La Versione di Banfi

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Parole contro la guerra

alessandrobanfi.substack.com

Parole contro la guerra

Vladimir Putin attacca gli Usa e la Nato. Telefonata di Draghi allo zar. Ma resta aperto un dialogo sull'Ucraina. Caos nel centro destra, scontro nei 5Stelle. Le mosse di Di Maio. Conte nei guai?

Alessandro Banfi
Feb 2, 2022
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Parole contro la guerra

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È l’Ucraina a conquistarsi il primo piano oggi. Ieri Vladimir Putin è tornato ad accusare esplicitamente gli Usa di voler includere Kiev nella Nato. Sempre ieri Mario Draghi ha chiamato il Presidente russo, perché l’Europa insiste nel tentativo di mediazione e finché il dialogo è in piedi, si spera di evitare invasione e conflitto. Come titola questa mattina Avvenire le parole sono sempre “disarmanti”, finché corrono fra potenziali nemici. Ieri c’è stato anche un colloquio fra il segretario di Stato Usa Blnken e il suo omologo russo, il ministro degli Esteri Lavrov, ma è stato interlocutorio. Sulla Stampa Anna Zafesova sottolinea che ora Putin dovrà trovare un modo dignitoso di rientrare dalle sue minacce. Fra due giorni si aprono le Olimpiadi invernali di Pechino, il presidente russo sarà presente ed ha fatto sapere che osserverà comunque la tregua olimpica. Vedremo.

Al di là della telefonata del nostro premier, l’attualità italiana ripropone oggi i due passaggi fondamentali per il Governo: il Pnrr e la lotta al virus. Sul primo tema, domani Draghi aspetta da ogni ministro un resoconto sul Piano e sui progetti di propria competenza. Dario Franceschini ha già fatto i compiti e consegnato per primo. Sul secondo, oggi riunione del CTS e poi nuovo Consiglio dei Ministri. Si parlerà del nodo delle quarantene a scuola (saranno cancellate per i vaccinati?) e della «scadenza indefinita» del Green pass. Nella stessa seduta saranno affrontati anche altri ritocchi al vecchio Decreto anti Covid, necessari per garantire lo svolgimento di alcuni eventi, come la settimana della moda.

La politica è in grande fibrillazione: alle prese col dopo Quirinale e alla vigilia del discorso di reinsediamento di Sergio Mattarella. Nel centro destra Matteo Salvini incassa una larga fiducia nella Lega, ma le prospettive della coalizione sono molto incerte. Giorgia Meloni insiste per distinguersi dagli (ex) alleati e lo stesso Silvio Berlusconi è molto freddo con leghisti e Fratelli d’Italia. Nei 5 Stelle ieri Luigi Di Maio, messo sotto accusa da Giuseppe Conte, ha prodotto un’offensiva diplomatica, incontrando Elisabetta Belloni a pranzo (photo opportunity) e stringendo alleanza con Virginia Raggi e Chiara Appendino. Conte, peraltro, è finito nei guai, secondo uno scoop di Domani, per un’inchiesta della Procura di Roma su consulenze ad Acqua Marcia, poi fallita. L’impressione è che nel Movimento la resa dei conti avrà conseguenze serie.

Il Festival di Sanremo si è aperto con un’ampia offerta di trasgressioni e trovate politicamente corrette, canzoni e discorsi per tutte le età e i gusti, come scrive polemicamente Caverzan sulla Verità. Stamattina la prima sentenza, come sempre, verrà dagli ascolti ma a giudicare dalla poca gente in giro, ieri sera, non saranno certo bassi. Stasera sarà sul palco Checco Zalone.   

È disponibile il terzo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa.

In questo terzo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Flavia Piccoli, deputata del Partito democratico e presidente della Commissione Cultura della Camera, figlia di Flaminio. Flaminio Piccoli era nato in Austria, nel 1915, dove la sua famiglia originaria di Borgo Valsugana era stata evacuata dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria. Nella Seconda guerra mondiale, Piccoli è stato arruolato come alpino e riuscì all’ultimo a salvarsi dall’internamento in un campo di concentramento. Nel dopoguerra inizia la sua carriera politica, che parte dall’Azione cattolica trentina per poi passare alla Dc lo porta ad essere segretario del partito nel 1969 e poi di nuovo tra il 1980 e l’82, mentre tra il 1970 e il 1972 ricoprì l’incarico di ministro delle Partecipazioni statali. Più volte deputato e senatore. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco il link per il secondo episodio.

Flavia Piccoli racconta il padre Flaminio

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

MENO 9 AL NUOVO INIZIO

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Si avvicina il giorno, l’11 febbraio 2022, in cui La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. Nei prossimi giorni vi dirò bene il costo e le modalità dell’abbonamento. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Oggi i giornali possono andare finalmente in ordine sparso. Non ci sono scelte obbligate. Avvenire si occupa della crisi ucraina: Parole disarmanti. Come La Stampa: Putin: è guerra se Kiev entra nella Nato. Un colloquio telefonico del nostrio premier con lo zar viene enfatizzato dal Mattino: Gas, il disgelo Draghi-Putin. E dal Messaggero: Draghi-Putin, contatti sul gas. Sulle cose (politiche) di casa nostra prevale l’interesse per il tormento nei 5 Stelle. Il Giornale segnala (pro Conte?) una: Congiura Di Maio. Il Manifesto è geniale: Stellicidio. Domani pubblica rivelazioni scottanti che riguardano l’ex premier: La Guardia di finanza a casa Conte. Nel mirino i contratti di consulenza. Libero, dichiarandolo, riprende lo scoop: Perquisita casa Conte. Dell’altro schieramento politico si occupa Il Corriere della Sera: Centrodestra, pace lontana. Mentre Il Fatto critica il governo sull’economia: Draghi, falso boom. Cingolani vero furbo. La Repubblica rilancia l’appello del governo sul lavoro: “Assumete giovani e donne”. Mentre Il Sole 24 Ore sottolinea i brutti dati sull’industria automobilistica: Auto ko, male anche gennaio (-20%). La Verità insiste col Covid: I guariti: 10 milioni di fantasmi. Mentre Quotidiano Nazionale commenta gli ultimi fatti di cronaca: Alcol, violenza, sesso: il vuoto a 15 anni.

UCRAINA, VENTI DI GUERRA

Crisi sull’Ucraina. Vladimir Putin dice: “Con Kiev nella Nato si rischia la guerra”. Mentre lo zar si dice pronto a incontrare il presidente francese Macron, il premier inglese Johnson porta aiuti a Zelenskij. Paolo Brera per Repubblica.

«Per fortuna continuano tutti a ribadire che "la porta della diplomazia resta aperta", ma il barometro della crisi ucraina segna tempesta. Con la guerra all'uscio, nel mezzo di uno scontro tra giganti sempre più intricato, ieri Kiev voleva tirare un sospiro di sollievo accogliendo i primi ministri di Polonia e Regno Unito, con i quali sta scrivendo la pagina inedita di "un nuovo formato di cooperazione per la sicurezza regionale": solidarietà e aiuti militari per alleviare il suo senso di insicurezza e di isolamento, pur senza comportare l'ingresso nella Nato. Soldi e armi. Ma a togliere nuovamente il sonno sono arrivate le parole pesanti del presidente russo Vladimir Putin. Dopo aver incontrato il premier ungherese Viktor Orbán - volato a Mosca con la pretesa di essere in "missione di pace" per incassare benefici sul prezzo del gas - Putin ha accusato gli Stati Uniti di avere «ignorato le nostre maggiori preoccupazioni per la sicurezza», e di voler «arginare la Russia usando l'Ucraina, imponendoci sanzioni che potrebbero trascinarci in guerra». Il presidente russo ha accusato l'Ucraina di «continue violazioni dei diritti umani», e ha ammonito l'Occidente a ricordare che «la sicurezza è indivisibile ». «Non è possibile - ha detto - perseguirla a scapito degli altri: nei documenti ufficiali della stessa Ucraina è scritto che intendono riprendersi la Crimea, anche con mezzi militari. Immaginiamo che l'Ucraina diventi membro della Nato, imbottita di armi, con moderni sistemi di attacco come in Polonia e Romania, e inizi un'operazione in Crimea Dovremmo entrare in guerra con il blocco Nato? Qualcuno ci ha mai pensato? Mi sembra di no». I nodi al pettine sono evidenti, e la Russia ammette esplicitamente il "rischio" che una guerra diventi inevitabile. Mosca insiste con la tesi di sentirsi minacciata dall'avvicinamento di Kiev alla Nato. La via di fuga per abbassare la pressione e riportare un po' di buonsenso e civiltà non appare all'orizzonte. La giornata era iniziata subito con il muro contro muro, al telefono, tra i ministri degli Esteri americano e russo, Antony Blinken e Serghej Lavrov: Blinken gli ha chiesto formalmente di raffreddare la crisi ritirando le truppe ai confini se davvero non vuole invadere l'Ucraina ma Lavrov, secondo gli americani, «non ha fornito alcuna indicazione» in questo senso. Spiragli diplomatici per la pace e venti di guerra continuano a procedere spalla a spalla. Al presidente ucraino Volodimir Zelenskij, che lo ha accolto a palazzo Mariinskij dopo aver incontrato i primi ministri di Olanda e Polonia, Boris Johnson ha ribadito che il rischio di un attacco con «più di centomila soldati alle frontiere nella più grande dimostrazione di ostilità verso l'Ucraina nei nostri tempi» resta molto concreto. «Mosca punta una pistola alla tempia all'Ucraina per costringerci a rivedere l'architettura della sicurezza in Europa». Londra ha offerto 105 milioni di euro a Kiev «per sostenere l'indipendenza energetica», ribadendo fiducia nella leva delle sanzioni e il sostegno per «il diritto a decidere di quali associazioni far parte». «Siamo grati al Regno Unito per il supporto nelle nostre aspirazioni a entrare nella Nato», replica Zelenskij per non lasciare dubbi, in un giorno in cui ha varato un pacchetto per aumentare in tre anni di centomila soldati il contingente militare ucraino. «Se Mosca attacca ci saranno centinaia di migliaia di ucraini pronti a combattere, e le madri in Russia dovrebbero pensarci attentamente », dice Johnson. Ma qualche raggio di sole spunta pure nel gelo dell'inverno ucraino: «Spero che il presidente francese Macron venga presto a Mosca per discutere le proposte russe sulle garanzie per la sicurezza. Spero che il dialogo continui, e che troveremo una soluzione», dice Putin. Intanto, 5 ministri degli Esteri europei saranno in visita in Ucraina la prossima settimana, mentre l'Europa mette sul tavolo il suo aiuto concreto a Kiev: la presidente Ursula von der Leyen non solo ha ribadito aiuti per 1,2 miliardi di euro ma ha insistito che 600 milioni siano stanziati immediatamente, una manna per resistere alle turbolenze economiche e politiche».

Secondo Anna Zafesova della Stampa, tra le righe delle dichiarazioni incendiarie di Vladimir Putin traspare ancora la volontà di trattare con l'Occidente ed evitare il conflitto.

«Bisogna sempre ascoltare quello che dice Vladimir Putin: contrariamente alla sua reputazione di enigma avvolto in un mistero, il presidente russo è solitamente molto sincero ed esplicito riguardo alle sue intenzioni e paure. Il suo «Che cosa dobbiamo fare, andare in guerra con la Nato?», esclamato davanti alle telecamere, è una domanda retorica su uno scenario impossibile, rivelatoria di un leader che si sente più incalzato e insicuro che assertivo e all'offensiva. Si sente minacciato, e non ha paura a raccontare il suo incubo, quello che Kiev, sostenuta dall'Occidente, gli tolga quella che considera la sua grande conquista, la Crimea annessa nel 2014 come primo tassello della ricostruzione di un impero postsovietico che da allora è rimasto più nei sogni «geopolitici» del Cremlino. E così, in quella prima attesa uscita in pubblico dopo l'arrivo a Mosca della risposta ufficiale degli Usa sull'ultimatum russo, si mostra incompreso, arrabbiato e soprattutto frustrato: «Immaginatevi una Ucraina che, una volta entrata nell'Alleanza atlantica, imbottita di armi, lanci un'operazione militare in Crimea? Mica possiamo fare la guerra con la Nato?». Mentre i propagandisti e le comparse del teatro politico russo continuano a minacciare escalation «asimmetriche», e a ipotizzare scenari apocalittici come attacchi nucleari - violando quello che dopo la crisi dei missili di Cuba del 1962 è diventato un tabù assoluto per l'establishment sia a Mosca sia a Washington - Putin appare più realista dei suoi cortigiani, e infatti mischia a un linguaggio brusco anche segnali che si possono leggere in una chiave più prudente. È vero che chiama in sua difesa il mito propagandistico di una Mosca «ingannata, fregata come dicono nel popolo» rispetto al presunto impegno dei partner occidentali di non allargare la Nato dopo il crollo del Muro, un «patto» smentito perfino dal diretto interessato Mikhail Gorbaciov, ma funzionale a presentare la Russia come vittima e non come aggressore. Però auspica una prosecuzione del negoziato con l'Occidente, che definisce «complesso ma possibile», e mentre lancia accuse a Washington e Bruxelles ricorda anche che non è questa la risposta ufficiale di Mosca, non c'è per ora un «niet» finale, anche perché per un «niet» non ci sarebbe voluto tutto questo tempo. Putin notoriamente esita e riflette a lungo, soprattutto quando si sente in difficoltà, e il suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov promette a Anthony Blinken una risposta «interdicasteriale» elaborata e dettagliata, quindi più probabilmente un tentativo di proseguire un negoziato che un passaggio a una guerra impossibile. Un negoziato di quelli lunghi, noiosi, molto tecnici e molto poco mediatici, che impegna mesi e decine di esperti per decidere dove piazzare quel missile, quante basi, sottomarini e bombe possedere, con quanto preavviso e in quale zona svolgere esercitazioni e soprattutto a quali condizioni mandare ispezioni a monitorare l'avversario. Perché si tratterebbe di un negoziato tra nemici, come quelli sul disarmo condotti per anni da Urss e Usa, che stabilivano non tanto la pace, quanto le modalità per evitare di farsi a pezzi in una guerra. È la vecchia strategia di «contenimento», e Putin non a caso rispolvera questo termine del vocabolario della Guerra fredda. Ed è esattamente dove la Casa Bianca e i suoi alleati vogliono portare la situazione. In questa partita a poker si tratta ora di passare dalla propaganda alla diplomazia, dal clamore mediatico alla discrezione dei negoziati. Putin è stato il primo ad alzare la posta, con il suo ultimatum in cui chiedeva alla Nato di ritirarsi dall'Europa dell'Est. Una proposta fatta per venire rifiutata, frutto di una diplomazia sfacciata che ultimamente piace molto al Cremlino, che ha ottenuto il risultato di farsi sentire, ma ora gli limita lo spazio di manovra. Gli americani infatti hanno risposto a tono, soddisfacendo finalmente quello che Putin gli chiedeva da anni: di venire preso sul serio. Nelle settimane successive, è stato tutto un calare carte nuove: dagli aerei carichi di armi americane che atterravano a Kiev (una goccia nel mare in caso di invasione russa, ma di grande effetto televisivo), al ricco assortimento delle possibili sanzioni, tra cui spiccano quelle contro la famiglia, non solo politica, dello stesso Putin. Le titubanze di alcuni alleati europei, che comunque hanno tutti firmato la risposta all'ultimatum russo, sono state compensate dalle mosse di due alleati esterni all'Ue: Boris Johnson che propone a Volodymyr Zelensky un'alleanza trilaterale militare con Varsavia, e Recep Tayyip Erdogan atteso a Kiev nei prossimi giorni per un negoziato sulla difesa comune, hanno completato la disposizione delle pedine del Risiko. Poche settimane dopo, Mosca si ritrova con un'Ucraina che ha ricevuto solidarietà e aiuti da tutto il mondo, una Nato che sta incrementando la sua presenza militare, un'Europa che per la prima volta sta discutendo di rinunciare al gas russo e una borsa in picchiata per la fuga degli investitori spaventati dalle sanzioni ancora prima che da una guerra. A Mosca si è osservata una ricerca disperata di un piano B, dal riconoscimento delle enclave separatiste del Donbass - che però farebbe saltare il negoziato di Minsk - alle basi militari a Cuba e in Venezuela come minaccia «asimmetrica» che però non pare aver avuto il consenso dei diretti interessati. È evidente che da questa situazione si esce solo in retromarcia, il problema è presentarla come una vittoria».

LA TELEFONATA CON DRAGHI

Mario Draghi chiama Vladimir Putin: l’obiettivo è allentare le tensioni. Lo zar promette che i russi non taglieranno il gas ma che «gli Usa vogliono il conflitto». Giuseppe Sarcina per il Corriere.

«Vladimir Putin a tutto campo. Promette «forniture stabili di gas» a Mario Draghi. Accusa gli Stati Uniti di voler «trascinare la Russia in guerra». Nello stesso tempo rilancia il dialogo con i leader occidentali: «Spero che si possa trovare una soluzione, anche se non sarà semplice». Il presidente russo non usciva allo scoperto da fine dicembre, lasciando macerare la crisi ucraina tra diplomazia e provocazioni militari. Gli Stati Uniti reagiscono, cercando di tenere compatto il fronte Nato e lavorando a un piano alternativo di forniture di gas per l'Europa. In parallelo si muovono i capi di Stato e di governo europeo. Ieri Draghi ha parlato al telefono con Putin. Il presidente del Consiglio ha chiesto di allentare le tensioni e ha ottenuto dall'interlocutore la promessa che il flusso di gas in arrivo dai gasdotti russi rimarrà costante. In generale le consegne di combustibile ai Paesi europei si è ridotto sia a dicembre che a gennaio, con punte fino al 40% nella rete che attraversa l'Ucraina. L'Amministrazione Usa e la Commissione europea stanno studiando possibili fonti di approvvigionamento alternative. Lunedì 30 gennaio il presidente Joe Biden ha chiesto all'Emiro del Qatar, Tamim Bin Hamad, di deviare verso il Vecchio continente navi cargo di gas liquido destinate all'Asia. L'Emiro si è detto disponibile. Poi il Qatar ha fatto sapere che quest' intervento non sarebbe risolutivo. Il problema investe soprattutto i Paesi dell'Est. Così ieri il premier ungherese Viktor Orbán si è presentato al Cremlino per assicurarsi contratti di gas e per fare da spalla alla performance mediatica di Putin, sentenziando: «Le sanzioni economiche contro la Russia non funzionerebbero». Putin ha quindi esposto la sua visione. Primo punto: «Gli Stati Uniti e la Nato non vogliono tenere conto delle nostre preoccupazioni e delle nostre richieste». Il numero uno del Cremlino ha ripetuto le sue condizioni: l'Ucraina non dovrà mai entrare nella Nato e l'Alleanza Atlantica deve ritirare le forze militari nei Paesi dell'Est. Pretese semplicemente inaccettabili per Biden e per i leader europei, Draghi compreso. Secondo: Putin ribalta sugli Stati Uniti la responsabilità della crisi: «Stanno facendo di tutto per trascinarci in una guerra, perché vogliono colpirci con le sanzioni». Terzo punto, il più acrobatico: «Che cosa succederebbe se l'Ucraina fosse ammessa nell'Alleanza Atlantica? Kiev a quel punto potrebbe lanciare un'offensiva contro la Crimea. E così noi ci troveremmo a combattere contro l'intera Nato. Ci avete mai pensato?». Il presidente russo, però, omette il passaggio decisivo: la Crimea fu conquistata con la forza dai militari del Cremlino nel 2014. Ma la conclusione di Putin non è definitiva: ci sono margini per continuare a negoziare. La prossima mossa, dunque, dovrebbe toccare agli Usa. Il segretario di Stato, Antony Blinken, si è sentito al telefono con il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Ma non ci sarebbero stati passi in avanti. Intanto si moltiplicano altre iniziative diplomatiche. La più interessante parte da Kiev. Il presidente ucraino, Volodymyr Zelenski, ha annunciato la formazione di «un'alleanza triangolare» su economia e sicurezza, con Polonia e Regno Unito. Ieri il premier britannico Boris Johnson era nella capitale ucraina. La Nato continua a spostare mezzi e unità militari verso Est. Blinken e il segretario generale dell'Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, si sono sentiti anche ieri. Si ragiona anche su nuove sanzioni: per esempio impedire ai figli degli altri funzionari e degli oligarchi russi di frequentare le università americane».

PNRR, OGNI MINISTRO DEVE AVERE UN CRONOPROGRAMMA

Pnrr, il premier Draghi vuole il cronoprogramma da ciascun ministro. Franceschini brucia tutti, consegnati i piani per la cultura. Alessandro Barbera per La Stampa.

«Per comprendere la mole del lavoro basta sfogliare l'ultima relazione del governo al Parlamento datata 23 dicembre e firmata da Mario Draghi. Di qui a giugno occorre realizzare 45 fra riforme e investimenti, altri 55 fra luglio e dicembre. Appalti, concorrenza, giustizia, ambiente, scuola, salute, digitale, cultura. Il Recovery Plan è un cantiere così complesso che è persino difficile da descrivere. Il premier ha chiesto a tutti i suoi ministri di presentare già oggi o domani uno stato dell'arte in Consiglio, ed evitare così di perdere i quaranta miliardi messi a disposizione dall'Unione europea nel 2022. Per Draghi, rimasto suo malgrado a presidiare la postazione di Palazzo Chigi, è anzitutto un problema reputazionale, per sé e per l'Italia. Non sarà un'operazione semplice, perché i partiti sono usciti dilaniati dalla battaglia per il Quirinale e c'è da tenere a bada le pressioni corporative. I dossier più delicati riguardano concorrenza e appalti. Il primo: una volta approvata in Consiglio dei ministri la generica legge delega di riforma, ora bisogna fare sul serio. La Commissione europea attende fatti concludenti entro la fine dell'anno, ma per arrivarci occorre che il Parlamento approvi quella legge delega entro metà anno. Dentro ci sono tutte le questioni che dividono la politica: la messa a gara di servizi fin qui garantiti alle aziende pubbliche locali, l'apertura di mercati fin qui protetti (vedi taxi), lo stop alle concessioni balneari a prezzi risibili. Entro metà giugno occorre approvare la legge delega di riforma degli appalti. La relazione al Parlamento citata poco fa spiega che per arrivare a risultati concreti entro la metà del 2023 non c'è un minuto da perdere. In alcuni casi per raggiungere risultati apprezzabili occorre molta pazienza. E' il caso della riforma della giustizia, per la quale la ministra Marta Cartabia ha dovuto con molta fatica istituire diversi gruppi tecnici di lavoro per ciascuna delle materie in ballo: civile, penale e fallimentare, per citare le più importanti. Ciascuna riforma deve fare i conti con le resistenze dei partiti, ma senza sintesi politica i fondi del Recovery resteranno a Bruxelles senza destinazione. Il ministro più esposto sul piano degli investimenti è quello della Transizione ecologica Roberto Cingolani. A lui toccherà scrivere la strategia per l'economia circolare, il programma nazionale per la gestione dei rifiuti e dei servizi idrici integrati, la transizione all'idrogeno. Cingolani dovrà semplificare le procedure per gli interventi di efficienza energetica degli edifici, attuare gli interventi contro il dissesto idrogeologico e occuparsi del miglioramento dell'ecosistema del Po. Entro giugno Roberto Speranza deve riformare l'organizzazione dell'assistenza sanitaria, rafforzare gli strumenti di telemedicina e i presidi medici di base, meglio noti come ospedali di comunità. Entro metà giugno il collega dell'Istruzione Patrizio Bianchi deve riformare la carriera degli insegnanti e completare la transizione digitale della scuola. Vittorio Colao, ministro dell'Innovazione e della Transizione digitale, ha un solo, enorme obiettivo da raggiungere: aggiudicare tutte e cinque le gare per la banda ultralarga, in tutto 6,7 miliardi di euro. In questo caso ci sono già ritardi da colmare, come il caso della gara per le isole minori, a dicembre rimasta senza concorrenti. Ora il ministero sta riscrivendo il bando, e spera che la situazione cambi. Il ministero dello Sviluppo deve assegnare 750 milioni di euro alle filiere industriali strategiche (alimentare, design, moda, auto), un miliardo allo sviluppo di fotovoltaico, eolico e batterie, 550 milioni a favore di start-up attive nella transizione ecologica. Entro giugno il ministero del Lavoro deve approvare un decreto contro lo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura, quello dell'Interno aggiudicare gli appalti per la rigenerazione urbana e ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale. Dario Franceschini deve migliorare l'efficienza energetica di di cinema, teatri e musei (300 milioni), rilanciare i borghi abbandonati (un miliardo), mettere in sicurezza sismica le opere d'arte nelle aree terremotate. Solo per quest' ultima voce ci sono 800 milioni di euro. Con rara efficienza, il ministro della Cultura ha già consegnato a Draghi il cronoprogramma dei suoi interventi. Altri lo faranno oggi o domani. Ciascun ministro avrà una responsabilità enorme: chi non rispetta le scadenze, rischia di finire nella lista nera degli inadempienti di Bruxelles. Ogni volta che un cantiere si bloccherà, l'Italia rischierà lo stop ai fondi successivi».

PANDEMIA. OGGI NUOVO CONSIGLIO DEI MINISTRI

Prima il Cts, poi il governo si occuperanno oggi di scuola. Sul tavolo la questione del no dad ai vaccinati, e le polemiche sulla maturità, criticata dai Presidi. Gianna Fregonara per il Corriere della Sera.

«La parola definitiva la dirà il Cts, convocato prima del Consiglio dei ministri di oggi pomeriggio: deve indicare se è possibile che in tutte le scuole, dalle elementari alle superiori, si applichino le stesse regole o se è necessario attendere ancora un po' e procedere per gradi, iniziando ad eliminare la dad per gli studenti delle medie e superiori vaccinati o guariti, indipendentemente dal numero di contagiati in classe. Potrebbero continuare ad andare a scuola, con mascherina Ffp2, in regime di autosorveglianza, come avviene per gli adulti contatto di positivi. In attesa di capire la soluzione che il governo adotterà, due novità sono già decise e scritte nella bozza del decreto che entro stasera dovrà essere licenziato: la dad, la ddi - o comunque la sospensione dell'attività in presenza per le scuole materne - quando necessaria durerà soltanto 5 giorni e non più dieci. Una riduzione si applica a partire dalle scuole materne. Si semplificano anche le regole per il rientro in classe: soltanto i positivi dovranno presentare il certificato del pediatra o del medico di base per attestare la loro guarigione. Per gli studenti che sono stati a casa in quanto contatti stretti di un positivo e non sono vaccinati basterà il tampone (in farmacia diventa gratuito anche per i bambini più piccoli, con la prescrizione del pediatra). Per i guariti o vaccinati da meno di 120 giorni o con booster sarà sufficiente il controllo del green pass a scuola. Anche i bambini delle elementari vaccinati non saranno più in quarantena, isolati, bensì in autosorveglianza: anche se non vanno a scuola, potranno con mascherina Ffp2 e precauzione uscire di casa purché non frequentino luoghi affollati. Per l'allentamento delle altre misure si attende invece il Cts, mentre la Lega con il segretario Matteo Salvini si schiera contro l'ipotesi di distinguere tra i vaccinati e no tra i bambini. Da chiarire c'è se si può cancellare la Dad per gli studenti vaccinati di medie e superiori e/o aumentare il numero di casi che mandano in dad, aumentando da due a tre il limite dei casi che provoca la Dad per i vaccinati alle elementari. Su questo punto ci sono diverse ipotesi, compresa quella di rinviare la decisione, in attesa che i contagi scendano e il numero di vaccinati cresca ancora un po. La settimana scorsa, quasi uno studente su cinque - oltre il 21% alle elementari - era in dad. I numeri dei contagi tra bambini (fascia 0-9) erano ancora in forte aumento. Ma, come ha detto Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, l'eccesso di precauzione può avere effetti indesiderati:«Il numero dei nuovi vaccinati nella fascia 5-11 è sceso, perché ci sono tanti bambini in quarantena con tampone negativo, non possono rispettare l'appuntamento per il vaccino». Lo scopo del decreto è proprio questo: come ha detto il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, serve a ridurre la dad alle «situazioni di emergenza», equiparando i giorni di isolamento a quelli previsti per gli adulti. Ma deve anche semplificare le procedure sanitarie che bloccano famiglie e Asl. E ridurre il numero di tamponi per i bambini. Continuano le proteste dopo l'annuncio della reintroduzione del secondo scritto alla Maturità. L'associazione nazionale presidi, per voce del suo presidente Antonello Giannelli, ha bocciato la scelta: «È un ritorno fittizio alla normalità. Questa seconda prova non è conforme alla legge, sarà diversa da scuola a scuola. Ci auguriamo che il ministro ci ripensi».

Massimo Gramellini dedica “Il caffè” in prima pagina sul Corriere al pasticcio della Covid burocrazia scolastica, titolo Quarantena per sempre.

«Ascoltando gli sfoghi dei genitori con figli piccoli in Dad, ci si domanda se chi fa le regole in Italia abbia una vaga idea delle conseguenze dei propri atti. Un po' come quando, imbottigliati nel traffico per colpa di un semaforo dai tempi dilatati, ci chiediamo se l'assessore abbia mai percorso quella strada prima di prendere una decisione tanto priva di senso. Leggevo di una coppia con due figli, uno alla materna e l'altro alle elementari. Prima è andato in quarantena quello della materna perché un suo compagno era positivo. Poi è toccato al fratello maggiore: due positivi in classe e voilà, sigillato in casa anche lui, nonostante avesse già in corpo una doppia dose di vaccino, con i genitori costretti a elemosinare permessi sul lavoro e a diventare scacchisti o strateghi militari per destreggiarsi nel dedalo di regole ed eccezioni. Si capisce che siamo una società vecchia da quanto poco ci importa della scuola, dei bambini e degli adolescenti, costretti da due anni a una vita di clausura che per loro è ancora più innaturale che per noi. Basta parlare con uno psicoterapeuta per sentire racconti sconvolgenti: bambini che al parco si tengono lontani dai coetanei perché non sono più abituati a entrare in contatto con i loro simili; e tredicenni per i quali la quarantena ha significato la resa senza condizioni alla dittatura dei social alla Tik Tok. Si annuncia un intervento del governo, ma per metterci una pezza bisogna aspettare che tutto cada a pezzi?».

IL CENTRO DESTRA È DIVISO, LA LEGA CON SALVINI

La politica è ancora alle prese col dopo Quirinale. Nel centro destra emergono profonde divisioni ma la Lega, riunita, dà fiducia a Matteo Salvini. Cesare Zapperi per il Corriere.

«Tre ore di discussione, piena fiducia a Matteo Salvini, nessuna voce in dissenso. E mandato al segretario «di lavorare per creare, allargare e potenziare un'alleanza alternativa alla sinistra». In via Bellerio va in scena il tradizionale consiglio federale della Lega. Tutti allineati e coperti, malumori e brontolii emersi dopo la settimana sull'ottovolante per il Quirinale sono svaniti di fronte alla relazione del leader che ha rivendicato la bontà della sua battaglia, non andata a buon fine, per trovare un presidente della Repubblica espressione del centrodestra. «Sono contento di essere colui che ha messo fine alle ipocrisie dicendo "piuttosto che andare avanti con i no reciproci chiediamo un sacrificio a Mattarella", e lo rivendico» spiega Salvini. Che evita di rispondere alle critiche di Giorgia Meloni: «Io lavoro per unire, non per dividere, e quindi non rispondo a polemiche o attacchi. Guardo sempre oltre e non rispondo a chi critica né da destra né da sinistra». Il leader leghista di fronte ai suoi (il ministro Giancarlo Giorgetti partecipa in collegamento da Roma) sfoggia tranquillità: «Il centrodestra è spaccato? Si ricostruisce. Porta sempre aperta per Meloni? Io non dico di no mai a nessuno». La presidente di FdI rilancia il tema delle elezioni anticipate: «Il potere del popolo è più forte delle alchimie di Palazzo. Ridiamo la parola al popolo italiano che in democrazia è sovrano». Se nei giorni scorsi dentro e fuori il Parlamento tra alleati sono volate parole grosse e accuse incrociate, ora è il momento di abbassare i toni e di provare a ripartire. Di qui anche l'incontro di lunedì tra Salvini e Berlusconi: «Sono contento di aver riabbracciato un amico che ha passato brutti momenti. La cosa bella è stato l'abbraccio, perché per me, prima della politica, vengono altre cose. Poi farò le mie valutazioni su tutto» l'assicurazione del leader. L'unica eccezione è riservata a Giovanni Toti. Il governatore ha criticato la strategia di Salvini e ora si trova nel mirino. «Non metto in discussione sindaci e governatori ma se uno è governatore, assessore al Bilancio e alla Sanità o è Superman o....» l'avvertimento salviniano per l'accusa di non avere «difeso» la candidatura di Casellati. Salvini incalza il governo e preannuncia che farà le barricate su «riforma del catasto e sulle tasse sulle abitazioni». «Spero ci sia già in settimana un incontro con Draghi. Quello che mi interessa è ottenere l'allentamento delle restrizioni, il diritto alla scuola per tutti. Leggo di bizzarre ipotesi di divieto per bimbi di 6-7 anni». Il segretario rilancia il progetto del nuovo contenitore sul modello dei repubblicani Usa. «La federazione repubblicana la faremo con tutti quelli che ci staranno. Porte aperte a chi ci sta sul programma e sui contenuti» la precisazione del vicesegretario Andrea Crippa. Nel corso del dibattito è arrivata l'esortazione a sottolineare le differenze con FdI. Salvini, infine, si sofferma sul Monte dei Paschi di Siena e sulle voci che riguardano il suo vertice. Da politico il segretario leghista si rivolge al ministro tecnico Daniele Franco: «La politica non può mettere in discussione l'ad di Mps, Bastianini. Il ministro chiarisca: davvero è in discussione un manager che ha dimostrato che Mps può camminare?».

Silvio Berlusconi si dimostra in queste ore piuttosto freddo con gli alleati di Lega e FdI. Poi fissa i paletti per un'intesa con i centristi. Paola di Caro per il Corriere.

«La grande paura, la pericolosa infezione che come lui stesso ha confessato lo ha mandato «quasi in coma», sembra passata. Silvio Berlusconi, uscito lunedì dal San Raffaele dopo otto giorni ufficiali di ricovero, non ha perso tempo e ha cercato subito di riprendere la sua routine, pur con tutte le cautele del caso. E ieri, per mostrare plasticamente che ha ripreso il timone, ha postato sui social una sua foto dove appare in buona forma, seduto sul suo divano, annunciando che Forza Italia ha proposto nuove regole per l'emergenza Covid e che lui stesso, dai dossier sull'energia al futuro del centrodestra, è «al lavoro per risolvere i problemi degli italiani!». Già lunedì pomeriggio d'altronde aveva ricevuto un Matteo Salvini «contento per aver riabbracciato un amico che ha passato brutti momenti», un incontro secondo il leader della Lega «andato bene soprattutto perché è stato il suo primo giorno fuori dall'ospedale. La cosa bella è stato quell'abbraccio». Bello deve essere stato anche passare due ore assieme a parlare di tante cose, compreso il cammino del Milan e quello del Monza che tanto appassiona il Cavaliere, ma è chiaro che il piatto forte è stato il confronto sul Quirinale, con l'atteggiamento di Salvini che aveva molto scontentato Berlusconi, e il futuro della coalizione, sulle quali si è tenuto molto vago, senza concedere troppo all'alleato. Ma Berlusconi ha cercato anche di riprendere le vecchie abitudini - e quindi di raccogliere suggerimenti, indicazioni, percezioni dei suoi cari e fedelissimi -, se è vero che ieri ha tenuto ad Arcore il tradizionale pranzo di famiglia, per tenere sotto controllo tutti i dossier non solo politici. Il tutto dopo essersi sottoposto in mattinata a un nuovo controllo - esami del sangue - sempre al San Raffaele, dove è probabile si rechi nei prossimi giorni per nuove visite. Più difficile capire quale sarà il suo ruolo operativo d'ora in poi, anche se la linea in questi giorni la sta tracciando con una certa nettezza: la parola d'ordine per tutti è «prima Forza Italia». Senza rompere con gli alleati ma anche senza concedere deleghe in bianco. Oggi l'obiettivo è concentrarsi sulla ripresa del partito, non sulle alleanze o sulla ricostruzione della coalizione. Un po' perché tanto con Meloni, in questo momento, gli sembra impossibile discutere (non ha gradito le uscite della leader di Fratelli d'Italia sul suo «non dovergli niente», l'ha trovata «ingenerosa»), un po' perché appunto se FI non guadagna una propria autonomia nei numeri è destinata a essere risucchiata da una Lega che non molla la presa. «Forza Italia deve essere protagonista», ripete Berlusconi a tutti quelli che gli parlano, deve «crescere nei consensi, perché più voti abbiamo, più seggi prendiamo» e giurano che non si farà «mettere sotto da altri». Nemmeno ha voglia di regalare a una federazione centrista il marchio e la forza del suo partito: una cosa è la collaborazione, altra è la fusione in un partito di centro tutto da testare magari guidato da altri che non siano lui. Quando si aprirà il dossier legge elettorale si vedrà. Per ora va tenuta la linea del centrodestra da ricostruire. Ma con FI «centrale e trainante», non a traino sovranista o ruota di scorta di nessuno».

Giorgia Meloni snobba la federazione del centro destra. A proposito delle elezioni in Sicilia dice: «Alleanze innaturali pur di sopravvivere al governo mentre il Paese affonda». Fabrizio De Feo per il Giornale.

«La guerra fredda continua. Non è tempo di appeasement, di riavvicinamenti e pacificazioni. Le scorie lasciate dalla virata finale dei partiti di centrodestra sul nome di Sergio Mattarella sono ancora molto visibili. Un Big Bang che ha interessato tutti i protagonisti, ma è deflagrato in maniera quantomai visibile nel centrodestra, una alleanza collaudata che governa in 15 regioni ma che a livello nazionale è divisa dal governo Draghi. Fratelli d'Italia continua nella sua linea critica verso gli alleati. «Noi abbiamo sempre anteposto gli interessi della coalizione, adesso non siamo più disponibili a farlo», spiegano. E Giorgia Meloni su Facebook respinge qualsiasi ipotesi di federazione. «L'Italia affonda nella crisi economica, le famiglie e le imprese sono in ginocchio e le nostre coste sono prese d'assalto dall'immigrazione clandestina, ma i partiti che sostengono questo governo sono impegnati a dar vita ad alleanze e federazioni del tutto innaturali pur di sopravvivere. Per quanto tempo ancora avranno intenzione di tenere in piedi questo spettacolo indecoroso?», scrive la presidente di Fdi. «Il potere del popolo è più forte delle alchimie di Palazzo. Ridiamo la parola al popolo italiano che in democrazia è sovrano». Il messaggio è chiaro: in questo momento non ci sono le condizioni per forme di collaborazione strutturate, per cabine di regia o federazioni. «Il partito Repubblicano? Ne aveva parlato Giorgia Meloni l'anno scorso. Oggi dobbiamo dire che il centrodestra parlamentare non c'è più, è stato polverizzato dopo le elezioni del presidente della Repubblica, quindi bisogna capire chi sta con chi e quali sono i progetti», dice Daniela Santanchè a LaPresse. «Oggi naturalmente abbiamo qualche difficoltà, a noi interessano i contenuti, siamo a favore di un progetto non di cambiare un nome che ci sembra una "pittata" direbbe qualcuno. Non è quello che ci chiedono gli italiani». Dentro Fratelli d'Italia, peraltro, fanno notare che senza spingersi fino ai Repubblicani Giorgia Meloni è presidente della famiglia dei Conservatori Europei e ha in animo di sviluppare il progetto dei Conservatori Italiani, partendo da una visione confederale. Un progetto lanciato soltanto due mesi in occasione del Festival di Atreju nella sua versione natalizia. Salvini, arrivando al consiglio federale della Lega evita di rinfocolare la polemica con l'alleato. «Io non dico di no mai a nessuno. Lavoro per unire, non per dividere», risponde a chi gli chiede se ci sia un posto per Giorgia Meloni nella federazione di centrodestra. Da Fratelli d'Italia, invece, si guarda anche ai prossimi appuntamenti elettorali con una investitura chiara per Nello Musumeci in vista delle Regionali del prossimo autunno. Giorgia Meloni ha incontrato nei giorni scorsi il presidente della Regione Siciliana insieme al vicepresidente del Senato Ignazio La Russa, il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida, il capo dell'organizzazione Giovanni Donzelli, i coordinatori siciliani Salvo Pogliese e Giampiero Cannella e l'assessore Manlio Messina. Un incontro al termine del quale è stata ribadito «l'assoluto apprezzamento dell'operato del governatore Musumeci. FdI considera naturale la sua ricandidatura alla presidenza della Regione. Tra Fratelli d'Italia e Diventerà bellissima, il movimento del governatore, si è stabilito sin d'ora un rapporto di costante consultazione». Con l'auspicio di «affrontare in un clima di serenità una sfida elettorale che non può non vedere riconfermata in Sicilia la fiducia al buon governo di questi anni».

SCONTRO NEI 5 STELLE, DI MAIO TROVA ALLEATE

Lo scontro nei 5 Stelle. Luigi Di Maio, messo sotto accusa da Giuseppe Conte, incontra Elisabetta Belloni a pranzo (foto su tutti i giornali) e riceve la solidarietà di Raggi e Appendino. La cronaca di Matteo Pucciarelli per Repubblica.

«Luigi Di Maio tesse la sua tela, tiene il contatto con le ex sindache del M5S Virginia Raggi e Chiara Appendino e si premura di non tenerlo nascosto; incontra a pranzo a Roma la direttrice del Dis Elisabetta Belloni - era la candidata alla presidenza della Repubblica proposta da Giuseppe Conte, con l'assenso di Lega e Fratelli d'Italia - e ci tiene a farlo sapere con un post social. Il messaggio del ministro degli Esteri al presidente del suo partito, ma al Movimento in generale, è chiaro: non sono isolato né sono colpevole di aver sabotato Belloni, la quale anzi mi ritiene «leale », come da dichiarazione della stessa capo dei servizi segreti. Dopo giorni di battagliare a colpi di post social, interviste e lanci di agenzia, ieri i vicinissimi a Conte hanno scelto la via del silenzio assoluto. Lo spazio mediatico se l'è ritagliato il contendente, e il conviviale faccia a faccia con Belloni - anticipato sul Foglio e poi reso pubblico poco dopo - è ovviamente carico di significati politici più o meno in chiaro, considerato oltretutto il ruolo attuale di Belloni. «Per questo motivo oggi (ieri, ndr ) Conte, che ha promesso processi per Di Maio, è rimasto annichilito», è la considerazione di un parlamentare vicino a quest' ultimo. Di sicuro lo strano intreccio politico interno che vede protagonista la direttrice dei servizi segreti sta mettendo in imbarazzo, e in maniera trasversale, i 5 Stelle, un movimento nato parlando di trasparenza e tutto il resto. Le strade che l'ex capo politico del Movimento ha davanti, adesso, sono tre. Chi lo conosce bene assicura una cosa: Di Maio le sta valutando con attenzione e senza preconcetti, non ce n'è una fuori discussione. La prima opzione è ingaggiare una battaglia per provare a riconquistare il M5S, garantendone la fedeltà all'attuale governo e lo schema di alleanza con il Pd. In quest' ottica Raggi potrebbe essere un'alleata sicura. A dimostrazione del buon rapporto tra il ministro e l'ex sindaca, lo scorso novembre e poi a inizio anno il responsabile della Farnesina ha assunto nel proprio staff al ministero due collaboratori della ex prima cittadina, oggi consigliera comunale nella Capitale: il già portavoce di Raggi, Teodoro Fulgione e la videomaker Wendy Elliott. La seconda strada è accettare le mediazioni che in queste ore già si stanno muovendo, come ad esempio quella del capogruppo alla Camera Davide Crippa. Provare insomma a ricucire con Conte, ritrovare un equilibrio possibile, per il bene dei 5 Stelle. Un bel pezzo dei gruppi, anche quelli meno felici del nuovo corso contiano, chiede questo. La terza possibilità è che invece Di Maio esca dal partito per unirsi a pezzi di mondo moderato oggi in fase di ricomposizione. Il quadro è in evoluzione, ma si può anche immaginare nel 2023 una formazione in stile Scelta civica che, come allora appoggiò l'uscente Mario Monti, tra un anno diventi la portatrice del verbo draghiano. Da Giovanni Toti a Mara Carfagna, gli ipotetici attori di una "cosa" centrista sono in diversi e un leader come Di Maio potrebbe facilitarne l'unificazione e aumentarne la visibilità. «Non è lui ad agitarsi ma gli altri a cercarlo», raccontano dalla Farnesina. Ecco, comunque sia, anche questa eventualità non è esclusa. Oltretutto in tale modo il ministro e i suoi fedelissimi della vecchia guardia non avrebbero più di mezzo intralci ideologici come il limite dei due mandati, un altro argomento che viaggia sottocoperta ma che impensierisce e non poco la complessa galassia delle 5 Stelle. Conte finora ha accuratamente evitato di mettere la questione all'ordine del giorno, se però Di Maio se ne andasse da sé questo rappresenterebbe un assist per l'ala purista (tra cui Beppe Grillo) e quella semi-purista (gli eletti al primo mandato...) che non voleva e non vuole deroghe alla regola aurea. E così l'equilibrista Conte, dopotutto mai eletto in parlamento, potrebbe rinverdire il vecchio cavallo di battaglia movimentista».

DOMANI: INDAGINE SU GIUSEPPE CONTE

Scoop di Domani con i due giornalisti d’inchiesta Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian. C’è un’indagine a proposito di incarichi da 400mila euro tra 2012 e 2013. La Guardia di finanza è andata a casa di Giuseppe Conte per acquisire fatture e consulenze fatte al gruppo Acqua Marcia.

«Qualche settimana fa, in gran segreto, la Guardia di finanza su ordine della procura di Roma ha bussato a casa di Giuseppe Conte. E ha chiesto all'ex presidente del Consiglio l'acquisizione di fatture e documenti delle consulenze d'oro (circa 3-400mila euro, non tutti pagati) che lui ha svolto per alcune società di Francesco Bellavista Caltagirone, ex patron del gruppo Acqua Marcia. I militari hanno rintracciato il capo del Movimento 5 stelle nell'appartamento-studio di via della Fontanella Borghese dove vive con la compagna Olivia Paladino, e poi sono andati dal mentore di Conte, l'avvocato Guido Alpa, che da Caltagirone ha ottenuto incarichi da quasi mezzo milione per lavorare alla ristrutturazione del debito del gruppo. La Guardia di finanza - risulta a Domani da fonti interne degli studi legali - ha infine svolto acquisizioni simili anche dagli avvocati Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone, che hanno lavorato insieme ad Alpa e Conte al concordato preventivo di Acqua Marcia. L'indagine Il nuovo fascicolo d'indagine è a modello 44 (ad oggi, dunque, senza indagati) ed è arrivato da poco sulla scrivania della magistrata romana Maria Sabina Calabretta. La pm ha ereditato la pratica dai colleghi di Perugia che indagano da mesi sulle dichiarazioni dell'imprenditore Piero Amara. Come ha scoperto Domani ad aprile dello scorso anno, infatti, l'uomo al centro dello scandalo della presunta loggia Ungheria e oggi in carcere per aver corrotto giudici in giro per l'Italia, nel dicembre del 2019 aveva detto ai magistrati milanesi di aver "raccomandato" alcuni avvocati a Fabrizio Centofanti, al tempo potente capo delle relazioni istituzionali del gruppo Acqua Marcia. Secondo Amara le nomine erano condizione fondamentale «per riuscire a ottenere l'omologazione del concordato stesso» dai giudici del Tribunale di Roma. Conte (come gli altri interessati) ha negato subito raccomandazioni di sorta ipotizzando denunce per calunnia. L'inchiesta da Milano era stata trasferita per competenza alla procura umbra proprio perché le dichiarazioni lasciavano intendere che qualche giudice della capitale avesse commesso illeciti. Adesso è arrivata a piazzale Clodio perché nessun magistrato romano è stato identificato dagli uomini di Raffaele Cantone, che però non hanno voluto archiviare la pratica. Calabretta - che investiga su Acqua Marcia anche in merito a un altro filone in cui si ipotizza una bancarotta fraudolenta da centinaia di milioni di euro - dovrà ora verificare se c'è qualcosa di penalmente rilevante oppure se le consulenze dei quattro avvocati si sono svolte correttamente, come sostengono i legali. Soldi e fatture A Domani risulta che Alpa abbia fatturato alle società di Bellavista Caltagirone una cifra vicina ai 400mila euro, ma di queste ne sarebbero state incassate effettivamente poco più di 100mila. Meglio è andata a Caratozzolo: gli incarichi ottenuti superano il milione, di cui circa 500mila già pagati. Ivone, avvocato cassazionista che ha avviato uno studio con Fabrizio Di Marzio (condirettore insieme a Conte della rivista giuridica Giustiziacivile.com) ha ricevuto contratti per oltre due milioni di euro, di cui 1,2 milioni di euro già saldati. Secondo altre fonti vicine all'inchiesta, Conte avrebbe ottenuto tra il 2012 e il 2013 conferimenti d'incarico per un valore totale di circa 400mila euro. L'ex premier, senza specificare la cifra precisa, ha detto a Domani che comunque i suoi guadagni «erano stati incassati solo in parte». Una lettera firmata da Centofanti e dal figlio di Bellavista Caltagirone, Camillo, evidenziava certamente che Conte, per fare una «ricognizione dei rapporti giuridici» di una società controllata (la Acquamare, nel cui cda siedeva lo stesso Amara) avrebbe ottenuto «un compenso pari a 150mila euro, oltre accessori di legge come iva e cpa».

MENO 2 ALA VIA DEI GIOCHI OLIMPICI DI PECHINO

Fra due giorni il via ai Giochi invernali 2022 di Pechino, una nuova passerella per il regime di Xi Jinping. Putin sarà ospite d'onore. Cecilia Attanasio Ghezzi per La Stampa.

«Anche solo arrivare è una vittoria», titola il New York Times che ha già ribattezzato le prossime Olimpiadi invernali «i Giochi della logistica». Niente di più lontano dall'esperienza del 2008, quando con lo slogan «Pechino ti accoglie» la Repubblica popolare aveva deciso di impressionare il resto del mondo con la sua strabiliante ascesa. È vero, interi quartieri di case tradizionali a un piano erano stati demoliti per far posto ad avveniristici grattacieli. È vero, la popolazione migrante veniva allontanata perché con la sua povertà non intaccasse l'immagine che Pechino aveva scelto di offrire di sé. E sì, si erano tacitate le proteste e le autoimmolazioni dei tibetani e le polemiche seguite al terribile terremoto del Sichuan, 70mila morti appena tre mesi prima dell'inizio dei Giochi. Ma all'epoca la Capitale del nord era in fermento. Si pretendeva che gli atleti cinesi conquistassero tutto il medagliere. Nei polverosi vicoli della città, i tassisti erano incoraggiati a studiare l'inglese, i volontari incontravano studenti di altre nazionalità e fiorivano entusiasmanti collaborazioni su tutti i livelli. La città non dormiva mai. Capitava di tornare da un breve viaggio e non riconoscere più il proprio quartiere perché nel frattempo un palazzo era stato abbattuto o tirato su dal nulla, o avevano aperto una nuova fermata della metropolitana che avrebbe rinominato e riqualificato l'intera area. I nuovissimi stadi olimpici, il nido d'uccello e il water cube, erano stati progettati come proseguimento urbanistico dell'asse imperiale della città, lo stesso su cui in epoche lontane erano stati costruiti la Città proibita e il Tempio del Cielo. Insomma, si gettavano le basi per quella Nazione che presto sarebbe diventata la seconda potenza economica mondiale, minacciando il primato degli Stati Uniti d'America. Così, quando il comitato olimpico ha assegnato i Giochi invernali 2022 sette anni fa, a Pechino c'erano già 16 nuove linee metropolitane, e nel Paese oltre 37mila chilometri di ferrovie ad alta velocità. Ma si parlava di «airpocalypse», la tradizione degli sport invernali, si basava su appena qualche anno di esperienza e qualche milione di cultori e nell'area che avrebbe dovuto ospitare le gare sciistiche nevicava ben di rado. Le montagne sono brulle e giallognole, e la terra ghiacciata. Il presidente Xi Jinping dovette mettersi in gioco in prima persona: «Terremo fede alle nostre promesse» e, vista l'impeccabile esperienza delle Olimpiadi Pechino 2008, furono in pochi a dubitarne. La Repubblica popolare, però, nel frattempo è cambiata: è quattro volte più ricca del 2008 e non deve dimostrare niente a nessuno, anzi. E si è preparata a queste Olimpiadi con tutt' altro spirito. Certo, la qualità dell'area è notevolmente migliorata, gli impianti sciistici sono spuntati come funghi e in 300 milioni hanno sperimentato il brivido degli sport invernali. Una nuova linea ferroviaria ad alta velocità ha ridotto di un quarto il tempo di percorrenza tra la Capitale e Zhangjiakou, la città vicino alla quale si svolgerà la maggior parte degli eventi all'aperto. Ma nessun altro investimento. I costi sono stati limitati al miliardo e mezzo di dollari, e si sono riutilizzati stadi e infrastrutture. La regione, comunque, è già indebitata fino al collo, e l'impatto ambientale è ancora tutto da calcolare. A Chongli, la Cortina d'Oriente, si spara neve da settimane. E non solo sulle piste, perché quando le telecamere di tutto il mondo le inquadreranno, il colpo d'occhio dovrà competere con quello a cui è abituato chi frequenta le Alpi. Si calcola che serviranno due milioni di metri cubi d'acqua in un'area che normalmente può contare su un quinto del fabbisogno medio di acqua del Paese. I bacini artificiali, i canali e i tunnel idraulici costruiti per l'occasione, paiono essere appena sufficienti. In tutto ciò, lavoratori, atleti, funzionari e giornalisti dovranno vivere in un complicato sistema chiuso a causa delle misure anti-Covid. Una volta arrivati sani a Pechino, i pochi stranieri ammessi dovranno pregare che nessuno seduto vicino a loro risulti positivo. Solo allora potranno entrare nella bolla olimpica della propria categoria, dove dovranno restare per tutta la durata dei Giochi. Nessun contatto con l'esterno. Ai locali sarà proibito incontrare i propri famigliari e tutti si muoveranno su mezzi di trasporto speciali. I tamponi saranno quotidiani e le mascherine obbligatorie. Inoltre la vendita dei biglietti è stata chiusa al pubblico, e si potrà assistere alle gare solo su invito. E l'isolamento non sarà solo sanitario. Per paura della sorveglianza digitale cinese, molte nazioni hanno pregato le loro delegazioni e i propri atleti di non portare con sé smartphone e computer. Almeno una decina di Paesi, Stati Uniti in testa, hanno deciso di boicottare diplomaticamente l'evento per protestare contro gli abusi dei diritti umani nello Xinjiang. Gli sponsor sono talmente sottotono che sembrano quasi vergognarsi della visibilità che si sono comprati. Per tutta risposta, ospite d'onore del presidente cinese sarà Vladimir Putin. I due cercheranno di sciogliere alcuni nodi sull'Ucraina lontano dalla sfera di influenza nordamericana. Di fatto la Cina è passata dalla teoria denghista del «profilo basso» alla «diplomazia dei lupi guerrieri». Il successo di queste Olimpiadi non sarà misurato sul medagliere, ma sulla capacità di Pechino di dimostrare al mondo di aver vinto la sfida della pandemia e di sapere affrontare a testa alta - e con le proprie sfere d'influenza - le sfide di uno scacchiere globale sempre più polarizzato. Non è un caso che lo stesso Xi Jinping riconduca quest' edizione dei Giochi al «rinascimento cinese»: vuole riportare la Cina al ruolo che gli spetta di grande potenza. Come fu nell'antichità».

LO SCIOPERO DEL SILENZIO IN MYANMAR

Il popolo birmano sfida la giunta militare con lo “Sciopero del silenzio”. Nonostante le minacce, tutta la popolazione ha aderito alla protesta indetta a un anno dal golpe: almeno 1.500 i morti in 12 mesi di repressione. Aung San Suu Kyi, deposta dal golpe un anno fa e condannata a 6 anni di carcere, è ai domiciliari in una località segreta. Raimondo Bultrini per Repubblica.

«Lo Sciopero del Silenzio è una forma di protesta contro la dittatura militare già usata dai ribelli del Myanmar un paio di mesi fa, quando le strade delle grandi città si svuotarono e la gente restò a casa lasciando chiusi i negozi, vuoti gli uffici e i mercati. Ieri il rito collettivo si è ripetuto nel giorno più simbolico per il movimento di resistenza, il primo anniversario del golpe che ha posto fine a meno di un decennio di semi- democrazia e spento la cometa di libertà che aveva brillato sui cieli del Paese fino all'alba del primo febbraio. Da allora la ex presidente de facto del governo e simbolo stesso della riconciliazione Aung San Suu Kyi è in una stanza segreta dove sta scontando la prima delle tante condanne che ancora l'aspettano per reati spesso pretestuosi. Sarebbe orgogliosa di sapere che la risposta popolare allo sciopero del silenzio proclamata dal "governo in esilio" - da lei virtualmente presieduto - è stata unanime, un altro schiaffo alla pretesa dei generali guidati da Min Aung Hlaing di considerare i ribelli dei "terroristi" isolati dal resto del Paese e poter controllare una popolazione così sfacciatamente ostile. Diversi episodi drammatici, come l'autoimmolazione di un uomo davanti a una centrale elettrica nella regione di Mandalay ora in lotta tra la vota e la morte, hanno funestato questa giornata tesa già dalla vigilia, fino al gesto liberatorio dell'applauso scrosciante di innumerevoli mani alle 4 in punto del pomeriggio nelle principali città del Paese. Ha segnato la fine dello sciopero e il suo successo risuonando dall'ex capitale Rangoon a Mandalay, dagli Stati etnici ai centri urbani delle regioni a maggioranza birmana come Magwe, Sagaing e Tanintharyi. I generali avevano tentato di minacciare, forti di un bilancio di 1.500 vittime dei loro fucili e cannoni e di 12mila dissidenti arrestati e torturati in quest' anno. Hanno arrestato decine di dissidenti che bypassando la rete internet nazionale annunciavano su Facebook la loro adesione allo sciopero, fatto piazzare cartelli d'ammonimento agli incroci cittadini e avvisato i negozianti che se restavano chiusi incorrevano in una sfilza di reati, dalla violazione delle leggi antiterrorismo e dell'ordine pubblico all'alto tradimento. Pene previste dai 3 ai 20 anni. Ma vista la scala dell'adesione devono aver desistito dall'intraprendere alcuna azione, almeno immediata. Semideserte erano persino le più celebri e frequentate pagode come Swedagon e Sule, le fermate dei bus e le sale da tè, centro della vita sociale urbana. Il rumore politico di questo giorno del silenzio è stato ben più assordante di quello delle pentole battute all'unisono nei primi giorni della protesta ogni sera alle 8, dei canti rap che accompagnavano le manifestazioni e dei versi dei poeti, molti dei quali hanno pagato con la vita le loro rime. Ma se la vittoria morale di un giorno potrà impressionare i generali e il mondo intero per la carica rivoluzionaria che si è trasmessa dai giovani ai vecchi, la vera resistenza sta rafforzandosi clandestinamente con una progressione di azioni micidiali da parte di gruppi chiamati "Forze di difesa del popolo" e formati sia da guerriglieri esperti che da giovani della cosiddetta Generazione Z alle prime esperienze di armi. L'ultimo attacco è avvenuto proprio ieri nella città di Tachilek al confine Sud con la Thailanda contro un corteo di sostenitori del partito dei militari Usdp. Una bomba non rivendicata ha ucciso 2 partecipanti, un militare e ferito una trentina di persone. Sorti in tutto il Paese, questi nuclei spesso armati di fucili rudimentali e bombe fatte a mano, si sono moltiplicati da settembre dopo l'annuncio del "governo in esilio" di unità nazionale (o Nug) dell'"entrata in guerra" per difendere le vittime delle repressioni e riportare la democrazia nel Paese. È il segno che questa nuova generazione non ritiene più praticabile la via gandhiana di Suu Kyi. Non è servita ai propri genitori e nonni per liberarsi di sanguinari generali e non può servire a loro. Con i loro occhi hanno visto le stesse scene descritte dai loro anziani, sono stati a loro volta svegliati dai tadmadaw che entravano di notte nelle case a portare via padri, fratelli e sorelle. Si sono detti "Mai più", nella speranza che il mondo capisca il messaggio del loro giorno di silenzio a un anno e 1500 morti di distanza dall'ultimo passaggio della cometa il 1° febbraio 2021».

MACRON E I CRISTIANI D’ORIENTE

Dall’Eliseo forte sostegno del presidente Macron alla minoranza cristiana in Libano, Egitto, Giordania, Iraq e Siria: «Sono parte di ciò che siamo». Molti ci vedono una mossa in chiave elettorale. Daniele Zappalà da Parigi per Avvenire.

«I cristiani d'Oriente come un «formidabile fermento» delle speranze mediorientali di pace. L'aiuto della Francia alle stesse minoranze cristiane come «una parte di ciò che siamo», nella scia di una tradizione plurisecolare. Nuove garanzie presidenziali sulla laïcité, descritta come un «messaggio di rispetto e tolleranza». E poi l'annuncio della creazione di un nono dipartimento nel più celebre museo del mondo, il Louvre (nato nella scia della Rivoluzione del 1789), dedicato specificamente all'Arte bizantina e del cristianesimo orientale. E ancora il raddoppio degli aiuti di Parigi a circa 170 scuole cristiane francofone soprattutto in Libano ed Egitto, ma pure in Giordania, Iraq, Siria e nei Territori Palestinesi. In proposito, pure il palco lasciato alla commovente testimonianza dell'anziana suor Mariam An-Nour, direttrice a Beirut della scuola carmelitana Saint Joseph, per lanciare dal più potente palazzo francese un grido accorato sul sistema scolastico libanese «sull'orlo del baratro». Persino la citazione, da parte del capo dell'Eliseo in persona, di un passaggio del profeta Isaia, durante un quarto d'ora speso a lodare un sacerdote cattolico, monsignor Pascal Gollnisch, alla guida dell'associazione L'"Oeuvre d'Orient", descritto come un «riparatore di brecce» e dunque uno di quei personaggi grazie ai quali «l'umanità resiste». Nel quadro dello stesso elogio verso il nuovo cavaliere della Legion d'Onore, pure un'accorata sottolineatura sull'«attesa» che il Medio Oriente aveva verso le parole pronunciate da papa Francesco nel suo storico viaggio in Iraq. Ieri sera, proprio all'Eliseo, tutto questo e tanto altro ancora ha riservato l'"Incontro consacrato alle azioni della Francia in favore dei cristiani d'Oriente", fortemente voluto dal presidente Emmanuel Macron, nella scia di un impegno personale per questa causa cominciato nel 2018, in occasione di un viaggio a Gerusalemme, al fianco anche di monsignor Gollnisch, direttore de "L'Oevre sd'Orient". Ad assistere all'incontro, un parterre di circa 150 invitati, fra politici di vari partiti impegnati su questo fronte e leader d'organizzazioni internazionali come l'Unesco, assieme ai massimi rappresentanti religiosi transalpini di ogni culto, tra cui monsignor Éric de Moulins-Beaufort, arcivescovo di Reims e presidente della Conferenza episcopale francese. L'evento ha sorpreso molti per i toni calorosi ed enfatici impiegati da Macron, ricordando il discorso tenuto nell'aprile 2018 proprio dal presidente al Collège des Bernardins, su invito dei vescovi francesi, tutti presenti, in occasione di ciò che venne salutato come un momento di svolta destinato a «riparare» le crepe fra lo Stato francese e il mondo cattolico. Una metafora del «riparare», del resto, ampiamente impiegata ieri, per lodare monsignor Gollnisch, ma in generale pure il ruolo dei cristiani sul tormentato scenario mediorientale, dove la Francia s' impegnerà maggiormente pure per restaurare il patrimonio religioso cristiano danneggiato da guerre ed altre tragedie. Ma al di là dello sfoggio di calore, d'eloquenza e di tutta una simbologia su certe convergenze possibili fra «universalismo » della République e messaggio universale cristiano, non pochi s' interrogavano già ieri sulla data scelta per un simile evento, a soli 2 mesi dal primo turno delle elezioni presidenziali (10 aprile) nelle quali Macron cercherà il bis, pur non essendo ancora ufficialmente candidato (ma il sito Internet di campagna e le squadre già attive a distribuire volantini non lasciano dubbi). C'è chi lo accuserà probabilmente di voler sedurre i tanti elettori con radici familiari o culturali in Medio Oriente. E si evocheranno pure gli strappi paralleli di Macron su altri fronti cari ai cristiani, come la bioetica. Inoltre, non è difficile pronosticare le critiche di certi detrattori verso un presidente che esalta la pace in una regione in cui la Francia batte al contempo record d'export d'armi. In ogni caso, comunque, la "mossa" imprevista di ieri non lascerà insensibile la Francia».

SANREMO, MARKETING E POLEMICHE

Sanremo si assicura il pubblico alimentando svago e polemiche. C'è il guru Roberto Saviano in quota Impegno civile, Drusilla Foer per soddisfare la nouvelle vague della Fluidità. Non mancano poi l'usato sicuro per il pubblico più stagionato e i rapper per la Gen Z. Maurizio Caverzan per la Verità.

«Adesso le caselle sono tutte piene, i tasselli sono tutti occupati. L'ultimo ancora vuoto era quello sotto l'insegna Impegno civile. Ma con l'annuncio di ieri di Amadeus, il cartellone è completato: «A trent' anni dalla strage di Capaci, ricorderemo questo evento con Roberto Saviano, sono felice e onorato della sua presenza». Parole scolpite e ribadite per i distratti, senza lesinare l'enfasi: «Saviano a Sanremo, accadrà nella sera di giovedì», fruscio in sottofondo di mani che si sfregano. La fantasia è quella che è. Mancando Roberto Benigni e non riuscendo a convincere Greta Thunberg, non restava che la spalla di Fabio Fazio. Ciò che conta è il tabellone finito, il puzzle terminato. Il Festival di Sanremo è un grande gioco di società, con tante caselle da colorare una per una. Si canta, si balla, si esibiscono lustrini e paillettes, si gioca e si trasgredisce sui generi non solo musicali, ma alla fine i conti devono tornare anche in assenza di Tim, il main sponsor che grazie alla creatività di Luca Josi, direttore brand strategy, e alla versatilità di Mina, aveva punteggiato con leggerezza le ultime edizioni. E devono tornare pure gli ascolti - ne sapremo qualcosa già stamattina - per sfatare la maledizione che un anno fa, dopo le accuse di flop all'edizione in corso senza pubblico, il talismano Fiorello inviò ai futuri conduttori del 2022: «Dovrà essere un festival pieno di gente, ma deve andare malissimo. Ma male, male, male. Ve lo auguro con tutto il cuore», sbottò allora lo showman. Grazie a Dio presente anche quest' anno in quota Uno di noi (insieme a lui anche Sabrina Ferilli). Dunque, eccoci con la pila dei manuali di marketing sulla scrivania della direzione artistica per comporre il mosaico e rastrellare ogni piccola zolla ai quattro angoli dell'Auditel. Non c'è neanche bisogno di un filo conduttore, ci penseranno i telespettatori e i dottori della critica a cercarlo. In realtà, non è nemmeno indispensabile che lo trovino. Alla nutrita squadra di autori basta assemblare, accumulare, coprire tutti gli spazi. La tv generalista nella sua massima espressione è questo. Che cosa tiene insieme Achille Lauro, il primo a uscire sul palco ieri sera per inaugurare la gara, e Matteo Berrettini reduce dagli Australian open di tennis? Che cosa accomuna i Måneskin vincitori del Festival di un anno fa e Ornella Muti che, ancora sensuale e in totale controllo, ha affiancato Amadeus sul palco? Il marketing. Le quote. La rappresentanza delle community. Di rado una dichiarazione apparentemente innocua è stata densa di contenuti come quella fatta lunedì da Stefano Coletta, ancora direttore di Rai 1 fino a fine febbraio quando, nonostante i demeriti, assumerà l'incarico di capo dell'Area intrattenimento: «Sarà davvero il Festival di tutti, ancora più degli altri anni», ha chiosato. Tanti pubblici fanno il grande pubblico, il corpaccione unico e strabordante del popolo di Sanremo. Perciò, si inseguono scientificamente le diverse comunità in cerca di riconoscimento e legittimazione. Mettendosi così anche al riparo da possibili e fastidiose proteste delle varie minoranze, più o meno presumibilmente trascurate. Accontentare tutti è il verbo del settantaduesimo Festival di Sanremo. Siamo o no nell'era della (quasi) unità nazionale? Dopo la casella dedicata all'Impegno civile riempita da Saviano a trent' anni dalla strage di Capaci (che per la verità cadrebbero il 23 maggio, ma non cavilliamo), la seconda quota è intitolata alla Fluidità. Detto dei Måneskin e di Achille Lauro, proprio la sera del monologo dell'ombroso autore di Gomorra, insieme ad Amadeus, toccherà alla garrula Drusilla Foer fare gli onori del palco. Vederli uno accanto all'altra, pur così lontani per immagine e sensibilità, sarà l'apoteosi del mainstream. Sanremo mixa e metabolizza tutto nel suo calderone, carrozzone, caleidoscopio. La coppia composta da Blanco e Mahmood, già favorita della critica, occupa il riquadro intitolato Integrazione. Nella quale è iscritta anche Lorena Cesarini, l'attrice nata a Dakar, cresciuta a Roma, consacrata dalla serie Suburra e co-conduttrice stasera, quando gli ospiti saranno Laura Pausini, in quota Perché Sanremo è Sanremo, e Checco Zalone, si spera titolare della casella Comicità scorretta. Corposissima la sezione intestata alla Fiction della casa, rappresentata da un'overdose di volti della rete, da Nino Frassica a Raoul Bova, da Claudio Gioè a Maria Chiara Giannetta, partner del direttore artistico nella serata di venerdì. Quanto ai concorrenti, ce n'è per tutti i palati, rapper, melodici, pop, cantautori. Con un'avvertenza: giusta l'attenzione alla Generazione Z (nati dal 1997 al 2012) con concorrenti come Rkomi e Sangiovanni. Ma senza trascurare il pubblico più stagionato che un anno fa si dimostrò tiepido. Non è un caso che per soddisfare le preferenze dei Telemorenti (Dagospia) siano stati richiamati in servizio Gianni Morandi, Massimo Ranieri e Iva Zanicchi. Signore e signori, ecco a voi il Festival tuttifrutti. Nella stagione della maggioranza macedonia, tenuta insieme con sommo sforzo da Draghi, il Sanremo buono per (quasi) tutti i pubblici è servito.».

Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 2 febbraio:

https://www.dropbox.com/s/414c02xutugo36m/Articoli%20La%20Versione%20del%202%20febbraio.pdf?dl=0

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