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Pandemia delle bufale
Per l'Oms si chiama infodemia, per Avvenire è impostura no vax. Per il Guardian pochi inondano il mondo di fake news. Mentre si discute di green pass. Domani Conte vede Draghi. Martedì ancora Zan
Benvenuti alla Versione della Sera, rubrica domenicale estiva, dedicata ai quotidiani del fine settimana. Ancora la pandemia è in primo piano. Perché crescono i dati del contagio in tutta Europa, e purtroppo anche da noi, con i focolai “azzurri” che si manifestano dopo 7 giorni. Per ora comincia a salire anche il dato dei ricoveri, ma in modo moderato. Fermi fortunatamente quelli di terapia intensiva e decessi. Nelle ultime 24 ore sono state fatte 531 mila 646 iniezioni. In questa settimana solo un giorno sono andate sotto le 500 mila, la media settimanale nei giorni dal 12 al 18 luglio è di 556 mila 247 dosi somministrate ogni giorno, eppure forse è stata la settimana peggiore da maggio.
L’incertezza domina. In Gran Bretagna Johnson sta già facendo marcia indietro dopo le clamorose proteste degli scienziati, vedremo se davvero toglierà ogni divieto. Intanto 3 milioni di francesi si sono prenotati in pochi giorni per il vaccino, mentre le manifestazioni convocate da una settimana per protestare contro il green pass hanno radunato poco più di 100mila persone in piazza in tutta la Francia. Un flop, nonostante la violenza dei gilet gialli.
La verità si dice in tanti modi, ma le bugie invece, per forza di cose, si ripetono sempre uguali. Non a casa l’Oms ha inventato il termine infodemia. Basta dare un’occhiata ai social, per scoprire che il partito degli anti green pass e degli anti vaccino, che conta ormai illustri opinionisti e senatori, rimbalza le stesse bufale. È un fenomeno mondiale. Giustamente Biden ha accusato Facebook di lasciar circolare ogni tipo di disinformazione sul virus. Il Guardian oggi rivela che secondo uno studio ci sarebbero dodici persone ad agitare milioni di notizie fake su FB.
La politica italiana vive un fine settimana centrato su tre questioni: il primo confronto Conte-Draghi, con la giustizia (e non solo) sul tavolo, il Ddl Zan che martedì torna ancora in aula al Senato e la tensione nel centro destra dopo la soluzione del caso Rai, che esclude Fratelli d’Italia. Dall’estero tengono banco ancora Cuba e la Germania devastata dal maltempo. Con un grado in più di temperatura media l’atmosfera sviluppa fenomeni sempre più violenti ed inaspettati.
Concludiamo con un paio di notizie vaticane e con due storie che riguardano la Val d’Aosta. Un po’ di fresco anche per la Versione. Buona lettura e ci vediamo domattina, come al solito.
DILAGA L’IMPOSTURA DEI NO VAX
Francesco Ognibene per Avvenire, che oggi dedica al tema il titolo di apertura del giornale Impostura no-vax, affronta i meccanismi della propaganda strisciante contro i vaccini e a favore del virus.
«L'ultima tesi affiorata dal magma dei social e poi rimbalzata su infinite chat è 'il complotto dei 4 presidenti': la recente fine dei leader di Burundi, Tanzania, Madagascar e Haiti sarebbe legata a una loro asserita preferenza per la medicina tradizionale rispetto ai vaccini, un 'rifiuto' pagato con la morte. Pierre Nkurunziza (burundese, morto d'infarto l'8 giugno 2020, in realtà ben prima di qualunque vaccino), John Magufuli (tanzaniano, malato cronico di cuore, spirato il 18 marzo 2021), Didier Ratsiraka (malgascio, morto il 28 marzo 2021 ma non più in carica dal 2002) e Jovenel Moïse (haitiano, assassinato il 7 luglio in un Paese sprofondato nella una guerra civile) in realtà avrebbero desiderato qualsiasi cosa - farmaci, vaccini, qualunque rimedio - che risparmiasse ai loro popoli il flagello del Covid: ma i 4 Paesi fanno parte di quella porzione di pianeta dove le medicine del primo mondo sono poco più che un miraggio. Altro che rifiuto. A cavalcare con convinzione teoremi simili sono i militanti anti-vaccini, che offrono idee pronto uso a chi per i più diversi motivi è contrario all'iniezione: secondo una stima del generale Figliuolo, il 10-12% della popolazione adulta, più o meno 5 milioni di italiani. Non pochi. È tra loro che circolano le ormai numerose tesi apertamente in guerra contro i vaccini, costruite su illazioni indimostrate (esemplari i presidenti), ipotesi scientifiche di più che dubbia solidità a fronte di migliaia di studi editi in tutto il mondo, e paure incontrollate sugli effetti dei preparati iniettabili, cui si offre una vaga copertura tecnica. Colpisce il rapido inasprirsi dei toni: la crescente pressione istituzionale e mediatica per convincere gli esitanti a vaccinarsi sembra alimentare una reazione uguale e contraria in uno zoccolo di cultori della determinazione a non farlo che li rende aggressivi verso chi al vaccino si sottopone e - con toni anche più duri - verso quanti affermano che farlo è la sola via d'uscita alla tragedia della pandemia (4 milioni di morti nel mondo, 128mila in Italia). Tanto che è ormai esperienza quotidiana imbattersi online nell'accusa di asservimento a un regime mondiale che punta alla riduzione in schiavitù di cittadini terrorizzati ad arte rispetto a una minaccia ingigantita, rendendoli disponibili a rinunciare a qualunque libertà (inclusa quella di culto). La tesi più longeva è quella della 'cupola' globale formata da un direttorio di ricchi e potenti (Bill Gates il più detestato) che avrebbero finanziato una campagna planetaria per fomentare l'angoscia verso il Covid, malattia che in realtà sarebbe causa diretta di molti meno decessi rispetto alle cifre ufficiali. Il loro obiettivo sarebbe lucrare sugli immensi profitti per la vendita dei vaccini a un'umanità impaurita. Evidente che scegliendo un manipolo di cattivi e attribuendogli intenzioni nefaste si può ottenere qualunque scopo, a cominciare dalla radicale negazione che il Covid sia un vero problema. Che è come dire che dal febbraio 2020 siamo tutti vittime di un abbaglio collettivo, morti, malati e disperazione inclusi. Posta questa premessa - il virus non è poi così tremendo - tutto vien da sé. E i vaccini sono la dimostrazione che la pandemia è un'invenzione per costringerci ad accettare farmaci privi di vera sperimentazione. Eccoci alla teoria che ne regge molte altre: l'adozione in emergenza di vaccini in realtà realizzati comprimendo i tempi dei test per prevenire una strage peggiore è diventata tra gli odiatori vaccinali la tesi principe per affermare che la vaccinazione va evitata come il fuoco. I farmaci iniettati sarebbero pericolosissimi: modifica del nostro codice genetico, sterilità, effetti permanenti sulla salute, alterazione del ciclo mestruale. Impedirebbero persino di prendere il sole. Una serie di asserzioni del tutto prive di vero supporto scientifico: se si contesta la quantità insufficiente di studi pro-vaccini, è paradossale combatterli con teoremi non sostenuti da un numero almeno equivalente di ricerche autorevoli e convergenti. L'ormai famosa teoria della calamita che si attacca al braccio dopo la seconda iniezione - presunta prova della tossicità dei preparati, nei fatti una bufala da manuale - è il simbolo del punto di credulità cui si è disposti a scendere per procurare quella stessa paura che si dice di voler combattere. I vaccini in realtà funzionano: e la stessa prova esibita dai contrari per principio - i contagi crescono, i reparti restano semivuoti, dunque vaccinarsi sarebbe inutile - è la dimostrazione che la vaccinazione previene ricovero e morte. Scusate se è poco. Imporre al personale sanitario di vaccinarsi e far pressioni sugli insegnanti per fare altrettanto, poi, non è la prova dell'autoritarismo delle istituzioni ma la constatazione che chi viene in contatto ravvicinato con decine di persone deve essere responsabile della loro salute. Oppure si vagheggia un mondo in cui ognuno bada solo a se stesso? Ai credenti poi è stato presentato un vero ricatto psicologico: i vaccini si ottengono con feti abortiti, dunque è immorale farseli inoculare. A questa tesi ha risposto la Congregazione per la Dottrina della Fede spiegando che le cellule fetali usate nello sviluppo di alcuni vaccini sono lontanissime parenti dei tessuti di feti abortiti nel 1972 e 1985, per cui la «cooperazione al male» è solo «remota», superata dalla responsabilità morale di immunizzarsi per evitare che altri si ammalino e muoiano per la nostra negligenza. Perché di vero, sopra questa palude di mezze bugie e patacche integrali, c'è il dovere di salvare ogni singola vita umana. Non è questo che si vuole veramente?».
Joe Biden ha accusato i social network di «uccidere persone» a causa del proliferare della disinformazione sui vaccini. Il presidente, rispondendo a una domanda su Facebook, ha spiegato infatti che in America c'è «ormai una pandemia tra coloro che non sono vaccinati». Stamattina interessante articolo dell’inglese The Guardian, che spiega come uno studio commissionato dalla Casa Bianca abbia identificato dodici persone fisiche, che sono all’origine di tutta la disinformazione sulla pandemia.
«Secondo un rapporto del Center for Countering Digital Hate (CCDH) citato dalla Casa Bianca questa settimana, la stragrande maggioranza della disinformazione e delle teorie cospirative contro i vaccini contro il Covid-19 ha avuto origine da sole 12 persone. CCDH, un'organizzazione non-profit e non governativa del Regno Unito e degli Stati Uniti, ha scoperto a marzo che queste 12 personalità online che hanno soprannominato la "dozzina di disinformazione" hanno un seguito combinato di 59 milioni di persone su più piattaforme di social media, con Facebook che ha il maggiore impatto . Il CCDH ha analizzato 812.000 post e tweet di Facebook e ha scoperto che il 65% proveniva dalla dozzina di disinformazione. Questa settimana Vivek Murthy, chirurgo generale statunitense, e Joe Biden si sono concentrati sulla disinformazione sui vaccini come forza trainante della diffusione del virus. Solo su Facebook, queste 12 persone sono responsabili del 73% di tutti i contenuti anti-vaccini, sebbene i vaccini siano stati ritenuti sicuri ed efficaci dal governo degli Stati Uniti e dalle sue agenzie di regolamentazione. E il 95% della disinformazione sul Covid segnalata su queste piattaforme non è stata rimossa».
Gli esempi di cattiva informazione, quando non di esplicita disinformazione, in Italia arrivano anche da esponenti politici e parlamentari. Che avrebbero il dovere istituzionale di non dare indicazioni dissimili da quelle ufficiali su argomenti parecchio delicati di salute pubblica. Oggi Repubblica ha intervistato un esponente di Fratelli d’Italia (la Meloni nelle ultime settimane si è avvicinata moltissimo alle posizioni No Vax), il senatore Lollobrigida.
«Perché chiamare in causa a Mattarella? «Il Presidente potrebbe, come ha già fatto altre volte, usare la sua moral suasion». Come mai siete rigidi sul modello francese del Green Pass? «Siamo contrari alle logiche segregazioniste, meglio prevedere i tamponi per entrare nei locali. Fai un test e in cinque minuti hai l'esito». Lei si è vaccinato? «Sì, con Johnson, dopo avere preso il Covid. Non consiglierei a nessuno sotto i 40 anni di farlo, perché la letalità è inesistente». Meno vaccinati ci sono più proliferano le varianti, non è così? «Consiglio il vaccino agli over 50. Tra i 40 e 50 bisogna riflettere bene, io stesso ho riflettuto moltissimo. Le vaccinazioni non garantiscono dall'infezione». Oggi negli ospedali ci sono malati non vaccinati. «Chi si vaccina sotto i 40 anni compie un atto di generosità, obbligare a vaccinarsi non è degno di uno Stato liberale».
CAMBIANO I PARAMETRI PER RESTARE IN GIALLO
Il Governo deciderà nei prossimi giorni sulle misure anti-Covid. Le notizie sui contagi e i vari focolai non sono buone, Con gli attuali parametri più di una Regione va verso il ritorno al giallo. A meno che dal numero di contagiati si passi a calcolare il numero degli ospedalizzati. La cronaca del Corriere con Sarzanini e Guerzoni.
«Discoteche e ristoranti al chiuso. È su queste due attività che il governo sembra aver chiuso l'accordo per varare il decreto che rende obbligatorio il green pass. La mediazione è passata per un via libera immediato ai locali da ballo che non hanno ancora una data di riapertura, imponendo però il controllo quando si va a pranzo o a cena all'interno. La lista dei luoghi dove si potrà accedere soltanto con la certificazione verde è ormai completata, la cabina di regia che dovrebbe svolgersi martedì servirà a mettere a punto gli ultimi dettagli. Senza escludere che il provvedimento possa entrare in vigore il 26 luglio. L'obiettivo del governo è mantenere tutta l'Italia in bianco almeno fino a Ferragosto e scongiurare la chiusura delle attività nonostante la corsa della variante Delta. Per questo nel decreto saranno inseriti i nuovi parametri che stabiliscono le fasce di rischio (bianca, gialla, arancione e rossa) non soltanto sulla base dell'incidenza del virus, ma anche sull'occupazione dei reparti ospedalieri e delle terapie intensive. Attualmente il passaggio dalla zona bianca a quella gialla avviene se si superano i 50 nuovi contagi settimanali ogni 100 mila abitanti. In base a questo criterio alcune Regioni potrebbero tornare in giallo già la prossima settimana, con tutte le limitazioni previste dalle norme in vigore, compreso il divieto di cenare al chiuso nei ristoranti. I governatori hanno chiesto una revisione e il ministro della Salute Roberto Speranza ha confermato che sarà inserita nel nuovo decreto. «Se la situazione continuerà a peggiorare - è un concetto che ripete nelle riunioni a porte chiuse - dovremo avere una rete di protezione che ci consenta di tenere le attività aperte». Il numero dei contagiati sale, soprattutto tra i ragazzi, ma nella maggior parte dei casi non c'è necessità di ricovero e per questo si è scelta la strada di lasciare aperte le attività privilegiando però chi decide di immunizzarsi in modo da impedire il più possibile la circolazione del virus. Anche per non arrivare in situazione di emergenza alla ripresa autunnale e soprattutto consentire il ritorno di studenti e professori in classe. Sarà rilasciato a chi ha effettuato la doppia dose, è guarito o ha un tampone negativo effettuato nelle 48 ore precedenti. Molti cittadini segnalano di non riuscire ad ottenere il codice elettronico del green pass pur avendo completato il ciclo vaccinale. Per chi viaggia il green pass sarà indispensabile. Bisognerà mostrarlo prima di prendere treni a lunga percorrenza, navi, aerei. Al momento è invece escluso che sia obbligatorio su autobus e metropolitane, ma se a settembre la curva epidemiologica sarà ancora in salita non è escluso che questa scelta sia rivista. Stadi, palestre, centri sportivi, concerti, eventi, convegni, spettacoli, feste e banchetti: ovunque ci sia il rischio di assembramenti - anche a causa delle file all'ingresso o all'uscita - bisognerà avere il green pass».
CONTE PONE LE CONDIZIONI A DRAGHI
Alla vigilia dell’incontro a Palazzo Chigi con Mario Draghi, Giuseppe Conte pone le condizioni al suo interlocutore e allo stesso tempo si rivolge alla base del Movimento 5 Stelle, presentandosi come leader.
«Alle sei e trenta del pomeriggio, puntale come un orologio svizzero, Giuseppe Conte si presenta sui social per tratteggiare il nuovo corso dei 5 Stelle. E, dunque, per annunciare la votazione dello Statuto e della Carta dei valori. Indossa già i panni del presidente in pectore di un Movimento che, per dirla con le sue parole, «riparte con slancio e nuova forza». È vero, ammette, «sono stati mesi difficili», «di smarrimento». Da ora in avanti, però, il Movimento farà sentire il suo peso all'interno del governo di Mario Draghi. E lo farà di certo lunedì quando varcherà l'ingresso di Palazzo Chigi per un faccia con l'ex presidente della Bce. L'«avvocato del popolo» è già pronto e lancia una serie di messaggi bellicosi all'indirizzo del governo: «Non accetteremo che le nostre riforme siano cancellate». Conte si riferisce al reddito di cittadinanza, un totem per i 5 Stelle: «Qualcuno oggi per interessi di bottega vorrebbe cancellarlo, ma non è la strada per aiutare gli italiani. Piuttosto miglioriamolo». E poi si riferisce alla riforma della giustizia, oggetto della contesa tra Palazzo Chigi e la galassia pentastellata. Non a caso si schiera con chi oggi, nel M5S, non intende accettare la mediazione che ha portato alla riforma Cartabia. Rivendica quindi l'approvazione della legge Spazzacorrotti e manda un altro avvertimento sulla riforma della prescrizione: «Siamo quelli che vogliono processi veloci ma non accetteremo mai che vengano introdotte soglie di impunità e venga negata giustizia alle vittime dei reati. Non accetteremo mai che il processo penale per il crollo del ponte Morandi possa rischiare l'estinzione». Insomma, è un Conte che non recede sui valori identitari del Movimento, che cita solo una volta Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, e che in un passaggio sottolinea un aspetto che lo riguarda. «Nello statuto troverete quelle che considero le basi per rilanciare la nostra azione comune: la piena agibilità politica del presidente del Movimento, una chiara separazione fra ruoli di garanzia e quelli di indirizzo politico». Tradotto, l'ex premier sembra voler dire che è finita la stagione della diarchia. Eppure leggendo lo Statuto si scopre che «la consultazione in Rete per la conferma della sfiducia al Presidente è indetta senza indugio dal Garante». Sia come sia, guarda avanti l'ex premier, promette che non mollerà di un centimetro, che crede in questa comunità e che girerà tutto lo Stivale mettendo al centro i cittadini. Spazio dunque ai forum territoriali, alla scuola di formazione, non abbandonando «la lotta agli sprechi e ai privilegi, la lotta alle disuguaglianza». Il suo Movimento mira ad essere un contenitore interclassista: si rivolgerà al mondo delle imprese, a quel ceto medio «che oggi fatica ad arrivare a fine mese», senza dimenticare gli ultimi. Fondamentale però sarà «essere uniti e tanti». Infine, ecco l'appello ai vecchi e ai nuovi iscritti: «Fateci sentire il vostro calore e il vostro sostegno». Ma prima di entrare nell'era Conte, dovranno essere approvate le modifiche statutarie. Vito Crimi, in qualità di presidente del comitato di garanzia, ha convocato l'assemblea degli iscritti «dalle ore 10 alle ore 22 dei giorni 2 e 3 agosto in prima convocazione e dalle ore 10 alle ore 22 dei giorni 5 e 6 agosto in seconda convocazione». Dopodiché sempre l'assemblea sarà chiamata a votare per l'elezione del presidente, «indicato dal Garante, Beppe Grillo, nella persona del professor Giuseppe Conte».
Più esplicita Paola Zanca sul Fatto, il giornale che invita in tutti i modi Conte a rompere con l’odiato successore, il capo del “governo horror”, secondo la definizione di Di Battista.
«"Noi siamo quelli che vogliono processi veloci, ma non accetteremo mai che vengano introdotte soglie di impunità e venga negata giustizia alle vittime dei reati", dice l'ex premier nel video, non senza dimenticare di citare una delle vicende giudiziarie più tristemente popolari degli ultimi anni: "Non accetteremo mai, ad esempio, che il processo penale per il crollo del Ponte Morandi possa rischiare l'estinzione". È l'ultimo capitolo, quello della Giustizia, della lunga carrellata con cui Conte ricorda - agli iscritti, ma ancor prima ai parlamentari - chi sono e da dove vengono, i Cinque Stelle. "Siamo gli unici che si occupavano dei temi che stavano a cuore solo ai cittadini"; è l'appello del futuro leader che ricorda le campagne per l'etica pubblica, per l'idea della "politica come servizio". E ammette che "oggi questo progetto ha bisogno di nuova linfa, di ritrovarsi e ritrovare quella caparbietà, quello spirito che l'hanno portato a essere forza trainante per il cambiamento del Paese. Io sono pronto e non intendo mollare di un centimetro". Elenca le battaglie identitarie dei suoi due governi: il Reddito di cittadinanza ("che qualcuno ora vorrebbe smantellare"), la Spazzacorrotti, perfino il superbonus per le ristrutturazioni edilizie "che sta rilanciando l'economia". Un mondo che, a sentire Conte, sembra già finito lontano. Per questo rinnova il messaggio a Draghi (e ai suoi): "Il M5S è diventato la prima forza politica grazie agli impegni presi con gli elettori. Questi impegni in parte li abbiamo già mantenuti, realizzando gran parte delle riforme che avevamo promesso e che oggi non possiamo lasciare che vengano cancellate. È una questione di rispetto della democrazia e degli elettori". Mette in seria discussione le ragioni della permanenza all 'interno di questa maggioranza, l'ex premier. Eppure non è l'uscita dal governo il suo orizzonte prossimo: non solo perché tutti i maggiorenti M5S - a cominciare da Luigi Di Maio - ritengono che non sia quella la strada da percorrere, anche perché risulterebbe incomprensibile ai cittadini, a così poca distanza dalla caduta del precedente esecutivo. Ma soprattutto, è la valutazione condivisa, il Movimento ha bisogno di tempo per provare a rimettersi in piedi dopo lo sbandamento degli ultimi mesi, provocato - è questo il paradosso - proprio dalla decisione di sostenere il "governo di tutti" presieduto da Mario Draghi. Per questo Conte ha annunciato un "tour " per le piazze italiane, per rianimare la base stanca e per provare a recuperare nuovi consensi: "Saremo ben accoglienti con chi vorrà camminare al nostro fianco", ha detto. E, semmai qualcuno facesse lo schizzinoso, nello Statuto ha perfino aggiunto una clausola contro chi "anziché favorire" l'adesione di nuovi iscritti metta in atto "ostacoli immotivati o chiusure ingiustificate"».
Enrico Letta, in contemporanea con l’uscita di Conte via social, interviene sul nodo giustizia. Lo fa in un’intervista con Giovanna Vitale di Repubblica, parlando da Montalcino, comune del senese nel collegio dove cercherà di essere eletto. La sua proposta è di affidare il “volante” alla Cartabia.
« Il testo approvato in Cdm ha bisogno di modifiche, come sostengono M5S e Forza Italia, o va approvato così com' è, ponendo la fiducia? «Non c'è alcun dubbio che la riforma sia giusta e necessaria: dopo molti anni si va finalmente nella direzione di superare lo scontro politico tra giustizialismo e finto garantismo che ha tenuto in ostaggio il Paese troppo a lungo. Ma proprio perché è di importanza strategica, penso che il Parlamento abbia il diritto, direi il dovere, di contribuire a migliorarla». Palazzo Chigi però teme che la dialettica interna ai partiti possa dilatare i tempi e stravolgere il testo. «Io credo che i tempi stretti chiesti dal governo, e che io condivido, siano compatibili con qualche piccolo aggiustamento, in prima o anche in seconda lettura. A patto di non stravolgerne l'impianto». Quindi lei non asseconderà la guerriglia minacciata da Conte per ripristinare i cardini della legge Bonafede, specie sulla prescrizione? «Mi fido molto della ministra Cartabia. Se vogliamo affrontare il percorso in modo ordinato occorre affidare a lei il volante, la guida di questo confronto nelle Camere». Domani Conte incontrerà Draghi. C'è il rischio che il M5S si sfili, magari durante il semestre bianco? «Come tutti sanno il Pd lavora molto bene con Draghi, così come ha lavorato bene con Conte, con il quale vogliamo costruire un'alleanza solida. Non solo non vedo rischi di rottura, ma sono convinto che questo dialogo darà più stabilità al governo».
NUOVO BIVIO PER IL DDL ZAN
La prossima settimana sarà decisiva anche per il destino del ddl Zan. Falci sul Corriere ha intervistato Mario Capanna sull’argomento.
«La mia posizione sul disegno di legge Zan è assolutamente negativa» attacca Mario Capanna, storico leader di Democrazia proletaria, che fece nascere e poi morire. Da sinistra critica il testo contro l'omofobia. Perché? «Per due ragioni semplicissime». Ci dica la prima. «Si tratta di un progetto di legge che crea nuovi reati. Noi invece abbiamo bisogno di creare nuovi diritti». Qual è l'altro nodo che lei solleva? «Tutti sanno che c'è un'ampia normativa in vigore che condanna tutti i soprusi, le prevaricazioni contro l'altro sesso. Inutile aggiungere altra carne al fuoco». Dunque a suo avviso la sinistra sbaglia? «Innanzitutto bisognerebbe mettersi d'accordo sul concetto di sinistra. Molti pensano che il Partito democratico sia un contenitore di sinistra». Non lo è? «Mi permetto di affermare che da lungo tempo il Pd non ha più nulla di sinistra». Qual è la sua definizione del partito guidato da Enrico Letta? «Un semplice partito socialdemocratico senza la levatura dell'Spd tedesca e del Labour inglese. E che quindi può permettersi di fare l'ammucchiata insieme alla Lega, al M5S e a Forza Italia, per sostenere Mario Draghi. Il Pd non ha alcuna capacità di determinare indirizzi di governo alternativi. E dunque va a rimorchio». E se la sinistra di Mario Capanna fosse oggi in Parlamento come si comporterebbe sul ddl Zan? «Avrebbe detto: "Va buttato via". La proposta Zan è inutile. E un sovrappiù di invenzioni di nuovi reati». Lei ha letto la proposta Zan? «Non è mio costume parlare senza documentarmi» . Qual è il punto più delicato della legge? «L'autodefinizione della propria sessualità. Il fatto che ci sia disputa su questo punto specifico ti dice non solo che non è chiaro ma che è anche inutile...». Alla fine il ddl Zan supererà la prova del Senato? «Il fatto che Pd, M5S e centrodestra si stiano incartando è sintomatico di quello che dicevo. Per cui non credo che raggiungerà il traguardo». Cosa dovrebbe fare oggi la sinistra in Italia? «Ah Dovrebbe istituire un Parlamento mondiale. Lei dirà: questo è matto. Ieri abbiamo presentato a Roma il libro dal titolo: "Parlamento mondiale". Sottotitolo: "Perché l'umanità sopravviva". Un testo che la settimana prossima consegneremo al presidente della Camera Fico. Investendone così anche in modo formale il Parlamento italiano». Le manca la politica attiva? «La politica con la P maiuscola, l'arte che risolve i problemi e progetta il futuro, non c'è più. Ed è sostituita dalla propaganda. Ecco, questa non è politica».
Fabio Martini su La Stampa intervista Matteo Renzi sempre sul tema del Ddl Zan. Renzi torna ad offrire una mediazione al Pd per approvare in tempi certi la legge, anche se con modifiche.
«La legge è ancora aperta soltanto perché il Pd la sta rinviando. L'ostruzionismo lo ha fatto per mesi la Lega. Ma oggi il vero partito no-Zan è il Pd. Faccio una proposta per sbloccare l'impasse: i capigruppo di maggioranza del Senato coinvolgano quelli della Camera per stabilire assieme un cronoprogramma stringente: si approva la legge Zan con le modifiche concordabili e al tempo stesso alla Camera si impegnino subito a calendarizzare la terza e ultima lettura. Il prima possibile». Letta è arrivato a negare la possibilità di discutere di modifiche, ma ora con la presentazione degli emendamenti si capirà chi è in buona fede: lei crede davvero che la Lega presenterà testi votabili anche dagli altri? Da qualche tempo lei non si fida molto di Salvini? «A me della Lega non interessa niente. Siamo avversari politici e partecipiamo alla stessa esperienza di governo, come chiesto dal Capo dello Stato. La Lega ha fatto un passo avanti enorme nella persona del presidente della Commissione Giustizia Ostellari, bravo nell'ascoltare le posizioni altrui. Ha abbandonato una posizione ostruzionistica e va riconosciuto. Dall'altra parte ci saranno emendamenti da parte dei socialisti, dei mondo delle autonomie. A me non interessa della Lega, ma delle migliaia di giovani omosessuali, transessuali e disabili che potrebbero avere una legge, che invece viene impedita dall'atteggiamento arrogante di una parte del Pd che preferisce tenere alta la bandierina a fini di consenso piuttosto che trovare una soluzione». Lei propone un "lodo", che metterà alla prova la buona fede di tutti, anche la sua, ma sul piano delle proposte come se ne esce? «Il Parlamento non è il regno degli influencer, ma un luogo dove si devono fare i conti con i numeri. Modificando gli articoli 1, 4 e 7 la legge si chiude col consenso se non di tutti, di tanti. La politica è accordo, altrimenti diventa velleitarismo arrogante e inconcludente».
DAVIGO INDAGATO, SI MUOVE IL CSM
Torna d’attualità la vicenda della loggia Ungheria, alla quale avrebbero partecipato diversi magistrati. Pier Camillo Davigo è stato indagato per rivelazione di segreti d’ufficio. La cronaca del Corriere di Virginia Piccolillo.
«E adesso è pressing al Consiglio superiore della magistratura. Saranno sentiti a decine i magistrati della Procura e anche del Tribunale di Milano per chiarire gli strascichi lasciati dal caso Davigo-Storari. Ovvero l'iniziativa del pm milanese Paolo Storari, stanco di un asserito «immobilismo» del procuratore Francesco Greco, di consegnare a Piercamillo Davigo, allora consigliere Csm, verbali segreti. Quelli in cui il faccendiere Piero Amara, poi arrestato, svelava l'esistenza della presunta loggia denominata Ungheria, composta anche da magistrati e consiglieri Csm, e dedita a pilotare indagini. Per l'uso di quei verbali, che in seguito finirono ai giornali spediti da un anonimo, Davigo è ora indagato dalla Procura di Brescia per rivelazione di segreto d'ufficio. Una ipotesi che lascia «sorpreso» il suo legale, Francesco Borasi: «Nutro una perplessità profonda sui fatti contestati», dice. E, all'Adn Kronos aggiunge, citando Fouché: «È molto peggio di un crimine, è una stupidaggine. Questo sì lo posso dire. Davigo è l'uomo più limpido d'Europa. Non c'è neanche una nube nel pensiero di Davigo». L'ex pm di Mani Pulite ha sempre rivendicato la sua correttezza, nel suo ruolo di consigliere Csm, per aver parlato di quei verbali con il vicepresidente David Ermini, con il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, titolare dell'azione disciplinare, con il presidente della commissione antimafia, Nicola Morra e con diversi consiglieri. Per ultimo con Nino Di Matteo che, unico, rese pubblica in plenum la vicenda dopo aver presentato un esposto alla Procura di Perugia, competente delle indagini sui magistrati romani. Ponendo fine a quel giro vorticoso di verbali nell'ombra di palazzi istituzionali. L'indagine della prima commissione del Csm non si sovrapporrà all'accertamento penale dei fatti. Ma sarà ad ampio raggio per capire quali effetti hanno prodotto lo scontro di vedute tra il procuratore Greco e il pm Storari, la cui eco è stata amplificata dall'intervento di Davigo, ora sotto accusa. Si vuole capire quale clima ha generato nella cittadella giudiziaria. Se ha scosso la serenità delle indagini. E chi ora è incompatibile con quell'ambiente. Oltre a pm e giudici, saranno ascoltati i procuratori aggiunti e, al termine, sarà convocato lo stesso Greco, che il 14 novembre compirà 70 anni e lascerà comunque l'incarico per la pensione.
LA GERMANIA SOTTO CHOC PER IL MALTEMPO
Germania sotto choc per il maltempo. Ancora si contano decessi e danni, mentre resta difficile capire come fenomeni così violenti possano avvenire a queste latitudini. Il Corriere della Sera ha intervistato Silvio Gualdi, direttore Divisione simulazioni e previsioni climatiche del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici
«Professor Gualdi, cosa ha scatenato i fenomeni atmosferici tedeschi? «In Europa centrale non sono rare perturbazioni che portano piogge anche d'estate. Il clima estivo lì non è secco come sul Mediterraneo. Ciò che è stato eccezionale è che in genere le precipitazioni sono meno persistenti. In questo caso invece la perturbazione è rimasta ferma per quasi tre giorni scaricando una grande quantità d'acqua». A cosa si deve questo «stop»? «La circolazione atmosferica è normalmente caratterizzata da sistemi di alta e bassa pressione e in questo caso un zona di alta pressione presente sui Balcani e un'altra presente tra la penisola iberica e l'Inghilterra hanno bloccato una bassa pressione carica di pioggia facendola stazionare per più giorni su Germania e Paesi Bassi». E poi c'è la questione della quantità di acqua... «Essendo rimasta bloccata, la pioggia è stata scaricata in una sola area provocando le devastazioni che abbiamo visto. Quei molti millimetri di pioggia al giorno (in alcune aree anche 150 mm, vale a dire 150 litri di acqua per metro quadrato in 24 ore) probabilmente, non avrebbero fatto tutti questi danni se non si fossero ripetuti per più giorni praticamente sulla stessa area». C'è una connessione con il cambiamento climatico in corso? «Sì. L'innalzamento delle temperature (ormai più di un grado Celsius dal 1800) ha portato ad avere un'atmosfera più calda che può quindi contenere più vapore acqueo. La saturazione infatti dipende dalla temperatura: più è alta, maggiore è la quantità di vapore che può essere accumulata in atmosfera. È la legge di Clausius-Clapeyron, per cui per ogni grado celsius in più di temperatura aumenta del 7 per cento la quantità di vapore acqueo che può essere accumulata in atmosfera». Insomma, sono eventi a cui dovremo abituarci? «Il singolo evento rimane difficile da prevedere con un anticipo maggiore di pochi giorni ma sappiamo che con il cambiamento climatico questo tipo di eventi diventeranno sempre meno eccezionali, anzi saranno più intensi e più frequenti».
CUBA INTRAPPOLATA NEL SOGNO DEGLI ALTRI
Continuano le proteste e le manifestazioni a Cuba, nonostante la durissima repressione del regime comunista. Il popolo chiede pane e vaccini. Ma deve fare accettare la sua protesta ad un’opinione pubblica internazionale che ha assegnato, negli anni, a Cuba un altro ruolo nell’immaginario. Come se non fosse un regime. Ecco uno stralcio del contributo di Carlos Manuel Álvarez, grande scrittore cubano, pubblicato dal Corriere di sabato.
«Cuba sprofonda nel pantano della libertà, come una tappa obbligata alla stazione del caos prima di proseguire verso un territorio sconosciuto. L'11 luglio, migliaia di manifestanti in tutta l'Isola sono scesi in piazza e hanno rivendicato i loro diritti in una forma inedita. Mai prima, nella storia della rivoluzione cubana e della sua deriva, la popolazione era insorta contro le pattuglie della polizia, aveva insultato il presidente, stracciato fotografie di Fidel Castro e assediato le sedi locali del Partito comunista. Hanno anche saccheggiato i negozi che vendono in dollari, che abbondano ovunque, nuovi nei del capitalismo di Stato comparsi negli ultimi due anni sulla pelle maltrattata del socialismo reale. Indipendentemente dal fatto che questo straordinario episodio di disobbedienza civile sia stato innescato dalla crisi sanitaria del coronavirus e dalla penuria generalizzata di generi alimentari, le proteste non possono non essere interpretate alla luce delle disuguaglianze sociali e della natura razzista di uno Stato centralizzato che pratica costanti e svariate forme di violenza politica verso i propri cittadini. Vigilanza, indottrinamento, punizioni sul lavoro, mancanza di approvvigionamenti, arresti arbitrari, minacce esplicite o velate, capitalizzazione della paura, interrogatori, carcere, come anche la frattura arbitraria tra la vita nazionale e la ricchezza culturale della diaspora. Allo stesso modo, è insostenibile la tesi che le manifestazioni possano funzionare da pretesto perché Washington invada il paese. Per fortuna, il senatore cubano-americano e democratico Bob Menéndez, presidente del Comitato per le relazioni estere del Senato statunitense, ha dichiarato che «nessuno ha mai preso in considerazione questa opzione, quindi accantoniamo l'idea, perché è proprio questo che vogliono i castristi, è proprio questo che chi detiene il potere a Cuba vuole promuovere. Non ci sarà nessun intervento militare». Per ora, ci sono arresti, sparatorie, perquisizioni nelle case, morti, reclutamenti forzati, pestaggi di civili indifesi ad opera di militari travestiti da civili, ma anche minore paura e maggiore fiducia nel progetto vertiginoso di una nuova comunità politica, ampiamente popolare, genuina nella sua composizione e nei suoi propositi elementari. Dall'altra parte, ci sono fotografi vicini al partito di governo che stanno già riprendendo, maliziosamente, la tranquillità dell'Avana come se l'Avana fosse tornata alla normalità, come se esistesse una normalità alla quale tornare. Le immagini, però, si leggono. Quel silenzio è violenza, quella calma grida, quel vuoto rimbomba saturo di dolore. In realtà, senza saperlo, fotografano il vuoto sordo dell'orrore, documentano l'entità dell'abuso e rivelano la gravità della situazione. Dietro la protesta si cela anche un linguaggio dei simboli. Cuba porta il peso dello stigma, come ha detto Slavoj Zizek, di vivere intrappolata nel sogno degli altri. Se abbiamo imparato l'arte della protesta, adesso bisogna imparare anche l'esercizio della traduzione della protesta. La sintassi è ideologia, e il linguaggio si trova ascoltando nel profondo i fatti, non girandoci intorno. Si dà un nome alle cose accedendo, entrando, penetrando nella melma delle parole scomode che ci disorientano. Il nominare confonde. Il linguaggio non esiste in funzione nostra, è piuttosto il contrario. Non possiamo coprirci con le parole come dietro a un velo, la parola è intemperie, e la verità comincia nel momento in cui il linguaggio ti lascia allo scoperto. Il problema con la grammatica che giustifica, anche se parzialmente, ciò che avviene a Cuba è che perpetua la disciplina dell'eufemismo, l'unica disciplina esistente nell'ambito cubano del reale, l'unica che sta dietro alle istituzioni dell'Isola. Una volta ho letto che il cammino più breve tra due punti di dolore è la poesia. Quando prolunghiamo questo cammino, tra curve e curve, girando in tondo, stiamo uccidendo la poesia e, in questo modo, uccidiamo anche l'uomo. Cuba è una finzione, i cubani no. Chi traffica con le parole, traffica con la vita degli altri. Ancora non sappiamo dove stiamo andando ma comunque è meglio così, piuttosto che sapere che prima dell'11 luglio non stavamo andando da nessuna parte».
A BERGOGLIO PIACE IL NEOREALISMO
Diventa libro un’intervista rilasciata da Papa Francesco all’esperto vaticano di cinematografia e film, monsignor Dario Viganò. Aldo Grasso commenta le passioni cinematografiche del Papa sul Corriere:
«Da bambino, il Santo Padre è stato cinefilo, ha visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi; per il piacere dello schermo o, chissà, forse per nostalgia dell'Italia. Ha molto amato Roma città aperta perché gli ha fatto capire la grande tragedia della guerra. Il suo film preferito resta La strada di Federico Fellini per il suo afflato evangelico. E apprezza ancora oggi il cinema neorealista come «scuola di umanesimo», come «catechesi di umanità». Nell'Italia uscita dalla guerra, si sentiva il bisogno di una rinascita politica e sociale. Cineasti e registi vollero farsi artefici di questo rinnovamento. Proposero un cinema che scavava nella realtà del presente e del più recente passato, portando alla luce storie, temi e personaggi di quel mondo su cui bisognava agire: il cinema neorealista si caratterizza fin da subito per il suo forte impegno sociale. E possiamo immaginare l'effetto di quei film per chi era emigrato all'estero, per sfuggire alla dittatura o alla miseria. Ancora oggi, cosa sia stato il cinema neorealista, creatura polimorfa, è difficile da spiegare. Fu un'aggregazione di fenomeni eterogenei? Il nome di una battaglia? Un'etica dell'estetica? Un mix di ideologia e poetica? Una coincidenza? Quattro passi tra le nuvole o un'ossessione? Alcuni film di quel periodo restano straordinari perché frutto di un artificio di incerta e ironicamente fatale destinazione; sembrano magicamente fatti da una sola persona. In apparenza chiari e determinati, di felice trasparenza, sono percorribili in diverse direzioni, inesauribili e insensati (che idea, trasformare una bicicletta in una macchina narrativa!); è proprio la loro «ambiguità» linguistica a renderli duraturi. Per il Santo Padre il neorealismo è un'educazione allo sguardo e, a tal proposito, cita Simone Weil che al tema ha dedicato riflessioni di intensa spiritualità. In Attesa di Dio scrive: «Una delle verità fondamentali del cristianesimo, oggi misconosciuta da tutti, è che lo sguardo è ciò che salva». Basterebbe oggi ritrovare un po' del coraggio con cui Simone Weil si concentrava su un esile fascio di parole (Amore, Bene, Fede, Bellezza, Necessità, Limite, Sacrificio), per restituire alle medesime la loro forza incendiaria. Molte pagine degli scritti di Simone Weil sono fuoco che arde perché i nostri occhi possano vedere meglio, in profondità. La cosa curiosa è che Roberto Rossellini si ispirò proprio alla figura di Simone Weil per tratteggiare il personaggio di Irene, in Europa '51 : non basta soffermarsi sul visibile, che sta davanti agli occhi, bisogna a ogni costo ricercare l'invisibile, che sta dietro gli occhi».
“MOTU PROPRIO” SULLA MESSA IN LATINO
I giornali di sabato hanno dato notizia di un “motu proprio” del Papa che blocca la Messa in latino e chiede ai Vescovi di occuparsene. Gian Guido Vecchi sul Corriere:
«Niente più messe in latino e con le spalle ai fedeli nelle chiese parrocchiali, e i vescovi a vigilare sulle eventuali autorizzazioni nei giorni e luoghi indicati: «È per difendere l'unità del Corpo di Cristo che mi vedo costretto a revocare la facoltà concessa dai miei predecessori. L'uso distorto che ne è stato fatto è contrario ai motivi che li hanno indotti a concedere la libertà di celebrare la Messa con il Missale Romanum del 1962». La stretta di Papa Francesco sulle messe con il «rito antico», liberalizzate da Benedetto XVI nel 2007 con il Motu proprio «Summorum Pontificum , è arrivata ieri con un altro Motu proprio, «Traditionis Custodes», accompagnato da una lettera ai Vescovi del mondo che ne spiega le ragioni. Il motivo essenziale è semplice: la possibilità di celebrare con il «rito antico», concessa come una mano tesa a lefebvriani e tradizionalisti per favorire l'unità, è stata usata all'opposto in modo «strumentale» con «un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II» e «l'affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la "vera Chiesa"», scrive il Papa. Francesco aveva inviato un questionario a tutti i Vescovi: «Le risposte hanno rivelato una situazione che mi addolora e preoccupa, confermandomi nella necessità di intervenire». La possibilità offerta da Wojtyla e «con magnanimità ancora maggiore» da Ratzinger «è stata usata per aumentare le distanze, indurire le differenze, costruire contrapposizioni che feriscono la Chiesa, esponendola al rischio di divisioni». La responsabilità torna ad ogni singolo Vescovo: «È sua esclusiva competenza autorizzare l'uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica». Dovrà accertare che i gruppi che vogliono la Messa in latino «non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici». Anche in queste celebrazioni le letture dovranno essere nelle lingue nazionali. Il vescovo non potrà autorizzare «nuovi gruppi» né «nuove parrocchie personali», e valuterà «se mantenere o meno» quelle esistenti. Il Papa è lapidario: «Prendo la ferma decisione di abrogare tutte le norme, istruzioni,concessioni e consuetudini precedenti al presente Motu Proprio, e di ritenere i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Vaticano II, come l'unica espressione della lex orandi del Rito Romano».
Da diverso tempo molto critico del Papa in carica, Antonio Socci ripercorre la vicenda citando i documenti e le opinioni di Ratzinger. Ma nella conclusione in parte concorda col giudizio di Papa Francesco: c’è stato un uso “settario” della libertà concessa da Benedetto XVI. Ecco il finale del suo articolo per Libero di ieri:
«Papa Bergoglio ora sostiene di aver azzerato la libertà di rito introdotta da Benedetto XVI perché essa, invece di creare unità del corpo ecclesiale (come volevano Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) ha prodotto divisione e «un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l'affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la "vera Chiesa"». Qui c'è anche del vero. In effetti c'è chi ha vissuto "la messa in latino" in modo un po' settario, sentendosi "la vera Chiesa". Ma papa Bergoglio confonde l'effetto con la causa. A provocare il rifiuto (sbagliato) del Concilio in realtà non è il rito antico, ma caso mai certe innovazioni "rivoluzionarie" del suo pontificato (che non c'entrano nulla col Concilio) o certi abusi nella liturgia in volgare che papa Bergoglio riconosce, ma su cui non interviene con proibizioni. La decisione di Francesco, che azzera un pilastro del pontificato di Benedetto XVI, è un doloroso errore che toglie libertà e provocherà nuove divisioni. Il papa fa il grosso regalo ai lefebvriani dell'esclusività del rito antico e di alcuni fedeli. E la Chiesa è sempre più smarrita e confusa in questo tramonto di pontificato».
I MILLE COLORI DEL CERVINO
Questa è una rassegna domenicale, per di più estiva, dunque ci concediamo qualche piccola incursione turistica e di buona lettura per accompagnare i fortunati che vanno in vacanza. Oggi parliamo di Val d’Aosta. Ecco un articolo comparso sul Corriere di sabato che dà notizia di una bella mostra su quella che molti considerano la più bella montagna delle Alpi, in corso al Forte di Bard in questi giorni.
«Blu, ruggine, indaco-rosso, grigio, celeste: il Cervino è una tavolozza. Lo sapevano bene i pittori vedutisti dell'Ottocento che, come il piemontese Leonardo Roda (1868-1933), avevano inanellato infinite variazioni (di scorci e soprattutto di colori) sulla caratteristica silhouette piramidale di quello che è il monte più caratteristico delle Alpi, 4.478 metri di altezza lungo il confine tra Italia e Svizzera. D'altra parte sempre alla silhouette del Cervino aveva anche guardato Walt Disney quando aveva inventato nel 1955 una montagna per la sua prima Disneyland. Ma «la montagna più nobile d'Europa» - come lo aveva definito John Ruskin, il grande critico (ma anche poeta e pittore) d'arte della società vittoriana - è stato (ed è) anche una scenografia perfetta per imprese di ogni tipo. Non a caso, dunque, Blucervino è il titolo del progetto curato da Luciano Bolzoni che fino al 17 ottobre ha portato al Forte di Bard di Aosta (fortedibard.it) una selezione di 50 dipinti di Alessandro Busci (Milano, 1971) dedicati al Cervino e alla sua infinita tavolozza di colori. E, ugualmente non a caso, a completare il viaggio straordinario attorno a questa montagna magica, accanto ai dipinti di Busci, ci sono le creazioni di Emilio Pucci, le cronache fotografiche delle imprese di Hervé Barmasse e le immagini di uno dei personaggi che hanno fatto la storia della televisione italiana come Mike Bongiorno («Sempre più in alto» gridava nel 1976 dalla vetta del Cervino in uno spot per una nota marca di grappe). E, dunque, le gloriose imprese e i gloriosi eroi dell'alpinismo, della moda, della tv, della pubblicità. Un allestimento suggestivo all'interno del Museo delle Alpi del Forte di Bard racconta così la forza comunicativa della montagna, in parallelo con il percorso fotografico e scientifico nelle Cannoniere della fortezza, realizzato nell'ambito di un progetto più ampio ( L'Adieu des glaciers: ricerca fotografica e scientifica) che propone a sua volta un viaggio iconografico e scientifico tra i ghiacciai dei principali Quattromila della Valle d'Aosta per raccontare la storia delle loro trasformazioni».
LA STORIA DI GIULIO E DI DON CIRILLO PERRON
Restiamo in Valle per una bellissima e poco conosciuta storia di bene. Durante la Seconda Guerra mondiale, dopo l’8 settembre, il parroco di Courmayeur ha salvato un bambino ebreo facendolo passare come suo nipote, di fronte ai tedeschi. Ora gli è stato dedicato un monumento. Andrea Parodi per la Stampa.
«C'è un filo sottile che lega Saluzzo, nel cuneese, Courmayeur, in Valle d'Aosta, e Gerusalemme. È la storia di un bambino ebreo e di un minuto parroco di montagna. Sullo sfondo, le atrocità della Seconda guerra mondiale e un dolce epilogo, raggiunto solamente 6 anni fa, con l'iscrizione del nome del prelato presso il Memoriale dello Yad Vashem, sul versante della collina della città Santa, in Israele. Siamo in uno dei periodi più terribili del Novecento, quando essere ebrei significava rimanere estromessi dalla vita lavorativa, da quella scolastica e in generale da quella sociale, in tutti gli ambiti. A maggior ragione dopo l'8 settembre 1943, con l'Armistizio, quando i tedeschi inaspriscono le maglie della deportazione verso i lager nazisti. È il periodo in cui denunciare un ebreo ai nazifascisti vuol dire essere ricompensati con una bella somma di denaro. Al contrario, nasconderne uno in casa propria significa essere perseguitati, anche con la vita. Nella comunità ebraica di Saluzzo, che prima della guerra contava una quarantina di membri, vive la famiglia Segre: il padre Vittorio, odontotecnico, la moglie Eugenia Bigo, il figlio Giulio, di quattro anni. Le famiglie come quella dei Segre tentano in tutti i modi di salvarsi. Si viene a sapere che, tramite la Valle d'Aosta, è possibile in qualche modo passare in Svizzera, per potersi nascondere e attendere la fine della guerra. Il 2 dicembre di quel 1943, con la minaccia sempre più pressante di un'imminente cattura, lasciano Saluzzo e arrivano a Cormaiore (il fascismo italianizzò tutti i toponimi con una forma francese) con un viaggio incredibile, attraversando il torinese devastato dai bombardamenti. Una volta arrivati alle pendici del Monte Bianco la soluzione prospettata si rivela non fattibile. Vittorio Segre, preso dallo sconforto, ha l'intuizione di entrare nella locale chiesa parrocchiale di San Pantaleone. È un rischio, e lo affronta serenamente, perché le spie e gli infiltrati potevano nascondersi ovunque, anche dentro un luogo di culto. Qui il destino vuole che la loro vita si incontri con quella di Don Cirillo Perron, un giovane parroco magro e con il naso importante, che ascolta con attenzione lo sfogo della famiglia. Alla mamma, che era cattolica e con documenti ineccepibili, fu consigliato di tornare a Saluzzo; al padre, che nella falsa carta d'identità si presentava come un improbabile siciliano, fu suggerito di eclissarsi in una grande città, dove sarebbe passato inosservato e nessuno gli avrebbe fatto caso; per il bambino, invece, fu trovata una soluzione straordinaria. Don Cirillo lo avrebbe tenuto con sé in canonica, prima nascondendolo, e poi facendolo passare per il proprio nipotino mandato a Courmayeur dall'Emilia per sfuggire ai bombardamenti. Inizia così una vita clandestina, ma anche una straordinaria storia di coraggio e di solidarietà. In molti, in paese, avevano capito che il bambino non era il nipote di Don Cirillo e che fosse in realtà ebreo. Nessuno parlò, nessuno lo denunciò alle autorità. Tramite un documento falso il piccolo Giulio vantava il cognome della mamma, diventando in poco tempo un perfetto bambino cattolico, capace perfino di fare il chierichetto. Un rifugio durato un anno e mezzo e costellato di grandi difficoltà, soprattutto psicologiche, ma che hanno permesso al piccolo Giulio di salvarsi dai rastrellamenti. Diventato uno stimato dentista, ma soprattutto a sua volta nonno, Giulio Segre ha provveduto a sdebitarsi con il minuto parroco di Courmayeur (lo è stato per cinquant' anni, dal 1939 al 1989, distinguendosi anche con imprese alpinistiche). Nel 2012 ha pubblicato l'intera storia in un'autobiografia, «Don Cirillo e il nipotino», diventata la testimonianza chiave da offrire a Gerusalemme per il riconoscimento più importante. Lo Yad Vashem è l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah. Sorge su una collina della città israeliana ed è stato istituito per documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante gli anni delle persecuzioni nazifasciste e per ricordare e celebrare i non ebrei di diverse nazioni che rischiarono le loro vite per aiutare i discendenti di Abramo durante la Shoah. Proprio per questa seconda funzione lo Yad Vashem ha istituito l'onorificenza più prestigiosa, quella del Giusto tra le Nazioni. Don Cirillo lo ha ricevuto, alla memoria, nel 2015. Giulio Segre è morto poche settimane dopo, felice di aver realizzato uno dei sogni più importanti della sua vita».
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