in larga parte già acquisiti e siamo certi di raggiungerli nei tempi previsti». Un'autorevole fonte della struttura di Palazzo Chigi, sotto stretto anonimato, conferma le parole del premier: «A questo stato dell'arte, e vista l'autorevolezza di Draghi in Europa, escludo ci saranno problemi». Per averne conferma basterà attendere un mese o poco più. La Spagna, primo ed unico Paese ad aver già rispettato tutte le scadenze, ha avuto il via libera in due settimane. Per l'Italia, primo beneficiario dei fondi del Recovery, sarà necessario qualche giorno in più. Per Draghi il lavoro sul Recovery è stato il più faticoso e meno raccontato. Ha avuto difficoltà prima a mettere in piedi la macchina, poi ad ottenere risultati dalle strutture tecniche dei ministri. Nel corso dell'estate, quando ha avuto la percezione dei ritardi, se ne è lamentato con molti: ha messo pressione soprattutto al sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli, al ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, al responsabile delle Infrastrutture Enrico Giovannini. Talvolta è stato complicato anche capire quali fossero gli impegni che la Commissione chiedeva di rispettare. E' accaduto ad esempio ad ottobre, quando gli uffici si sono imbattuti nella «milestone P4/2021». Il governo si era impegnato ad approvare norme per migliorare le condizioni dei disabili in Italia. A Palazzo Chigi avevano inteso fosse sufficiente far approvare una legge delega da parte del Consiglio dei ministri, e invece nei contatti con Bruxelles si è scoperto che la condizione era l'approvazione della delega da parte del Parlamento. L'anno prossimo la delega dovrà trasformarsi in norme. Non c'è palazzo ministeriale che non sia stato coinvolto nello sforzo. Oltre a Garofoli, sono state aperte unità di missione in ciascun ministero. Per far funzionare la macchina Palazzo Chigi ha dovuto allargare gli uffici a Palazzo Wedekind. Lì ci sono gli uffici della struttura tecnica del piano, affidati ad un funzionario del Senato, Chiara Goretti. Nello stesso palazzo c'è l'unità per la semplificazione, affidata al costituzionalista Nicola Lupo, una sorta di Mister Wolf al quale è affidato il compito di risolvere i dubbi interpretativi e risolvere le grane giuridiche. All'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu è affidato il «tavolo per il partenariato economico, sociale e territoriale». E' lì che Comuni, Regioni e sindacati tentano di dire la loro nell'attuazione del piano».
QUIRINALE 1. L’ELEFANTINO RISPONDE A SALVINI
Governo indebolito, nuovo premier dopo le elezioni del 2023: ecco che cosa potrebbe succedere in Italia se il nuovo presidente della Repubblica non sarà Draghi.
«Il problema di quelli che Draghi deve- restare- dov' è e non deve andare per sette anni al Quirinale è complicato e semplice: devono spiegare che cosa succederà in Italia fino al 2023 e dopo le politiche con un presidente della Repubblica che non sia Draghi. Primo. Il governo sarà inevitabilmente indebolito, con la sua maggioranza sempre più scombiccherata dalle esigenze ovvie della campagna elettorale per le politiche, posto che il nuovo capo dello stato sia una personalità compatibile con la prosecuzione della presidenza del Consiglio Draghi. Secondo. Non esistendo le condizioni per un partito o un'area politica draghiriferita in vista delle elezioni, ché sarebbe una secessione flagrante dalla maggioranza che ha accompagnato la sua esperienza di capo dell'esecutivo, dopo le elezioni ci dovremmo comunque privare di Draghi per la semplice ragione che presumibilmente la guida del governo andrà a chi ha ottenuto una maggioranza. Tutta la giostra delle garanzie interne e internazionali per il piano di rinascita e l'investimento monstre dei quattrini europei comincerebbe a girare a vuoto subito dopo la scelta dell'inquilino del palazzo della presidenza della Repubblica, per non dire della gestione dell'emergenza sanitaria al suo picco prevedibile. Si può fingere, ma è appunto una finzione, la continuità e la stabilità in presenza di un cambiamento tanto spesso e rilevante, l'inizio di un nuovo mandato presidenziale scollegato ovviamente dalla missione che Mattarella affidò a Draghi in emergenza politica un anno fa. Tutto questo è talmente evidente, fa parte in modo così chiaro del teorema o postulato politico che impone l'elezione di Draghi al Quirinale, che si stenta a capire come persona con la testa sulle spalle, e in ottima fede, e in esercizio di un'intelligenza libera delle cose d'italia, possa confutare o negare l'assunto. E dunque? C'è poi il problema personale di un uomo che ha dato prove consistenti di abilità tecnica e politica, di decisionismo operoso nei momenti importanti, un tipo che si è formato nell'alta scuola dei Grand Commis de l'etat e al tempo stesso nella scuola politica e istituzionale italiana e internazionale, con risultati noti fin qui e ratificati ampiamente. Non credo proprio che un tipo come Draghi senta l'impellente urgenza di un coronamento della sua esperienza o di una incoronazione addirittura. Semplicemente, non ne ha bisogno. Se scartato come candidato potenziale al Quirinale e poi corroso, com' è inevitabile, nell'esperienza di governo alla prova del ritorno della politica e delle elezioni, la personalità del whatever- it- takes e di uno sforzo di risanamento e riforma nel terzo Paese europeo per importanza resterebbe tranquillamente in sella non dico al proprio mito, o alla propria leggenda, ma certo alla propria reputazione di uomo di finanza, di burocrazia tecnocratica e di stato. Con ogni evidenza non è Draghi che ha bisogno della carica di primo magistrato, sulla quale ha il diritto e il dovere di non pronunciarsi anzitempo, ma l'italia che ha bisogno di non perdere nelle ciarle e nelle quisquilie quanto il salvatore dell'euro e il risanatore del Paese ha accumulato in termini di prestigio e garanzie interne e internazionali. Quando il senatore Salvini dice: e io che ci faccio nella maggioranza di governo con Draghi fuori da Palazzo Chigi? Bè, dice quale sia il suo presunto interesse di partito alla prosecuzione dell'esperimento, apparecchia le condizioni stesse di una lunga campagna elettorale già virtualmente cominciata, e con questo si dà la famosa zappa sui piedi. In risposta alla sua domanda le persone normali osano domandarsi a loro volta: e Draghi che ci farebbe in una maggioranza ormai solo virtuale, alla vigilia del suo scioglimento? Insomma, c'è una prospettiva realistica e onorevole, contrastata da una serie di giochini ai quali si prestano coloro che non intendono la politica di questo Paese, di questo sistema.».
QUIRINALE 2. CANDIDATI A DESTRA, SPUNTA LA MORATTI
Il retroscena è di Ciriaco e Lauria che su Repubblica danno notizia di un incontro segreto, a Roma, tra Giorgia Meloni e Letizia Moratti per la corsa al Colle.
«L'incontro è avvenuto qualche giorno fa, nella Capitale. Un lungo faccia a faccia fra due donne: una, Giorgia Meloni, aspirante king-maker (nello specifico queen-maker) per il Quirinale; l'altra, Letizia Moratti, potenziale candidata per il ruolo di Capo dello Stato che per la prima volta sarebbe declinato al femminile. Un colloquio riservato, che giunge nel pieno delle trattative per il Colle, con Matteo Salvini impegnato a dare centralità alla coalizione e a se stesso promuovendo consultazioni a tutto campo, e con Berlusconi pronto a misurare il livello di fiducia degli alleati sulla sua ultima discesa in campo, la più difficile. Nulla trapela sul contenuto della conversazione ma la notizia è già rimbalzata nell'inner circle della presidente di Fdi e ai vertici del centrodestra. Dove rischia di far più rumore, però, è ad Arcore, nella villa San Martino da dove Berlusconi sovrintende alle operazioni quirinalizie, e dove ogni giorno riceve aggiornamenti dai suoi fedelissimi su questo e quel Grande elettore arruolato alla causa dell'ascesa allo scranno più alto. E sì, perché proprio Berlusconi, già da qualche giorno, non è più tanto convinto del granitico consenso dei suoi più giovani compagni di viaggio. In particolar modo proprio di Giorgia Meloni, che prima ha azzardato pubblicamente l'ipotesi che il Cavaliere non fosse più interessato al Colle, poi - nel ribadire il suo gradimento - ha però sottolineato: «Bisogna vedere se ci sono i numeri perché quelli del centrodestra non bastano». Non esattamente un'adesione entusiasta. E ora l'incontro con Moratti, figura apprezzata da Berlusconi ma che rappresenta - assieme a Maria Elisabetta Casellati e Marcello Pera - un'avversaria interna, d'area, per il Quirinale. I dubbi dell'ex premier, che vede lo spettro dei 101 franchi tiratori di Prodi, si rafforzano. D'altra parte, la coalizione deve pensare ad alternative alla candidatura di Berlusconi, che Pd e M5S hanno fatto sapere di non avere intenzione di prendere in considerazione. A mezza voce lo lascia intendere pure Ignazio La Russa, uno dei fondatori di Fratelli d'Italia: «Ci auguriamo la vittoria di Berlusconi. Se così non fosse, servono ipotesi B e C ma sono ancora premature ». Moratti è un nome che presenta alcuni punti di forza: seppur vicina da sempre a Fi, non è un'esponente di partito, piace anche a Salvini, è amica di Renzi e in generale ha un profilo che fa presa sui moderati, come dimostra anche il favore con cui la guardano ambienti di Comunione e Liberazione. In più, è gradita a quanti attendono da anni la novità di una donna alla carica più alta dello Stato. Dicono sia discreta quanto attivissima, per ora, nelle pause dell'attività di vicepresidente della Regione Lombardia. Chissà cosa accadrà se e quando la carta Moratti sarà calata sul tavolo del centrodestra, che non si riunisce già da un mese e mezzo, malgrado la promessa ottobrina di incontri settimanali fra i leader. Salvini ieri ha ribadito che intende vedersi con gli alleati entro questa settimana, ma Fdi esclude un confronto prima dell'approvazione della manovra. Segno di distanze che permangono».
QUIRINALE 3. L’IDENTIKIT DI MATTARELLA PER IL SUO SUCCESSORE
Ugo Magri per l’Huffington Post ha scovato un lavoro scientifico, redatto per una rivista specializzata, che analizza i discorsi di Sergio Mattarella pronunciati in questi anni su dieci dei suoi predecessori. Ne emerge l’identikit del Presidente della Repubblica ideale.
«Sergio Mattarella ha disegnato l’identikit del Successore Ideale, suggerendo come scegliere personaggi all’altezza ed evitare quelli che sul Colle sarebbero una sciagura. Senza far nomi e cognomi, ci mancherebbe; però fornendo la check-list di tutte le qualità indispensabili per svolgere la funzione presidenziale, e dunque additando il modello che i grandi elettori dovrebbero tenere a mente quando si pronunceranno sui vari Draghi, Berlusconi, Gentiloni, Cartabia, Pera, Casini e Amato. Questo utilissimo “vademecum” si trova nel sito del Quirinale, pubblicato nella sezione “Discorsi”. Il presidente ne ha dedicati ben nove ai suoi dieci predecessori, profittando dei vari anniversari. È rimasto fuori il solo Giorgio Napolitano perché, fortunatamente per noi e per lui, non può essere ancora commemorato. Di ciascun presidente Mattarella ha tracciato il profilo, sbilanciandosi su ciò che merita di essere preso a esempio e sorvolando educatamente sul resto. La circostanza non è sfuggita a due intraprendenti studiosi, Giacomo Delledonne e Luca Gori, i quali hanno spulciato riga per riga i nove discorsi e ne hanno spremuto il succo per la rivista Quaderni costituzionali (Fascicolo 2, 2021). Ecco che cosa è venuto fuori. Anzitutto, per Mattarella il Presidente ideale non è un politico di professione, che nella vita normale ha combinato poco. Segnala quanto di buono hanno fatto i predecessori prima e al di fuori delle campagne elettorali, dei congressi di partito, delle scalate ministeriali. Luigi Einaudi - per dire - era un grande cattedratico. Antonio Segni e Francesco Cossiga professori universitari. Oscar Luigi Scalfaro un magistrato (l’ultima condanna a morte in Italia venne comminata da lui). Carlo Azeglio Ciampi fu governatore di Bankitalia, padroneggiava l’economia. Giovanni Gronchi, da sindacalista, aveva combattuto nella trincea del lavoro. Soltanto Sandro Pertini e Giuseppe Saragat non avevano un biglietto da visita, ma, giù il cappello, si erano guadagnati umilmente la paga da esuli durante il Fascismo. Chi sarebbe titolato tra i candidati odierni, con questo criterio indicato da Mattarella? Super Mario Draghi passerebbe di sicuro l’esame meritocratico. Ma in fondo pure Silvio, che ha tirato su interi quartieri e ammorbato l’Italia con le sue tivù: come “uomo del fare” direbbe la sua. Marta Cartabia, oltre che titolata in quanto donna, è stata presidente della Corte costituzionale come Sabino Cassese. Giuliano Amato lo diventerà a gennaio, ma la sua competenza giuridica è acclarata. Marcello Pera, papabile del centrodestra, è filosofo della scienza. Uno che non raggiunge lo standard è Pierferdinando Casini perché fin da ragazzo fu contagiato dal morbo della politica, e seguì la sua passione. Ma non è del tutto fuori gioco perché Mattarella segnala un’altra caratteristica comune ai suoi predecessori: l’esperienza parlamentare. Ben otto su dodici erano stati, prima di salire al Colle, presidenti della Camera o del Senato. A cominciare dall’apparentemente ingenuo Pertini, tutti sapevano districarsi da vecchie volpi evitando trappole e agguati. Domanda che ne consegue: quali, tra i candidati odierni, se la potrebbero cavare altrettanto bene? Qui Casini vince alla grande dal momento che è stato presidente della Camera e, quanto a dimestichezza con la giungla politica, nessuno lo batterebbe (siede in Parlamento da 38 anni, nove legislature). Anche il professor Pera ha presieduto un ramo del Parlamento, non per nulla Salvini lo tiene di riserva. Ci sarebbe pure la Casellati che però nessuno considera, chissà perché. Tra gli ex presidenti si annoverano Laura Boldrini, Irene Pivetti, Pietro Grasso, Renato Schifani. Roberto Fico non può concorrere solo perché è troppo giovane altrimenti magari un pensiero ce lo farebbe. Eppure sulla bocca di tutti c’è Draghi, solo ed esclusivamente Draghi, che prima di diventare premier non aveva mai nemmeno messo piede in Aula (dove difatti viene vissuto con sospetto). A onor del vero, neppure Ciampi era stato eletto deputato o senatore; nonostante fosse un alieno, i partiti lo incoronarono al primo tentativo. Singolare fenomeno che Mattarella spiega così: nel curriculum di Carlo Azeglio è stata decisiva l’esperienza da premier. Ciampi l’aveva maturata, dunque non era certo considerato un pivello. Difatti da presidente della Repubblica se la sbrigò alla grande, con quell’aria da nonno sereno che lo rese popolarissimo. Applicando gli stessi parametri di “nonno” Ciampi, pure Super Mario avrebbe le carte in regola per succedere a Mattarella. Idem gli ex premier Berlusconi e Amato (come del resto Romano Prodi, Paolo Gentiloni, Enrico Letta e Giuseppe Conte che però non entrano in pista o, nel caso di Matteo Renzi, devono ancora varcare la soglia del mezzo secolo necessaria per candidarsi). Viceversa il curriculum di Cartabia difetta sull’esperienza perché lei e la politica non si sono ancora incontrate. Lecito interrogarsi su come ne verrebbe fuori se, appena insediata sul Colle, dovesse gestire un impazzimento generale. Per certe imprese serve pelo sullo stomaco, direbbero a Oxford. Se non sai dove mettere le mani, ti saluto. C’è poi un’ultima caratteristica che accomuna tutti i predecessori (e Mattarella puntualmente segnala): devono capire di politica estera. Avere una visione larga. Saper distinguere tra America, Russia e Cina. E ricordarsi che un presidente della Repubblica ha tre riferimenti: l’Onu, l’Europa, la Nato. Rappresentano le costanti della politica estera italiana che l’inquilino del Colle deve mettere al riparo dalle oscillazioni di maggioranze e governi. In pratica che cosa significa? Che il successore di Mattarella, secondo Mattarella, potrà e anzi dovrà essere un patriota; però non sovranista e nemmeno compare di Putin».
ELEZIONI IN CILE, VINCE LA SINISTRA
Dall’estero: la prima notizia è che in Cile la sinistra torna al potere. Il neo presidente Gabriel Boric ha 35 anni. Sconfitto il populista di destra Kast, suo rivale, che aveva spaventato il centro e i moderati di destra. Sara Gandolfi per il Corriere.
«Cile vira a sinistra. Gabriel Boric, 35 anni, candidato della coalizione Apruebo Dignidad (sinistra) ha sconfitto al ballottaggio presidenziale di ieri l'avversario José Antonio Kast del Frente Social Cristiano (estrema destra). Sarà il più giovane presidente del Paese sudamericano, il primo della generazione Millennial. «Sarò il presidente del Cile di tutti i cileni e non governerò solo tra quattro mura», ha detto nel corso di una telefonata con il presidente uscente Sebastián Piñera. Boric entrerà in carica ufficialmente il 22 marzo del prossimo anno. Nel frattempo, ha già abbandonato il look da «barricadero», barba folta e capelli spettinati, che non aveva lasciato neppure dopo essere stato eletto deputato, a soli 27 anni. L'attesa del risultato è durata molto meno del previsto, perché il testa a testa annunciato alla vigilia ha ben presto lasciato il posto ad un distacco di dieci punti percentuali (55,86% contro 44,14%). E così, già mezz' ora dopo la chiusura dei seggi, alle 18,30 ora locali (le 23,30 in Italia) il controverso leader della destra, di origini tedesche e figlio di un nazista, ha riconosciuto la sconfitta: «Da oggi il nuovo presidente del Cile si merita tutto il nostro rispetto», ha detto Kast. Poco dopo anche Piñera ha chiamato Boric: «Sono sicuro che darai il meglio di te stesso», gli avrebbe detto. Subito dopo l'annuncio della vittoria di Boric i suoi sostenitori sono scesi a festeggiare nelle strade della capitale, Santiago, con canti, cori e un concerto di clacson, come per il trionfo di una squadra del cuore. E in molte città è tornata a risuonare la canzone simbolo dell'epoca di Salvador Allende: «El pueblo unido jamas será vencido». Si chiude così una sfida elettorale tesissima e molto polarizzata, che ha visto i due rivali confrontarsi senza esclusione di colpi fino all'ultimo. I 15 milioni di cileni chiamati alle urne alla fine hanno scelto l'ex leader studentesco che dal 2014 guida una coalizione di sinistra che riunisce il Frente Amplio e il Partito comunista. Si è presentato come l'uomo del cambiamento e l'erede politico del movimento del 2019 che, prima dello scoppio della pandemia, spinse decine di migliaia di giovani a protestare contro le politiche ultraliberiste di Piñera. Le imponenti manifestazioni dell'autunno di quell'anno sfociarono in violenti scontri con le forze dell'ordine e con la morte di una trentina di persone. Per la prima volta in tre decenni, le forze che hanno governato il Paese - ovvero Chile Vamos e l'ex Concertación - non sono arrivate con un candidato al ballottaggio presidenziale. Boric ha ottenuto al duello finale l'appoggio degli ex presidente Ricardo Lagos e Michelle Bachelet. La sua sinistra sarà però molto diversa da quella che ha governato in alternanza con la destra il Cile dalla fine della dittatura del generale Pinochet, nel 1990. E di certo il suo governo prenderà le distanze dalle politiche economiche dell'ultimo esecutivo di centro-destra, che ha trasformato il Cile in una sorta di «laboratorio dell'ultraliberismo». Kast era arrivato in testa al primo turno delle presidenziali, ma le sue posizioni estremiste - in più occasioni ha elogiato Pinochet - hanno spaventato il centro e la destra moderata. Dal canto suo Boric ha sminuito le accuse di voler seguire le orme del «chavismo» venezuelano ed è invece riuscito a riunire attorno a sé non soltanto i giovani e i ceti meno agiati ma anche la classe media e gli intellettuali, proponendo un nuovo modello di Stato sociale, con un forte sviluppo del welfare state, tasse per i «super ricchi» e lotta all'ineguaglianza».
50 ANNI DI MEDICI SENZA FRONTIERE
Nata dopo la crisi del Biafra, il 22 dicembre del 1971, l’ong Medici senza frontiere compie 50 anni: il sogno di pochi volontari è ora un gigante umanitario con 65 mila inviati in tutto il mondo. Il Nobel vinto nel 1999 e l’impegno oggi in Afghanistan, il fronte più caldo. Francesca Paci per La Stampa.
«Zubair è la risposta. Zubair che a soli quattro mesi di vita arriva all'ospedale di Herat con mamma Parisa e poche speranze di uscirne, pesa appena due chili, la polmonite non dà tregua, il corpo minuscolo pare di bambola. Zubair che invece ce la fa, che in un paio di settimane riprende peso e può rinunciare all'ossigeno, che tornerà a casa sebbene la sua casa significhi poco più di un tetto in una terra perduta. Se chiedi cos' è che tiene ancora in trincea, a cinquant' anni pressoché suonati, Medici senza frontiere la risposta è Zubair. L'Afghanistan non è un Paese per bambini, come non lo è per donne, uomini, ragazze, ragazzi, vecchi. Non lo è per nessuno. Da quando ad agosto i talebani sono tornati al potere hanno fatto le valigie in tanti, operatori umanitari, lavoratori stranieri, la meglio gioventù locale. Qualcuno, laddove a un certo punto bisognerà raccogliere i cocci, è rimasto. Anche per Zubair. Dopodomani Medici senza frontiere compie mezzo secolo ma i suoi oltre 65 mila inviati negli angoli più miserevoli del pianeta hanno poco tempo per festeggiare. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, all'indomani della guerra del Biafra, un gruppo di dottori e giornalisti, tra cui Bernard Kouchner, fondava a Parigi l'organizzazione non governativa che avrebbe poi portato cure e medicine in Ruanda, in Indonesia, ad Haiti, in Siria, nel Mediterraneo dei migranti alla deriva, dove sei mesi fa, dopo uno stop dovuto al Covid e al clima avvelenato dalla criminalizzazione delle Ong, la nave di Msf «Geo Barents» è tornata a soccorrere i relitti che la politica vorrebbe abbandonati in Libia. Eppure, se la scommessa di quel lontano 22 dicembre 1971 era rendere il mondo un po' meno schiavo del bisogno sanitario siamo purtroppo lontani. Nelle regioni più periferiche degli 88 Paesi serviti da Msf, di cui alcuni poverissimi, le strutture di cura sono, assieme a quelle di altre Ong, uno specchio d'acqua nel deserto. Parliamo di persone ma anche di numeri, 10 milioni di visite mediche l'anno, 306 mila parti, un milione di vaccinazioni contro il morbillo, 15 mila ricoveri per Covid. Ci sono stati momenti gloriosi come il Premio Nobel per la Pace, ricevuto nel 1999. Erano gli anni in cui l'umanitario passava per un mestiere ambito, come se, lasciatosi alle spalle il secolo breve, il mondo cercasse il riscatto post ideologico nell'impegno sul campo, il volontariato, la messa in pratica della lezione fisica di Edward Lorenz sull'«effetto farfalla». Poi la Storia non è finita e non sono finite guerre né carestie, è finita invece la spinta sociale verso il bene e dopo la crisi economica del 2008 ci siamo ritrovati di colpo più populisti, più egoisti, più sospettosi dell'altruismo al punto da finanziarlo meno se non addirittura da additarlo come "responsabile" delle migrazioni del nostro scontento. Anche Msf ha pagato il prezzo del calo delle donazioni, ma resta al fronte. E sì, Zubair è la risposta. «La malnutrizione azzera il sistema immunitario e i bassi tassi di vaccinazione fanno il resto, è così che i bambini in Afghanistan muoiono di patologie altamente contagiose ma curabili come polmonite, bronchiolite e diarrea» ci dice Gaia Giletta, la dottoressa italiana responsabile dell'ospedale di Herat, uno dei 5 presidi afghani di Msf dove le famiglie arrivano percorrendo anche 200 km su taxi pagati profumatamente perché certi di trovarvi l'introvabile, personale e medicine. È qui che Zubair ha ripreso fiato, e non serve soffiare sulle candeline».
VALÉRIE, UNA DESTRA NON POPULISTA
È la vera insidia per il Presidente Macron: la gollista Valérie Pécresse potrebbe raccogliere i consensi per una destra moderata europeista e non populista. Anais Ginori per Repubblica.
«Con la sua mèche bionda, l'aria da versaillese liscia e saggia ha ingannato tutti, a cominciare da me», racconta Marion Van Retterghem che ha firmato una lungo libro intervista con Valérie Pécresse, incontrando una donna molto diversa dal cliché della borghesia cattolica che abita Versailles. Un'intrepida viaggiatrice, femminista, sportiva, partita a 15 anni nei campi giovanili sovietici per imparare il russo, per poi dedicarsi allo studio del giapponese. Anche la Francia sta scoprendo "Valérie", la candidata dei Républicains balzata nei sondaggi, con buone chance di trovarsi al secondo turno e di battere Emmanuel Macron. A quattro mesi dal voto, le presidenziali sono più che mai aperte. «La tappa più difficile per lei era ottenere l'investitura del partito», ragiona Alain Minc, consigliere ombra di tanti presidenti. A inizio mese la governatrice dell'Île-de-France ha battuto a sorpresa gli altri aspiranti candidati dei Républicains. «Il secondo scoglio sarà passare il primo turno», prosegue Minc. «Ma ha una buona stella, com' è successo a Macron. La fortuna di Pécresse si chiama Zemmour, perché fa scendere Le Pen». La competizione nell'estrema destra, ha ridato speranza ai Républicains. «Ai miei occhi - dice ancora l'intellettuale - se Pécresse passa il primo turno, il ballottaggio diventerà una formalità. Sono sicuro che sarà eletta. Perché beneficerà del profondo sentimento anti-Macron che c'è nel Paese». La Francia potrebbe mandare all'Eliseo una politica che si è definita "due terzi Merkel, un terzo Thatcher"? «Quindici anni fa - commenta Minc - i francesi hanno dato il 47,5% dei voti a una donna che non era all'altezza del ruolo: Ségolène Royal. E contro un candidato incredibilmente potente, Sarkozy». Anche il politologo Jerôme Jaffré è convinto che l'attuale presidente abbia davanti un "grande pericolo". «Pécresse si trova nel punto di equilibrio politico del Paese, che è a destra. Ha una squadra, mentre Macron è percepito come un uomo solo. E ha il vantaggio femminile, che credo sia reale dopo 10 elezioni presidenziali dal 1965 sempre vinte da un uomo». Lei ha già avvertito: «Non ho mai presentato la mia femminilità come argomento elettorale e non comincerò ora». Madre di tre figli, sposata da 27 anni con un manager, è convinta che uno dei modi di ristabilire la parità sia rendere il congedo parentale obbligatorio per gli uomini. Indossa sempre tailleur pantalone, pratica boxe, tennis, yoga, cita il calcio femminile come metafora del suo gioco in politica: le donne danno di più, fingono meno e rispettano di più le regole. Rispetto a Le Pen e Zemmour vuole imporre una destra «popolare non populista come quella di Salvini e Boris Johnson». Davanti all'attuale presidente può vantare gli stessi ottimi studi e un approccio liberale e sociale, di stampo europeista, tanto che i suoi avversari la chiamano "Macron in gonnella". "Valérie, Valérie". I militanti alla Mutualité scandiscono il nome della loro nuova eroina. «Sono una donna di pace, ma diventerò comandante in capo ogni volta che la Francia sarà minacciata», dice. Nei decenni in cui erano egemoni, i neogollisti si sono combattuti tra correnti ma dopo 10 anni d'opposizione sembrano compatti, sentono di avere una possibilità di riprendersi il potere. Da ragazzina Pécresse era rimasta affascinata da Mitterrand, poi è cresciuta nell'ombra di Chirac. «Mi ha sedotto perché incarnava sia l'autorità che la generosità», ha raccontato nel libro di Van Retterghem. Con Sarkozy i rapporti sono stati più turbolenti. Anche se l'ha nominata due volte ministra, l'ex presidente, molto vicino a Macron, non le ha ancora formalizzato il suo sostegno. La politica è iniziata in famiglia, nel mito della Resistenza e del gollismo. Il nonno, Louis Bertagna, origini corse, era un luminare della psichiatria, fu uno dei primi a usare il litio nel trattamento della depressione. Tra i suoi pazienti c'erano André Malraux, Romain Gary e alcuni membri della famiglia Chirac. «La violenza può essere di una violenza inimmaginabile», ha confidato Pécresse, nata nel giorno della festa nazionale, il 14 luglio 1967. Da bambina sognava di fare la psichiatra, come il nonno, o l'attrice per la passione del cinema. «Pensandoci bene - confida - la politica in un certo senso unisce le due aspirazioni: curare le anime ed esibirsi sul palco».
RITROVATO IL BAMBINO SIMBOLO DI KABUL
Storia a lieto fine: ritrovato il bimbo affidato ai marines all’aeroporto e di cui si era perso traccia dallo scorso agosto. Anche se manca ancora l’esame del Dna per avere la certezza assoluta che si tratti proprio di lui. La cronaca per il Corriere di Marta Serafini.
«Ci sono storie che hanno un lieto fine. E potrebbe essere il caso di Sohail, il bambino afghano scomparso durante la caotica evacuazione dall'aeroporto di Kabul in agosto. Secondo il quotidiano britannico Times, sarebbe stato ritrovato e starebbe per essere riconsegnato alla famiglia. Ma siccome la realtà obbliga spesso al condizionale, per conoscere la conclusione della sua vicenda bisognerà attendere che venga effettuato il test del Dna. Tutto ha inizio quando Mirza Ali Ahmadi e sua moglie Suraya arrivano all'aeroporto di Kabul il 19 agosto per cercare di lasciare l'Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani. Il loro ultimogenito Sohail ha poco meno di due mesi. Finiti nella calca del dirty river e dell'Abbey Gate, con altre migliaia di persone in attesa di entrare in aeroporto per salire sui voli di evacuazione, i genitori affidano il neonato ai militari Usa, come immortalato da alcune foto. Meglio nelle braccia di un estraneo che schiacciato dalla folla, pensano. Ma da quel momento Sohail sparisce nel nulla. Nessuno dei funzionari dell'aeroporto sa dare spiegazione. «Lo avranno già imbarcato», dicono ai genitori per tenerli tranquilli. La coppia, avendo un lascia passare, parte con gli altri figli di 17, 9, 6 e 3 anni e arriva Fort Bliss, in Texas, dopo aver fatto tappa prima in Qatar e poi in Germania. Ma di Sohail, lì negli Stati Uniti, non c'è traccia. Madre e padre non si danno pace e chiedono al Dipartimento di Stato di cercare quel bambino. A raccoglierlo - scrive ancora il Times - è un tassista, Hamid Hammedullah. «Stavo accompagnando mio fratello in aeroporto, quando ho visto il piccolo. Era su un sentiero vicino al Baron (l'hotel vicino all'aeroporto, ndr . Era a terra in lacrime, con vestiti sporchi, affamato e assetato», spiega l'uomo. «Così ho deciso di portarlo a casa per poi cercare la sua famiglia. Ma io e mia moglie eravamo pronti a crescerlo come fosse nostro». Qualche settimana dopo sale sul taxi di Hammedullah un uomo. È hazara, la stessa comunità del bambino. Hammedullah gli racconta di quel trovatello. Il passeggero fa due più due. Sarà poi il nonno di Sohail, rimasto a Kabul, a confermare tutta la storia e la sua identità. Ma la storia non è finita. Quando Sohail è ancora sotto la custodia di Hammedullah, due uomini si presentano a casa del tassista spacciandosi per giornalisti. «Mi hanno preso a pugni. Hanno afferrato il bambino e hanno cercato di fuggire, ma mia moglie ha urlato per chiedere aiuto. Uno dei nostri vicini è arrivato e ha messo in salvo Sohail». Poi la fuga dei due finti reporter. E mentre ora la famiglia di Sohail sta aspettando che il governo degli Stati Uniti organizzi il trasporto del bambino in Texas, nonostante le restrizioni alle frontiere non si ferma la fuga dall'Afghanistan. Da agosto, in almeno 290mila si sono rifugiati in Pakistan. E molti altri potrebbero lasciare il Paese nelle prossime settimane, dopo i talebani hanno annunciato la ripresa del rilascio dei passaporti. Intanto sono almeno tre gli altri bambini scomparsi all'aeroporto come Sohail. Ma si teme che, in realtà, siano molti di più».
DOSSIER SUGLI ABUSI DEL CLERO IN SPAGNA
È stato direttamente consegnato nelle mani del Papa dal corrispondente da Roma di El País. Era una condizione posta dalle vittime: si tratta di un dossier di denunce raccolte in Spagna negli ultimi anni e che riguarda la pedofilia di preti dal 1948 al 2018. 251 casi. Michela A. G. Iaccarino per Il Fatto.
«Fino a ieri sugli atti di pedofilia commessi dal clero spagnolo su migliaia di bambini vigeva il silenzio: quello reo delle gerarchie religiose, quello afflitto delle vittime inascoltate o nascoste nel loro doloroso segreto. A romperlo è stato il meticoloso lavoro di 15 solerti giornalisti del quotidiano spagnolo El País, che dal 2018 hanno cominciato a raccogliere, città dopo città, di regione in regione, storie e testimonianze di quanti sono stati violentati dai sacerdoti dal 1943 al 2018. Nel dossier di 385 pagine sono minuziosamente catalogati 251 casi di violenza commessi dai preti spagnoli negli ultimi 80 anni. Degli abusatori, appartenenti a 31 diocesi e 31 ordini religiosi, hanno parlato le loro vittime: sono 1237, ma la cifra è in aumento. Il "dossier spagnolo" lo ha consegnato direttamente nelle mani di Papa Francesco, mentre l'aereo del Pontefice volava dalla Grecia di ritorno su Roma, Daniel Verdu, da cinque anni corrispondente di El País in Italia e al Vaticano. Un gesto che è stato l'atto finale di un lavoro collettivo dei reporter che tre anni fa hanno cominciato a chiedersi perché mancava una banca dati degli abusi commessi dai religiosi del loro Paese. Sono quei giorni, dice Verdu, che "vale la pena fare il giornalista e pensi che questo mestiere serva ancora a qualcosa". Per fare giustizia serve venire alla luce: "Molti abusati hanno bussato alle porte della chiesa per anni, hanno collezionato false promesse, sono stati ingannati", dice Verdu. Che il report arrivasse sotto gli occhi di Francesco senza passare per altre mani era una condizione posta da quanti hanno trovato la forza di parlare: "Non è una forma ortodossa, ma le vittime si fidano ormai solo del Papa, era una delle premesse per aprire un'inchiesta di cui solo noi abbiamo i nomi, volevamo essere sicuri che ci fosse una responsabilità diretta del Vaticano". Molti dei reporter storie di abusi le avevano sentite da amici e conoscenti. Tre anni fa però hanno cominciato a interrogarsi sull'inesistenza di un archivio ufficiale che catalogasse le violenze dei presbiteri su minori: "Così abbiamo aperto una mail: abusos@elpais.es". Il risultato è stata l'esplosione, inizialmente digitale, di quel silenzio obbligato: "Ci hanno scritto migliaia di persone". Sono emersi i nomi dei primi 25 religiosi. Nei collegi, nei seminari, nelle sale buie delle sacrestie dove erano costretti a calare il capo i chierichetti. "Ovunque ci fosse contatto tra preti e bambini". Come scrive El País, quello della pedofilia dei preti spagnoli, era un "secreto a voces", un falso segreto di cui tutti sapevano "ma facevano finta di niente". Come in Usa e Francia, le denunce venivano insabbiate, i pedofili trasferiti di diocesi in diocesi. "In un Paese cattolico come la Spagna" vige la cultura del "facciamo finta che non è successo niente: le famiglie più umili si vergognavano, le vittime portavano dentro il loro dolore per anni, il clero invece ha omesso tutto in una maniera volontaria e mafiosa. Con quella mail le vittime hanno visto la possibilità di parlare in massa", dice Verdu. "Il nostro obiettivo è che la Spagna crei una commissione indipendente come hanno fatto in Usa o in Germania: non ci sono motivi per pensare che nel nostro Paese ci siano meno casi di quelli scoperti a Parigi". Ai due confini esterni di Madrid, il Portogallo avvia le sue indagini, mentre la Francia ha confermato che sono state almeno 218mila le vittime di abusi dei religiosi dal 1950 ad oggi. Germania, Belgio, Irlanda hanno cominciato a scavare nei segreti dei loro uomini di Dio da quando gli Stati Uniti hanno cominciato nel 2002. Il Vaticano ha reagito pronto ed immediato: Papa Francesco ha subito dato solidarietà alle vittime e incaricato dell'indagine la Congregazione per la Dottrina della fede, istituzione guidata dal gesuita spagnolo Luis Ladaria. La Conferenza episcopale spagnola è rimasta invece in silenzio, chiusa nel suo tradizionale mutismo, "confermando il timore delle vittime che non si fidano più della cupola ecclesiastica". Anche se i vertici religiosi iberici hanno visto in questa inchiesta una "battaglia ideologica anti-clericale" di El País, dice il corrispondente di aver incontrato "religiosi, pochi ma presenti, che ti ringraziano e si impegnano in questa lotta e ti aiutano. È difficile trovarli, ma io ho avuto la fortuna di incrociarne alcuni". Degli abusi dei preti spagnoli ora parla il mondo e "vedremo cosa succederà domani", dice Verdu: "Potrebbe esserci un effetto-chiamata, altre vittime potrebbero sentirsi libere di raccontare la loro storia: la nostra mail è ancora aperta e funzionante".».
IL PAPA INTERVISTATO DAGLI ULTIMI
Dialogo tra quattro “ultimi” e Papa Francesco a Santa Marta, trasmesso in uno speciale del Tg5, proposto ieri in prima serata. Paolo Rodari per Repubblica.
«La violenza sulle donne è un problema «quasi satanico», dice il Papa. «Perché è profittare della debolezza di qualcuno che non può difendersi». Francesco incontra ancora una volta gli ultimi e denuncia con forza un male presente nella nostra società e del quale non riesce a darsi pace. Lo fa da Casa Santa Marta, in Vaticano, dialogando con quattro di loro all'interno dello speciale del Tg5 "Francesco e gli Invisibili - Il Papa incontra gli ultimi", curato da Fabio Marchese Ragona. Il Pontefice ascolta le storie di Giovanna, una donna vittima di violenze domestiche, rimasta senza lavoro e senza casa durante la pandemia. Di Maria, una senzatetto che ha vissuto anni per strada prima di essere accolta a Palazzo Migliori, il dormitorio del Vaticano gestito dalla Comunità di Sant' Egidio. Di Pierdonato, un ergastolano in carcere da 25 anni e che, grazie allo studio e alla preghiera, ha capito i propri errori. E di Maristella, una scout di 18 anni, in rappresentanza di tutti quei ragazzi che con il lockdown si sono sentiti abbandonati e hanno perso i contatti con amici e compagni di scuola. E a ognuno risponde ricordando che si può perdere ogni cosa, certo, «ma non la speranza ». È a Giovanna, che gli chiede «come possiamo fare per ritrovare la nostra dignità?», che Francesco dice che «è tanto, tanto grande il numero di donne picchiate, abusate in casa, anche dal marito». Il problema, dice, «per me è quasi satanico». «È umiliante, molto umiliante. È umiliante quando un papà o una mamma dà uno schiaffo in faccia a un bambino, è molto umiliante e io lo dico sempre». E continua: «Mai dare uno schiaffo in faccia. Come mai? Perché la dignità è la faccia». Per Francesco non c'è umiliazione da cui non si può rinascere. Così, del resto, ha insegnato l'esperienza del Covid. La pandemia, insiste ancora il Papa, «ci ha messo tutti in crisi. Una strada per uscire dalla crisi è amareggiarsi e un'amarezza tante volte è farla finita. Il numero dei suicidi è aumentato tanto con la crisi». Perciò occorre «pensare bene che cos' è una crisi, non avere paura delle crisi, cercare gente amica, gente vicina per uscirne insieme perché non si può uscire da soli e anche fare un'azione per uscire migliori». Le conseguenze negative legate alla pandemia sono in cima ai pensieri del vescovo di Roma. Che ricorda ancora come con essa «i problemi sono aumentati». Molte persone sono in difficoltà economica, dice. E c'è chi bussa alle loro porte offrendo denaro in prestito, «gli usurai», dice. «Un povero, una persona che ha bisogno, cade nelle mani degli usurai e perde tutto, perché questi non perdonano». «È crudeltà sopra crudeltà». È un crimine che alimenta «questa cultura dello scarto» che colpisce poveri e chi ha necessità».
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