La Versione di Banfi

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Pd negazionista sul Colle

alessandrobanfi.substack.com

Pd negazionista sul Colle

La linea del Pd è ancora "mantenere Mattarella al Quirinale". Intanto il governo rischia sul Bilancio. Nuove regole per il Green pass? Sulla Cop26 dubbi e speranze. Stanotte si parlano Biden e Xi

Alessandro Banfi
Nov 15, 2021
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Pd negazionista sul Colle

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Da oggi Vienna tiene in lockdown i non vaccinati. La misura drastica degli austriaci colpisce l’immaginazione dei commentatori. In effetti i dati del contagio in Europa confermano la sensazione del pericolo dall’Est. In Italia intanto si studia l’applicazione di nuove regole per accelerare sulla terza dose e si parla di un “piano di Natale” che renderebbe più agili le decisioni di creare zone rosse locali. Vedremo. Ma per il Governo il rischio vero sembra rappresentato dagli ostacoli parlamentari alla Legge di Bilancio. A parole tutti vorrebbero accordarsi, ma sui singoli argomenti ci sono grandi divergenze. Mario Draghi sa che i partiti possono logorare il lavoro dell’esecutivo e non ha nessuna intenzione di andare avanti ad oltranza. Cosa che invece sarebbe il desiderio di Silvio Berlusconi “anche oltre il 2023”.

Nella corsa al Quirinale, va ancora registrato il negazionismo Pd di fronte alle volontà, chiarissime, di Mattarella di non accettare un secondo mandato. Oggi Bindi sulla Stampa, e soprattutto Ceccanti sul Messaggero, proseguono nello schema dem, tanto ripetuto, di “mantenere Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi”. Ma i due interessati “super partes” pare proprio che non ne vogliano sapere di restare in quei ruoli. È legittimo che i partiti provino ad immaginare scenari e progetti, ma non possono dimenticarsi che l’Italia ha una fragilità economica e finanziaria, a livello internazionale, che rende possibili ben poche soluzioni.

Anche visto dopo l’accordo sul clima alla Cop26 di Glasgow, il mondo è messo male. Il compromesso ottenuto sugli obiettivi virtuosi dei 197 Paesi potrebbe non essere sufficiente e non solo perché l’India ha impedito l’archiviazione del carbone. Del resto Greta la pensa così. Giustamente Repubblica fa notare che la transizione ecologica è un grande business. Non inquinare è più costoso e richiede più energia, il mondo finanziario lo sa bene ed è in movimento. Oggi, nella notte italiana, si vedono e parlano on line i presidenti degli Usa Biden e della Cina Xi. Oltre al clima, ci sono nodi strategici importanti: primo fra tutti Taiwan. Il Corriere propone il consueto paginone di Data Room, Gabanelli e Sarcina, sui paradisi fiscali americani. Paradisi proibiti dappertutto tranne che proprio negli Usa, lo trovate fra i pdf.

Bell’articolo di Domenico Quirico sulla Stampa a proposito dell’Etiopia che rischia di essere il nuovo Ruanda. Mentre Sorbi su Repubblica racconta delle ragazze di Kabul che si vestono da maschi per poter lavorare. Il Fatto riporta la lezione di giornalismo di Papa Francesco: ascoltare, approfondire, raccontare.  

A proposito di racconto, è ancora disponibile on line il quinto episodio della serie Podcast. Il titolo è “Resistere a Scampia”. Protagonista è il 41enne Ciro Corona, prof di filosofia che si dedica ai ragazzi di strada, anche lui premiato dal Capo dello Stato. Ha creato un’associazione e una cooperativa che (r)esistono alla Camorra nella zona diventata famosa nel mondo come Gomorra, la cittadella della malavita. Ciro Corona lavora ogni giorno per costruire un futuro con i giovani del quartiere. Una storia bellissima di amore al proprio territorio e alla propria gente. E di sfida all’illegalità e al degrado.  Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate il quinto episodio:

https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-ciro-corona-v3

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Mentre l’Austria ricorre a misure drastiche, nuove misure per la pandemia catalizzano l’attenzione dei giornali. Il Corriere della Sera: Green pass, le nuove regole. Il Quotidiano Nazionale ipotizza che dopo Vienna ci siano altre strette: Lockdown per i no vax, inizia l’Austria. Per il Mattino è sicuro un irrigidimento: Green pass, la stretta di Natale. Il Messaggero prefigura: Covid, il piano per l’inverno. La Verità critica proprio che si torni a parlare di “piano”: Come ai tempi del Conte bis torna il «Piano salva Natale». Libero insiste nella sua campagna a favore del vaccino: La destra è Sì Vax. Il Giornale mette insieme i numeri dell’assenteismo in odore di No Vax: Strana epidemia al Sud. Della serie totonomi per il Quirinale, Domani pubblica una grande foto di Giuliano Amato: L’ambizione della riserva per il Colle. Il Fatto, pensa un po’, titola su Italia Viva: La Bestia renziana accollata al Pd e il dossier anti-Report. Il Sole 24 Ore sottolinea la novità di oggi nello sveltimento della burocrazia: Certificati da tutta Italia con l’anagrafe web. La Repubblica torna sul dopo Cop26: La svolta green dei mercati. La Stampa ottimista sul destino del governo: La destra a Letta: sì al patto sulla manovra. Italia Oggi pubblica la sua classifica sulla qualità della vita: Parma regina del buon vivere.

GREEN PASS, SI STUDIANO NUOVE REGOLE

Green pass e nuove regole. L'Austria chiude in casa i no vax, dispone lockdown e maxi multe. Roma valuta un certificato più rigido e zone rosse locali per Natale. Alessandro Belardetti per il Quotidiano Nazionale.

«Dalla mezzanotte scorsa in Austria è scattato il lockdown per i due milioni (su 9 milioni di abitanti) di non vaccinati contro il Covid-19. Senza siero dai 12 anni in su non si avrà il diritto di uscire di casa se non per andare a lavorare, a scuola, fare acquisti di prima necessità, sport o per ricevere cure mediche. Il tasso di immunizzazione completa nel Paese è al 65% e l'incidenza settimanale di casi ogni 100mila abitanti è di 814 (1.700 tra i no vax). Se il datore di lavoro consentirà a un dipendente di lavorare senza vaccino, certificato di guarigione entro i sei mesi o non presenterà il risultato di un tampone, la sanzione sarà di 3.600 euro. Stesso importo per chi non avrà controllato l'applicazione della 'regola delle 2G' (guarito o vaccinato) che si applica nei ristoranti, bar, pasticcerie, impianti sportivi, parrucchieri, servizi alla persona, cinema e teatri. In caso di rifiuto del controllo del 2G, del rispetto del coprifuoco o della violazione della 'regola delle 2G' come cliente, l'importo della multa è di 1.450 euro. Il lavoratore senza certificato vaccinale, tampone o attestato di guarigione sarà sanzionato con 500 euro. Questa stretta coinvolge indirettamente anche l'Italia, il cui governo discute su come affrontare questo inverno minacciato dal Covid. Come cambierà il green pass? L'emergenza sembra per il momento sotto controllo, nonostante il calo dell'efficacia dei vaccini, ma le ipotesi di stretta restano sul tavolo. La prima è quella di limitare il rilascio del certificato verde solamente ai vaccinati per 6 o 9 mesi, in questo modo non basterebbe più un tampone per riceverlo, come già accade in Austria, dove dallo scorso lunedì ai non vaccinati non è più permesso accedere a molti ambiti della vita sociale, come ristoranti, palestre, centro per la cura della persona, hotel, eventi culturali. Ma questa via estrema è ancora lontana dalla discussione e verrebbe valutata solamente se ci fosse un grave peggioramento del quadro e una scarsa adesione alla campagna per le terze dosi. Un'altra idea avanzata è quella di eliminare dal Green pass i test rapidi, ma concederlo solo a chi ha un tampone molecolare negativo. Infine, si valuta anche una Green pass misto: ovvero, obbligatorietà del vaccino per attività di tipo ludico o di intrattenimento, mentre certificato verde concesso anche col tampone negativo o guarigione (durata 3 o 6 mesi) per situazioni essenziali, come lavoro o visite in ospedale. Ci saranno chiusure speciali per Natale? Le novità normative non sono un tema caldo. Resta in campo come scelta primaria la possibilità per gli amministratori locali di circoscrivere mini zone rosse locali, per arginare la circolazione del virus nel caso scoppino dei focolai isolati all'interno dei loro territori. L'ipotesi di chiusure per Natale, ventilate da più esperti, vengono respinte dal sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, che ha ribadito: «Sarà un Natale libero, abbiamo raggiunto un'immunità di comunità senza introdurre l'obbligo vaccinale». Un altro aspetto che fa frenare il governo dal chiudere solo per i giorni festivi (come avvenne nel 2020) è la tensione sociale che attraversa il Paese: una stretta improvvisa potrebbe scatenare altra rabbia per le strade. Quali regioni rischiano la zona gialla? Ben 66 province hanno un'incidenza pari o superiore a 50 casi per 100mila abitanti: oltre al Friuli, nel Lazio e nel Veneto tutte le province superano questa soglia. In 3 province friulane si contano oltre 150 casi per 100mila abitanti: Trieste (479), Bolzano (260) e Gorizia (221). La media italiana è sotto gli 80. Così come le ospedalizzazioni in aree non critiche e le Rianimazioni nel Paese sono al 6% e al 5%, in Friuli Venezia Giulia sono all'11% per entrambi i reparti. Cosa cambia se si passa in zona gialla? Torna l'obbligo di mascherina all'aperto e il limite delle 4 persone a tavola al ristorante. Si riduce al 50% la capienza per cinema, teatri, concerti. La capienza consentita non può essere superiore al 50% (25% per eventi sportivi) e il numero massimo di spettatori non può essere superiore a 2.500 per gli spettacoli all'aperto e a 1.000 per gli spettacoli al chiuso».

SULLA MANOVRA LA MAGGIORANZA VACILLA

Nonostante l’ennesimo appello di Enrico Letta all'unità, sulla manovra  di bilancio è difficile che la maggioranza tenga. Troppe e troppo importanti le materie in cui, dal reddito di cittadinanza alle pensioni, al 110, le forze politiche si dividono. Gian Maria De Francesco per il Giornale.

«Il beau geste di Enrico Letta, che ha chiesto un patto tra i leader di maggioranza sulla manovra («un'assunzione di responsabilità» per evitare «un Vietnam parlamentare»), non cambia la natura dell'esecutivo e dei partiti che lo sostengono. Perché, nonostante la disponibilità manifestata da Forza Italia, Lega e Italia Viva, le posizioni in campo sono troppo distanti per arrivare a una sintesi che non finisca per scontentare nessuno. Ad esempio, sull'utilizzo degli 8 miliardi destinati alla riduzione della pressione fiscale è difficile immaginare una conciliazione visto che le risorse sono insufficienti per finanziare più misure producendo effetti tangibili. Forza Italia e la Lega, su questo punto, sono favorevoli a un intervento sull'aliquota Irpef del 38% e a una trasformazione dell'Irap in sovraimposta Ires (soluzione che salverebbe gli autonomi dalla tassa). La Lega, inoltre, ha presentato un emendamento al decreto fiscale per ripristinare la flat tax al 15% per gli autonomi con ricavi da 65.001 a 100mila euro prevista dalla manovra 2019 per il 2020 e poi accantonata. Pd e M5s sono fondamentalmente dall'altra parte della barricata perché vorrebbero che la riduzione si concretizzasse in un taglio del cuneo fiscale, misura che privilegia i redditi medio-bassi a differenza di flat tax e limatura dello scaglione del 38% che occhieggiano al ceto medio. Insomma, anche a volerlo trovare il punto d'incontro è tendente all'infinito come quello delle rette parallele. Bisognerebbe poi stendere un velo pietoso sulla questione delle cartelle (che attiene al decreto fiscale). La Lega, Forza Italia e, in questo caso, pure i pentastellati sono favorevoli alla predisposizione di un ventaglio di soluzioni che agevolino i contribuenti colpiti dalla crisi Covid nel pagamento dei debiti verso l'Agenzia delle Entrate. Il Carroccio ha già predisposto un «treno» di ipotesi per cercare sponde nella maggioranza: si va dalla rottamazione quater (che piace a tutti) fino alla riapertura delle definizioni agevolate precedenti per tutti sia nella versione universale che in quella destinata ai soli decaduti per salto delle rate. Il Partito democratico e Italia Viva sono, invece, favorevoli a un allungamento delle scadenze troppo concentrate (il 30 novembre è in arrivo una gragnuola di rate per i «decaduti» desiderosi di non perdere il beneficio) e a un ammorbidimento degli invii delle cartelle sospese. Un altro scoglio sarà l'atteggiamento da tenere sul reddito di cittadinanza dove potrebbe formarsi la «maggioranza alternativa» che ha già mandato il governo sotto sulla questione giustizia. Forza Italia, Lega, Italia Viva e all'opposizione Fratelli d'Italia intendono tagliare consistentemente il sussidio grillino per recuperare risorse da destinare ad altri capitoli. Finora il partito di Letta è stato l'unico garante della misura grillina (visto lo scompaginarsi delle truppe parlamentari M5s per le note beghe interne): un'ulteriore stretta potrebbe compromettere la creazione del «campo largo» ideato dall'ex premier pisano. Ultimo ma non meno importante è il Superbonus 110% la cui fruizione è stata resa disagevole dal nuovo dl Antifrodi, suscitando le ire di Cinque stelle e Lega nonché le perplessità di Forza Italia e le rimostranze di Fdi dall'esterno. Dire «assunzione di responsabilità» è facile, produrre atti concreti molto di meno».

DOPO COP26, COMPROMESSO O FALLIMENTO?

Accordo storico o no? Boris Johnson, padrone di casa, ritiene che la Cop26 sia stata utile e che dia “speranza”. Greta invece non crede alle promesse fatte dai leader. Il carbone resta per volere dell’India. Sara Gandolfi per il Corriere.

«Una speranza» da un accordo «storico». Così il premier britannico Boris Johnson ieri ha commentato l'esito della Conferenza sul clima che si è chiusa sabato. Nella conferenza stampa congiunta tenuta assieme al presidente di Cop26 Alok Sharma a Downing Street, Johnson ha sottolineato che il Patto climatico di Glasgow, così è stato ribattezzata la Dichiarazione finale, ha fissato la «road map», la tabella di marcia, per ridurre le emissioni di CO2. «Ora abbiamo gli strumenti per il target di 1,5°» dice. «A Glasgow è suonata la campana a morto per il carbone», aggiunge, anche se «la mia soddisfazione per i progressi fatti è macchiata da una delusione». È la stessa delusione cui ha dato voce, stavolta con più livore, il presidente della Cop26 Sharma: «Cina e India dovranno spiegarsi». Spiegare il perché di quel piccolo cambio di verbo - «phasing down» invece di «phasing out», riduzione al posto di eliminazione del carbone - infilato in extremis dal ministro indiano in un emendamento al Patto climatico. Nel linguaggio dell'Onu ogni parola conta e quel «down» cade come un macigno sulla testa di Sharma (anche se Johnson dice che «per me che parlo inglese non mi pare una gran differenza»). Una caduta che si aggiunge ai deboli risultati raggiunti sul tema dell'adattamento, del cosiddetto Loss and damage (perdite e danni) e sulla finanza climatica (anche su questi punti la bozza del Climate Pact è stata molto annacquata, ma ad opera dei Paesi sviluppati). Il Patto è, in effetti, come un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Invita esplicitamente i governi a tornare l'anno prossimo con piani nazionali più ambiziosi per ridurre le emissioni al 2030, afferma che tutti i Paesi parte dell'Accordo di Parigi dovranno ridurre le emissioni di CO2 del 45% in questo decennio per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia critica di 1,5°C. Ma resta irrisolta la questione cruciale di come dovrà essere diviso o condiviso l'onere di questi tagli. Esorta le nazioni ricche a raddoppiare entro il 2025 i finanziamenti per aiutare quelle più vulnerabili a proteggersi dagli effetti del cambiamento climatico e menziona esplicitamente, un fatto storico, la necessità di accelerare la riduzione dell'uso del carbone e la fine dei sussidi ai combustibili fossili. Lascia, però, la stragrande maggioranza di Paesi in via di sviluppo a corto dei fondi indispensabili per effettuare una «transizione giusta» verso fonti energetiche più pulite e per affrontare gli eventi estremi, già causa di perdite e danni. Ma si sa, questa è la diplomazia. «Noi possiamo fare pressione, possiamo blandire, possiamo incoraggiare, ma non possiamo forzare nazioni sovrane a fare ciò che non desiderano», dice Johnson. «Il peggior risultato sarebbe stato non avere alcun accordo», aveva già commentato la segretaria dell'Unfccc, l'ente Onu per il clima, Espinosa. Ovviamente, anche l'architetto dell'accordo finale, John Kerry, ha espresso ottimismo: «Non siamo mai stati così vicini ad evitare il caos climatico», ha assicurato. Ieri è tornato a parlare anche il Papa. «Il grido dei poveri, unito al grido della Terra, è risuonato nei giorni scorsi - ha detto Francesco all'Angelus -. Incoraggio quanti hanno responsabilità politiche ed economiche ad agire subito con coraggio e lungimiranza». Poco ottimista Greta Thunberg: «2,4°C se tutti i governi rispettassero gli obiettivi del 2030, 2,7°C con le politiche attuali. Questi Ndc (i piani nazionali di taglio alle emissioni, ndr) si basano su numeri errati e sottostimati. E questo è SE i leader manterranno le loro promesse, il che a giudicare dai loro trascorsi non è molto probabile», ha twittato.».

Inquinare di meno richiede più energia ed è più costoso. Anche per questo la transizione ecologica è un business. Francesco Guerrera per Repubblica.

«"Segui i soldi". Il consiglio un po' brusco di uno dei miei primi capi quando gli chiesi come fare il giornalista finanziario offre una prospettiva diversa, e più ottimista, sull'esito del Cop26. A prima vista, la dichiarazione finale del summit di Glasgow è un compromesso deludente, diluito da una futile battaglia tra Paesi sviluppati che hanno buone intenzioni ma pochi soldi e un blocco emergente che non vuole smettere d'inquinare per paura di distruggere le proprie economie. Ma se lasciamo da parte le dichiarazioni vaghe delle 197 nazioni presenti al Cop26 e guardiamo dove stanno andando i soldi di governi, investitori e aziende, vedremo emergere un'altra narrativa. Gli ultimi decenni di discussioni, interventi e progetti sul clima hanno innescato una serie di cambiamenti strutturali, progressi scientifici e innovazioni finanziarie che manterranno la pressione su questo tema nonostante il grande divario tra i paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Questa dinamica è alimentata da fiumi di investimenti provenienti da Wall Street, la City di Londra, Tokyo e persino Shanghai. Le banche d'affari, i grandi fondi d'investimento e le multinazionali hanno deciso di scendere in campo in questa battaglia non, sia ben chiaro, per altruismo ma perché hanno capito che salvare il pianeta è un bel business. L'esempio più eclatante di questo trend viene dall'aumento degli investimenti nelle energie rinnovabili. Dal summit climatico di Parigi nel 2015, più di 2.200 miliardi di dollari sono stati spesi da aziende, fondi d'investimento e governi per rendere più efficiente l'energia generata da sole, vento e batterie, secondo un'analisi di Bloomberg . Il risultato è che le energie "pulite" non sono più un lusso riservato a un gruppetto di Paesi occidentali e sono diventate un rivale serio ai combustibili fossili in gran parte del mondo. Non è un caso che, all'inizio del Cop26, paesi come l'Indonesia, il Vietnam e la Polonia abbiano promesso di eliminare (gradualmente) il carbone dalla loro rete energetica. Accanto a loro, grandi istituzioni finanziarie internazionali - tra cui l'Hsbc, la grande banca britannica, e il gigantesco fondo Fidelity International - si sono impegnate a non finanziare più progetti basati sul carbone. La stessa tendenza è visibile nel settore della mobilità. La tecnologia e le agevolazioni finanziarie hanno ridotto drasticamente il prezzo di veicoli ibridi e elettrici negli ultimi anni. In Europa, questa categoria rappresenta il 17% delle nuove auto vendute quest' anno, mentre a livello mondiale, il numero di auto "pulite" quasi raddoppierà nel 2021, raggiungendo circa 5.6 milioni di veicoli. Quando parlo con banchieri ed investitori, è quasi possibile vedere il simbolo verde del dollaro nelle loro pupille quando parlano delle redditizie prospettive di nuove industrie quali l'acciaio e l'idrogeno "verdi". Per loro, i soldi non sono un problema perché i fondi pensione, le assicurazioni e i piccoli investitori non fanno altro che dargli denaro da mettere in investimenti "puliti". Per ora, i fondi legati all'Esg (environmental, social, governance), ovvero investimenti responsabili, sono intorno ai 38.000 miliardi di dollari ma nel 2025 raggiungeranno 53.000 miliardi, quasi un terzo di tutti i patrimoni gestiti. Per trasformare questa marea di denaro in un circolo virtuoso in cui gli enormi fondi vengono distribuiti dove ce n'è più bisogno, o dove i governi sono particolarmente recalcitranti come l'India e la Cina, ci sarà bisogno di regole chiare. La pratica del "greenwashing", l'ambientalismo di facciata che in realtà non fa nulla, è un problema serio e diffuso. In questo, la Cop26 ha fatto alcuni progressi, con la creazione di un mercato per il carbone, in cui chi inquina, come le compagnie aeree, deve pagare chi si impegna a ripulire il Pianeta. Tutto ciò potrebbe non bastare ad evitare la catastrofe climatica, soprattutto se a luci spente, certi Paesi, aziende e banche continueranno a fare come gli pare. Ma è interessante notare che proprio a partire da Glasgow, la patria del profeta del libero mercato Adam Smith, il sentiero dei soldi potrebbe portare ad un futuro più pulito».

BERLUSCONI: DRAGHI AL GOVERNO A OLTRANZA

Intervento di Silvio Berlusconi, che torna a parlare ai militanti di Forza Italia di Mazara del Vallo. Vuole Draghi “anche oltre il 2023”. Secca la replica di Salvini: “Io invece voglio votare”. Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Mantenere a lungo Mario Draghi a Palazzo Chigi, giocarsi ogni possibile carta per il sogno impossibile del Quirinale: ecco cosa ha in mente in queste ore Silvio Berlusconi. «Siamo i primi sostenitori di questo esecutivo - dice il Cavaliere, telefonando durante un'iniziativa di Forza Italia a Mazara del Vallo Siamo convinti che il lavoro del governo Draghi debba andare avanti fino al 2023 e anche oltre». Non è una prospettiva facile da costruire, soprattutto per le resistenze degli alleati sovranisti. Di certo, però, ancora più complesso appare il secondo obiettivo: farsi eleggere al Quirinale. Una cosa è certa: Berlusconi vuole ancora incidere nel centrodestra e nel quadro politico generale. Tutto ruota ovviamente attorno al rebus del Colle, a sua volta strettamente legato al futuro di Mario Draghi. Ed è proprio partendo dal ruolo dell'ex banchiere centrale che il Cavaliere muove le sue pedine. Dichiara fedeltà al presidente del Consiglio in carica e ipotizza che si trattenga a Palazzo Chigi anche oltre la scadenza naturale della legislatura. «Il governo deve andare avanti per consolidare l'inizio della ripresa. Dopo il 2023 - aggiunge - saranno gli italiani a scegliere. E io credo a rinforzare al governo un centrodestra che per vincere e governare deve avere un forte profilo liberale». Parole sufficientemente vaghe da significare tutto e niente. Ma che sembrano comunque voler includere la presenza di Draghi, in qualche modo: in Italia, oppure con un incarico di responsabilità ai vertici delle istituzioni europee. È evidente che non si tratta dello scenario che hanno in mente i suoi alleati sovranisti. E che di certo scontenta la Lega. Matteo Salvini, non è un mistero, spera di sfilarsi presto. E lascia trapelare una netta contrarietà a mantenere ancora a lungo in piedi gli equilibri attuali: «Noi non vediamo l'ora di votare - è il senso dei suoi ragionamenti - e auspichiamo un governo di centrodestra scelto dai cittadini». Per non parlare di Giorgia Meloni, che per ottenere il voto anticipato è anche disposta a sostenere l'ex banchiere centrale alla Presidenza della Repubblica. Dietro all'unanimità di facciata, insomma, il centrodestra sconta divisioni profonde. Le strategie dei sovranisti mal si conciliano con i sogni di gloria di Berlusconi, che punta con decisione al Colle. «Provo empatia per lui - confida un avversario come Luigi Di Maio - perché secondo me sul Quirinale lo stanno fregando ». Eppure, il leader azzurro mostra di crederci. Per questo blinda Draghi a Palazzo Chigi. Lo fa anche per lanciare un segnale a uno dei principali "papabili" alla Presidenza della Repubblica: è meglio se resti a Palazzo Chigi. Non può fare lo stesso, invece, quando parla di Sergio Mattarella. Lo considera il candidato più forte. Non vuole e non può opporsi, anche se nel coltivare le proprie ambizioni quirinalizie inizia a viverlo come un potenziale ostacolo lungo il proprio cammino. Gli ostacoli, in realtà, sono molteplici, tanto da far sembrare la missione al limite del disperato. Anche mettendo assieme tutti i cespugli del Misto, infatti, mancano almeno 40 voti per eleggerlo a maggioranza semplice. Certo, ci sarebbero i renziani. Ma la previsione che circola nel centrodestra è fosca: si rischiano comunque 100 franchi tiratori. L'altro problema è, come detto, politico: per quanto Berlusconi si sforzi di rassicurare sulla durata della legislatura (ieri, per dire, ha approvato per primo il tavolo dei leader sulla manovra, proposto da Enrico Letta), è evidente che il solo evocare la sua ascesa al Colle avrebbe come primo effetto quello di disintegrare l'unità nazionale e avvicinare irrimediabilmente le urne, con buona pace dell'ipotesi lettiana di realizzare un secondo tempo dei leader proprio sul nodo Colle. È la tesi di Mario Draghi: difficile evitare una crisi se la maggioranza si divide nell'elezione per il Quirinale. Sono tutti ragionamenti che allontanano soluzioni diverse da quelle di un bis di Mattarella o dalla promozione di Draghi al Colle. E forse, a dispetto delle dichiarazioni di queste ore, questa prospettiva è chiara anche al Cavaliere. Il quale, da sempre, gioca su più tavoli. Chissà che non lo stia facendo anche stavolta, avendo in mente come punto di caduta una compensazione sognata a lungo in passato: la nomina a senatore a vita». 

BINDI: “IL NOSTRO PROGETTO NON È QUESTO GOVERNO”

È una delle candidate al Quirinale, nell’anno in cui molti vorrebbero una donna sul Colle. Rosy Bindi è lusingata, ma non la vede come una possibilità realistica. Carlo Bertini per La Stampa.

«È gratificata» dal fatto che qualcuno tifi per una sua salita al Colle, «devo dire che me lo sto gustando, siccome so che non accadrà, non sono neanche accompagnata dalla preoccupazione e dai polsi che tremano solo all'idea di dover ricoprire una responsabilità così alta»: Rosy Bindi, ex ministro della Sanità nel governo Prodi, ulivista della prima ora e già presidente del Pd, è convinta che «dopo le votazioni sul nuovo Presidente della Repubblica, le cose cambieranno, tutti si sentiranno più svincolati, ma in nessun caso si andrà al voto anticipato». La proposta di Enrico Letta di un patto tra i leader dei partiti sulla manovra economica non crede sia facile da realizzare «in una compagine che non si può definire una maggioranza. E senza nulla togliere all'idea di Enrico, che mira a dare una grossa mano al premier, credo che una qualche distinzione tra partiti e governo sia salutare. Vede, mentre stigmatizzo il comportamento di Salvini "di lotta e di governo", io incoraggio il Pd a non dismettere la lealtà totale nei confronti del governo e a lavorare anche ad una visione per il futuro. Noi siamo più omogenei all'esecutivo Draghi di quanto possa essere la Lega, ma non si può far coincidere il nostro progetto con questo governo». E in cosa non coincide? «Credo ci sia bisogno di una nuova proposta del centrosinistra, che risulti nettamente alternativa al centrodestra e questo non può farlo questo governo, condizionato dal percorso del Pnrr. Il Pd deve distinguersi sulle grandi sfide dell'immigrazione, della lotta alle disuguaglianze, dei beni comuni». Un bel programma di fine legislatura. Non si stupisca se la considerano una bandiera del centrosinistra da contrapporre alla candidatura di Berlusconi al Colle. Che farebbe se venisse eletto? «Non accadrà, credo che anche chi lo sta proponendo, sa che è necessario un profilo del presidente della Repubblica non sovrapponibile alla persona e alla storia di Silvio Berlusconi». Sarebbe l'ora di eleggere una donna? «Questo lo ripeto da anni fino alla noia. E trovo siano un'anomalia gli appelli in tal senso, dovrebbe essere normale prendere in considerazione questa ipotesi». La politica è più indietro del Paese? «Beh, anche il Paese lo è. Ma i partiti e il Parlamento sono ancora più arretrati». Lei che lo conosce, fa bene Mattarella a dire no al bis? «Se penso a un profilo del futuro presidente, mi auguro che continui la sua opera, con il suo stile, la sua imparzialità e il suo rispetto della Costituzione. Del resto la sua decisione, come ha detto di recente, è anche la scelta dei costituenti. Vero che il secondo mandato non è escluso, ma tutto indica che la fisiologia stia nel farne uno solo». E Draghi che dovrebbe fare? «Credo che dovrebbe fare il premier: è in quel ruolo che, dato il disegno istituzionale del nostro Paese e dell'Europa, può diventare il nuovo punto di riferimento europeo nel dopo Merkel. Ne ha bisogno l'Italia e ne ha bisogno l'Europa. Sicuramente fino alla prossima scadenza elettorale, dopo chissà. Ma c'è un altro aspetto». Quale? «Che il suo passaggio da palazzo Chigi al Colle darebbe vita ad una nuova prassi costituzionale che richiederebbe grande equilibrio. Sarebbe un passaggio inedito e non si deve rischiare di approdare a un semipresidenzialismo di fatto: quando sento dire da Giorgetti che Draghi guiderebbe il convoglio anche da lì, penso che ciò non debba accadere. La Costituzione formale non deve essere alterata dalla Costituzione materiale. Posso raccontare una cosa personale?» Prego. «Sono stata d'accordo con Berlusconi una volta sola, quando ha fatto saltare la riforma costituzionale che prevedeva il semipresidenzialismo alla francese. Credo vi sia più sapienza democratica nel nostro disegno costituzionale che in quello francese. Detto questo però, capirei un Parlamento che per non lacerarsi sull'elezione del presidente, finisse per trovare un accordo su Draghi, che sarebbe una soluzione alta».

IL PD CECCANTI VUOLE COMUNQUE MATTARELLA AL COLLE

A caldo, dopo che il Presidente aveva escluso il secondo mandato, aveva commentato: “Siamo nei guai”. Oggi il costituzionalista pd Stefano Ceccanti torna a dire che non si arrende: la soluzione è “mantenere Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi”. Intervista sul Messaggero di Generoso Picone.

«C'è un punto fisso che Stefano Ceccanti pone nel ragionare della questione del prossimo presidente della Repubblica. «È necessario garantire un governo stabile al Paese fino al 2023. Tutto ciò che verrà dovrà tenere assolutamente conto di questa priorità. Non si può sfuggire», dice il costituzionalista allievo di Augusto Antonio Barbera, dal 2003 professore ordinario di Diritto pubblico comparato presso la Facoltà di Scienze politiche all'Università La Sapienza di Roma e oggi deputato del Pd. Ma il no ribadito da Sergio Mattarella per una sua conferma al Quirinale rende il campo aperto. «Guardi, il presidente Mattarella ha ripetuto il suo parere sulla non opportunità di una rielezione. Che è legittimo, confortato da altre espressioni in merito come quelle manifestate a loro tempo da Antonio Segni e Giovanni Leone. Però è bene chiarire che una conferma dell'uscente non è in alcun modo impedita dalla Costituzione e quindi rappresenta una strada percorribile». (…) Quali sono le possibilità? «La prima: se Mario Draghi dovesse essere individuato come il candidato di questa maggioranza di unità nazionale per la poltrona del Quirinale, si dovrebbe scegliere un nuovo presidente del Consiglio sul cui nome si possano registrare uguali consensi. La seconda: mantenere al loro posto sia Mattarella che Draghi. La terza: trovare un'altra personalità che subentri all'attuale capo dello Stato e che abbia le stesse caratteristiche di garanzia costituzionale». Lei per quale delle tre ipotesi propende, alla luce delle posizioni assunte da Mattarella e da Draghi? «La prima ipotesi ha questo elemento di debolezza: i parlamentari non voterebbero al buio per Draghi se non fosse chiaro che cosa succede al governo dopo lo spostamento del premier da Palazzo Chigi al Quirinale. Al di là dello scenario che prevede il ritorno alle urne, bisognerebbe già sapere adesso che cosa accadrebbe dopo, altrimenti si precipiterebbe in una crisi istituzionale. Se Draghi o chi per lui sono in grado di spiegarci chi lo sostituisce al governo, questa possibilità diventa reale. Altrimenti non c'è. La terza ipotesi consegna un interrogativo senza risposta: in questa fase il Parlamento può indicare un altro nome per il Capo dello Stato? Secondo me no». Ha saltato la seconda ipotesi. «Perché ritengo che la conferma di Sergio Mattarella e, in conseguenza, di Mario Draghi rimanga l'unica soluzione praticabile».

DI MAIO CONCORDA: NON PARLIAMO DEL COLLE

Luigi Di Maio si dice preoccupato del “totonomi”. Anche lui, come Enrico Letta non vuole parlare dei candidati alla successione di Mattarella. Emanuele Buzzi per il Corriere.

«Difendere il Movimento e tutelare il premier dalle indiscrezioni che lo vogliono al Colle: Luigi Di Maio ha ben chiari i suoi obiettivi in questo lungo autunno di transizione politica. Il ministro degli Esteri sa che compromettere con i rumors sul Colle l'operato di Mario Draghi potrebbe avere conseguenze che potrebbero anche sfuggire di mano. «Stiamo qui a parlare di totonomi mentre abbiamo una legge di bilancio da portare a casa, una campagna dì vaccinazione da concludere e le riforme del Pnrr da attuare», spiega ai suoi il ministro degli Esteri. Per i prossimi due mesi Di Maio vorrebbe che tutte le attenzioni fossero finalizzate a salvaguardare la salute dei cittadini e l'economia del Paese in vista delle feste: anticipare i tempi sarebbe un azzardo. «La realtà non è il totonomi, ma lo stato di salute del nostro Paese - mette in chiaro -. Dobbiamo fare ancora molta attenzione, per evitare una nuova ricaduta sotto Natale. Dopo, a gennaio, ne riparleremo di Colle». Secondo il ministro, che ieri è intervenuto al congresso nazionale di Confimprese Italia e che oggi sarà in missione a Bruxelles, il rischio di una esposizione prolungata per i candidati - Draghi compreso - è lampante: «Sul Colle chi fa nomi adesso, li fa solo per bruciare i candidati». «Questo è un gioco al massacro - assicura Di Maio -, una caratteristica tutta italiana, cosi facciamo del male al Paese bruciando i migliori». E prova a lanciare una sorta di appello agli altri interlocutori: «Meglio stare in silenzio e riflettere molto di più. A gennaio avremo tutti le idee più chiare». L'ex leader del Movimento è convinto, tra l'altro, che il fronte degli avversari politici abbia le sue difficoltà interne. «Il centrodestra è tutt' altro che compatto - assicura -. Meloni, Salvini e Berlusconi non fanno altro che litigare tra di loro. Non oso immaginare cosa succederà con l'arrivo di Renzi. Un quartetto con quattro idee diverse su ogni cosa». Un discorso che secondo Di Maio coinvolge anche l'elezione del futuro capo dello Stato. «In verità tutti e quattro hanno in testa di portare quattro nomi differenti tra di loro. Il loro bluff è già smascherato», è convinto il responsabile della Farnesina. Di Maio sa che il Movimento sta attraversando un passaggio complesso, che la rifondazione contiana si sta avviando ma che richiede pazienza. Il ministro, però, è convinto che i 5 Stelle non perderanno il loro appeal, perché - a suo dire - «oggi il Movimento è il vero interprete delle esigenze degli italiani». Nel suo ragionamento il presidente del Comitato di garanzia - che ieri ha parlato di «ammirazione» per Giuseppe Conte - è sicuro che la forza dei pentastellati sia nell'agenda, nelle battaglie che il M5S porta avanti. I 5 Stelle continuano, a suo avviso, ad avere un'impronta che guarda al presente. «Una forza politica ecologista quando il mondo si interroga sui cambiamento climatici», puntualizza. Il Movimento è in prima linea «sulla tutela dei diritti dei cittadini e dei lavoratori: stiamo portando avanti una battaglia per il salario minimo europeo e abbiamo insistito per rifinanziare il reddito di cittadinanza». E da ministro ricorda anche gli interventi per le imprese «con un patto per export per fa conoscere e tutelare il valore del Made in Italy e per aumentare al tempo stesso il lavoro in Italia». Di Maio allontana le voci di crisi, gli spettri delle difficoltà che aleggiano sui Cinque Stelle e che rimbalzano dalle indiscrezioni di palazzo. «La differenza tra il M5S e gli altri è solo una - ricorda il ministro ai suoi fedelissimi -: gli altri trascorrono giornate attaccandoci, noi facendo provvedimenti per gli italiani. Noi siamo concreti, gli altri venditori di promesse». Tuttavia, nonostante le rassicurazioni, il Movimento vive sempre una fase di grande fibrillazione. All'interno del partito stanno montando malumori per la questione delle nomine interne di Giuseppe Conte. Il presidente dei Cinque Stelle dovrebbe annunciare a breve - c'è chi ipotizza anche nelle prossime ore - i componenti dei vari comitati tematici del Movimento: solo allora sarà possibile avere una mappa degli equilibri interni della nuova fase contiana. Si tratta di un passo che i parlamentari aspettano con ansia proprio per sondare l'orizzonte del M5S e dell'ex premier. E mentre il Movimento attende e si interroga, Alessandro Di Battista si prepara a sfidarlo in piazza. L'ex deputato guarda al Sud e misura il suo gradimento a partire dai piccoli centri. Dopo la prima tappa a Siena del suo tour «Su la testa», tutta nel chiuso di una sala, ora torna a calcare un palco all'aperto. Di Battista sarà a Scafati, in provincia di Salerno, sabato prossimo e il 27 a Taviano, nel leccese. Con lui altri ex 5 Stelle pronti a lanciare il guanto di sfida».

BIDEN E XI SI PARLANO STANOTTE

Che cosa c’è in agenda nel colloquio on line fra il presidente Usa Biden e quello cinese Xi, previsto per stanotte ora italiana? L’analisi di Michelangelo Cocco per il Domani.

«Dopo i due precedenti colloqui telefonici tra Xi Jinping e Joe Biden, a febbraio e settembre, quello che si svolgerà oggi, quando in Italia sarà notte fonda, attraverso i canali super-criptati che collegano Zhongnanhai (la residenza dei leader comunisti) alla Casa Bianca, sarà il primo incontro a quattr' occhi, anche se solo online, tra il presidente cinese e quello statunitense. Xi e Biden ci metteranno la faccia per centrare un obiettivo minimo eppure fondamentale per entrambi: ristabilire un clima favorevole alla ripresa di un dialogo pieno tra Pechino e Washington, dopo mesi di accuse reciproche, embarghi e contro sanzioni. Nelle prossime settimane infatti dovranno immergersi nelle rispettive agende di politica interna (in vista del XX Congresso del Partito comunista e delle elezioni di medio termine), per cui hanno ambedue interesse a smussare i disaccordi che più pericolosamente si sono acuiti tra i due Paesi. Nel corso della videochiamata saranno affrontate questioni spinose: da Taiwan, ai diritti umani, al commercio bilaterale fino alla lotta ai cambiamenti climatici. Durante l'interregno isolazionista di Donald Trump le incomprensioni tra la Cina e gli Usa sono state parossistiche, al punto che (come rivelato dal capo di stato maggiore Usa, Mark Milley), mentre gli hooligan di The Donald assaltavano Capitol Hill, nel gennaio scorso a Pechino avevano temuto, e si stavano preparando ad esso, un attacco militare statunitense. Dal meeting virtuale di oggi Xi Jinping e compagni si aspettano di capire quale sia dopo l'arrivo di Biden la strategia dell'avversario, se davvero corrisponda alla riedizione del containment della Guerra fredda, contro un avversario che poco ha in comune con l'Unione sovietica. L'alleanza militare trilaterale Aukus con l'Australia e il Regno unito per contrastare l'assertività di Pechino nel Pacifico occidentale, la nuova sezione della Cia dedicata alla Cina e altri recenti segnali sembrerebbero confermarlo. D'altro canto il cosiddetto "nuovo modello di relazioni tra grandi Paesi" (xnxíng dàguó gunxì), riassunto nello slogan «nessuno scontro, nessun conflitto, rispetto reciproco e cooperazione win-win», proposto da Xi Jinping stenta a fare breccia nei governi occidentali. Al punto che, mentre Pechino si prepara a ospitare le Olimpiadi invernali (4-20 febbraio 2022), montano gli appelli al boicottaggio diplomatico dei giochi, per la repressione della popolazione islamica del Xinjiang e del movimento pro-democrazia di Hong Kong: anche i rappresentanti ufficiali dei paesi del G7, dopo simili inviti da parte del Parlamento europeo e di deputati statunitensi e britannici, vorrebbero tenersi alla larga dalla manifestazione, che il soft power cinese utilizzerà come l'ennesima operazione simpatia (Pechino diventerà la prima città al mondo ad aver ospitato sia i Giochi estivi che quelli invernali). Xi chiederà a Biden rassicurazioni anche su questo punto. Verso una de-escalation? L'incontro è stato preceduto da una telefonata, l'altro ieri, tra i capi delle rispettive diplomazie, Wang Yi e Antony Blinken, che ne ha fissato il canovaccio: si partirà da Taiwan. Secondo Wang «la "indipendenza di Taiwan" è la più grande minaccia alla pace e alla stabilità nello Stretto». La presidente Tsai Ing-wen e il suo Partito democratico progressista (Dpp) sperano di poter continuare a contare sull'appoggio statunitense nell'internazionalizzazione della questione taiwanese. Ma Pechino è innervosita dalle visite sempre più frequenti (l'ultima la settimana scorsa, accompagnata da un'esercitazione militare cinese nello Stretto) di delegazioni di parlamentari statunitensi a Taipei, e dall'aumento dei passaggi di navi da guerra occidentali nei 180 chilometri di mare che la dividono da quella che considera una sua provincia da "riunificare" alla madrepatria. La Cina pretende un ritorno allo status quo ante, a quando Washington - pur riservandosi il diritto a contribuire con i suoi armamenti alla difesa dell'isola - si sentiva vincolata al cosiddetto "Consenso del 1992", sottoscritto da rappresentanti di Pechino e Taipei. Biden dovrebbe ribadire formalmente l'impegno degli Stati Uniti al rispetto del principio "una sola Cina", che per il Kuomintang allora al potere significava che la Repubblica popolare cinese (Prc) e la Repubblica di Cina (Roc) convengono che esiste una sola Cina, che però gli uni identificano nella Prc e gli altri nella Roc; mentre per Pechino vuol dire che c'è un'unica Cina (Taiwan inclusa), di cui la Repubblica popolare cinese è l'unica rappresentante. Blinken però «ha esortato Pechino a impegnarsi in un dialogo significativo per risolvere le questioni dello Stretto in modo pacifico e coerente con i desideri e i migliori interessi del popolo di Taiwan». A causa delle rigidità cinesi e della spinta indipendentista di Tsai al momento è estremamente complicato trovare un nuovo equilibrio. Xi e Biden dovranno accontentarsi di un compromesso che favorisca almeno una de-escalation».

LIBIA, IL RITORNO DI GHEDDAFI

Il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, riappare in Libia e firma la sua candidatura alle prossime elezioni. I Fratelli musulmani lo vorrebbero morto ma c'è una parte del Paese che è nostalgica. Giordano Stabile e Francesco Semprini per La Stampa.

«Saif al-Islam Gheddafi è tornato negli stessi abiti della sua ultima apparizione, quando era stato catturato, alla fine del 2011, dai ribelli di Zintan al confine con il Niger. Abito e turbante tradizionali, color marrone, una lunga barba e occhiali da vista. Ed è riapparso in quello stesso Sud della Libia, nel capoluogo del Fezzan Sebha, dove si sente più sicuro e fuori dallo scontro fra Tripolitania e Cirenaica. Ha firmato i documenti nel centro di registrazione per le candidature alla presidenza, con l'aria guardinga ma circondato da funzionari premurosi. Il suo ritorno in scena è stato preparato a lungo. Dopo la cattura ha subito un lungo processo, e per anni un totale blackout di dichiarazioni e immagini, a parte quelle di lui dietro le sbarre nel carcere di Zintan. Processato per le uccisioni di civili durante la rivolta del 2011, mentre il Tribunale internazionale dell'Aja aveva spiccato un mandato di cattura per crimini contro l'umanità. Nessuna fazione libica ha però mai avuto l'intenzione di consegnarlo. Dopo la condanna e cinque anni dietro le sbarre, è stato liberato nel 2017 e da allora ha tenuto un profilo bassissimo tanto che le voci di una sua morte presunta sono diventate sempre più forti. Fino all'intervista al «New York Times» del luglio scorso, al telefono, ma con la "prova in vita". Di lì è partita la sua corsa alla presidenza. Sa di avere un percorso difficile ma ha le sue chance. Se il campo rivoluzionario, soprattutto i Fratelli musulmani che dominano Tripoli, lo vorrebbe morto, c'è una parte di Libia «nostalgica». Il suo ruolo nella repressione del 2011, quando il padre Muammar chiamava i manifestanti «topi» da eliminare, è stato secondario. I veri macellai erano i fratelli più piccoli Moatassim e Khamis, a capo di unità dell'esercito senza scrupoli, e poi morti ammazzati. Lui, erede designato, ha sempre avuto più un ruolo diplomatico, soprattutto durante il riavvicinamento all'Occidente nei primi anni Duemila. Buoni studi all'estero, frequentazioni a Londra e persino un canale privilegiato con Israele. Il padre aveva scelto lui per parlare con il nemico, in vista di una «normalizzazione». Poi il bagno di sangue del 2011 ha spazzato via tutto ma adesso potrebbe tornargli utile. Secondo gli osservatori la discesa in campo del rampollo è da prendere sul serio se non altro perché va a complicare un cammino, quello verso le urne, già minato da tante criticità. Il suo ingresso è figlio di una legge elettorale, quella fortemente voluta dal presidente del Parlamento di Tobruk Aguila Saleh, che appare iniqua e lacunosa. «Una legge elettorale chiara non glielo avrebbe permesso», spiega una fonte vicina al dossier secondo cui il quadro generale assai lacunoso. Primo perché ribalta la simultaneità del voto presidenziale e di quello parlamentare prevista dalla risoluzione Onu 2570 attuativa dell'intesa di Berlino, esponendo il processo elettorale a un deragliamento in corsa. «Sembra tagliata su misura per Haftar o per far saltare il banco e permettere in caso di necessità al Parlamento di Tobruk di sopravvivere». Il quadro normativo crea inoltre confusione, ad esempio, non escludendo Saif; la legge dice infatti che per non essere ammesso deve sussistere una condanna in via definitiva, mentre per la gran parte dei giuristi quella di Saif non lo è. Per capire il peso della candidatura del figlio del Colonnello occorre dire che i gheddafiani hanno una forte intesa con Dbeibah, i duri e puri sono con l'erede del Rais, mentre la gran parte considera Khalifa Haftar un traditore. La discesa in campo pertanto non aiuta di certo il generale e, dal momento che Dbeibah è al momento escluso dalla corsa in base all'articolo 12 della legge elettorale, il giovane Gheddafi avrebbe chance di vittoria. Sul suo capo tuttavia, oltre al problema giuridico interno, rimarrebbe il problema della Corte penale internazionale, replicando così il caso Bashir in Sudan. Un altro aspetto che mostra la fragilità dei presupposti del voto del 24 dicembre espresso anche nella posizione italiana a Parigi secondo cui il voto è necessario, ma affinché sia utile e condiviso deve svolgersi in condizioni accettabili intervenendo subito sulla legge elettorale. Su questo c'è differenza rispetto a Francia ed Egitto sostenitrici del voto a prescindere, forse spinte dalla convinzione di poter incassare il risultato che è stato mancato con la guerra».

L’ETIOPIA COME IL RUANDA?

Quel che succede in Etiopia va oltre le divisioni tribali: è una lotta per il potere dettata dall'odio etnico. Domenico Quirico.

«Imbracciate tutti le armi unitevi al nostro eroico esercito vendichiamoci schiacciamo i codardi, i maligni, i traditori»: è un furore accecato quello che l'impossibile premio Nobel per la pace e primo ministro etiopico Abiy Ahmed scaglia contro i suoi nemici, i tigrini e i loro alleati galla che avanzano verso Addis Abeba sulla antica «strada imperiale»; la stessa pista delle «quadrate legioni» di Badoglio, precedute dai gas, nel 1935, e dei ribelli del nord nel 1991. Spalancano, quelle parole, un desiderio profondo di distruggere, un abisso a fior di terra: eppure è come le avessi già udite, un eco tremendo che toglie il respiro. Lo percepisco non come parola o come idea, ma come orribile presenza. Ecco, sì. Era il 1994 in Ruanda, i capi degli hutu spronavano così a regolare i conti con i tutsi le cui truppe avanzavano inesorabili verso Kigali: ammazzateli, punite gli scarafaggi prima che vi uccidano. Schiacciare: verbo che si riserva agli insetti, ai rettili appunto. Che non ha in sé rimorso o giudizio morale. Amnesty, intanto, segnala stupri collettivi e misfatti «collaterali» anche dall'altra parte, ai danni dei detestati amhara. Anche tra i ribelli risuonano dunque efficacemente le stesse parole di odio, quelle che scavano nell'intimo dove tutto scompare. Quelle della Medea di Seneca: odio, conducimi, io ti seguirò! Stiamo in guardia. La guerra civile in Etiopia non è più un problema geopolitico. L'ennesimo di questa epoca disordinata. Così finora lo abbiamo osservato, distrattamente, noi dall'Occidente: chiedendoci se convenga che resti al potere Abiy Ahmed o sia meglio puntare sulla coalizione dei ribelli che ormai raggruppa tutte le rabbie etniche del paese. In fondo in Occidente nutriamo poco rispetto per le guerre degli altri: le nostre sono decisive, giustificate, le altre primitive, incomprensibili, ingiuste. Lo scenario lì è cambiato: potremmo esser di fronte all'irrompere del Male assoluto, l'odio etnico accuratamente imbastito e accresciuto dalle trame politiche delle parti in conflitto che avanza con la calma implacabile di un bulldozer. Per l'ennesima volta vogliamo esser ciechi, fingendo di non vedere come una mattanza di grandi dimensioni venga sempre pianificata al dettaglio? Ci si stupisce della furia di Abiy Ahmed: ma come, sembra in preda al demone della guerra! Marte non c'entra. L'invito a uccidere, il feuilleton familiare di violenza completa serve a rinsaldare la propria comunità, coinvolgere la gente nel massacro, indurla a coprirsi di sangue senza rimorso è il mezzo più perverso e rapido per legarla a sé, al destino di capo. Con lo spettro di una minaccia assoluta che richiede una distruzione assoluta. Anche qui come in Ruanda non si può ascrivere tutto a una irrazionale esplosione di odio tribale; non è vero che gli africani siano afflitti da una tabe che li rende ciclicamente vittime e autori di odi atavici, insopprimibili, atroci perché primitivi. Ne dovremmo riconoscere purtroppo i segni ben noti: compaiono quando l'Altro, il tigrino o l'amhara o il galla, diventa scarafaggio e per raccontare devi risalire, barcollando, le linee del sangue, l'odore della morte, della paura e dell'odio. Non stanno già diventando allucinazioni e non più esseri storici e concreti? Non ci resta molto tempo: prima che l'Etiopia, dove la guerra dura da un anno, evolva ancor più in un altro scenario di cadaveri, di orfani, di terribili assenze. Non è il momento di osservare come va a finire. Occorre andare oltre l'allarme, la preoccupazione, l'invito alla ragione, tutto ciarpame retorico inutile perché qualcuno ha già scavalcato quella linea e si muove su altri ben più terribili terreni. Gli Stati non hanno mai agito sulla base di motivazioni umanitarie disinteressate, è vero; ma per un breve periodo si era diffusa l'idea che la protezione umanitaria fosse nell'interesse di tutti. Il Ruanda, la Siria, il Darfur e gli altri luoghi di questa geografia dell'impotenza volontaria dove la consegna strategica è stata «astieniti», non hanno dimostrato a sufficienza che denunciare il male non è affatto la stessa cosa che fare il bene? E che non agire, per quanto ci sia il rischio di dover pagare un prezzo in termini di vantaggi economici e anche di nostre vite umane, comporti alla fine sempre un costo maggiore? La guerra etiopica, come tutti i conflitti civili, per coloro che la manovrano è una anarchica zuffa per il potere tanto che i tentativi di avviare un dialogo avviati giovedì sono tanto fumosi quanto ad ora inconcludenti. I tigrini rivogliono il potere, quello che hanno tenuto in pugno dopo aver abbattuto il negus rosso, Menghistu e da Abiy Ahmed li ha emarginati. Il primo ministro vuole conservarlo convinto, con arroganza messianica, di esser l'unico che può guidare il popolo etiopico oltre il Mar Rosso del sottosviluppo. Il potere corrompe, il potere assoluto davvero corrompe in modo assoluto. È stato Abiy Ahmed che per primo ha parlato di guerra totale contro i traditori del nord; che ha fatto bombardare le città; che ha chiamato in aiuto gli eritrei per saldare i conti con i tigrini, eritrei responsabili, secondo denunce ovviamente da controllare quando sarà possibile sui luoghi, di massacri e stupri; che ha scelto la fame come arma a basso costo per piegare i ribelli. Che arresta salesiani e funzionari dell'Onu additandoli alla rabbia delle masse come «spioni». Non sarebbe altro che un atto simbolico. Ma non è arrivato il momento di revocare un premio Nobel per la pace così mal scelto, attribuito a un visionario diventato becchino? Per ribadire che l'occidente ahimè! spesso sbaglia nell'indicare i buoni, ma almeno non ha paura di riconoscere i propri errori?».

“BIDEN FU ELETTO PER COLPA DELL’ITALIA”

Un libro racconta l’inchiesta del Pentagono nata da una teoria complottista che coinvolge la Leonardo, il governo Conte e due hacker arrestati a Napoli. Satelliti italiani usati per truccare le elezioni.

«Il Pentagono, per ordine diretto della Casa Bianca di Trump, aveva indagato sull'Italia, sospettata di aver truccato le presidenziali americane dell'anno scorso a favore di Biden. Sembra la trama di un film della serie "Mission Impossible", ma invece è una storia vera, documentata nei dettagli dal libro "Betrayal" che il giornalista della Abc News Jonathan Karl pubblicherà domani. Resta solo da capire quanto sia andata a fondo l'inchiesta e cosa ne sapesse il governo di Roma, allora guidato da Giuseppe Conte, che in precedenza aveva dato al segretario alla Giustizia Barr un accesso inusuale ai vertici dei nostri servizi di intelligence, per investigare le origini del "Russiagate". «Questa storia - racconta Karl a Repubblica - è insieme pazzesca, affascinante e assurda». Tutto comincia la notte delle elezioni, quando Trump e i suoi alleati si rendono conto di aver perso contro Biden, e cercano qualunque pista che apra uno spiraglio per rovesciare il risultato. Una porta in Italia, dove i satelliti della compagnia Leonardo sarebbero stati usati per truccare i voti, durante il trasferimento per la conta. «È incredibile il solo fatto che una simile teoria sia stata presa seriamente in considerazione, anche per un istante. Eppure è arrivata all'attenzione del presidente degli Stati Uniti, che ha deciso di perseguirla». L'Italygate - scrive Karl in Betrayal - prende forma a metà dicembre dell'anno scorso: «Kash Patel, capo dello staff del segretario alla Difesa ad interim, tenta di utilizzare le risorse del Dipartimento alla Difesa per dare seguito ad un rapporto stravagante, secondo cui i satelliti militari italiani erano stati utilizzati per manipolare il voto negli Stati Uniti. Patel apparentemente credeva che due persone arrestate a Napoli avessero informazioni su questo piano ignobile. I due uomini erano stati recentemente accusati di hacking nei sistemi informatici di una compagnia di forniture militari con sede in Italia, ma Patel aveva sentito che uno di loro aveva confessato alle autorità locali che in realtà l'operazione era uno sforzo elaborato per utilizzare i satelliti allo scopo di truccare le presidenziali a favore di Biden. Era pazzesco, ma la teoria si era diffusa ai margini del web e negli account dei social media legati a QAnon. Aveva anche un nome: #ItalyGate». Le due persone a cui si riferisce "Betrayal" erano Arturo D'Elia e Antonio Rossi, arrestati dalla procura di Napoli con l'accusa di avere trafugato 10 gigabyte di dati e informazioni dal gruppo Leonardo: «Alla fine di dicembre - prosegue Karl nel libro - Patel chiede a Ezra Cohen di inviare l'addetto militare dell'ambasciata Usa in Italia a parlare con i due uomini in prigione. Come sottosegretario alla Difesa per l'intelligence, aveva la responsabilità di supervisionare i funzionari nelle ambasciate. Cohen risponde a Patel che è una pazzia e rifiuta di farlo». La storia però non finisce qui, perché gli alleati di Trump non si rassegnano. Anzi: «La stravagante cospirazione non sparisce. Infatti presto cattura l'attenzione della Casa Bianca. Il capo di gabinetto Mark Meadows telefona al segretario alla Difesa Chris Miller per discuterne. Poi, sabato 2 gennaio, Miller e Patel chiamano insieme il direttore dell'Agenzia per l'intelligence della difesa, generale Scott Berrier, e ripetono la stessa richiesta che Patel aveva fatto a Cohen. Vogliono che la DIA invii l'addetto militare di Via Veneto a vedere i due detenuti italiani, per scoprire cosa avevano da dire. Berrier accetta di indagare, e pochi giorni dopo riferisce a Miller che quella strana storia era del tutto falsa. Non è chiaro se l'addetto militare sia stato effettivamente inviato a parlare con gli uomini in prigione». Karl spiega a Repubblica che «una fonte mi ha confermato l'interrogatorio. Secondo questa persona, l'addetto militare americano era davvero andato a sentire i due detenuti. Non ho trovato una seconda conferma e quindi non posso darlo per certo». Se così fosse, bisognerebbe capire quale autorità italiana aveva consentito la visita in prigione, e perché. «Era una pazza teoria cospirativa di QAnon, frangia della frangia dell'estremismo politico. Eppure - si legge nel libro - aveva catturato l'attenzione del capo di gabinetto della Casa Bianca e della massima leadership del Pentagono, compresa la telefonata urgente di sabato col capo della Defense Intelligence Agency. E la cosa era andata oltre il Pentagono. Il 30 dicembre, Meadows aveva inviato una mail all'Attorney General Rosen, chiedendo di indagare su #ItalyGate. Le email di Meadows, rese pubbliche nel giugno 2021 dal Comitato di Vigilanza della Camera, includevano una lettera datata 27 dicembre 2020, presumibilmente scritta da un uomo di nome Carlo Goria, membro di una società identificata come USAerospace Partners. La lettera, indirizzata a "Illustre signor Presidente", spiegava la cospirazione e aggiungeva dettagli stravaganti, che collegavano la trama a Leonardo. La compagnia - si legge nella nota - "cambiò il risultato delle elezioni statunitensi dal presidente Trump a Joe Biden", e lo aveva fatto "usando capacità di crittografia militare avanzate"». Karl ha cercato di scovare l'origine del complotto, e l'ha trovata in Michelle Ballarin, fantomatica ereditiera della Virginia non nuova a simili avventure. In origine era stata lei a contattare Josh Steinman, direttore della cybersecurity al National Security Council della Casa Bianca, affinché la incontrasse nel parcheggio di un negozio di alimentari per ricevere informazioni sul complotto. Steinman non le aveva dato retta, ma lei era riuscita comunque ad infiltrare a Mar a Lago la sua collaboratrice Maria Strollo Zack, che la sera di Natale aveva informato personalmente Trump: «Gli dissi che avevo il miglior regalo di sempre. Sapevo chi aveva rubato le elezioni». Sembrerà pure una pazzia, ma il 6 gennaio tra i manifestanti che poi avrebbero assaltato il Congresso ce n'erano alcuni con la scritta "Italy Did It". La nostra ambasciata a Washington si era preoccupata, al punto di rafforzare le misure di sicurezza. «Io - dice Karl - ho sentito che l'ambasciatore americano Eisenberg è rientrato in anticipo dall'Italia, per un problema di protezione personale legato a questa vicenda». La spiegazione sarebbe che i trumpisti non lo ritenevano abbastanza leale, e ciò lo metteva in pericolo. Ora resta solo da capire quanto sapesse il governo italiano, e fino a che punto si è spinto per assecondare questa follia».

LE BIMBE DI KABUL SI VESTONO DA MASCHIO

Le bimbe di Kabul vestite da maschi per lavorare. Per sfuggire ai divieti dei talebani e portare a casa uno stipendio, torna la tradizione di travestire le bambine da ragazzo. Mattia Sorbi per Repubblica.

«Non lontano dal quartiere centrale di Shahr-e Naw, Fawad spinge come ogni giorno il carrello di bibite e gelati. Lo aiuta Manan, una piccola bambina, vispa e delicata, sui dieci anni vestita come un ragazzino. In Afghanistan le famiglie che non hanno figli maschi hanno una soluzione: crescere un “bacha posh”, in lingua dari "travestito", per ingannare i talebani che non consentono alle bambine di studiare e alle donne di lavorare. Alcune coppie decidono, alla nascita della terza o quarta figlia, che quest' ultima venga educata come un maschio per aiutare la famiglia. Nella maggioranza delle famiglie afghane solo i maschi trovano lavoro e se la famiglia è povera non avere maschi rappresenta una vera maledizione. Manan, la piccola gelataia, porta i capelli come un maschio, è stata abituata fin da piccola a indossare i pantaloni e a casa gioca con le sorelle. È la speranza di suo padre e sua madre che potranno contare su un altro salario finché Manan, per tutti Arman, non deciderà di tornare donna. Ogni mattina Manan si veste da bambina per andare a scuola, ma viene presa in giro per via del suo aspetto maschile. «Non m' importa - dice sorridendo - appena suona la campanella non vedo l'ora di tornare a casa a cambiarmi i vestiti e raggiungere papà al lavoro. Ora vendiamo anche le mascherine» aggiunge, mentre la sorellina più piccola gesticola mimando i bisticci in classe. «Non ho paura dei talebani», interviene Yasmin, la madre della piccola. «So molto bene che da quando le cose sono cambiate al governo, non siamo più tollerati. Ma cosa dovremmo fare? Se verranno i talebani dirò loro che abbiamo bisogno di mangiare ed educare nostra figlia così. È l'unico modo per garantirci una pensione in futuro». «Quando Manan crescerà potrà liberamente sposarsi », aggiunge. In Afghanistan le figlie sono considerate un peso, mentre i figli una benedizione. Un figlio maschio porterà avanti l'eredità della famiglia e rimarrà a casa per prendersi cura dei genitori anziani. Questa tradizione permette alla famiglia d'evitare lo stigma sociale di non avere figli maschi. Le ragazze bacha posh vanno sole a fare compere, portano le sorelle a scuola, trovano lavoro, praticano sport e svolgono qualsiasi altro ruolo riservato agli uomini nella società. Le origini di questa pratica sono sconosciute, ma negli ultimi decenni è in aumento. Specialmente oggi, con i talebani di nuovo al potere. «I ragazzi hanno uno status più elevato. Tutti vogliono un maschio», racconta Fawad, rientrato dal lavoro. «In particolare nelle famiglie a basso reddito come la nostra, siamo poveri - aggiunge - se hai molte figlie e nessun ragazzo avere un bacha posh è normale». È una tradizione fondata sulla disuguaglianza, eppure nella cultura retriva dei talebani è uno dei pochi modi in cui alcune ragazze possono respirare un po' di libertà. «Se le ragazze avessero diritti, non ci sarebbe bisogno di fingere di far parte del genere privilegiato. Questa è una società segregata in cui gli uomini hanno quasi tutti i diritti, ci sarà sempre chi cercherà di passare dall'altra parte», afferma Jenny Nordberg, autrice del bestseller The Underground Girls of Kabul. In passato, Women for Afghan Women, un'organizzazione americana per la tutela delle donne afghane, gestiva almeno due casi all'anno di bacha posh nella casa per donne di Kabul. Maritza, un'attivista per i diritti umani spiega: «Subiscono molestie, umiliazioni e vengono allontanate dalla comunità, ma non vogliono tornare a vivere da donne». «Queste ragazze devono imparare a vivere sotto un burqa , cucinare per le loro famiglie ed evitare lo sguardo degli estranei», aggiunge Thanh che si è occupata di molti casi come quello della piccola Manan: «Quando diventano grandi, capiscono che non possono più comportarsi da maschi ma nessuno le accetta come donne. Ignorare le capacità, il talento di una donna, negarne i diritti, è un'offesa al sesso stesso di una donna . Anche in famiglia Manan è per tutti Arman, che sicura asserisce: «Sposarmi da grande? No! Amo essere un ragazzo».

IL GIORNALISMO SECONDO PAPA FRANCESCO

Nuova lezione del Papa ai giornalisti. In occasione di una premiazione a due colleghi decani vaticanisti, Francesco ha sintetizzato la missione dei cronisti in tre verbi: ascoltare, approfondire, raccontare. Fabrizio d’Esposito per Il Fatto:

«Un onore, anzi un'onorificenza riservata sinora solamente ai capi di Stato e ai ministri: papa Francesco ha rotto un'altra consuetudine vaticana e così sabato scorso per la prima volta ha insignito due giornalisti dei titoli di Dama e Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine Piano, attualmente il massimo ordine cavalleresco della Santa Sede. Si tratta di due decani dei vaticanisti, come vengono definiti i cronisti che "coprono" l'informazione sui papi, sulla Santa Sede e in generale sulla Chiesa cattolica: la messicana Valentina Alazraki e l'americano Phil Pullella dell'agenzia di stampa Reuters. Nella cerimonia di sabato, nella sala del Concistoro, Francesco è tornato sul giornalismo in questa infinita fase di transizione dalla carta al web. È un argomento cui il pontefice tiene molto e che ha già affrontato con un denso messaggio per l'ultima Giornata delle Comunicazioni. Stavolta ha riassunto la "missione" del giornalista in tre verbi: ascoltare, approfondire, raccontare. Ecco perché papa Bergoglio ha ribadito l'esigenza di "consumare le suole delle scarpe", antica regola del nostro mestiere, e ha aggiunto: "Ascoltare, per un giornalista, significa avere la pazienza di incontrare a tu per tu le persone da intervistare, i protagonisti delle storie che si raccontano, le fonti da cui ricevere notizie. Questo significa sottrarsi - e so quanto è difficile nel vostro lavoro! - alla tirannia dell'essere sempre online, sui social, sul web. Il buon giornalismo dell'ascoltare e del vedere ha bisogno di tempo. Non tutto può essere raccontato attraverso le email, il telefono, o uno schermo". Ascoltare. E quindi approfondire: "Nel tempo in cui milioni di informazioni sono disponibili in rete e molte persone si informano e formano le loro opinioni sui social media, dove talvolta prevale purtroppo la logica della semplificazione e della contrapposizione, il contributo più importante che può dare il buon giornalismo è quello dell'approfondimento". Francesco ha suggerito anche in che modo, come se dirigesse un quotidiano oltre che la Chiesa: "Che cosa potete offrire in più, a chi vi legge o vi ascolta, rispetto a ciò che già si trova nel web? Potete offrire il contesto, i precedenti, delle chiavi di lettura che aiutino a situare il fatto accaduto". Raccontare, infine. Per il papa la realtà deve prevalere sempre, rispetto alla tentazione di "ergersi a giudici". E ha spiegato: "Abbiamo tanto bisogno oggi di giornalisti e di comunicatori appassionati della realtà, capaci di trovare i tesori spesso nascosti nelle pieghe della nostra società e di raccontarli permettendo a noi di rimanere colpiti, di imparare, di allargare la nostra mente, di cogliere aspetti che prima non conoscevamo". Non solo. Il pontefice ha ringraziato l'informazione che ha raccontato gli abusi sessuali e la pedofilia all'interno della Chiesa: "Ci aiutate a non nascondere queste cose sotto il tappeto". Un'unica obiezione, di carattere politico: "Ricordate anche che la Chiesa non è un'organizzazione politica che ha al suo interno destra e sinistra come accade nei Parlamenti". Anche se, ammette Francesco, questa rappresentazione ha "qualche radice nella realtà". La realtà, appunto. Lì si torna.».

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