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Perché ci odiano?
Vent'anni dopo l'attentato alle Torri gemelle di New York, l'Occidente torna a quella domanda. Borghesi sui Papi. Verso l'obbligo di vaccino? Biden spinge, Draghi forse. Mostra su Mr. B a Milano
Oggi, 11 settembre, tutti i giornali hanno controcopertine, inserti speciali, commemorazioni. Vent’anni fa cadevano le Torri gemelle del World Trade Center di New York in uno spaventoso attentato kamikaze. Noi della Versione, fra tante parole, abbiamo scelto due contributi al dibattito e alla riflessione: un’intervista al filosofo Massimo Borghesi realizzata da Vita e un articolo di Domenico Quirico su la Stampa. Sono due punti di vista ci sembra poco considerati e tuttavia per noi centrali. Borghesi ricorda il ruolo dei Papi, a cominciare da quello di Giovanni Paolo II. Quirico pone la questione più oscura e inquietante: il mondo ci odia. E ci odia ancora.
A proposito, a Kabul i Talebani hanno deciso di non esasperare le provocazioni e hanno rimandato ad altra data l’inizio del loro nuovo Governo. In compenso un loro portavoce ha spiegato che non ci saranno donne ministro, perché “devono stare a casa coi figli”.
Veniamo alle polemiche sul green pass e i vaccini che tengono ancora banco. La spinta della campagna vaccinale sta rallentando. Scende non solo il numero dei vaccini somministrati nelle 24 ore (ieri 275 mila 434) ma cala inesorabilmente il numero di prime dosi somministrate ogni giorno. A questo ritmo per arrivare al 90% di copertura degli over 12 ci vorrebbero altri due mesi. Ce lo possiamo permettere? C’è una riflessione sull’obbligo dei vaccini, è inutile negarlo. Non solo perché Draghi lo ha detto. Ma perché anche Biden in Usa ha fatto ieri un discorso molto fermo e possibilista in questo senso. Vedremo.
Non solo per le misure anti virus, la politica è agitata dalle divisioni interne alla Lega: ne parlano il Corriere e il Fatto. Salvini deve fronteggiare il fronte del Nord. Giuseppe Conte è stressato dall’impegno in campagna elettorale come leader dei 5 Stelle, nonostante ieri sera sia stato ricevuto con tutti gli onori alla Festa dell’Unità a Bologna. Il paradosso è che, a suo tempo, Conte disse da presidente del Consiglio che aveva trovato stanco Draghi. In forma invece Mr. B, cui a Milano viene dedicata una “mostra immersiva”, appunto Piano B.
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Vediamo i titoli di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera anticipa le ansie dell’antivigilia: Ritorno a scuola, dubbi e tensioni. Anche il Domani non è molto positivo: Scuola e freddo stanno arrivando. E la pandemia non è ancora finita. Il Giornale vede nuove misure all’orizzonte: Scuola di obbligo. Così come il Mattino: Green pass, obbligo per tutti. Il Messaggero specifica: Lavoro, verso il pass per tutti. La Repubblica dà conto di un’accelerazione nel Governo: Vaccini, pressing sull’obbligo. Il Quotidiano Nazionale mette in risalto i dati dell’Aifa: La verità? Danni da vaccino irrilevanti. È l’opposto del giornale La Verità che sostiene: La cappa di silenzio sui dati fa quasi più danni del Covid. Il Fatto tematizza il maldipancia dei leghisti settentrionali: Processo a Salvini: il Nord l’ha mollato. La Stampa vira sull’economia: Quota 100, coro di no a Salvini e sui conti torna la Ue del rigore. Il Sole 24 Ore ottimista sui dati industriali: Produzione su più delle attese. Libero tira fuori una vecchia militanza del deputato pd: Zan era leghista (e pure convinto). Avvenire ricorda i 34 milioni di bambini rifugiati nel mondo: Piccoli profughi. Il Manifesto titola sulla foto dell’11 settembre 2001: Ferita aperta.
IL GREEN PASS “MISURA GENIALE”
La spinta è quella degli ultimi giorni. Estendere il Green pass il più possibile, nonostante le polemiche nella maggioranza. Renato Brunetta ha posizionato così Forza Italia, definendo la certificazione verde una misura geniale. Claudia Voltattorni sul Corriere.
«Una misura geniale». Perché «fa aumentare il costo della non vaccinazione per gli opportunisti contrari al vaccino». E così «spinge a ridurre lo zoccolo degli opportunisti e riduce la probabilità di circolazione di virus». Ecco perché, in un futuro prossimo, «il green pass dovrà essere obbligatorio per tutti: lavori pubblici e lavori privati, servizi pubblici e servizi privati». Non c'è altra soluzione secondo il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta che preannuncia un futuro provvedimento del governo sull'estensione dell'obbligo della certificazione verde per tutti i lavoratori: «Green pass vuol dire libertà e ripresa dell'economia». Un'estensione da fare il prima possibile, dice Brunetta, «entro la metà di ottobre: l'obbligo deve essere universale, anche per i fruitori di servizi, pubblici e privati». E già prevede sanzioni per i lavoratori della Pubblica amministrazione a che si rifiutano di presentare la certificazione verde, come già avviene per il personale della scuola, fino alla sospensione dello stipendio: «Chi non vuole ottemperare alla regola, sta a casa sua senza stipendio, sospeso dal lavoro», dice il ministro. Attacca poi i non vaccinati definendoli «opportunisti», perché approfittando dell'elevato numero di vaccinati evitano di vaccinarsi, aumentando il rischio di circolazione del virus. «Sembra un circuito perverso - dice Brunetta -: ma adesso il gioco da fare è aumentare agli opportunisti il costo della vaccinazione», perché «i tamponi sono un costo psichico e un costo monetario, più il costo organizzativo, aumentandolo, spingi a ridurre lo zoccolo di opportunisti e così diminuisce la probabilità di circolazione del virus». Ma Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità, ricorda che «non c'è una equivalenza tra green pass e tampone, sono strumenti che danno informazioni diverse» e che «il tampone è un test che vale nel momento in cui viene eseguito dove cerchiamo la presenza del virus e quindi non protegge nulla, come invece fa il vaccino». Sul tema torna anche il presidente di Confindustria Carlo Bonomi che ribadisce la posizione dell'associazione favorevole all'obbligo vaccinale: «È la strada per combattere la pandemia». Posizione condivisa anche dai sindacati con Luigi Sbarra (Cisl) che chiede al governo «una norma legislativa», e Pierpaolo Bombardieri (Uil) che invita «la politica a non scaricare sui cittadini le proprie indecisioni» e giudica invece il Green Pass «un elemento di discriminazione per lavoratori e lavoratrici». E lancia una provocazione: «Sono sicuro che il Parlamento lo utilizzerà per i parlamentari prima di essere approvato per i posti di lavoro: dovete dare l'esempio, il Parlamento deve essere equiparato ad una fabbrica o a qualsiasi posto di lavoro». Più pessimista Bonomi: «Al governo avevamo chiesto un provvedimento urgente di messa in sicurezza dei posti di lavoro», ma «prendiamo atto che la politica non trova una sintesi».
Mario Draghi sta pensando seriamente di andare verso l’obbligo vaccinale. Sarà un percorso graduale e la decisione non è ancora stata presa. Emanuele Lauria per Repubblica.
«A Palazzo Chigi, senza troppo clamore, si stanno compiendo gli approfondimenti giuridici necessari a introdurre l'obbligo del vaccino anti-Covid su larga scala. Uno studio che non presuppone necessariamente l'adozione di questo provvedimento da parte del governo: ma un atto del genere ormai non viene escluso dallo stesso premier Mario Draghi, all'interno di un percorso graduale. Nelle prossime settimane sarà allargata progressivamente la fascia di cittadini che dovranno munirsi di Green Pass: dai dipendenti della pubblica amministrazione si passerà probabilmente ai lavoratori del settore privato, come auspicato ieri dal ministro Renato Brunetta. L'obiettivo è quello di raggiungere, attraverso lo strumento del certificato verde, una soglia di "protetti" pari all'85-90 per cento degli immunizzati con due dosi. Ma se entro metà ottobre questo traguardo non sarà tagliato, l'esecutivo potrebbe disporre un obbligo vaccinale più ampio di quello attualmente previsto per medici, infermieri e con l'ultimo decreto legge - anche per il personale delle Rsa. Un'ipotesi che - sia chiaro - Draghi continua a non vedere come prioritaria ma che è sul tavolo. E anche per questo si sta studiando la compatibilità di questa misura con i principi costituzionali. C'è la libertà di ogni cittadino di scegliere le proprie cure ma anche un interesse pubblico alla salute. La giurisprudenza propende per la tesi che in alcuni casi, strettamente previsti dalla legge, la tutela di questo interesse collettivo giustifichi trattamenti sanitari obbligatori. Come confermato peraltro da una pronuncia della Consulta del 2018 che ha bocciato il ricorso della Regione Veneto contro l'obbligatorietà di alcuni vaccini prevista dal decreto Lorenzin. A firmare quella sentenza, per inciso, fu l'attuale Guardasigilli Marta Cartabia. Non è casuale, insomma, l'uscita di ieri del ministro per la Semplificazione Renato Brunetta, che esprime l'orientamento del governo ma dà voce anche a una posizione ufficiale di Forza Italia, emersa nel corso di una riunione via zoom di dirigenti ed esponenti di governo che si è svolta lunedì. Riunione che ha partorito un documento che, appunto, apre all'estensione generalizzata del Green Pass e subito dopo alla vaccinazione obbligatoria. Questa presa di posizione netta di Fi a favore delle immunizzazioni sta agli antipodi rispetto alla linea ufficiale di Lega e Fdi, contrari all'obbligo vaccinale e scettici sull'allargamento del Green Pass. Ed è giunta, non a caso, qualche ora dopo il celebrato incontro di Cernobbio fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, con tanto di selfie dei due leader sorridenti, che ha poi portato a una comune azione in aula di Lega e Fratelli d'Italia, sconfitta dai numeri, per abolire il Green Pass nei ristoranti e per gli under 18. Iniziativa che Fi ha vissuto più o meno come un pugno nello stomaco. Insomma, c'è un ampio fossato che, sul tema più delicato del dibattito politico, separa oggi il centrodestra. Tutto ciò rende più complicato il progetto di federazione fra Forza Italia e Lega cui da mesi lavorano i leader. «Possono stringersi in un abbraccio due partiti che la pensano così diversamente sulla mission principale del governo Draghi?», ragionava ieri un big di Forza Italia. D'altronde, le distanze esistono anche su altri punti, come l'immigrazione. Negli stessi giorni in cui Salvini attaccava Luciana Lamorgese proponendo un improbabile scambio con le dimissioni del sottosegretario Claudio Durigon, le ministre di Fi difendevano con forza la titolare del Viminale. Particolare che ha fatto indispettire lo stato maggiore di via Bellerio. L'assenza dalla scena di Silvio Berlusconi, fra check-up medici e impegni processuali, ha fatto il resto. L'annunciato incontro fra leader, ministri e capigruppo di Lega e Forza Italia per dar via almeno a un coordinamento parlamentare non è stato ancora neppure messo in calendario. «Con l'aria che tira - chiosa il sottosegretario Giorgio Mulè - mi sa che si farà dopo le amministrative».
Il presidente della Regione veneto Luca Zaia è in prima linea nella lotta al virus. Il Corriere della Sera è tornato da lui per fare il punto sulle polemiche e sugli atteggiamenti della Lega in Parlamento.
«La nostra stella polare è il riconoscimento della campagna vaccinale e della sua promozione, e dall'altro lato il riconoscimento del green pass, che è una patente di libertà». Il governatore veneto Luca Zaia non sembra preoccuparsi delle polemiche sul comportamento alla Camera della Lega, che ha votato gli emendamenti dell'opposizione. Lui oggi è tutto proteso verso lunedì, quando con la riapertura delle scuole la sanità pubblica rischia di tornare sotto stress. Perché il green pass è una patente di libertà? «Forse più che una patente di libertà è un attestato di partecipazione alla vita di comunità. Perché il vaccinarsi da un lato è certamente una scelta personale. Ma dall'altro è un gesto di altruismo. Anche se qualcuno banalizza il concetto di immunità di gregge, che invece è un concetto scientifico, io ricordo che più siamo vaccinati, più mettiamo in sicurezza chi vaccinarsi non può. Perché se siamo in tanti, il virus non troverà ospiti in cui replicarsi». Presidente, la Lega è il partito che più è sembrato strizzare l'occhio ai No vax. «Davanti a scelte così importanti, il dibattito e la discussione sono inevitabili. Ma nella Lega la linea che vince è quella della responsabilità messa nero su bianco dai governatori. Poi, se resta qualche nostalgico del no green pass o del no mask, ne prenderemo atto. Io penso che non ci siano alternative alle scelte che abbiamo fatto». In molti anche nella Lega pensano che le alternative ci siano. «Ma certo, la teoria delle cure solo domiciliari, la teoria secondo cui il Covid è solo un'influenza In fondo, la teoria della selezione naturale. Se lo pensiamo, diciamolo. Io invece penso che in un Paese civile sia impensabile il ritenere che sulla base dell'età uno abbia meno il diritto di vivere. Che poi, il virus ne colpirebbe tanti, anche giovani. Il fatto è che senza vaccino e senza ospedali non se ne esce». Perdoni, presidente, ma andare alla Camera a votare gli emendamenti dell'opposizione resta un fatto politico rilevante. O no? «Un dibattito parlamentare è rivolto all'attività legislativa. Le nostre azioni da governatori sono, invece, attività governativa. I binari corrono paralleli, ma in qualche modo sono una cosa diversa. Ripeto: noi da governatori abbiamo tutti seguito l'unica strada percorribile». Il votare in quel modo alla Camera non è stato un po' uno sconfessare il documento dei governatori? «Assolutamente no. I punti non sono stati disattesi né sulla campagna vaccinale né sul green pass. Entrambi ci sono e ci saranno. La Lega lo ha confermato e questo è un fatto. Senza contare che con la nostra azione abbiamo migliorato diversi provvedimenti, dall'estensione della validità del green pass, alla proroga delle assunzioni di personale sanitario non italiano, al riconoscimento dei test molecolari salivari». Lunedì riaprono le scuole. Preoccupato? «Io ho il dovere di essere preoccupato. Detto questo, lunedì è il nostro D-Day, l'inizio della svolta e della convivenza con il virus. L'anno scorso, la riapertura fu segnata da un'impennata dei contagi. Quest' anno, ci arriviamo con l'80% di popolazione vaccinata. Ma lei sa che nell'ultimo mese da noi si sono presentati a vaccinarsi 26 mila ragazzi? A me è sembrata una buonissima notizia». Perché i giovani capiscono l'importanza del vaccino? «Certo, noi abbiamo il 66% dei ragazzi in età scolastica vaccinati. Perché hanno capito che il green pass è la libertà, ma non perché il governo ti mette vincoli: è il potere andare all'estero, è l'essere più tranquilli per sé stessi, per i propri cari e per la comunità in cui si vive. Del resto, oggi i ragazzi conoscono le lingue, fanno l'Erasmus, viaggiano... Non sono come certi leoni da tastiera che fanno spola tra il divano, il pc e il bagno». Presidente, lo ammetta: la Lega su questi temi è stata un po' ambigua. «Ma non è la Lega è quello che io chiamo il long Covid, lo strascico del Covid che rischia di essere più lungo dell'epidemia. Abbiamo avuto morti, ricoveri, chiusure... Preferirei che ci evitassimo di uscirne con una società spaccata». L'eurodeputata leghista Francesca Donato è riuscita a ironizzare anche su una persona morta di Covid dopo essere stata vaccinata. «Non la conosco».
I NUMERI DELL’AIFA: “DAI VACCINI DANNI RARISSIMI”
Gli ultimi dati dell’Aifa, che si occupa della farmacovigilanza, non lasciano dubbi sull’efficacia dei vaccini, in relazioni a possibili danni ed effetti collaterali. Alessandro Farruggia sul Quotidiano Nazionale.
«Nessun prodotto medicinale è esente da rischi, per questo esiste la farmacovigilanza che monitora quello che succede dopo una somministrazione, valutando che i benefici siano superiori ai rischi. E l'ottavo rapporto Aifa sui vaccini anti Covid, che prende in esame il periodo tra il 27 dicembre 2020 e il 26 agosto di quest'anno, conferma pienamente il disco verde. I vaccini hanno un rapporto tra rischi e benefici nettamente favorevole. I casi segnalati di reazioni sono 1,1 ogni mille vaccinazioni, quelli segnalati con effetti avversi gravi scendono allo 0,13 per mille, quelli che secondo Aifa sono effettivamente correlati al vaccino sono appena lo 0,05 per mille: ovvero 5 ogni 100mila dosi somministrate. Pochissimi. Le segnalazioni pervenute all'Aifa (da medici, farmacisti, ma anche privati cittadini) son state 91.360 su un totale di 76.509.846 dosi di vaccino, con un tasso di segnalazione di 119 ogni 100mila dosi somministrate. L'86,1% è riferita a eventi non gravi, con un tasso di segnalazione pari a 103 ogni 100mila dosi somministrate e il 13,8% a eventi avversi gravi, con un tasso di 13 eventi gravi ogni 100mila dosi somministrate. Per tutti i vaccini gli eventi avversi più segnalati sono febbre, stanchezza, cefalea, dolori muscolari o articolari, dolore o reazione nella sede di inoculazione, brividi o nausea. Sono però risultate correlabili alla vaccinazione solo il 42% di tutte le segnalazioni gravi valutate (come dire 3.909 su 9.324). Tra le reazioni gravi la più comune è la iperpiressia (febbre oltre 40°) seguita da cefalea e dolori articolari e muscolari e da astenia. Meno frequenti sono le reazioni ansiose alla vaccinazione, le parestesie diffuse e le linfoadenopatie. Molto rare sono le reazioni anafilattiche e la miocardite/pericardite. «Per quanto riguarda i 555 casi che hanno portato a un decesso entro 133 giorni dalla vaccinazione - osserva Aifa - solo 14 casi (3,5%) sui 396 valutati sono risultati correlabili (circa 0,2 casi ogni milione di dosi somministrate), di cui 7 già descritti nei rapporti precedenti. Le rimanenti 7 segnalazioni si riferiscono a 3 pazienti ultraottantenni con condizione di fragilità per pluripatologie, deceduti per COVID-19 dopo aver completato il ciclo vaccinale (in due casi 3 settimane prima e in un caso 39 giorni prima dell'evento fatale), 3 pazienti deceduti per complicanze di un evento di natura trombotica associato a trombocitopenia e 1 paziente deceduto per complicanze di porpora trombotica trombocitopenica». I tassi di segnalazione degli eventi avversi gravi per i singoli vaccini sono: 13 casi ogni 100.000 dosi di Comirnaty/Pfizer, 14 ogni 100.000 dosi di Spikevax/Moderna, 33 ogni 100.000 dosi di Vaxzevria/AstraZeneca e 19 ogni 100.000 dosi di Janssen. Gli eventi avversi gravi segnalati si verificano soprattutto nelle prime 48 ore dopo la vaccinazione. «Come già riportato negli studi clinici pre-autorizzativi e nei precedenti rapporti - prosegue Aifa - il tasso di segnalazione è maggiore nelle fasce di età comprese tra i 20 e i 60 anni, per poi diminuire nelle fasce d'età più avanzate e nei giovanissimi (tra i 12 e i 19enni ci sono state 838 segnalazioni, il 23,4% gravi, su 3,7 milioni di dosi), con un andamento simile dopo la prima la seconda dose». Da notare che il 72% delle segnalazioni riguarda le donne (164 segnalazioni ogni 100.000 dosi somministrate) e il 27% gli uomini (69 segnalazioni 100.000 dosi somministrate), indipendentemente dal vaccino e dalla dose somministrati. Un andamento osservabile anche negli altri Paesi europei. In relazione alle vaccinazioni cosiddette eterologhe a persone al di sotto di 60 anni che avevano ricevuto Vaxzevria/AstraZeneca come prima dose anti-Covid, fino al 26 agosto alla Rete nazionale di farmacovigilanza sono pervenute 248 segnalazioni di sospetti eventi avversi, su un totale di 604.865 somministrazioni, con un tasso di segnalazione pari a 41 ogni 100mila dosi somministrate. La seconda dose ha riguardato nel 76% dei casi Comirnaty/Pfizer e nel 24% Spikevax/Moderna».
GLI USA VERSO L’OBBLIGO VACCINALE
Il presidente Usa Joe Biden ieri ha dato l’impressione di cercare un cambio di passo sui vaccini. Non è una piccola novità: se gli Stati Uniti si decidono per l’obbligo, tante cose possono cambiare. Resta un dubbio: non sarà un po’ tardi? Massimo Gaggi sul Corriere.
«Inviti a scendere in piazza e a ribellarsi alle nuove disposizioni sanitarie della Casa Bianca, ricorsi all'autorità giudiziaria dei governatori repubblicani di diversi Stati che accusano Joe Biden di aver preso decisioni incostituzionali. Gli obblighi vaccinali annunciati l'altra sera dal presidente americano stanno suscitando reazioni durissime a destra. Qualcuno, come il sito Axios, parla addirittura di un clima da guerra civile visto che personaggi come J.D. Vance, l'autore di Elegia americana , celebre saggio sui disagi dell'America impoverita e candidato repubblicano per il seggio senatoriale dell'Ohio, ha invitato la popolazione a una «disobbedienza civile di massa» al piano anti Covid di Biden che, come affermato dallo stesso presidente, interesserà cento milioni di cittadini, un terzo della popolazione Usa. Più ancora dell'obbligo vaccinale per i dipendenti federali (in questo campo la Casa Bianca sembra avere solidi poteri) a provocare reazioni accese è la norma (annunciata verbalmente, ma non ancora formalizzata) che obbligherà le aziende con oltre 100 dipendenti a vaccinarli tutti o a testare ogni settimana gli obiettori. È questo il punto sul quale battono in modo particolare i governatori (il Texas ha già annunciato un'azione legale contro l'Amministrazione Biden) e anche alcuni giuristi democratici sembrano avere dubbi: in America non è mai stato riconosciuto al governo un potere coercitivo in campo vaccinale. Gli obblighi esistenti in tutto il Paese sono riferiti soprattutto al sistema scolastico e sono stati introdotti dagli Stati, non dal governo federale. Nel clima del Novecento, non avvelenato da spaccature ideologiche e segnato da grande fiducia in sieri che avevano debellato malattie tremende come la poliomielite, nessuno Stato dell'Unione si era sottratto all'introduzione di vaccinazioni obbligatorie per gli alunni. Col Covid, però, è cambiato tutto: terrore per la malattia, ospedali e obitori che scoppiano, ma anche incertezze sulla reale efficacia di sieri sperimentati per periodi necessariamente molto brevi e disposizioni a volte contraddittorie delle autorità sanitarie, costrette a prendere decisioni sulla base di dati scientifici non consolidati. L'obbligo suscita qualche perplessità anche tra i progressisti visto che il presidente democratico in passato ha più volte giudicato inopportuni interventi coercitivi e il 4 luglio - quando, in una situazione molto migliore di quella attuale, cominciavano già a levarsi voci allarmate - Biden aveva imprudentemente dichiarato, «l'indipendenza dell'America dal virus» mentre il Paese festeggiava il suo Independence Day. Il presidente, che l'altra sera ha sorpreso tutti non solo con la severità delle misure ma anche col suo tono duro nei confronti dei non vaccinati, accusati di minare anche la salute del resto del Paese («li ha trattati peggio dei talebani» ha commentato la Fox ), ieri è tornato sulla questione dicendosi deluso dall'attacco dei governatori repubblicani: «Non hanno capito che non è più tempo di giochi politici, qui si tratta della vita dei cittadini». Secondo alcuni giuristi proprio il pericolo per la vita rappresentato dal Covid dà al governo il potere di intervenire nelle aziende. Come nel caso delle norme a protezione di chi fa lavori pericolosi. Ma i ricorsi dei governatori finiranno presto sul tavolo di una Corte Suprema ormai molto ideologizzata.».
11 SETTEMBRE, VENT'ANNI DOPO
Fra tanti articoli, ricordi e analisi, pubblicati in queste ore, La Versione ha scelto un’intervista che ieri Vita ha realizzato con il filosofo Massimo Borghesi. Parla di un grande argomento, che è rimasto un “tabù”: la posizione della Chiesa cattolica e dei Papi in questi vent’anni.
«Vent'anni dopo l'11 settembre e un mese dopo il ritiro dall'Afghanistan mi pare che in pochissimi abbiano sottolineato il ruolo dei Papi (Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco) nell'opporsi alla guerra, nel gridare che “la guerra è sempre un'avventura senza ritorno”.
Il cardinale Ratzinger manifestò chiaramente la sua opposizione alla seconda guerra del Golfo in una intervista a “30 Giorni” dell’aprile 2003. E’ Giovanni Paolo II però che ha testimoniato, durante il suo lungo pontificato, l’opposizione più decisa ed appassionata contro le due guerre americane che hanno destabilizzato il Medio Oriente e sollevato la reazione islamica contro l’Occidente: le due guerre contro Saddam Hussein, quella di Bush senior nel 1991 e quella di Bush junior del 2003. In ambedue i casi il Papa, lo storico “alleato” di Reagan prima della caduta del comunismo, dovette sopportare per la sua posizione reazioni forti e violente da parte di politici, giornalisti, intellettuali con l’elmetto fermamente schierati con gli Usa. Coloro che appoggiavano la linea papale venivano accusati di tradire l’Occidente. In Italia il ministro degli esteri De Michelis, Giorgio Bocca, Galli della Loggia, Giuliano Ferrara, Sergio Romano, Giordano Bruno Guerri, Gianfranco Pasquino, Eugenio Scalfari furono in prima fila nella critica del “disfattismo” cattolico. Con toni spesso veementi ed intimidatori. Un’euforia fuori luogo che, come scriveva Giampaolo Pansa ne “L’Espresso”, era ostentata da “guerrieri da telecamera” preoccupati di spiegare “quanto è giusta la morte in guerra, soprattutto se a morire sono gli altri”.
Giovanni Paolo II che, per altro, non si piegò neanche alla pressione dei teocon americani e degli atei devoti da noi...
Non si piegò nel 1991 e nemmeno nel 2003 quando era vecchio e malato. Wojtyla aveva inviato il cardinale Roger Etchegaray a parlare con Saddam e il cardinale Pio Laghi a parlare con George Bush jr. tentando di evitare il conflitto. Il Cardinale Laghi disse a Bush che sarebbero successe tre cose se gli Stati Uniti fossero andati in guerra. Primo, il conflitto avrebbe causato molte vittime e feriti da entrambe le parti. Secondo, esso avrebbe condotto a una guerra civile. E terzo, gli Stati Uniti sarebbero sì stati in grado di entrare in guerra, ma avrebbero avuto molta difficoltà ad uscirne. Si trattava di una diagnosi profetica ma Bush fu irremovibile in una decisione che, disse, “era convinto che fosse la volontà di Dio”. Disse anche che, nonostante il disaccordo sull’Iraq, il suo governo era però in sintonia con la Chiesa in altre questioni. Bush profilava a Laghi l’alleanza teocon con la Chiesa in nome della difesa dei valori non negoziabili. Al ché il cardinale rispose: «Sì, i valori a favore della vita e della famiglia sono molto importanti, poiché sono basati sui principi della legge naturale, sui diritti umani e sul Vangelo. Ma Signor Presidente, io sono venuto qui per chiederle di non andare in guerra, che è un altro valore basato su questi stessi principi». La risposta di Laghi, in perfetta sintonia con Giovanni Paolo II, è interessante perché dimostrava di non cedere alle lusinghe del modello teocon: la lotta contro l’aborto in cambio dell’accettazione del modello americano. Negli USA gli intellettuali cattolici teocon, da Michael Novak a George Weigel e Richard Neuhaus furono allora in prima fila nell’appoggiare le decisioni di Bush contro il Papa. E quello che in Italia faranno Giuliano Ferrara, Galli della Loggia, Marcello Pera celebrando, anche loro, l’esportazione guerriera della democrazia e il Nuovo Ordine Internazionale. Un ordine pagato con migliaia di morti, una guerra infinita, l’esodo biblico della comunità cristiana perseguitata dalle terre di Ninive e Babilonia.
A proposito di questo colpiscono alcuni articoli interessanti anche in questi giorni come quello di Giuliano Ferrara su il Foglio, assai amari ma incapaci di dire “avevamo sbagliato”...
Ferrara, che è persona intelligente, non ha mai chiesto scusa delle sue prese di posizioni. Quando nel 2015 Tony Blair dichiarò, dopo la pubblicazione del rapporto Chilcot, di aver gravemente sbagliato nella sua decisione della guerra contro l’Iraq perché il rapporto dei servizi segreti sulle armi di distruzione di massa di Saddam, era errato, Ferrara è stato durissimo nello stigmatizzare l’autocritica dell’ex alleato di Bush. Come ha scritto ne “Il Foglio”: «La storia che la democrazia e la libertà non si esportano con le baionette, e che dunque la guerra a Saddam fu una coglionata sanguinaria, è un insulto indecente all’intelligenza occidentale. Caro Blair ti meriti Corbyn. L’unica cosa di cui Tony Blair dovrebbe scusarsi è per aver assecondato George W. Bush nella folle impresa di mollare gradualmente la strategia dell’esportazione della democrazia e della libertà nel corso del suo secondo mandato (2004-2008)». La confessione di Blair mandava letteralmente in crisi il paradigma teocon e Ferrara non è disposto ad alcuna concessione in materia. Può solo constatare come il progetto del New Order si sia tramutato in un caos senza precedenti in cui l’egemonia americana va pericolosamente declinando. E questo anche per i suoi numerosi e gravi errori di politica internazionale.
A rendere la posizione della chiesa un'amara profezia ci sono anche le immagini: 20 anni fa vedemmo con sgomento persone precipitare disperate dalle Torri in fiamme. Oggi abbiamo visto altre persone precipitare dagli aerei in decollo da Kabul. Che si tratti di terrorismo o di guerre “legittime” la violenza ha sempre lo stesso risultato…
La violenza è dentro la storia e non siamo così ingenui da pensare che il lupo possa pascolare con l’agnello. E tuttavia la profezia di Isaia non riguarda solo la fine. Nel mondo la violenza è frenata dai “giusti” di Dio, da coloro che impegnano la loro vita nella lotta per la pace, a qualunque fede appartengano. Dopo l’11 settembre era prevedibile la reazione americana. Nessuna potenza può lasciare impunito un crimine simile. Però il nemico era Bin Laden non l’Afghanistan. Al contrario la guerra è stata una dimostrazione di forza offerta non ai Taliban ma al mondo. Dopo l’89 l’America non poteva tollerare che il monopolio mondiale del suo potere fosse offuscato. Russia e Cina dovevano comprendere che nulla era cambiato. La palude afghana è il risultato di una sfida egemonica che ha portato, come risultato, ad un nuovo Vietnam e alla diminuzione del prestigio americano nel mondo.
La lancetta della storia sembra essere tornata a quell'11 settembre. Come se questi 20 anni fossero stati cancellati. Da dove ripartire?
Nulla torna come prima. Gli USA odierni non sono più l’unica potenza mondiale e il mondo è molto più insicuro rispetto al 2001. La preoccupazione del Papa, espressa nella frase “la terza guerra mondiale a pezzi”, è questa. L’ordine mondiale creato dopo il 1945 e ricomposto sotto l’egida americana dopo l’89 si va sfaldando. L’Europa, dopo aver rischiato di dissolversi grazie alle politiche economiche neoliberiste e al vento dei populismi, deve ripensarsi a partire dal suo nucleo storico. Deve continuare i suoi rapporti con gli Stati Uniti, che sono anche relazioni di civiltà, ma non deve tagliare fuori Russia e Cina. Deve altresì trovare ponti con il mondo islamico e tornare a sostenere lo sviluppo dell’Africa. Non c’è alternativa alla politica dell’equilibrio, al multilateralismo. Non solo per realpolitik. La pace richiede il multipolarismo, l’ideale della polarità che il Papa ha ereditato dal pensiero di Romano Guardini e posto al centro del pensiero sociale della Chiesa. Nei tempi di crisi la politica torna ad essere una forma eminente della carità. Occorre tornare alla grande politica, capace di progettare oltre la congiuntura del momento e di guardare fuori del proprio cortile. Una politica del bene comune. Qui c’è molto da fare, in termini di esperienza e di studio. Si tratta di riguadagnare, soprattutto per i giovani, una memoria perduta. La passione per l’ideale, fuori dal cinismo apatico e dal cinismo fanatico, deve tornare a permeare la realtà».
Domenico Quirico su La Stampa scrive un lungo articolo che fa riflettere. L’attentato alle torri gemelle è attuale, perché a noi occidentali, dice in sostanza, il mondo ci odia ancora.
«Il terrorista è l'uomo del simbolo e dell'esempio, purtroppo. Egli appartiene a mondi in cui simboli ed esempi sono i soli atti possibili. In fondo non al nostro, in cui all'offrirsi di ben altre possibilità hanno perduto in gran parte la loro ragione di essere. Vent' anni dopo il giorno dell'impossibile, come appare quell'11 settembre visto dalla parte degli altri, da quella parte del mondo che, forse ce ne siamo dimenticati, nei giorni successivi non indossò come noi il lutto per il massacro ma esibì trionfalmente le magliette con il volto dello sceicco Osama: l'uomo che aveva ferito - di più, umiliato - l'America, simbolo appunto per arieggiare umori perennemente ribelli. A noi che, mi pare, rievochiamo col tono del tema obbligato, della parola d'ordine del ciò che bisogna dire, servirà a comprendere chi ha vinto e chi ha perso per quell'atto mostruosamente simbolico che gli esecutori dell'11 settembre compirono guidati dalle grotte di Tora Bora. E che forse troppo frettolosamente abbiamo archiviato nel baule degli oggetti della nonna. Perlustrazione pericolosa perché ricca di ammissioni amare ma necessarie, visto che con perfetta circolarità del tempo l'Afghanistan, da cui tutto iniziò, ci ha richiamato a un'altra sconfitta. Noi ripercorriamo oggi le ore dell'11 settembre in modo ipnotico, struggente, naufragante. Bin Laden, ci si conforta, in fondo è morto, nel corso degli anni al-Qaeda e le altre sigle dell'internazionale islamica hanno dovuto raggrinzirsi su attentati dolorosi certo ma in luoghi periferici o hanno dovuto affidarsi al gesto dell'attentatore singolo, con mezzi primitivi. E se fosse il contrario? Se l'intuizione di Bin Laden non si fosse esaurita nella spettacolarità dell'orrore impossibile ma avesse fissato, ben nascosti, postumi, batteri ben altrimenti letali che lo stupore e il senso di fragilità esposti in quel giorno? Detto in altro modo, l'11 settembre era rivolto solo agli americani e a noi Occidente? Quanti nel mondo hanno guardato le sequenze della caduta delle torri con occhi diversi dai nostri, traendo lezioni che poi nel corso di questi vent' anni si sono trasformati in guerre, insurrezioni, caos, ovvero qualche cosa di ancor più pericoloso per noi? La cronaca quotidiana del dichiarato dopo Bin Laden non è forse colma di altre più taciturne stragi, di catastrofi che non guardiamo negli occhi perché non avvengono tra noi, dentro di noi? La domanda di questo anniversario proposta a tutti coloro che lo vissero serve a scoprire cosa ricordano di quel giorno. Ho notato che pochi rispondono: ricordo la paura che provai davanti agli schermi della televisione. Un modo, il tacerla, forse per esorcizzare la morsa del tempo. Perché la sintesi perfetta dell'11 settembre e soprattutto la sua eredità malefica è proprio in questa parola: paura. L'intuizione diabolicamente perfetta di Bin Laden, non l'aver escogitato l'attentato al tempo stesso a basso costo e globalmente devastante: era semmai riuscire a rendere permanente nel nostro mondo sicuro di sé, organizzato fino all'arroganza, rendere permanente la paura. Paura di essere uccisi, dalla bomba che esplode in strada e nel cinema, nell'aereo dirottato dal suo compito di muoverci comodamente nel nostro mondo globalizzato e trasformato in bomba. Paura del terrorista della porta accanto, impalpabile, irriconoscibile e per questo letale. La paura è entrata nel dominio dell'Assoluto con cui è impari la lotta e apre, permanentemente, un abisso, un imbuto infinito e un precipizio d'ombra nel nostro vivere di ogni giorno. L'11 settembre non è nei libri di storia o negli archivi dei giornali. È attorno a noi, nelle procedure a cui dobbiamo sottoporci per salire su un aereo o attraversare una frontiera, nelle geografia delle nostre città trasformate per sempre in «green zone» irte di controlli di telecamere, pattugliate da soldati che controllano strade e luoghi strategici. La onerosa eredità di Bin Laden si nasconde nelle mille eccezioni che la lotta al terrorismo ha imposto alle nostre leggi, che senza l'ossessione, necessaria, della sicurezza forse non avremmo accettato così distrattamente o avremmo contestato con foga in nome delle nostre libertà. La lotta al terrorismo, globale come il jihad che è figlio e nipote dall'idea di Bin Laden di vent' anni fa, ha prodotto a sua volta invece che sicurezza una casa madre dell'assoluto nichilista, una fabbrica di asceti sanguinari, una catena di montaggio di califfati ed emirati, fortilizi di uno sterminato arcipelago da cui, da ramo a ramo metaforico di quella prima vittoria, balzano nemici capaci di mille reincarnazioni nei più lontani luoghi del mondo. Ci illudiamo se pensiamo di esserci districati da un penoso passato. Ci sono luoghi in cui, oggi, l'11 settembre è sprone ed esempio, allegoria di una vittoria possibile, rivelazione e non incubo. Dove parole come terrorismo, attentato, non hanno che una coincidenza semantica con le nostre parole. Ammettiamolo: c'è un mondo che ci odia e che in questi anni si è fatto più grande. E il suo odio è lento e paziente. L'epopea orribile del Califfato e delle sue province è conseguenza di quanto accadde quel giorno, svela a noi, ignari per scelta, qualcosa che non credevamo possibile: una umanità già pronta per il suo giudizio universale, in agguato dietro le quinte nel guardaroba della fine del mondo. L'aeroporto di Kabul con la sua ritirata convulsa è l'11 settembre di venti anni dopo, senza torri che crollano ma con la stessa efficacia distruttiva, il segno di una decadenza che va al di là del ritorno a Kabul con fare impettito e scostante dei taleban, alleati e ospiti benevoli del benefattore Bin Laden. Il crollo delle due torri infilò un cuneo nella certezza della invincibilità americana. Si pensava fosse una Pearl Harbor rimediabile, dovuta a un colpo basso, a un avversario che non rispettava le buone regole di dichiarare guerra. Vent' anni dopo il crollo del modello di democrazia esportata conferma e esaspera quella debolezza dell'Occidente: siamo deboli e forse anche vili asserragliati nel nostro luna park disordinato, il nostro aiuto fraterno a coloro che credono in noi ha un sapore di fatiscenza. Le nostre promesse di modernità condivisa hanno una vocazione mistificante che le rende intossicanti e illusorie. Dobbiamo cambiare travestimento per convincere ma forse non ci sono più discepoli disposti a farsi ingannare».
LA LEGA DI BORGHI E DI GOVERNO
Esplode il caso delle divisioni interne alla Lega. In questi giorni è stato infatti il partito del No Green pass con Borghi ma anche dei governatori Fedriga e Zaia, che invece combattono sul territorio del Nord Italia a favore dei vaccini. Per non parlare di Giorgetti. E i sondaggi tolgono il sonno. Ecco il retroscena di Francesco Verderami per il Corriere.
«Si vede che per qualche motivo Draghi e Salvini non riescono a capirsi, perché ogni qualvolta il leader della Lega dice che «con il premier è andata bene», succede sempre qualcosa. Anche se poi di fatto non succede nulla, visto che sul green pass il Carroccio ha sostenuto la linea del governo, prima alla Camera e poi in Consiglio dei ministri. Resta solo il bradisismo lessicale di Salvini, che non è tanto dissimile da quello di altri segretari della maggioranza, e a cui Draghi ormai ha fatto l'abitudine. E infatti il presidente del Consiglio sostiene che il rapporto con il capo leghista «in fondo non è male», espressione che fa pendant con il suo carattere. D'altronde per lui «la cosa importante è avere chiaro quello che si vuole fare. Andiamo avanti». Avanti di questo passo, il premier estenderà l'obbligo del certificato verde ed è concentrato sulla soluzione dei problemi giuridici legati al provvedimento, che preoccupano più delle obiezioni politiche sollevate dall'alleato. Al punto che per il momento non prevede al Senato di porre la fiducia sul decreto, «nonostante a Palazzo Madama - come racconta un dirigente della Lega - nel nostro gruppo ci siano più no vax di quanti ce ne siano alla Camera». Resta da capire perché Salvini abbia trasformato questo tema in una linea di trincea, nonostante i suoi governatori lo avessero consigliato a non farne elemento di campagna elettorale. Niente da fare. Ancora ieri si è notata la distanza tra le parole del governatore Fedriga, che ha rinnovato l'appello a vaccinarsi «perché servono lucidità e buonsenso», e quelle pronunciate dal suo segretario: «Il mio problema non sono i non vaccinati, ma il virus che cambia per reazione al vaccino». Nel partito c'è chi non voleva crederci, così come in molti non avevano condiviso la linea scelta a Montecitorio sul green pass: perché ritirando i propri emendamenti e votando poi quelli di Fratelli d'Italia, è stato fatto passare il messaggio subliminale che in fondo aveva ragione la Meloni a stare all'opposizione. Non proprio il massimo, in vista del derby elettorale per le Amministrative. Ma l'argomento che sta alimentando le maggiori tensioni nella Lega ha a che fare con il tema dell'identità. «Tema delicatissimo» raccontano autorevoli dirigenti del Nord, preoccupati dal fatto che «l'Ugl sta diventando una sorta di cinghia di trasmissione del partito», con un «tesseramento capillare» sul territorio degli uomini provenienti dal sindacato. E se fino a qualche tempo fa gli iscritti erano concentrati nelle regioni del Centro e del Sud, ora il fenomeno si sta allargando al Settentrione. Dove gli esponenti del Carroccio hanno drizzato le antenne per timore di una «scalata interna». «Non consegneremo la Lega ad altri», è sbottato uno dei maggiorenti: «La nostra storia non è quella di un partito di destra». La questione identitaria si accompagna al nodo del posizionamento del partito, e l'anima nordista è perplessa sul futuro. A destra la Meloni ha coperto lo spazio. «Era inevitabile», secondo un parlamentare del Carroccio: «Come diceva Bossi, "la gente tra l'originale e una copia sceglie sempre l'originale". E noi? Puntiamo sulla federazione con Forza Italia? E se Berlusconi all'ultimo momento si tirasse indietro?». L'affaire del tesseramento sta animando una sorta di dibattito congressuale virtuale, per quanto le assise della Lega non siano alle viste e nessuno metta in discussione la leadership di Salvini. Ma non sfugge che il partito stia vivendo la stessa traiettoria elettorale toccata «prima a Renzi, poi ai grillini: dopo il picco c'è la picchiata». E questo influisce anche sulle scelte che seguiranno le Amministrative. Tra i dirigenti (quasi) tutti scommettono che non si andrà alle Politiche l'anno prossimo. Nei conversari diplomatici con esponenti del Pd, gli sherpa del Carroccio hanno sostenuto che «se Draghi andasse al Quirinale si farebbe poi un governo elettorale». E il nome di Franco, speso da un dirigente della Lega con un pari grado dem, non è solo un modo per spiegare che all'attuale ministro dell'Economia verrebbe affidata la redazione dell'ultima Finanziaria. È anche un segnale per rassicurare i peones che non torneranno più: problema che affligge grillini e democratici, ma che tocca anche i leghisti. Perché con il taglio dei parlamentari e il partito al 20% la prossima volta non ci sarà posto per tutti».
Il Fatto usa una metafora cara all’ambiente: Salvini è sotto processo. Lo accusano i leghisti del Nord, dove si starebbero perdendo voti. L’articolo è di Giacomo Salvini (non è parente).
«Lo chiamano il "paradosso del nord". Perché va bene la Lega nazionale e lo sbarco al centro-sud ma se poi perdi le città più importanti e il tuo bacino elettorale sopra il Po, il problema diventa grosso. E quindi Matteo Salvini, che ieri è stato ricevuto in Vaticano da monsignor Gallagher, è preoccupato. E anche i colonnelli "nordisti", quelli che hanno dato vita a una fronda interna alla Camera per non seguire gli istinti no Green pass di Claudio Borghi (87 assenti). In via Bellerio gira una mappa che dice tutto. Non riguarda tutta la penisola ma solo l'area a nord del Po. Su molte città che andranno al voto il 3 e 4 ottobre è segnata una "x" rossa: sconfitta. Bologna, Milano, in bilico Pordenone e Savona. E soprattutto Varese, la roccaforte leghista che ha dato i natali a Bossi, Maroni, Giorgetti e alla prima "Liga Lombarda". Qui la Lega è indietro e di tanto. Il sindaco uscente Davide Galimberti va verso la riconferma con il sostegno di Pd e 5S mentre l'uomo del Carroccio Matteo Bianchi rischia una sconfitta pesante. Ancor più drammatica la situazione nei grandi centri: a Milano la Lega rischia non solo di perdere, rischia la débâcle. Perché non ci sarà solo la sconfitta del pediatra Luca Bernardo , ma il trauma può essere ben più pesante: le liste di Fratelli d'Italia e Lega sono appaiate all'11-12%. Un sorpasso del partito di Giorgia Meloni, grazie all'operazione Vittorio Feltri, equivarrebbe a un ko per Salvini. A favore di Meloni ma anche degli avversari interni. "Se prendiamo meno voti di FdI a Milano, Salvini dovrà cambiare rotta" minaccia un leghista lombardo. La spia di questa difficoltà sotto la Madonnina è la decisione del segretario di non ricandidarsi in consiglio comunale per la prima volta in trent'anni: "Qualcuno sente puzza di bruciato" commenta malizioso Gianluca Pini, storico esponente della Lega Nord oggi in guerra con il corso salviniano. Poi c'è Bologna dove la Lega supererà FdI ma non servirà a niente: il candidato Fabio Battistini rischia di subire il cappotto da Matteo Lepore . A Torino sorride il centrodestra con Paolo Damilano ma l'imprenditore di leghista ha pochissimo. I sondaggi piangono a Novara dove il sindaco Alessandro Canelli è in vantaggio su Nicola Fonzo ma deve evitare il ballottaggio per impedire che Pd e M5S possano riunirsi e anche qui FdI supererà la Lega. A Savona Angelo Schirru rischia contro Marco Russo , a Pordenone Alessandro Ciriani è tallonato dal candidato di Pd e M5S Gianni Zanolin . Le due città medio-grandi del nord dove la destra ha la vittoria in tasca sono Trieste e Busto Arsizio. Ma in entrambe non c'è un candidato leghista: nel capoluogo friulano va verso la riconferma Roberto Dipiazza di Forza Italia, nel varesotto Emanuele Antonelli di FdI. Il paradosso è che Salvini sta puntando di più sulle città del centro-sud. Roma, Napoli e la Calabria dove spera in un "grande risultato". "Matteo è stato più a Catanzaro che a Milano - dice amaro un big - non è normale". La probabile sconfitta, prevista quasi ovunque, non porterà alla defenestrazione di Salvini. Nessuno nella Lega, al momento, è in grado di contendergli la leadership. Ma un risultato negativo al nord non sarà indolore: Giorgetti, Luca Zaia e anche Massimiliano Fedriga gli chiederanno di essere "più coinvolti" nelle decisioni. E anche un posto nel governo visto che a est di Milano la Lega non ha un solo esponente di governo (tranne Erika Stefani) che rappresenti quei territori, partite Iva e piccole imprese. Senza quei voti, la Lega sparirebbe. Da qui la richiesta di mettere il padovano Massimo Bitonci al posto di Claudio Durigon al Mef (la cui uscita è stata la prima vittoria dei "nordisti"). In caso di sconfitta, Zaia e i suoi chiederanno i congressi regionali. Salvini ha annunciato quelli provinciali ma i governatori vogliono riprendersi le Regioni dove siedono solo commissari salviniani. Una leadership alternativa parte da lì».
CONTE SI SENTE STANCHINO
Lo ricorda Maurizio Crippa sul Foglio. A suo tempo Grillo aveva fatto propria la battuta di Forrest Gump: sono stanchino. Ieri è toccato a Conte. È proprio vero: il potere logora chi non ce l’ha (nel senso di Palazzo Chigi). Francesco Rosano sul Corriere.
«Siccome non ritengo di essere infallibile, e nemmeno vedo davanti un orizzonte così lungo, ve lo dico francamente: questo è un impegno stressantissimo. Lavorare così per il bene comune è una faticaccia enorme, quindi non credo che la potrò reggere fisicamente a lungo». Sarà l'aria rilassata della Bassa Modenese, sarà il clima intimo nella prima tappa di un lungo tour elettorale emiliano-romagnolo, ma le parole pronunciate ieri mattina dal presidente del M5S Giuseppe Conte dalla piazza di Finale Emilia aprono uno squarcio di preoccupazione tra i 5 Stelle. E poco importa che nel pomeriggio l'ex premier corregga più volte il tiro, assicurando tutto il suo «entusiasmo» nell'impresa, perché tra gli eletti M5S più insofferenti «all'avvocato del popolo» tanto basta per alimentare dubbi. «Spero e faremo in modo che ci sia qualcuno più bravo di me, quando sarà il momento. Ma questo progetto è forte e dovete appoggiarlo», dice l'ex premier davanti a una platea un po' spiazzata, forse nostalgico del lavoro a Palazzo Chigi. Possibile sia lo stesso Conte che ha combattuto all'arma bianca con Beppe Grillo prima di ottenere la leadership del Movimento? «Beh, che lo stiano strapazzando è un po' vero, è stanco», confessa uno degli eletti che lo accompagna durante le sei tappe lungo la via Emilia in vista delle Amministrative. «Non prometto nulla. In queste giornate ne sentirete tante di promesse, tanto più quelle che non si realizzano. Il nostro progetto invece lo porteremo avanti, oltre questa tornata elettorale, perché ha forti gambe e serve al Paese: ha una sua forza intrinseca, al di là degli interpreti», ribadisce Conte da Finale Emilia. Quando le sue parole arrivano a Roma è una piccola esplosione. «Sembra un po' anomalo che un leader appena eletto dichiari di essere stanco. Non mi pare una grande iniezione di fiducia», commenta gelido il deputato M5S ed ex sottosegretario, Gianluca Vacca. Nelle chat degli eletti c'è chi fa subito il confronto con Grillo: «Beppe ha attraversato a nuoto lo Stretto di Messina...». Un altro senatore è tagliente: «Ma cosa ha voluto dire? Sembra di sentire Zingaretti durante gli ultimi giorni della segreteria Pd. Se queste parole gli sono uscite male è necessario chiarire». Il segretario del Pd Enrico Letta, invece, gli offre un po' di comprensione. Oltre che uno sprone politico. «È ovvio che è un lavoro stressante, però bisogna interpretarlo sapendo che in questo momento tenere insieme è la cosa più complessa e difficile, ma anche la più necessaria». Il chiarimento chiesto dagli eletti arriva per ben due volte. A scanso di equivoci e di ulteriori veleni dentro un Movimento che non ha ancora trovato la pace. «Se sono stanco? Ma no, c'è tanto entusiasmo e voglia di lavorare per il bene del Paese. Lo faremo ancora a lungo», assicura Conte da Cattolica, dove il M5S sostiene l'ex vicesindaca Gloria Lisi contro il Pd. Nel tardo pomeriggio da Bologna, dove invece i 5 Stelle sono saldamente al fianco del candidato dem Matteo Lepore, Conte approfitta della ressa che lo accompagna lungo via Zamboni per puntellarsi ancora: «Come vedete il calore della gente moltiplica le energie». Al suo fianco c'è il ministro Luigi Di Maio, per un abbraccio a favore di fotografi dopo le frizioni dei giorni scorsi e Conte esclude che con l'ex capo politico ci siano stati «diverbi o fraintendimenti». Sarà anche vero, ma alla Festa nazionale dell'Unità in serata, a prendersi un altro bagno di folla (con tanto di applausi) tra i dem e cantare Bella ciao all'Osteria partigiana dell'Anpi, c'è solo Conte. A un anno esatto dalla sua prima volta, lo scorso anno, alla kermesse di Modena. Un governo fa».
SALVINI IN VATICANO NON FA NOTIZIA
Il Foglio lo dice chiaro e tondo, gli altri giornali lo fanno capire: nonostante l’entusiasmo dei suoi, la visita di Matteo Salvini in Vaticano è stata una “non notizia”.
«Per la rubrica "notizie che non lo sono", Matteo Salvini ieri ha incontrato in Vaticano Monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli stati. Anticipato con singolare entusiasmo dai giornali vicini alla Lega, e condito di impliciti e astrusi significati attribuiti dalle veline dello staff salviniano, l'incontro viene in realtà considerato in Vaticano quanto di più normale e banale possa esistere. Il segretario per i rapporti con gli stati è infatti l'equivalente di un ministro degli esteri, ed è la figura che solitamente il governo della santa sede designa per incontrare qualsiasi esponente politico richieda una visita nei pressi di San Pietro. Altro è il segretario di stato vaticano, che equivale al primo ministro. Ma Salvini non ha incontrato Monsignor Pietro Parolin. Sarebbe invece stata una notizia se, malgrado la richiesta del segretario della Lega, il Vaticano avesse negato a Salvini un incontro persino con Gallagher. Trattandosi di incontro che non si nega a nessuno, se gliel'avessero negato ci sarebbe stato da scrivere ben più di un piccolo box sul foglio. E insomma niente ( o quasi) di quanto era stato anticipato da alcuni quotidiani consanguinei alla Lega corrisponde al vero. Nessuna benedizione vaticana può essere desunta da questo incontro. Nessun trattamento di particolare attenzione. Nessun argomento di particolare interesse delle politica italiana - forse nemmeno il ddl Zan - può essere stato trattato a quattrocchi da Salvini e da Monsignor Gallagher. La Chiesa ha i suoi codici, la sua grammatica, le sue liturgie politiche, e se dal punto di vista di Salvini l'incontro voleva essere (come dicono i suoi collaboratori) un modo per riannodare i fili di un rapporto con il soglio di Pietro ebbene questo punto di vista non sembra coincidere del tutto con quello vaticano. A quanto si apprende Salvini e Monsignor Gallagher avrebbero parlato "della crisi umanitaria in Afghanistan, delle prospettive per il futuro dell'europa, degli interventi a favore della famiglia e della natalità, del sostegno ai più deboli e della gestione dei flussi migratori". Come si diceva: notizie che non lo sono.».
LA MARIONETTA SIMBOLO DEI BIMBI PROFUGHI
Sono 34 milioni i bambini sfollati nel mondo. Fra di loro molti sono senza genitori. Ieri una marcia per ricordarli è passata da San Pietro, guidata da una grande marionetta Amal, che raffigura una ragazza siriana. Riccardo Maccioni per Avvenire.
«La paura dell'abbandono ha lo sguardo di Amal. E così la nostalgia dei genitori, il timore di non vederli più, la stanchezza della fuga. Ma anche, al contrario, la voglia di giocare, l'entusiasmo dell'infanzia, il desiderio di costruire nuove amicizie. Amal è la grande marionetta realizzata da Handspring puppet company come simbolo di tutti i bambini sfollati del mondo, circa 34 milioni, molti dei quali separati da mamma e papà. Nell'ambito del progetto "The walk", ha iniziato il suo viaggio lo scorso 27 luglio da Gazientep, al confine turco-siriano per raggiungere il prossimo 3 novembre Manchester, in Inghilterra. In mezzo, 8mila chilometri di incontri, spettacoli, eventi, toccando, tra gli altri Paesi, Francia, Svizzera, Germania, Belgio. E naturalmente l'Italia con tappa centrale a Roma, in piazza San Pietro dove ieri la diocesi, supportata dalla Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, ha organizzato una grande accoglienza. A darle il benvenuto per primo, il vescovo ausiliare Benoni Ambarus che poi ha lasciato spazio al ringraziamento del cardinale Michael Czerny. Amal «grazie per essere arrivata tra noi - le parole del porporato -. Sei un angelo per coloro che ti incontrano. Ci facciamo carico della tua storia, ti accompagniamo nel tuo viaggio, e ci auguriamo che tu e noi tutti troviamo ciò che cerchiamo». Semplici ma profondi i punti toccati nella sua riflessione dal sottosegretario (sezione migranti e rifugiati) del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, fino a un'immagine forte, che li riassume tutti: «L'ospitalità genera vita». Come dice papa Francesco - ha aggiunto Czerny - «la cultura dell'incontro è foriera di sfide non sempre facili! - che permettono alle comunità di crescere in modo consapevole come famiglia umana, nella casa comune». E se si riesce a realizzarla davvero, «l'accoglienza trasforma, come testimoniano tante comunità e famiglie che hanno preso su di loro la cura "dello straniero", soprattutto coloro che si occupano di minori sradicati dalle loro famiglie, dalle loro comunità, dalle loro aspirazioni, che devono contare su sconosciuti di buona volontà che li proteggano per diventare le persone che Dio ha voluto fossero e per prendere il posto che gli spetta nelle comunità che li accolgono». Ad abbracciare la marionetta, a rendere l'incontro una festa, grazie all'iniziativa della diocesi di Roma, decine di bambini di diverse parrocchie, legati agli scout e alla Caritas diocesana, molti dei quali, una sessantina tra i più piccoli, sono saliti insieme a Czerny e ad Ambarus (vescovo ausiliare delegato per la carità, i migranti e la pastorale dei rom e dei sinti) nel cortile di San Damaso, dove erano a loro disposizione dei palloni. E il Papa è sceso a salutarli: «Questa è casa vostra, continuate a giocare, mi piacciono le vostre voci!». Un incontro bello, dolce, a rendere ancora più speciale la gioia dei 200, bimbi e ragazzi, che hanno animato la Marcia per l'accoglienza "Apri". A loro, l'Agenzia scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo ha offerto anche un laboratorio per la realizzazione di un aquilone, mentre gli scout Agesci Roma 51 hanno costruito una tenda, come fece Abramo, secondo il Libro della Genesi, a Mamre, per accogliere tre ospiti inattesi. Stranieri - ha sottolineato Czerny - che «recano ad Abramo e Sara l'annuncio di un figlio». Notizia tanto desiderata quanto ormai completamente imprevista, «che offre una prospettiva nuova sul futuro». Un orizzonte, un atteggiamento, quello dei prossimi genitori del racconto biblico, da calare nella vita di oggi. Senza ingenui buonismi, senza facilonerie fuori luogo, ma anche, dal lato opposto, senza rifugiarsi nelle chiusure del pregiudizio e del rifiuto. La tappa immediata di questo processo è la preparazione alla Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che sarà celebrata il 26 settembre sul tema: "Verso un noi sempre più grande". Quattro anni fa, nel 2017, invece, il Papa aveva voluto chiedere attenzione ai più piccoli, dedicando il suo messaggi proprio ai "migranti minorenni, vulnerabili e senza voce". Come Amal, che ne riassume tutti i sogni e tutte le paure. E nel cui volto potrebbe nascondersi il "segreto" rivelato dalla Lettera agli Ebrei: «Non dimenticate l'ospitalità; alcuni praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo».
AFGHANISTAN, IL GOVERNO PUÒ ASPETTARE
Alla fine i Talebani hanno preferito non approfittare troppo dei simboli e non hanno presentato il Governo in occasione dell’ 11 settembre. È sembrato un gesto di sfida inopportuno. In compenso cala il gelo sulle proteste occidentali. E un portavoce di Kabul si è espresso chiaro sulla parità di genere: «Le donne non possono fare i ministri, devono solo fare figli». La cronaca di Luca Geronico per Avvenire.
«Non si terrà oggi la cerimonia di insediamento del nuovo governo afghano, giorno del ventesimo anniversario degli attentati alle Torri gemelle. «L'inaugurazione del nuovo governo è stata annullata diversi giorni fa» ha precisato su Twitter Inamullah Samangani, membro della élite dei taleban. «Per evitare confusione », la leadership dell'Emirato islamico dell'Afghanistan ha annunciato l'insediamento «di una parte del governo che ha già iniziato a lavorare». «Voci non vere», invece, quelle di una cerimonia ufficiale in concomitanza con le commemorazioni degli attentati dell'11 settembre. L'Emirato islamico, afferma ad al-Jazeera il nuovo premier dei taleban Mohammad Hassan Akhund, nella prima intervista con un media straniero, «porterà pace e stabilità» dopo anni di guerra. Proprio mentre un altro portavoce ribadiva che non ci saranno «ministri per le donne, perché devono solo fare figli». Insediarsi l'11 settembre, tuttavia, sarebbe stato un gesto di sfida inopportuno anche per il più rigido dei regimi jihadisti in questi giorni così delicati per definire le relazioni con il resto del mondo e soprattutto trovare "legittimazioni". Nuovi assetti per cui prendono tempo i taleban. E alle critiche di non avere un governo inclusivo ribattono che, dopo le prime nomine «per riempire un vuoto», sono in corso trattative per riempire molti posti vacanti. «Molte posizioni rimangono vacanti, ma saranno riempite dopo le dovute considerazioni », ha precisato Suhail Shaheen, uno dei portavoce degli studenti coranici, aggiungendo che ogni cambiamento è sempre possibile prima che il nuovo esecutivo sia formalmente costituito. Un altro importante segnale di Kabul, nei confronti della comunità internazionale, è il decollo del secondo aereo della Qatar Airways: a bordo, fa sapere il ministero degli Esteri di Parigi, vi sono anche 49 cittadini francesi e i loro familiari. Di certo non basterà questo ad avere un riconoscimento internazionale. Alla cerimonia di insediamento, a cui i taleban avevano invitato sei Paesi - Russia, Cina, Pakistan, Qatar, Turchia e Iran - non ci sarà nessun rappresentante di Mosca. Lo ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov: «Noi non sappiamo come questa situazione si evolverà. Ecco perché diciamo che è importante per noi capire quali saranno i primi ed i successivi passi dell'attuale leadership afghana ». Una posizione che sembra essere condivisa da molti, come sintetizza il ministro degli Esteri del Pakistan, Shah Mahmood Qureshi: «Vedo il desiderio di impegnarsi, ma non la fretta di riconoscere» i taleban, ha sottolineato. E, al di là del lavoro delle diplomazie, non mancano nuovi preoccupanti segnali. Il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha invitato a offrire «un dialogo» ai taleban in Afghanistan, per evitare «un tracollo economico» che potrebbe comportare milioni di morti. «Il nostro dovere è quello di estendere la nostra solidarietà a un popolo che soffre enormemente, dove milioni e milioni di persone rischiano di morire di fame», ha aggiunto Guterres. Ma accanto alla preoccupazione umanitaria, secondo l'ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, in Afghanistan sono in aumento le violenze contro i manifestanti contro cui i taleban utilizzano armi da fuoco, bastoni e fruste. Repressioni difficilmente documentabili specie nel più profondo entroterra. E secondo Tolo News, Rohullah Azizi Saleh, il fratello maggiore dell'ex vice presidente afghano Amrullah Saleh, è stato catturato e ucciso dai taleban mentre cercava di fuggire dal Panshir. Ma quale sia la distanza fra il regime dei taleban e i diritti umani che la comunità internazionale invita a difendere è nelle dichiarazioni del portavoce degli studenti coranici, Sayed Zekrullah Hashim. Alla domanda perché nel governo ad interim non vi sia nessuna donna, ha risposto che «una donna non può fare il ministro». «È come se le mettessi sulle spalle qualcosa che non può sostenere. Non è necessario che le donne siano nel governo, loro devono fare figli», ha dichiarato all'emittente Tolo NewsSayed Zekrullah Hashim. «Le donne che protestano», ha tenuto a sottolineare riferendosi alle recenti manifestazioni in diverse città dell'Afghanistan, «non rappresentano tutte le donne afghane». Parole che scavano un fossato sempre più profonda fra Kabul e il resto del mondo, difficile da colmare con generiche dichiarazioni di intenti».
ALITALIA, LA PIAZZA RIAPRE LA TRATTATIVA
Il Manifesto celebra la mobilitazione dei lavoratori ex Alitalia: la piazza ha costretto il Governo a riaprire due tavoli con i sindacati.
«Una manifestazione partecipata, forte e unitaria dei lavoratori Alitalia quella di ieri mattina a piazza San Silvestro a Roma. E che ha prodotto nel pomeriggio un primo risultato: dopo mesi di silenzio, il ministero dell'Economia ha annunciato l'apertura di due tavoli, intervenendo da un lato direttamente su Ita per riaprire la trattativa sulle assunzioni e sul contratto, dall'altro al ministero del Lavoro per gli ammortizzatori per gli 8 mila esuberi che saranno senza cassa integrazione e tutele dal 21 settembre. Da qui a pensare che il piano industriale di Ita - solo 52 aerei e 2.800 assunzioni - cambi ce ne passa. Ma il richiamo al presidente Altavilla e la critica al suo «metodo Fca» - uscire dal contratto nazionale, tagliare il salario e scegliersi i sindacati (le associazioni professionali Anpav, Anpac e Assovolo) che lo avrebbero avallato - era un passo non scontato. Spostata da piazza Montecitorio alla vicina San Silvestro per ragioni di permessi, la manifestazione unitaria dei lavoratori Alitalia - di tutti i settori: piloti, personale di volo, di terra senza dimenticare handling e manutenzione di cui nessuno parla - ha riempito la piazza richiamando anche quasi tutte le forze politiche e i candidati sindaci a Roma. Le contestazioni a Roberto Gualtieri - reo di aver avviato la procedura di nascita di Ita - si sono fermate quando il candidato sindaco del Pd ha ribadito il totale appoggio alle richieste sindacali: «Rivedere il piano industriale di Ita e garantire gli ammortizzatori a tutti i lavoratori Alitalia». Gualtieri è poi rimasto fino a fine manifestazione, ascoltando tutti gli interventi dei sindacalisti. Molto applaudito e realista quello di Maurizio Landini che è partito riconoscendo il fatto che «la situazione è complessa» per poi attaccare «chi è stato chiamato dal governo a gestire la nuova compagnia (Altavilla, ndr) e ha condotto la trattativa con diktat e ricatti sul contratto, scegliendosi i sindacati che lo avrebbero firmato». Allo stesso modo Landini, riferendosi ad uno dei criteri con cui Vestager ha imposto discontinuità tra Alitalia e Ita, considera «inaccettabile che la commissione Europea scelga che tipo di contratti debbano essere applicati ai lavoratori italiani», sottolineando la portata generale di un precedente come questo: «Se in ogni caso di crisi si arriva a sostituire il contratto nazionale con un semplice regolamento aziendale c'è un problema per tutto il mondo del lavoro e per il Paese». Per il segretario della Cgil dunque si può «affrontare la complessità e la gravità della situazione con una trattativa in cui il governo deve essere coinvolto perché stiamo parlando di soldi pubblici per arrivare alle mediazioni necessarie - che andranno votate dai lavoratori ma che non possono contemplare licenziamenti» e «all'interno di una riforma dell'intero sistema aereo». Conclusa la manifestazione con la promessa che «la mobilitazione non finisce qui», i sindacalisti di Fit Cisl, Filt Cgil e Uilt più l'Usb si sono spostati al ministero dell'Economia dove nel pomeriggio sono stati ricevuti dalla viceministro Laura Castelli del M5s. Grazie all'intervento del ministro del Lavoro Andrea Orlando, Castelli ha potuto annunciare l'avvio dei due tavoli con annesse convocazioni già spedite ai sindacati».
La Ue benedice la nuova Ita ma considera illegali 900 milioni dati nel 2017 all’Alitalia. Sul Sole 24 Ore Beda Romano da Bruxelles.
«La Commissione europea ha dato ieri l'agognato via libera alla nascita di Ita, la nuova compagnia aerea che prenderà il testimone da Alitalia. La società nascerà con una iniezione di capitale pubblico pari a 1,35 miliardi di euro. Nel contempo, Bruxelles ha confermato di considerare illegali i 900 milioni di euro che Alitalia ricevette nel 2017. Sperabilmente si chiude così una annosa e imbarazzante vicenda che per i contribuenti italiani è stata particolarmente costosa. «Oggi segna un nuovo inizio per il trasporto aereo italiano - ha spiegato la commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager in una dichiarazione scritta -. Voglio sottolineare un punto che era importante per noi, gli interessi dei passeggeri: l'Italia rimborserà completamente i viaggiatori di Alitalia nel caso in cui la società non dovesse onorare i biglietti quando smetterà di volare. Una volta che Ita decollerà, spetterà all'Italia e al management di Ita approfittare di questa opportunità». Oltre a consentire un aumento di capitale a prezzi di mercato del valore di 1,35 miliardi di euro, l'esecutivo comunitario ha anche deciso di ritenere illegali gli aiuti pubblici ottenuti a suo tempo da Alitalia. Nella sua decisione, la Commissione europea sottolinea che l'impegno della restituzione non ricade sulle spalle di Ita. Infatti, sempre ieri l'esecutivo comunitario ha sancito che vi è discontinuità economica tra le due compagnie aeree. Poiché Alitalia rischia di non avere il denaro per rimborsare gli aiuti indebiti ed è comunque destinata a scomparire, c'è da chiedersi se la richiesta non sia solo un atto dovuto. Alla domanda, la portavoce della Commissione Arianna Podestà ha osservato: «Se il recupero dell'intero importo non può essere realizzato, Alitalia deve cessare definitivamente tutte le sue attività e uscire dal mercato per eliminare completamente la distorsione della concorrenza provocata dall'aiuto illegale». Le decisioni annunciate ieri dall'esecutivo comunitario dovrebbero consentire la nascita di Ita e il passaggio del testimone con Alitalia. Manca all'appello un'ultima decisione, relativa sempre ad Alitalia. Bruxelles deve ancora stabilire se gli ulteriori aiuti ottenuti da Alitalia nel 2019 e di un ammontare pari a 400 milioni di euro siano anch' essi illegali o meno. «L'indagine è in corso - ha detto la signora Vestager -, e ci aspettiamo di essere in grado di adottare a breve una decisione finale». Nei giorni scorsi, Bruxelles aveva preannunciato di ritenere le tre decisioni un tutt' uno. Questa scelta ha colto di sorpresa una parte dell'establishment italiano, che si aspettava - a torto o a ragione - prima il benestare su Ita e poi eventualmente il verdetto sugli aiuti concessi a suo tempo ad Alitalia. Dietro al pacchetto unico vi è il desiderio della Commissione di chiudere una partita che negli anni si è fatta imbarazzante anche per l'esecutivo comunitario. In questo contesto, il governo è stato costretto giovedì sera ad adottare una norma che «adegua le procedure di cessione già delineate dal legislatore alle sopravvenute esigenze connesse ai tempi di adozione della decisione europea della vicenda Alitalia». L'obiettivo della norma è di evitare che la richiesta ad Alitalia di restituire ipso facto 900 milioni di euro costringesse i commissari a portare i libri in tribunale, e in ultima analisi impedisse il completamento dell'operazione che porterà alla nascita di Ita».
PIANO B, UNA MOSTRA SUL CAVALIERE
Si chiama Piano B ed è un’insolita “mostra immersiva” dedicata a Silvio Berlusconi. È stata presentata ieri a Milano: Ecco la cronaca di Libero di Massimo De Angelis.
«L'altra metà del Cavaliere. Una mostra su Silvio Berlusconi, non sotto il profilo politico, ma come imprenditore di successo, fino all'anno 1993, data che precede la sua fatidica discesa in campo. Si tiene nelle sale dell'albergo milanese 'Enterprise', in corso Sempione 91, a partire da oggi e fino al prossimo 31 dicembre, un'esposizione immersiva, dal titolo "Piano B", che vuole raccontare la nascita, l'ascesa e la fortuna di un uomo capace di creare un impero industriale suddiviso in vari settori. Un viaggio di un'ora e venti con immagini proiettate a 360 gradi che, con il taglio pop del fumetto, racconta in maniera volutamente 'acritica' un pezzo di percorso economico italiano a partire dal 1956. Il sogno italiano. Filmati, fotografie, flash, accompagnati da musiche e da un'antologia di frasi famose, che, tassello dopo tassello, riescono a riempire il mosaico della cavalcata finanziaria che ha segnato la storia recente del nostro Paese. Un lasso di tempo animato da ricordi, testimonianze in grado di rendere luminosa la biografia del patron di Mediaset. 'Piano B' non intende fornire un giudizio sul personaggio Berlusconi, bensì proporre un pezzo di cronaca collettiva in ogni suo lato e sfaccettatura. Quello che ne esce è il ritratto di «un'avventura imprenditoriale frutto di mille intuizioni in anticipo sui tempi ma possiede pure le caratteristiche di un sogno che ci ha riguardato, affascinando per la sua compiutezza», come spiega Edoardo Filippo Scarpellini, amministratore delegato del Gruppo MilanoCard (di cui fa parte il Cinema Bianchini promotore dell'evento insieme a Piano B Entertainment). Il Silvio imprenditore, d'altronde, ha attraversato tra gli anni Sessanta e Novanta alcuni tra i campi che più colpiscono l'italian dream: dal pianeta immobiliare all'esperienza televisiva, dal calcio alla grande distribuzione. Lo spunto di maggior interesse, come hanno riconosciuto sociologi e manager, è come il Cavaliere sia riuscito a influenzare e, per un certo senso, modellare il modo di vivere o pensare della nostra società contemporanea. A tale proposito risultano significative le parole del curatore Giuseppe Frangi, quando dichiara: «Al di là delle divisioni e delle polemiche dettate da contrapposizioni ideologiche, è un dato di fatto che Berlusconi ha cambiato l'immaginario tricolore. Negarlo sarebbe come chiudere gli occhi rispetto a un'evidenza che ha riguardato tutti. In realtà Silvio è stato il testimonial di un'idea americana di successo, è il successo che in teoria risulta alla portata di tutti e non solo di chi fa parte di quella nomenclatura che guarda caso non ha mai digerito l'uomo di Arcore». Capacità e attributi. All'interno della retrospettiva compare un'intervista a Vittorio Sgarbi, nel corso della quale il noto critico ripercorre la carriera manageriale di Berlusconi tra notevole perspicacia e pionieristiche visioni, aiutando il visitatore a comprendere i linguaggi o le visioni introdotte dall'uomo di Arcore soprattutto grazie al tubo catodico. Il titolo scelto, 'Piano B', volutamente richiama l'atteggiamento che ogni imprenditore ha nel suo agire: sempre pronto al progetto alternativo. Come è apparsa alternativa rispetto allo status quo la visione imprenditoriale del Cavaliere. È possibile che la mostra susciti discussioni e interrogativi, passando magari per 'agiografica', però c'è un importante messaggio da recepire per l'universo giovanile. Chi possiede capacità, attributi e volontà deve provare a concretizzare i propri sogni e mai perdere la speranza di realizzarli».
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