Pass per tutti
Verso l'obbligo di Green pass per tutti i lavoratori. Oggi il decreto. Tamponi gratis? Li chiedono Landini e Salvini. Profitti record per i Big Pharma. Il Papa a tutto campo. Bebe Vio star europea
Da metà ottobre l’Italia sarà il primo Paese europeo a richiedere il Green pass obbligatorio a chiunque andrà a lavorare. Oggi si dovrebbero definire gli ultimi dettagli. C’è ancora una discussione sul tampone gratuito. Lo chiedono Maurizio Landini, segretario della Cgil, e Matteo Salvini, leader della Lega. Alleanza inedita. Il Governo non sembra dell’idea di far pesare sui conti pubblici di tutti la scelta di pochi, ma forse ci sarà una mediazione. Il Green pass non sarà una panacea ma ha dimostrato di funzionare per tornare alla vita sociale. Lo sanno studenti e insegnanti delle scuole. Ma anche i viaggiatori di Frecciarossa e aerei. Per non parlare dei visitatori del Salone del Mobile. O di chi è andato al Meeting di Rimini o alla Festa dell’Unità di Bologna, eventi tornati in presenza.
Semmai c’è da chiedersi perché tante energie e polemiche contro vaccini e Green pass non si siano sviluppate contro gli enormi profitti dei Big Pharma e contro gli Stati, europei in primo luogo, che non solo non tassano le aziende farmaceutiche ma non obbligano alla sospensione dei brevetti. Come scrive oggi il Manifesto: “Non solo hanno usato i soldi dei contribuenti per dare un contributo importante alla ricerca che ha portato al vaccino a tempi di record, per poi ricomprare il prodotto a prezzi di mercato spendendo un'enormità. Ma garantiscono generosi sconti fiscali sugli utili record che loro stessi, garantendo una situazione di monopolio, permettono di realizzare”.
Il Papa è tornato a Roma ed ha parlato un po’ di tutto sul volo di rientro. Durissimo sull’aborto, è tornato sul tema della famiglia e della discriminazione dei gay. Ha parlato anche di cardinali No Vax. Bellissimo il messaggio che gli ha spedito la scrittrice Edith Bruck: “Grazie Papa per aver parlato dell’antisemitismo in Europa”.
Forti contrasti a Kabul nel governo dell’Afghanistan. Si è appreso che si sarebbe anche sparato nel palazzo del governo fra fazioni talebane. C’è l’ombra del Pakistan sulla lista dei ministri. Dall’estero arrivano immagini di una strage di delfini e le notizie su una stretta del capitalismo cinese. La nostra Bebe Vio è stata oggetto di applausi e ovazioni al Parlamento di Strasburgo, invitata dalla Von der Leyen.
Siamo ormai alla terza settimana di Grande Balzo in avanti della Versione: la consegna mattiniera per questa rassegna stampa è ancora garantita dal lunedì al venerdì entro le 8 di mattina. Alla fine di questo mese tireremo le somme, fatemi sapere se lo sforzo è apprezzato. Vi ricordo anche la possibilità di scaricare gli articoli integrali in pdf. Trovate il link alla fine della Versione. Consiglio di scaricare subito quello che vi interessa perché il file resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete arretrati.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera sancisce: Lavoro solo con il green pass. Il Fatto ritrae Draghi in un fotomontaggio nei panni dell’Alberto Sordi che fa il gesto dell’ombrello: Lavoratori! Il Giornale è meno icastico: La resa dei sindacati. Il Mattino sostiene: Statali, green pass anche a casa. Il Messaggero è simmetricamente opposto: Green pass anche in azienda. Il Quotidiano Nazionale didascalico: Green pass al lavoro, ecco l’obbligo. La Repubblica sottolinea lo scontro tra il Governo da una parte e la coppia Salvini-Landini: Green pass, è battaglia sui tamponi gratuiti. La Stampa dettaglia le sanzioni: Al lavoro con l’obbligo di Green pass chi rifiuta rischia la sospensione. Il Sole 24 Ore annuncia un nuovo decreto: Smart working con patto individuale. La Verità insiste nella sua campagna contro i vaccini: Il Covid si cura, ecco le prove. Il Manifesto torna sullo scandalo dei mega utili dei Big Pharma sui vaccini: Sì profit. Libero invece è in polemica con la Ministra degli Interni: La Lamorgese scappa. Avvenire ha un titolo finale sul viaggio del Papa in Europa, alla luce del dialogo coi giornalisti sul volo di rientro: Sguardo cristiano su relazioni e vita. Il Domani sviluppa una polemica diretta con il leader della Lega: Salvini attacca Domani, ma candida pure il politico accusato dal pentito.
GREEN PASS PER I LAVORATORI
Oggi potrebbe essere la giornata della stretta decisiva sul Green pass dei lavoratori. Si va verso un’estensione dell’obbligo, ma resta il nodo dei tamponi gratuiti. Il segretario della Cgil Landini e il leader della Lega Salvini convergono nel chiederli. Ma non pare che Draghi voglia accettare. Guerzoni e Sarzanini sul Corriere.
«Dal 15 ottobre l'Italia sarà il primo Paese europeo in cui non si potrà entrare in fabbrica, in ufficio, negli studi professionali e in qualunque altro luogo di lavoro senza un green pass valido in mano. Il confronto con i leader sindacali è stato serrato e anche aspro, ma il presidente Mario Draghi ha tirato dritto. Certificato verde per tutti, dipendenti pubblici e privati. Il criterio adottato per definire il perimetro del provvedimento è quello dell'accesso ai luoghi di lavoro, metodo che tiene fuori pensionati, casalinghe, disoccupati. La svolta dell'estensione generalizzata è stata pensata per incrementare il più possibile le vaccinazioni, prima che arrivi il freddo e la pandemia rialzi la testa. L'obiettivo di Draghi, che non ha paura di fare «anche più del necessario», è raggiungere in tre, massimo quattro settimane un numero di persone immunizzate così alto da consentire al nostro Paese di entrare «in una zona di sicurezza». Se non l'immunità di gregge, espressione che a Palazzo Chigi piace poco, una «immunità sociale» fondata sui numeri del commissario Figliuolo: 44 milioni di italiani vaccinati sui 54 vaccinabili, quindi cinque in più dei 39 milioni che hanno già avuto la seconda dose. Nelle prossime settimane il governo continuerà a monitorare la curva del Covid. E se con l'arrivo dell'inverno i dati dovessero peggiorare nonostante l'imposizione del pass a milioni di lavoratori, si prenderà in considerazione una stretta ulteriore. Il vaccino obbligatorio per tutti. Ai sindacati il premier ha spiegato la filosofia di fondo: «Dobbiamo tornare alla normalità, con la ripresa delle attività in presenza. Abbiamo deciso di estendere il green pass perché è uno strumento che funziona, accettato dalle persone e monitorato». Una soluzione «accomodante rispetto all'obbligo», che è più divisivo e dirompente. Stamattina alle 10.30 il capo dell'esecutivo riunirà a Palazzo Chigi la cabina di regia con i capi delegazione dei partiti, a seguire la ministra Mariastella Gelmini ascolterà i presidenti delle Regioni e alle 16 si terrà il Consiglio dei ministri per il via libera al nuovo decreto. Ci sono volute settimane di trattative con le forze sociali, le imprese, i partiti. I sindacati hanno preteso (e ottenuto) che il green pass non sia un mezzo per licenziare. Matteo Salvini si è opposto fino all'ultimo, ma si è ritrovato isolato e ha dovuto incamminarsi sulla via di Palazzo Chigi e del ministero della Salute, che è poi quella di larga parte della base leghista e dei governatori del Nord. Raccontano che ieri, al tavolo con i vertici di Cgil, Cisl e Uil, Giancarlo Giorgetti sia stato «perfettamente in linea con Draghi e gli altri ministri presenti», Speranza, Orlando e Brunetta. Il responsabile della Pubblica amministrazione, che da giorni si batteva per un decreto unico con dentro tutto il mondo del lavoro, ha insistito nel dire che bisogna «fare presto, bene e con intelligenza». E più tardi, da fuori, il segretario del Pd Enrico Letta ha lodato Giorgetti per «il modo corretto di stare dentro il governo in una fase complessa per il Paese». Nel decreto sarà scritto che i lavoratori senza green pass saranno sanzionati anche severamente, ma non licenziati. Sui tamponi però è scontro. Pierpaolo Bombardieri, Maurizio Landini e Angelo Colombini hanno chiesto che siano a carico dello Stato fino al 31 dicembre e quando Draghi ha detto che non se ne parla perché «si ridurrebbe la propensione degli italiani al vaccino», Maurizio Landini ha alzato la voce. Il leader della Cgil ha invocato l'obbligo vaccinale, «altrimenti si scarica tutto il peso sul mondo del lavoro» e ha insistito nel chiedere che sia lo Stato a pagare i test. Niente da fare. Il premier ha risposto che «gli oneri dei tamponi saranno a carico di chi non vuole vaccinarsi, non certo della collettività». Speranza ha aggiunto un'altra motivazione, cioè che «l'incentivo a immunizzarsi serve ora, perché a dicembre rischia di essere tardi». Il governo ha bocciato anche la richiesta di azzerare il costo dei test almeno per alcuni giorni, ma ha promesso che verranno incoraggiate a calmierare i prezzi le farmacie che non lo hanno già fatto. Una possibile via di uscita l'ha proposta Brunetta, in asse con la Cisl: «Per superare l'impasse della gratuità dei tamponi si potrebbe usare lo strumento degli enti bilaterali». Affidare cioè la soluzione del rebus alla collaborazione tra datori e lavoratori».
La ritirata di Salvini, così la chiama Emanuele Lauria per Repubblica, che mette in fila le dichiarazioni del leader della Lega sul Green pass, prodotte nell’ultimo mese.
«L'ultimo passo indietro di un'inesorabile ritirata l'ha compiuto ieri mattina: «Il Green Pass? Ha senso per chi è a contatto con il pubblico. Se uno è chiuso nel suo ufficio che senso ha?». Messo all'angolo nel suo partito e isolato dal resto del centrodestra di governo (Forza Italia) che addirittura invoca l'obbligo vaccinale, Matteo Salvini si produce negli ultimi distinguo di una campagna estiva al fianco di no vax e no pass che non pochi, fra i compagni di viaggio, bollano senza mezzi termini come «fallimentare». Perché oggi, in Consiglio dei ministri, la Lega voterà sì all'ennesimo allargamento dell'obbligo di quel lasciapassare sanitario che il segretario, due mesi fa, definiva «una cagata pazzesca». La citazione fantozziana non ha portato fortuna al senatore milanese, la cui linea prudente sui provvedimenti anti-Covid è stata gradualmente rintuzzata dal pragmatismo del capodelegazione Giancarlo Giorgetti e dei governatori Zaia, Fedriga, Fontana, insomma di quell'"altra Lega" che non è, come dice Salvini con un altro riferimento naif, «una fantasia da Topolino», ma semplicemente una rappresentanza di big del partito sensibile alle richieste degli imprenditori del Nord con l'incubo chiusure. Il numero uno di via Bellerio, alla fine, prova a consolarsi con qualche dividendo (i tamponi gratuiti invocati anche dai sindacati) ma siamo all'atto finale di una commedia cominciata il 4 luglio, quando Salvini giurava, al termine di un faccia a faccia con Draghi, che l'Italia mai avrebbe imitato il modello della "patente" alla francese: «Il premier non è per gli estremismi». «Green Pass? Non scherziamo », diceva poi il 22 luglio, poche ore prima del via al certificato da parte del governo. «Il Green Pass è da cambiare», tuonava il leader il 26 luglio a provvedimento fatto (e avallato dai suoi ministri). «Un lasciapassare per accedere agli istituti scolastici? Non scherziamo», il commento rilasciato il 27 luglio. Ma lo scherzo, di nuovo, l'esecutivo gliel'ha fatto il 9 settembre. Non pago, Salvini ha provato a mettere l'ultimo paletto sei giorni fa: «Qualcuno prevedeva l'obbligo del Green Pass anche per i dipendenti pubblici, grazie alla Lega non c'è». Non c'era, forse, visto che è in arrivo l'estensione del certificato a tutti i lavoratori, atto peraltro annunciato per primo da Giancarlo Giorgetti, ormai punto di riferimento principale di Draghi e persino oggetto di riconoscenza da parte di Enrico Letta: «Sono grato al ministro, il suo è il modo corretto di stare al governo». Il segretario del Pd, d'altronde, ha gioco facile nel puntare il dito sulle divisioni del partito che ieri sono riemerse in commissione, alla Camera, e che al Senato solo la fiducia posta dal governo alla conversione del primo Green Pass ha mascherato. Fra i dem c'è chi scommette addirittura su una scissione che lasci come alleata solo la Lega giorgettiana. Ma, almeno al momento, non ci sono i presupposti per una lacerazione di questo tipo. Di certo, però, sono sempre più forti i malumori verso la linea del segretario, si insinuano fra parlamentari ed esponenti di governo che si chiedono a cosa sia servita una fiera opposizione a «vincoli e obblighi», se poi alla fine il partito li ha approvati tutti. Peraltro pure col gradimento dell'elettorato, stando ai sondaggi. Non bastano più temi identitari come sicurezza e immigrazione a tenere compatto il partito: gli attacchi alla ministra Luciana Lamorgese che ieri hanno animato l'aula parlamentare continuano a infrangersi sul muro del resto della maggioranza (inclusa Fi) e su Draghi, mentre il tentativo di scambiare gli ostaggi (le dimissioni della titolare del Viminale per quelle già avvenute del sottosegretario leghista Claudio Durigon) rientra fra le mission senza successo dell'estate salviniana. «Se il motore di tutto è la competizione con Meloni, vediamo quali risultati porterà il 4 ottobre», sussurra un deputato leghista, convinto come tanti - che dopo le amministrative servirà un chiarimento. Il fronte di chi chiede congressi locali e maggiore democrazia è guidato da Roberto Marcato, assessore di Luca Zaia, tradizionale rivale interno con cui pure Salvini in questi giorni ha cercato di fare sponda. E ieri, all'improvviso, qualcuno ha rimesso in circolo la notizia, rilanciata dalle agenzie, che la "Lega per Salvini premier" è in ritardo pure sul congresso federale, che si sarebbe dovuto celebrare a un anno dall'approvazione dello Statuto, avvenuta a fine 2018. Una minaccia anonima alla indebolita leadership del Capitano. ».
Alessandro Sallusti su Libero giudica le misure che il Governo si accinge a varare.
«Si dice che un bicchiere lo si può sempre definire mezzo vuoto o mezzo pieno. Quello che nelle prossime ore ci offrirà il governo ci piace guardarlo mezzo pieno, cosa non difficile anche a colpo d'occhio perché si tratta di un bicchiere più pieno che vuoto. È vero infatti che ci tocca un obbligo in più dei tanti che già ci perseguitano, ma è soprattutto vero che così facendo ci teniamo strette tante altre libertà che altrimenti sarebbero a rischio, in primis quella di lavorare. Il Green pass non è la panacea di tutti i mali - non assicura l'immunità - ma è ormai provato in ogni dove che il vaccino abbassa di moltissimo la probabilità di contagio, la sua gravità e quindi il diffondersi di pericolosi focolai. Ciò significa escludere nuove chiusure di esercizi commerciali, di abbassare di molto quelle di aziende per quarantene, insomma di rivivere l'incubo sociale ed economico che è stato l'ultimo anno e mezzo. Era possibile prendere altre vie? Non in tempi brevi e probabilmente non in Italia, Paese nel quale - lo sappiamo bene - i cittadini sono assai propensi ad un fai da te che non sempre si concilia con la legalità e la sicurezza. Adesso avanti tutta a mettere in piedi una sanità territoriale e di base degna di questo nome, a rendere gli ambienti di lavoro - a partire dalle scuole e dagli edifici pubblici - in grado di fare fronte non solo a un incendio (e già qui siamo assai indietro) ma anche a una epidemia, a cercare medicine e protocolli di cura in grado di smorzare gli effetti del virus e di conseguenza la pressione sugli ospedali. Insomma approfittiamo di questa anomala situazione per recuperare il tempo perduto e a prepararci a un liberi tutti incondizionato. Che mi auguro arrivi il prima possibile sapendo che il quando è strettamente legato alla nostra capacità e volontà di accettare con disciplina questo periodo di transizione tra i lockdown e la ritrovata normalità. Fare conciliare alla perfezione tutti i diritti è sempre cosa complicata e spesso irrealizzabile. Ma tutte le costituzioni tra un diritto privato (in questo caso quello di non vaccinarsi) e un diritto della collettività (lavorare nella massima sicurezza possibile) è il secondo a prevalere sul primo. E fino ad ora nessuno, neppure gli iper liberisti, ha trovato un modo diverso per tenere in piedi una democrazia».
SINDACATI E TAMPONI GRATIS
Il Fatto si trincera sulla linea di Maurizio Landini: tamponi gratis. L’articolo è di Salvatore Cannavò.
«Vaccinarsi è una cosa giusta, ma l'obbligo al momento sembra valere solo per i lavoratori. Così come anche il costo dei tamponi. Mario Draghi ha infatti comunicato ai sindacati di voler seguire senza esitazioni la strada tracciata da Giancarlo Giorgetti, che sembra in questo momento il leader della Lega, per un green pass obbligatorio per i lavoratori dipendenti che, come annuncia il segretario della Cgil, Maurizio Landini, potrebbe essere adottato dal mese di ottobre. Per entrare in fabbrica, in ufficio, in azienda, occorrerà dunque esibire il certificato verde ed essere vaccinati oppure aver fatto un tampone nelle ultime 48 ore. Un provvedimento che riguarderebbe, secondo quanto spiegato dal governo, circa 300mila lavoratori pubblici (su 3,2 milioni) e ben 4 milioni nel privato (su 14,7 complessivi). Di fronte alla determinazione di Draghi, i sindacati cercano di limitare i possibili danni chiedendo di considerare un periodo transitorio in cui assicurare tamponi gratuiti. Si potrebbe fare anche ricorrendo alla sanità integrativa, spiegano alcune fonti sindacali. Il governo non ha detto del tutto no, ma si vedrà oggi nel testo del decreto. Più garantita l'ipotesi che le sanzioni non produrranno licenziamenti o demansionamenti, mentre il governo ha assicurato che cercherà una soluzione per il problema delle quarantene in caso di contagio che, dallo scorso mese, non sono più equiparate alla malattia e non sono quindi più coperte dall'Inps. Da quello che filtra da palazzo Chigi, in realtà, l'intenzione è comunque quella di non far pesare sulle casse pubbliche il costo dei tamponi, un modo forse che avallerebbe l'ipotesi di sanità integrativa.. La materia è complessa, difficile tracciare una linea netta. Anche nel caso di una fede vaccinista, il modo in cui evitare discriminazioni assilla i leader sindacali. Non a caso Landini, uscendo dall'incontro, ricorda che la strada migliore "è arrivare a un provvedimento legislativo di obbligo vaccinale, così come prevede la Costituzione e come impone la situazione sanitaria che stiamo vivendo". Ma Draghi ai sindacati ha detto che "la discussione nell'esecutivo per ora non prevede questa scelta, se non per alcune attività che l'hanno già resa obbligatoria, come la sanità". La vaccinazione, ovviamente, eviterebbe qualsiasi problema, ma come dimostrano le cronache degli ultimi tempi, la vaccinazione integrale è statisticamente impossibile e tra i non vaccinati non ci sono solo no-vax estremisti, ma anche molti "esitanti", persone che al momento fanno prevalere la paura, o stili di vita diversi. La misura, poi, al momento sembra riguardare solo i lavoratori dipendenti o tutti quelli che "entreranno nel luogo di lavoro", ma esistono commercianti, liberi professionisti, disoccupati che sarebbero esclusi da quest' obbligo producendo un'ulteriore discriminazione. Finora la misura è stata applicata solo al personale sanitario e a quello scolastico. In quest' ultimo caso è stata prevista come sanzione la sospensione dal lavoro dopo cinque giorni con relativa sospensione dello stipendio. L'ipotesi di estensione a tutto il lavoro dipendente farebbe dell'Italia la prima in Europa ad assumere una tale decisione con tutti i problemi che questo comporta».
VACCINI, I PROFITTI DEI BIG PHARMA
Una battaglia che né i sindacati, né la sinistra fanno è quella sugli enormi profitti delle Big Pharma e sulla doverosa sospensione dei brevetti. Roberto Ciccarelli sul Manifesto mette insieme la denuncia di Oxfam, Emergency e People’s Vaccine Alliance.
«Profitti astronomici, tasse irrisorie, nonostante i miliardari investimenti sulla ricerca fatti con i soldi dei contribuenti americani ed europei. È questa la grande rapina dei monopolisti dei vaccini anti-Covid19 Moderna, Pfizer e BioNTech. Lo denunciano Oxfam e Emergency, membri della People' s Vaccine Alliance, in vista dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite e del summit virtuale sul Covid che il presidente Usa Joe Biden intende convocare in concomitanza con l'assemblea Onu. A fronte di un investimento pubblico complessivo nel 2020 di oltre 8,3 miliardi di dollari, le tre aziende hanno registrato nel primo semestre dell'anno ricavi per 26 miliardi di dollari. Il margine di profitto è superiore al 69% nel caso di Moderna e BioNTech. Per Moderna, a metà del 2021, ci sono stati 4,3 miliardi di dollari di utili e appena 322 milioni di dollari di imposte pagate versate su scala globale (il 7%). Nei rendiconti trimestrali del 2021 la società prevede di realizzare vendite di dosi di vaccino per 20 miliardi di dollari nell'arco dell'intero 2021. Il margine di profitto di Pfizer non è ancora formalmente verificabile. L'azienda, aggiungono Oxfam e Emergency, fornisce dettagliate informazioni finanziarie solo per i ricavi e non per le spese sostenute per lo sviluppo e la produzione dello stesso, non è possibile validare in modo indipendente tale dichiarazione. In aggiunta, l'azienda ha venduto solo lo 0,5% delle sue dosi di vaccino ai Paesi più poveri. I suoi ricavi sono da capogiro, grazie alla vendita di oltre il 90% delle dosi prodotte al miglior offerente tra i Paesi ricchi e rincari del prezzo per dose, fino a 24 volte il costo stimato di produzione. Per Pfizer i proventi dalle vendite del vaccino anti-Covid, superiori a 11 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2021, rappresentano oggi più di un terzo dei ricavi a bilancio semestrale. La multinazionale prevede di arrivare a 33,5 miliardi di dollari in vendite totali del proprio vaccino entro la fine del 2021, rendendolo uno dei prodotti farmaceutici più venduti nella storia dell'industria farmaceutica. Nel caso di BionNTech e Moderna la situazione è diversa. Queste aziende non hanno altri prodotti farmaceutici commerciali significativi. Oxfam e Emergency sostengono che i loro elevati margini di profitto derivano quasi esclusivamente dalla commercializzazione dei vaccini contro il Covid-19. Il problema non va visto solo dal lato del biocapitalismo di Big Pharma, ma anche da quello degli Stati che, nonostante i peana sull'accordo sul tassa minima globale sui profitti, mantengono aliquote in un sistema fiscale distorto ed iniquo. Non solo hanno usato i soldi dei contribuenti per dare un contributo importante alla ricerca che ha portato al vaccino a tempi di record, per poi ricomprare il prodotto a prezzi di mercato spendendo un'enormità. Ma garantiscono generosi sconti fiscali sugli utili record che loro stessi, garantendo una situazione di monopolio, permettono di realizzare. Le corporation con ricavi miliardari pagano, in proporzione, molto meno di quanto versano al fisco famiglie che hanno il lavoro come unica fonte di reddito. «il modello di business è oltremodo redditizio e continua ad essere perfetto per azionisti e top manager che vengono remunerati generosamente, mentre a farne le spese sono i Paesi in via di sviluppo che stanno affrontando un nuovo picco di contagi e decessi, senza vaccini, cure e trattamenti. - sostengono Sara Albiani di Oxfam Italia e Rossella Miccio di Emergency - Invece di collaborare con governi e altri produttori qualificati per assicurare una disponibilità di dosi sufficiente a soddisfare la domanda mondiale appaiono più preoccupati a massimizzare i propri utili. Per tenere sotto controllo il virus dobbiamo porre fine ai monopoli sui vaccini, condividere tecnologia e know-how, aumentare la produzione in tutto il mondo e vaccinare quante più persone possibile». Esercitando un potere monopolistico e applicando cospicui sovrapprezzi, si stima che i tre colossi del farmaco si vedranno corrispondere nel 2021 41 miliardi di dollari in più, rispetto al costo stimato di produzione dei propri vaccini. Per la People' s Vaccine Alliance è necessario un immediato intervento dei governi a favore della sospensione dei brevetti ed evitare un ulteriore rialzo dei prezzi applicato anche per la vendita delle terze dosi ai Paesi ricchi».
BOLLETTE, CHI CI GUADAGNA. SALVINI RILANCIA IL NUCLEARE
Il Governo sta studiando come correre ai ripari per il caro bollette del prossimo trimestre. Ma la domanda è: quanti guadagni vanno alle aziende energetiche? Secondo Il Fatto “Enel & C. s tengono mega utili”, mentre la Spagna ha varato delle misure proprio per ridurre i profitti dei suoi fornitori di energia. L’articolo è di Nicola Borzi:
«Dopo un 2020 all'insegna delle difficoltà innescate dalla pandemia, a fine anno i maggiori produttori nazionali di energia idroelettrica potrebbero contare su un tesoretto di circa 5 miliardi di extra-profitti, grazie all'impennata dei prezzi dell'elettricità scatenata dal rincaro del gas. Una situazione simile si verifica in Spagna dove, contro il caro bolletta, Madrid ha varato un pacchetto di misure choc che, secondo alcuni esperti, potrebbero essere replicate anche da Roma. Ma la lobby europea dell'elettricità si è già messa di traverso. Le misure spagnole, subito operative per decreto legge, si aggiungono a quelle approvate a giugno e sono sia strutturali che temporanee, specie quelle fiscali. Il governo di Madrid ha approvato un prelievo di sei mesi sui "profitti eccessivi" realizzati grazie all'aumento dei prezzi elettrici dalle "centrali non emettitrici di CO2 " (nucleari, idroelettriche ed eoliche), pari al 90% degli utili ottenuti con prezzi superiori ai 20 euro per megawattora (MWh). Per ammortizzare "una situazione eccezionale e senza precedenti" il governo di Pedro Sanchez prevede di recuperare 2,6 miliardi entro il prossimo 31 marzo. Secondo Goldman Sachs, le misure fiscali introdotte dalla Spagna ridurranno gli utili per azione dei produttori del 5% circa dal 2022 al 2025, del 10% per Iberdrola e del 15% per Endesa , i due campioni nazionali, ma "sembrano un passo verso una parziale ri-regolamentazione delle bollette energetiche" e "potrebbero violare la direttiva dell'Ue sull'energia". Gli analisti di Barclays replicano però che i prezzi e le attese sugli utili di molte società elettriche non hanno ancora incorporato il rialzo del gas, specie per alcuni giganti come le francesi EdF ed Engie e la tedesca Rwe. Contro la manovra spagnola si è subito schierata la lobby continentale di settore Eurelectric. Secondo il segretario generale dell'associazione, Kristian Ruby, la legge di Madrid "ostacolerà la capacità dell'Europa di rispettare i suoi impegni climatici indebolendo la fiducia degli investitori. Le centrali elettriche colpite rispettano il principio "chi inquina paga" che riflette i costi del carbonio ed è il fondamento per realizza gli obiettivi climatici del Green deal. La proposta distorce gli incentivi di mercato per investire nelle future rinnovabili", conclude Ruby. Se Madrid piange, Roma non ride. Secondo il ministro della Transizione ecologia Roberto Cingolani, le bollette a ottobre potrebbero rincarare del 40% a causa dell'aumento dei prezzi del gas e della CO2 . Il governo già a luglio è intervenuto per prevenire un aumento del 20% delle bollette iniettando 1,2 miliardi di entrate dalla vendita di crediti di emissione di CO2 . L'agenzia di regolazione del settore, Arera, continua a riproporre la sua soluzione di lungo termine: togliere dalle bollette gli "oneri generali di sistema", che valgono circa 14 miliardi di cui 12 per il sostegno alle fonti rinnovabili, e spostarle a carico della fiscalità generale. Ma la proposta spagnola non piace nemmeno alle imprese italiane. Enel, con una produzione netta di 42,5 Terawattora (TWh), nel 2020 controllava circa il 16% della produzione nazionale e il 35,6% delle vendite totali. Altri cinque gruppi maggiori ( Edison , A2A , Hera , Axpo ed Eni) detenevano il 24,2% della generazione netta e il 25,3% delle vendite totali. Secondo la banca dati Aida, dal 2016 al 2020 le sole capogruppo di Enel, Hera, A2A , Edison e Sorgenia hanno realizzato utili netti per 25,13 miliardi, 22,56 dei quali in capo all'ex monopolista di Stato. I conti 2020 sono stati difficili per il Covid: a livello consolidato Enel lo scorso anno ha realizzato utili netti di 5,1 miliardi (+9% su base annua), A2A per 364 milioni (-6%), Hera per 302,7 (+0,6%), Iren stabile a 235 ed Edison una perdita di 68 contro il "rosso" di 411 del 2019. Ma le semestrali hanno già segnato forti rialzi, tranne che per Enel (utile netto a 1,78 miliardi, -8,7%). Il motivo lo spiega l'economista Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia: "La situazione attuale è un caso di fallimento del mercato. Oggi (ieri per chi legge, ndr) un megawattora vale 183 euro sul mercato spot. Il prezzo medio ad agosto era di 112 euro, nei primi mesi del 2021 era sui 90 euro. Si era a 22 euro per megawattora a maggio 2020". Nel giro di 17 mesi i prezzi si sono moltiplicati per otto volte. "Se pensiamo agli impianti idroelettrici costruiti decenni fa e già totalmente ammortizzati - continua Tabarelli - possiamo immaginare che i costi di produzione non superino i 10 euro. Dunque 173 euro sono extraprofitti. Ciò consente ad alcuni produttori di realizzare enormi profitti a fronte del salasso dei consumatori: eppure questi impianti sono in concessione ai produttori dallo Stato o dalle Regioni, dunque questo oro che cola, almeno in parte, appartiene a tutti gli italiani. Ciò a mio avviso obbliga a un intervento normativo. Poiché la produzione netta nazionale idroelettrica nel 2020 era di circa 48 terawattora (48 miliardi di kilowattora), a oggi sono stimabili 4,8 miliardi di extraprofitti. Direi che una metà di questi si potrebbe restituire ai clienti. Un discorso simile si potrebbe fare per altre fonti rinnovabili già ammortizzate, che hanno costi di produzione bassissimi e hanno già ottenuto grandi incentivi pubblici. Per i produttori non sarebbe una misura insopportabile, visto che l'idroelettrico vale 48 terawattora su 273 totali, il 18% circa, a fronte di 302 di domanda finale. Certo - continua Tabarelli - andrebbe in contrasto con la direttiva europea sulla tassazione energia. Ma ogni intervento già proposto è in contrasto: sia la riduzione dell'Iva che il trasferimento degli oneri di sistema, come vorrebbe Arera. Ma il sistema europeo dei prezzi di energia e gas è fuori controllo e questo giustifica ogni intervento. C'è un precedente, non di successo, ma anche quello giustificato dall'impennata dei mercati: è la Robin Hood tax introdotta dal ministro Tremonti del governo Berlusconi nel 2008 a carico dei petrolieri quando il prezzo del greggio schizzò a 140 dollari barile. La norma fu poi dichiarata incostituzionale ma allo Stato entrarono diversi miliardi di euro. D'altronde, quando i prezzi delle azioni aumentano troppo alla Borsa valori si fermano le negoziazioni, mentre sul mercato elettrico questo non succede. È una questione di dignità politica: va restituita ai clienti parte della super-redditività realizzata dai produttori, come cerca di fare la Spagna"».
Pierfrancesco Borgia per il Giornale racconta che Salvini ha riaperto al nucleare pulito, ipotizzando una Centrale in Lombardia.
«I rincari sulle bollette energetiche hanno riacceso l'attenzione sul nucleare. Soltanto due giorni fa sembrava archiviato il braccio di ferro tra il ministro per la Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e il nuovo leader del Movimento Cinquestelle che accusava sostanzialmente il componente del governo di aprire al nucleare senza il benestare dei partiti di maggioranza. Ora che lo stesso Cingolani ha ammesso che le bollette degli italiani rincareranno tra il 30 e il 40%, sono in molti a riprendere il mano il dossier nucleare. Il leader della Lega, Matteo Salvini, però, prende il toro per le corna e prima ancora che i suoi detrattori usino la carta dell'acronimo nimby (not in my backyard, cioè «non sotto casa mia») afferma di non avere problemi a tornare al nucleare. «Anche qui in Lombardia - conferma intervenendo alla trasmissione Radio anch' io - Che problema c'è? Ci sono centrali nucleari nei centri storici di tante città». Per poi aggiungere: «L'Italia è l'unico Paese del G8 senza nucleare, oggi sono funzionanti 128 centrali nucleari, di cui 58 in Francia. E la Svezia di Greta ne conta otto». Una dichiarazione, in campagna elettorale e sotto lo choc provocato sull'opinione pubblica dal rincaro delle bollette, che ha creato una forte reazione a catena. «Restiamo contrari in generale a riaprire una discussione su cui gli italiani si sono già espressi in modo chiaro con un referendum - replica il senatore del Pd Franco Mirabelli - Ma per curiosità e trasparenza sarebbe utile che i lombardi potessero sapere dove esattamente Salvini propone di collocare la sua centrale». Stessa richiesta giunge dal M5S della Lombardia: «Salvini vuole le centrali nucleari in Lombardia? Ci dica dove la costruirebbe, quando sarebbe operativa e quanto costerebbe ai cittadini», chiede il capogruppo pentastellato Massimo De Rosa. «Soprattutto spieghi quanto vale per lui e per la Lega il voto di quei milioni di italiani espressi inequivocabilmente in maniera contraria attraverso non uno, ma due referendum». Di referendum, però, Salvini non vuole parlare. «Ce ne sono in ballo già molti», replica. E si vede che il suo coup de théâtre ha spiazzato più di un compagno di partito, costretti - come il governatore Attilio Fontana -ad abbandonare il solito pragmatismo e a parlare in termini generali sull'utilità e sull'affidabilità della nuova generazione di reattori, senza però accennare ai costi e allo stoccaggio delle scorie radioattive. Un'apertura al dialogo la offre il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori. «Con le sole rinnovabili - spiega - non ci arriviamo al 2050. Bisogna mettersi attorno al tavolo e discutere del nucleare». Senza, però, slogan a effetto come quelli usati dagli eterni nemici (Salvini «centrali nucleari anche nei centri storici» e Conte che replica: «Vada in Francia»). Stessa disponibilità al dialogo e a un confronto serio e articolato mostra anche Antonio Tajani. Per il coordinatore nazionale di Forza Italia il costo delle materie prime «provocherà qualche danno perché il costo dell'energia è troppo alto e a quel punto bisognerà aprire un discorso anche sul nucleare pulito». Sui rincari delle bollette una prima apertura la offre lo stesso Conte: «Gli oneri di sistema addebitati in bolletta, che finanziano le fonti rinnovabili e lo smantellamento dei siti nucleari, di fatto rendono iniqui i costi delle bollette, perché sono imputati in maniera non progressiva rispetto al reddito personale».
IL PAPA PARLA ALLA STAMPA TORNANDO A ROMA
Durissimo sull’aborto, a ruota libera su Covid e vaccini, esplicito su Orbán. Papa Francesco parla con i giornalisti rientrando in Vaticano. Domenico Agasso inviato della Stampa riferisce dal volo papale.
«Bene le unioni civili per i gay, ma il matrimonio è un'altra cosa: è un sacramento tra un uomo e una donna». L'aborto? «È un omicidio», però i vescovi non conducano battaglie da politici, si comportino «da pastori». Sui vaccini «anche tra i cardinali ci sono negazionisti: e uno di questi è ricoverato col Covid». Con Viktor Orbán «non si è parlato di immigrazione, ma di ecologia», e l'interlocutore principale non è stato il premier, «ma il presidente ungherese». L'ultimo aereo Alitalia ad accompagnare un Pontefice, il 171esimo della Compagnia con un Papa, ha da poco sorvolato il Danubio quando Francesco si presenta ai giornalisti. Allegro e in forma come è stato in questi giorni di viaggio a Budapest e in Slovacchia, due mesi dopo l'operazione al colon, sulla quale scherza: «Non è stata una cosa estetica». Santità, la famiglia: ne ha parlato con le autorità ungheresi, e da Strasburgo è arrivata la notizia di una risoluzione del Parlamento europeo che invita a riconoscere i matrimoni omosessuali e relativi rapporti di genitorialità. Qual è il suo pensiero? «Il matrimonio è un sacramento, la Chiesa non ha potere di cambiare i sacramenti così come il Signore li ha istituiti. Ci sono leggi che cercano di aiutare le situazioni di tanta gente che ha un orientamento sessuale diverso. È questo è importante, che si aiuti la gente, ma senza imporre cose che, per loro natura, nella Chiesa non vanno. Se una coppia omosessuale vuole vivere insieme, gli Stati hanno la possibilità civilmente di sostenerla, di dare loro sicurezza di eredità, salute. Però il matrimonio è matrimonio. Questo non vuol dire condannarli (i gay, ndr), sono fratelli e sorelle nostri, dobbiamo accompagnarli. C'è per esempio la legge francese sui Pacs, senza però che questo abbia a che vedere con le nozze omosessuali: possono usarli ma il matrimonio come sacramento è uomo-donna. Dobbiamo rispettare tutti - il Signore è buono e salverà tutti, il Signore vuole la salvezza di tutti - ma per favore non bisogna che la Chiesa rinneghi la sua verità». Negli Usa c'è stata tra i vescovi una discussione sul dare la comunione ai politici che hanno sostenuto le leggi sull'aborto e ci sono presuli che vogliono negare la comunione a Joe Biden. Lei che cosa pensa? «L'aborto è più di un problema, è un omicidio, chi fa un aborto uccide. Prendete un qualsiasi libro di embriologia per studenti di medicina. La terza settimana dal concepimento, tutti gli organi stanno già lì, tutti, anche il Dna... È una vita umana! Questa vita umana va rispettata, questo principio è così chiaro! A chi non può capire, farei questa domanda: è giusto uccidere una vita umana per risolvere un problema? È giusto assumere un sicario per uccidere una vita umana? Scientificamente è una vita umana. È per questo che la Chiesa è così dura su questo argomento, perché se accettasse questo è come se accettasse l'omicidio quotidiano. Adesso passiamo alla persona che non può fare la comunione. Il problema non è teologico, è pastorale: come noi vescovi gestiamo pastoralmente questo principio e, se noi guardiamo la storia della Chiesa, vedremo che ogni volta che i vescovi hanno gestito non come pastori un problema si sono schierati sul versante politico. Cosa deve fare il pastore? Essere pastore, non andare condannando. Ma anche il pastore degli scomunicati? Sì. E lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. Degli Stati Uniti non conosco bene i dettagli, do il principio. Lei mi può dire: se lei è vicino, tenero, compassionevole, la darebbe la comunione? È un'ipotesi, il pastore sa che fare. Ma se esce dalla pastoralità della Chiesa immediatamente diventa un politico. Se lei mi dice: ma si può dare o non si può dare? È casistica, quello che lo dicano i teologi. Poi il pastore risolve le cose come lo Spirito indica». Lei dice che vaccinarsi è un atto d'amore, ma ci sono stati diversi approcci anche nelle diocesi. Come riconciliarsi? «È un po' strano perché l'umanità ha una storia di amicizia con i vaccini: il morbillo, la poliomielite... Forse questa virulenza è dovuta all'incertezza, non solo della pandemia. C'è la diversità dei vaccini e anche la fama di alcuni vaccini che sono un po' di più di acqua distillata e questo ha creato una paura. Altri che dicono che è un pericolo perché affermano che col vaccino ti entra il virus dentro. Anche nel Collegio cardinalizio ci sono alcuni negazionisti e uno di questi, poveretto, è ricoverato con il virus (Raymond Leo Burke, considerato il principale oppositore di Bergoglio, ndr). Ironia della vita. Non so spiegarlo bene, alcuni dicono perché i vaccini non sono sufficientemente sperimentati. In Vaticano sono tutti vaccinati tranne un piccolo gruppetto che si sta studiando come aiutare». Lei si è riunito con Orbán, con cui ha chiare divergenze. Come è andata? Ha toccato il tema migranti? «In visita da me è venuto il presidente (Janos Ader, ndr), con il primo ministro Orbán e con il vice primo ministro. Ha parlato il presidente. Il primo tema è stata l'ecologia. Poi mi sono informato sulla media dell'età nel Paese, perché in generale sono preoccupato dell'inverno demografico. Come si risolve? Il presidente mi ha spiegato la legge che loro hanno per aiutare le coppie giovani a sposarsi, ad avere figli. Interessante. A quel punto il primo ministro e il vice hanno aggiunto qualcosa su come funziona questa legge. Sull'immigrazione, niente».
La scrittrice ebrea Edith Bruck, attraverso Stefano Paci di Sky, ha scritto al Papa, ringraziandolo per quello che ha detto sull’antisemitismo in Europa. La notizia è da Avvenire:
«Grazie per le sue parole sull'antisemitismo! Oggi sono più che attuali che mai». Così Edith Bruck, la scrittrice ebrea sopravvissuta ad Auschwitz dove fu internata a 13 anni, nel messaggio inviato al Papa e consegnato al Pontefice sull'aereo di ritorno a Roma dal vaticanista di SkyTg24 Stefano Maria Paci. Al centro del breve testo gli interventi di Francesco durante la visita in Ungheria e Slovacchia. «Amato papa Francesco - scrive Bruck - le sue parole sull'antisemitismo mai sradicato oggi sono più che mai attuali non solo nei Paesi che sta visitando ma in tutta l'Europa. Spero che la sua visita abbia qualche effetto positivo. Carissimo papa Francesco - aggiunge la scrittrice -, le sue parole fondamentali non possono lasciare indifferenti nessuno in quel luoghi dove dominava il male. Iddio accompagni ogni suo passo di pace, di convivenza e apra i cuori, le coscienze ancora poco limpide! Io spero che la sua voce e il calore che emana raggiunga e tocchi, risvegli quel buono che c'è in ognuno. A volte anche nel buio più profondo si fa strada la luce. Io lo so e perciò vivo e spero. Dai miei amici ungheresi ho saputo che lei ha lasciato una scia di amore». Bruck è la scrittrice, finalista quest' anno del Premio Strega, vincitrice del Premio Strega Giovani con il "Il pane perduto" che Francesco era andato a visitare nella sua casa di Roma a febbraio. Proprio sul viaggio del Papa, Avvenire l'ha intervistata martedì scorso».
AFGHANISTAN, SPARATORIA NEL PALAZZO
I contrasti all’interno dei nuovi padroni dell’Afghanistan sono sempre più evidenti. Lo racconta per Repubblica Mattia Sorbi:
«È sempre più fragile l'equilibrio all'interno del governo talebano, con possibili nuovi scenari di potere. Le due fazioni in lotta, quella della famiglia Haqqani e i seguaci del cofondatore dei talebani, Abdul Baradar, sono ai ferri corti. Tanto che la scorsa settimana il vice primo ministro Baradar è stato gravemente ferito all'interno del palazzo presidenziale di Kabul, rischiando di morire dopo essere stato vittima di uno scontro fisico con Kalil Haqqani, ministro per i rifugiati. Tra i due - si vocifera da giorni e ora conferma la Bbc - sono volati paroloni, mentre i loro seguaci litigavano nei corridoi del palazzo.Si sarebbero uditi anche colpi di kalashnikov. La rissa sarebbe scattata per una differenza di vedute sulla formazione del governo talebano, con Baradar orientato a una composizione più moderata e Sirajuddin Haqqani - leader del clan che porta il suo nome, ricercato dalla Cia e poi nominato ministro degli Interni - sul fronte più radicale. Dopo lo scontro, Baradar avrebbe lasciato Kabul per rifugiarsi a Kandahar, in gravissime condizioni. Si è anche ipotizzato che fosse morto, tanto che lo stesso vice premier ha smentito con un audio tale circostanza. Pochi sono però gli afghani che si fidano dei talebani. Nel 2015, il gruppo ha ammesso di aver nascosto la morte del fondatore, il Mullah Omar, per più di due anni durante i quali hanno continuato a rilasciare dichiarazioni a suo nome. Secondo alcune fonti, nei prossimi giorni Baradar dovrebbe tornare a Kabul e potrebbe apparire davanti alle telecamere per negare che si sia verificato uno scontro. Tuttavia le popolazioni dell'Afghanistan meridionale, la provincia di Kandahar, di Helmand e quella di Orozgan, sono in subbuglio e se il vice primo ministro dovesse morire, hanno dichiarato che si vendicherebbero ferocemente, con una guerra civile tra talebani che lascerebbe lunghi strascichi sul territorio. Per ora non vengono riportati nuovi scontri a fuoco, ma gli equilibri permangono fragilissimi. Nessun Paese sta riconoscendo il governo talebano. Tantomeno i pachistani stanno riuscendo a convincere Pechino a dare il suo avallo. I cinesi non avrebbero avuto sufficienti rassicurazioni sul fatto che il governo interrompa le relazioni con la minoranza musulmana uigura in Cina. Se ci dovesse essere un mancato riconoscimento internazionale, con ogni probabilità la crisi economica già in atto peggiorerebbe ulteriormente, portando al crollo dell'attuale governo e dei precari equilibri tra talebani. Ancora, con un rischio di conflitto al loro interno. Le Nazioni Unite hanno promesso più di un miliardo di dollari all'Afghanistan, paventando il rischio d'una "catastrofe imminente". Intanto, la Cia avverte che i militanti di Al Qaeda stanno già tornando nel Paese. «Stiamo osservando alcuni segnali di potenziali movimenti di Al-Qaeda in Afghanistan», ha dichiarato in una conferenza, David Cohen, vice direttore dei servizi americani. Nello stesso tempo, il figlio del leone del Panshir, Massoud, a capo del fronte di resistenza afferma che nella valle sono arrivati nuovi equipaggiamenti, soprattutto di natura logistica, e che è pronto a riprendere i combattimenti. «L'inverno per i talebani sarà complicato, visto che sono abituati a un clima decisamente più mite», commenta sarcasticamente una fonte a lui vicina.».
CAPITALISMO CINESE E “PROSPERITÀ COMUNE”
Se ne parla pochissimo in Italia. Ma è qualcosa che sta mutando l’economia mondiale e la geopolitica. La Cina di Xi ha cambiato da mesi atteggiamento verso i suoi capitalisti privati, alla Jack Ma per intenderci, che sembravano godere di una certa libertà di profitto. Lo sanno bene gli investitori americani che stanno scappati dal mercato delle aziende cinesi nelle ultime settimane. Il nuovo “mantra”, come spiega oggi Alessandro Colarizi sul Manifesto è quello della “prosperità comune”.
«Ben 15,5 miliardi di dollari. È quanto il gruppo Alibaba si è impegnato a versare nell'arco di cinque anni per ridurre le disparità tra città e campagne, promuovere l'internazionalizzazione delle piccole e medie imprese cinesi e migliorare le condizioni di lavoro nella gig economy. La somma è la più alta stanziata da un'azienda tecnologica cinese per realizzare la cosiddetta «prosperità comune» (gongtong fuyu), il nuovo mantra con cui la leadership comunista aspira a ridurre le diseguaglianze sociali. Un concetto di origine maoista rispolverato massicciamente nell'ultimo anno dal presidente Xi Jinping in concomitanza con la sconfitta della povertà assoluta e il raggiungimento della «società moderatamente prospera». Cosa voglia dire esattamente gongtong fuyu è ancora argomento di dibattito. Le finalità, tuttavia, sono intuibili. La «prosperità comune» - che la road map ufficiale colloca entro il 2035 - si pone a mezza strada verso il centenario della Repubblica popolare (2049), ed è funzionale alla «grande rinascita nazionale». Traguardo raggiungibile solo ampliando la classe media a sostegno della spesa interna e della crescita demografica. Tutti sono chiamati a contribuire, anche i giganti del tech. Da ormai un anno il settore privato non trova pace, tra indagini antitrust e nuove norme sulla sicurezza informatica. Combattere la concentrazione delle ricchezze serve a contenere ulteriormente il potere accumulato dall'imprenditoria privata nei trent' anni di «riforma e apertura», spesso a detrimento dei consumatori. Ne consegue una maggiore centralità dello Stato negli affari economici del Paese. Ma - almeno sulla carta - le due anime possono continuare a coesistere, purché secondo le regole di Pechino e purché nel rispetto degli obiettivi di sviluppo nazionale. Parlando di ridistribuzione del reddito, infatti, sono tre i fattori citati dal governo: l'autocorrezione del mercato in base all'efficienza; l'intervento dello Stato attraverso la tassazione, la previdenza sociale e il trasferimento secondo il principio di equità; e, infine, il supporto dei singoli individui, invitati a contribuire con donazioni volontarie e attività filantropiche. Big tech e miliardari cinesi rientrano in quest' ultima categoria. I calcoli politici contano quanto le implicazioni economiche. A due mesi dalle celebrazioni per il centenario del Pcc, la nomenklatura cinese vuole tornare all'«aspirazione originaria»: come ricordato più volte da Xi, le priorità della classe dirigente devono essere «la felicità dei cittadini» e la «rinascita della Nazione». Non a caso un recente editoriale rilanciato dai media statali giustifica la stretta sul settore privato proprio come «un ritorno del capitale alle masse». Il prossimo anno la leadership cinese si rinnoverà, ma il Presidente sembra deciso a intraprendere un terzo mandato quinquennale in barba ai limiti di età e alle regole consuetudinarie del partito. Una mossa anticipata nel 2018 con la revisione della Costituzione cinese - che non mancherà di suscitare nuove polemiche. Promettere la «prosperità comune» permette di consolidare la legittimità della leadership e del suo numero uno rispondendo ai bisogni dei cittadini. Se fossimo in un sistema multipartitico, la definiremmo una campagna elettorale dai toni populisti. Ma non si tratta solo di propaganda. A rischio c'è la longevità del sistema politico cinese. Imbrigliando il settore privato, Pechino punta a contenere le insidie del modello occidentale. La crisi attraversata dagli Stati uniti dall'inizio del governo Trump è un monito che esercita una notevole presa sulla popolazione cinese. In un articolo sul «Pensiero di Xi Jinping» l'ufficialissimo People' s Daily spiegava che «i valori di 'libertà', 'democrazia' e 'diritti umani' propugnati dalla borghesia occidentale sono diventati sempre più uno strumento per mantenere il dominio del capitale». Secondo il quotidiano, la borghesia occidentale ha trasformato i principi della democrazia in «valori universali», cercando di esportarli nel resto del mondo «per raggiungere l'egemonia globale». Il vero scopo è quello di conquistare «i cuori delle persone e le masse per infine rovesciare la leadership del Pcc e il sistema socialista cinese». Ecco perché «se si misura lo sviluppo della Cina attraverso il sistema di valutazione capitalista occidentale, le conseguenze saranno inimmaginabili». Il settore privato è un importante motore dell'innovazione. Piuttosto che annientarle, Pechino spera di riuscire a inserire le big tech, cresciute con il mito della Silicon Valley, in un sistema che rispecchi di più la propria agenda politica e gli ideali del «socialismo con caratteristiche cinesi». Ora più che mai traducibile come «capitalismo di Stato».
BEBE VIO A STRASBURGO
Ovazione e applausi per la nostra campionessa paralimpica Bebe Vio ieri in visita al Parlamento europeo di Strasburgo. Padrona di casa un’entusiasta Ursula von der Leyen. La cronaca di Repubblica.
«Ho invitato un'ospite d'onore», ha esordito Ursula von der Leyen, «si tratta della medaglia d'oro italiana che ha catturato la mia simpatia questa estate. Forse non sapete che ad aprile le era stato detto che era in pericolo di vita, fu sottoposta a un intervento chirurgico, lottò e guarì. Solo 180 giorni dopo essere stata dimessa ha vinto una medaglia d'oro paralimpica. Diamo tutti insieme il benvenuto a Bebe Vio». Nella presentazione un errore, che forse farà sorridere: non 180 ma appena 119 i giorni intercorsi tra la paura e l'oro di Tokyo. E Bebe è entrata allora nell'inquadratura, sorridente sotto la mascherina, in abito nero, emozionatissima. «L'applauso e la standing ovation del Parlamento europeo sono state due cose bellissime, volevo sotterrarmi. È stato veramente imbarazzante. Bellissimo eh... mi sono avvicinata a Paolo Gentiloni e gli ho detto "aiutami" ». E Ursula ha continuato, mentre negli occhi della fiorettista azzurra si disegnavano stelline di commozione: «Prendiamo Bebe come un esempio ispiratore, è riuscita a raggiungere tutti questi risultati applicando il suo credo: se sembra possibile allora può essere fatto. Allora si può fare», ha detto Von der Leyen in italiano. «Lasciamoci ispirare anche da tutti i giovani che hanno cambiato la percezione del possibile, che ci dimostrano che si può raggiungere tutto quello a cui si crede. Questa è l'anima dell'Europa, questo è il futuro dell'Europa, rendiamola più forte insieme. Viva l'Europa». Le ultime parole del discorso sullo stato dell'Unione sono state per lei, e Bebe, un oro e un argento alle Paralimpiadi di Tokyo, ha ringraziato con gli occhi. E poi hanno ragionato insieme, in privato, «ci siamo confrontate su temi per noi molto importanti come la disabilità e l'inclusione sociale attraverso lo sport paralimpico. Abbiamo anche parlato del progetto WEmbrace Sport (sarà presentato oggi a Milano) e del film RisingPhoenix che a lei è piaciuto moltissimo. Proprio per questo la Commissione Europea ha chiesto a Netflix di lasciarlo visibile gratuitamente su YouTube fino al 21 settembre». Infine, l'immancabile "bebata", via Instagram: «Ursula, sei una grande, la prossima volta però facciamo da me e ci facciamo una carbonara tranquilli a Trastevere». Una giornata particolare, quella a Strasburgo, speciale. Quasi quanto quella cena da Obama, nel 2016, lei tra le quattrocento "eccellenze" italiane invitate alla Casa Bianca, di sicuro la più vivace, la più "figa", direbbe lei, con la sua vita complicata - la meningite che le portò via braccia e gambe a 11 anni, e un'infezione da stafilococco aureo, che ad aprile per poco non la uccide - trasformata in una "figata", appunto, dalla sua testa incredibile e dal suo immenso talento sportivo. Sono arrivate così le medaglie, i Mondiali vinti, le Coppe del Mondo, gli urli e un'aura di imbattibilità, ma anche una simpatia contagiosa che non l'abbandonano mai. Influencer sì - e ha anche una Barbie a lei dedicata - ma del bene, del bello, dell'inclusione, della felicità».
SIMONE BILES DEPONE AL SENATO USA
Paolo Mastrolilli su La Stampa racconta la terribile storia di una campionessa olimpica, Simone Biles, che invece non è riuscita a esprimersi a Tokyo, perché vittima delle molestie del suo dottore.
«Quella notte ho pensato che sarei morta, perché non c'era alcuna possibilità che mi lasciasse andare». Sono servite parole come queste, pronunciate da McKayla Maroney con la voce rotta, o magari le lacrime di Simone Biles, per spiegare all'America l'orrore che ha tollerato quando ha chiuso gli occhi sulle molestie sessuali del dottor Larry Nassar, durate anni, contro le ragazze della nazionale di ginnastica. Campionesse straordinarie, certo, ma anche giovani incapaci di difendersi, e soprattutto tradite dal sistema che avrebbe dovuto proteggerle. La speranza ora è che tutto questo dolore serva a capire le dimensioni del fenomeno. La storia di Nassar è ormai passata in giudicato. Era il medico della nazionale di ginnastica, e ne approfittava per abusare le atlete con la scusa di curarle. L'episodio raccontato da McKayla risale a quando l'aveva accompagnata a Tokyo per una competizione: «Mi aveva dato pillole per dormire, e quando mi sono svegliata ero sola nella sua stanza». Lei era nuda, lui le era salito sopra. Sono centinaia le ragazze che lo hanno denunciato, e la sua colpevolezza è stata riconosciuta dai tribunali, che lo hanno condannato ad una pena minima di 40 anni di prigione e massima di 175, ossia all'ergastolo. Anche sul piano civile le cause dovrebbero presto finire, perché il mese scorso a Indianapolis la federazione USA Gymnastic ha accettato un accordo per compensare le vittime con 425 milioni di dollari. Quello che ancora manca, però, è capire come tutto ciò possa essere accaduto, perché nessuno è intervenuto per fermarlo, e cosa bisogna fare adesso per evitare che si ripeta. A questo scopo la Commissione Giustizia del Senato ha tenuto ieri un'audizione, dove con Maroney sono intervenute Biles, Aly Raisman e Maggie Nichols. Una montagna di medaglie olimpiche, che però non è servita a proteggerle dagli abusi. La cosa più grave, però, è che McKayla aveva denunciato tutto nel 2015, ma l'agente dell'Fbi con cui aveva parlato, Michael Langeman, l'aveva liquidata così: «Tutto qui?». Erano passati altri 17 mesi prima che facesse denuncia e qualcuno intervenisse. E Larry nel frattempo era andato tranquillamente avanti, molestando almeno altre settanta ragazze. «Sia chiaro che io - ha detto Biles faticando a trattenere le lacrime - condanno Nassar, ma anche l'intero sistema che ha consentito e perpetrato il suo abuso». Biles era la grande favorita nella ginnastica artistica alle Olimpiadi di Tokyo, puntava a vincere 8 medaglie, ma dopo i primi volteggi ha lasciato la competizione a squadra e quella individuale: «Senza la testa il corpo non risponde e ti mette in pericolo», ha detto. Il direttore dell'Fbi, Wray, ha chiesto scusa e ha detto di essere «furioso» per il comportamento del suo Bureau. Michael Langeman, il primo agente assegnato al caso nella sede di Indianapolis, è stato licenziato. Jay Abbott, altro uomo dell'Fbi implicato, che mentre indagava chiedeva un lavoro al presidente di USA Gymnastic Steve Penny, è andato in pensione nel 2018. Troppo poco, perché il mondo intorno è rimasto uguale, come ha dimostrato l'attrice Angelina Jolie incontrando i senatori per pregarli di riautorizzare la legge sulla violenza contro le donne Violence Against Women Act».
LA COLPA DI ZAKI? ESSERE CRISTIANO
Patrick Zaki tornerà in un’aula di tribunale solo fra 12 giorni. Come riferito ieri dalla Versione, ora l’accusa contro di lui riguarda un articolo in difesa dei cristiani copti. Massimo Donelli ne parla sulla prima pagina del Quotidiano Nazionale:
«Cristiano. È questa la colpa di Patrick Zaki, 29 anni, in carcere al Cairo dal 7 febbraio 2020: essere cristiano e, da cristiano, aver scritto un articolo, nel 2019, in cui prende le parti dei cristiani d'Egitto, i Copti, vittime di costante discriminazione sociale e, spesso, di attentati per cui nessuno viene mai punito. Ora sappiamo. Ora sa anche Zaki perché lo tengono in galera da 587 giorni. Non basta. Ora Zaki sa - e lo sappiamo anche noi - che il processo, quando si farà, non avrà appello. Rischia cinque anni di galera. Senza sconti. Capito? Questo è lo stato del diritto nella Repubblica araba d'Egitto. Questo è il regime del nuovo rais, il generale Abdel Fattah al-Sisi, 66 anni, presidente dall'8 giugno 2014, al potere (con un golpe) dal 3 luglio 2013. Al-Sisi è alleato degli Stati Uniti. Miglior vicino di casa possibile per Israele. Ottimo cliente (armi e quant' altro) per le democrazie europee, specie quelle che si affacciano su Mediterraneo. A cominciare - sia chiaro - dall'Italia. Non basta. Il generale-presidente sa benissimo che Washington, Bruxelles e Gerusalemme non avrebbero con chi sostituirlo. E si guardano bene dall'agire contro di lui dopo che ha fatto a tutti l'enorme piacere di togliere dalla guida del Paese il predecessore Mohamed Morsi, figura carismatica del radicalismo islamico, eletto il 30 giugno 2012, defenestrato, appunto, da al-Sisi un anno dopo e, infine, morto per infarto il 17 giugno 2019 davanti ai giudici che lo stavano processando. La riprova di questa impunità fattuale? L'uccisione di Giulio Regeni, 28 anni, scomparso il 25 gennaio 2016, torturato a morte e ritrovato cadavere il 3 febbraio lungo uno stradone alla periferia del Cairo. Oltre cinque anni dopo giustizia non è stata fatta. Né, temo, sarà mai fatta per Zaki. In quel Paese, infatti, la vita di un cristiano non ha valore. È solo una colpa da cancellare. Con il complice silenzio delle anime belle dell'Occidente, pronte a mobilitarsi per qualunque causa, ma indifferenti alle persecuzioni di quanti si riconoscono nella Croce e credono in Gesù. E che persecuzioni! Dall'1 ottobre 2019 al 30 settembre 2020 sono stati uccisi 4.761 cristiani (13 al giorno). L'anno scorso sono state attaccate 4.488 chiese, 4.277 cristiani sono stati arrestati senza processo e incarcerati e 1.710 rapiti. Lo sapevate? No, ammettetelo. Non lo sapevate. Ci voleva, evangelicamente, per scoprirlo, lo scandalo Zaki, povero figlio. E, diciamolo, poveri noi».
LA MATTANZA DEI DELFINI
Intervento di Donatella Bianchi, presidente WWF Italia, sulla Stampa. La Bianchi si occupa della strage di delfini, la tradizionale Grindadráp, alle isole Faroe, arcipelago situato nell'Oceano Atlantico e appartenente alla Danimarca. Le immagini del massacro dello scorso weekend hanno fatto il giro del mondo.
«Le immagini del mare di sangue che ha invaso lo specchio d'acqua adiacente alla spiaggia di Skálabontnur sull'isola di Eysrturoy hanno ormai fatto il giro del mondo generando un'onda di rabbia, indignazione rispetto a quella che è senza mezzi termini un crimine di natura. Una strage (la più numerosa della storia recente visto che sono stati superati i 1200 animali uccisi nel 1940) in cui è stata cancellata la vita di millecinquecento globicefali sacrificati sull'altare di una tradizione, il Grindadráp, che sembra essere diventato un colossale monumento alla crudeltà. Mattanze simili, anche di pochi esemplari, avvengono anche più volte l'anno e, denunciano i ricercatori, mettono seriamente a rischio la popolazione atlantica di globicefali per la sua ridotta capacità riproduttiva (partoriscono ogni 4-5 anni). Eppure parliamo di isole evolute, di piccole comunità che non hanno bisogno di uccidere cetacei per sopravvivere. Nella tradizione vichinga uccidere un globicefalo era il rito di passaggio dalla pubertà all'era adulta, ma anche una facile occasione di procacciarsi cibo. Perché i globicefali? Perché questi animali, tra i cetacei più gregari, sono talmente sociali da chiamarsi delfini pilota o balene pilota e perché se uno dei leader spiaggia o si trova in difficoltà il gruppo non lo abbandona mai. Ancora più barbaro, sfruttare quella solidarietà familiare per uccidere. Gli animali, prima, accerchiati dalle imbarcazioni, sono stati spinti verso la costa e uccisi con arpioni, coltelli e in alcuni casi anche trapani elettrici in un mare di sangue. Una barbarie che non ha più alcuna ragione di continuare. Il perpetuarsi di una mattanza che ogni anno chiude il cuore apre la strada a due interrogativi a cui è necessario dare una risposta. In primo luogo una tradizione, per quanto antica, può giustificare una strage di animali? E poi, il genere umano è l'unica specie della biosfera ad avere diritti? Alla prima domanda è facile rispondere. Ricordo bene la brutalità delle mattanze in tonnara, la camera della morte e i riti dei tonnaroti, perché fino a qualche anno fa, anche nel nostro Paese si uccidevano i tonni con gli arpioni, pratiche simili a quelle delle Isole Faroe, giustificate da antichi riti popolari. Dobbiamo alla mobilitazione del mondo ambientalista e alla crescente sensibilità dell'opinione pubblica, l'abolizione di tanta crudeltà. Per risponde al secondo interrogativo serve un'assunzione di responsabilità collettiva che condanni e bandisca per sempre la «caccia della vergogna». Una risposta urgente. Negli ultimi 50 anni, secondo i dati del Living Planet Report, abbiamo assistito ad un crack biologico, perdendo circa due terzi delle popolazioni di vertebrati a livello globale. Un vero e proprio tracollo che impone una rivoluzione culturale. Il genere umano non può continuare a immaginare il proprio rapporto con la natura che lo circonda e che gli permette di vivere, senza un limite. E, soprattutto, non può continuare a pensare a sé stesso come l'unico soggetto di diritti sul pianeta. La crisi di biodiversità che accompagna il progresso dell'umanità impone un cambio di paradigma nel nostro modo di stare sulla Terra. Dobbiamo cominciare a immaginare la biodiversità come un patrimonio comune. Un patrimonio che tutti abbiamo il dovere di rispettare e difendere. Un patrimonio che appartiene alla nostra esistenza e dal quale dipende il nostro benessere, la nostra salute, la nostra vita. Ecco perché pratiche come quella del «Grind» non sono semplicemente tollerabili. Il mare di sangue che ha scosso le nostre coscienze non può restare confinato nella baia dell'indignazione ma deve incanalarsi in qualcosa di più, nella richiesta di porre fine, una volta per tutte, alla crudeltà gratuita che, sotto la maschera degli usi, fa strage di animali. È necessario un intervento della comunità internazionale (ma sarebbe opportuno che anche l'Europa, terra dei diritti, in quest' occasione dicesse la sua) per riconoscere i diritti della biosfera. Dalle foreste ai cetacei, dalle specie in via di estinzione agli impollinatori è nostro dovere difendere la vita che ci circonda ed evitare che la nostra specie resti intrappolata nella gabbia della crudeltà che insieme al sangue ha violentato le acque della spiaggia di Skalabotnur».
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