Piazze allegre e piazze cupe
Sabato di cortei a Glasgow e in Italia. Ma con grandi differenze di numeri e di atmosfere. Lamorgese: "Attenti agli estremisti". Salvini nervoso. Per Libero Draghi è finito. Etiopia, ultimo atto?
A leggere le cronache è stato un sabato di cortei, come annunciato dalla Versione di ieri. Ma i differenti eventi hanno avuto stili molto, molto diversi. Per non parlare delle adesioni. A Milano hanno bloccato il centro città in 4 mila, a Trieste in 8 mila. A Glasgow erano oltre 200 mila e hanno sfilato per le strade della cittadina scozzese in un clima di festa, sereno e variopinto. Greta alla fine ha lasciato spazio alla ugandese Vanessa Nakate. Vedremo nel giro di sette giorni, se le conclusioni formali della Cop26 saranno state influenzate dalle proteste ambientaliste.
Cupo il clima in Italia per i No Green pass. Quanto ci costano i no vax in corteo? Titola Avvenire in prima pagina, alludendo soprattutto ai nuovi contagi da Covid. Sì, perché ci sono due tipi di costi: la riaccensione di focolai e gli enormi costi che stanno pagando gli esercizi commerciali. A Roma il calcolo arriva ad un danno di 6 milioni di euro per i commercianti della capitale, secondo Il Messaggero. A Milano per l'area del centro e di corso Buenos Aires, il costo delle manifestazioni No Green pass è stato di 10,2 milioni di euro negli ultimi tre sabati, ovvero una perdita del 27% del fatturato di negozi, bar e ristoranti, secondo l'Ufficio Studi di Confcommercio Milano. La Lamorgese, intervistata dal quotidiano romano, oggi dice: “Bisogna coniugare il diritto di manifestare con la tutela della salute pubblica, preservando al contempo i legittimi interessi degli esercizi commerciali in difficoltà anche per l'intensificazione dei cortei e di altre forme di protesta”. Speriamo che ci si muova prima di sabato prossimo.
La politica, come spesso capita, è agitata dalle inchieste giudiziarie. De Luca è sparito dai giornali, ma non Renzi che è in pieno scontro con i giornalisti del Fatto per via delle carte dell’inchiesta su Open, pubblicate ieri a tutta pagina. Il leader di Italia viva cercherà di difendersi per vie legali, ma oggi Il Fatto risponde: “Ieri abbiamo sfogliato a lungo la Costituzione e il codice penale: non abbiamo ancora trovato l'articolo che avremmo violato pubblicando atti depositati”. Vedremo.
Per il resto gli scenari politici dei giornali domenicali raccontano di un Salvini ancora molto nervoso, nonostante la “vittoria” (copyright il Giornale) al Consiglio federale su Giorgetti. Se non ci fosse un problema politico reale, non si capirebbe tanta inquietudine, come nota Socci su Libero. Gustoso il retroscena di Giovanna Vitale che racconta la tipica cena romana “quirinalizia” offerta da Goffredo Bettini per il suo compleanno. C’erano Letta zio e Giuseppe Conte.
Dall’estero molte importanti notizie. In Etiopia si è alla vigilia dell’ingresso dei ribelli ad Addis Abeba e gli occidentali stanno evacuando. Vigilia anche a Pechino ma di altro genere: domani inizia il Plenum del Partito comunista cinese. Il Presidente Xi cerca la sua consacrazione a nuovo Imperatore, sul modello di Mao. Drammatiche notizie sull’Afghanistan: 4 donne attiviste sono state trovate uccise, probabilmente attirate da una trappola dei Talebani.
Potete ancora ascoltare un vero esempio di economia circolare e solidale, una storia positiva nei giorni della Cop26 di Glasgow. La racconto nel quarto episodio della serie Podcast originale realizzata da me con Chora Media per Vita.it. e con il sostegno di Fondazione Cariplo, intitolata Le Vite degli altri e che racconta vicende di chi dedica il proprio impegno e il proprio tempo agli altri. Il titolo di questo quarto episodio è “Un Quid della moda”. Protagonista è la trentenne veronese Anna Fiscale che ha realizzato un’impresa sociale di successo, che ha il marchio “Progetto Quid”, riutilizzando materiale avanzato da grande aziende della moda, come Calzedonia. Dando anche lavoro a persone abitualmente tagliate fuori dal sistema produttivo, compresi disabili e detenuti. Si può creare qualcosa di diverso e responsabile, scommettendo su ciò che la società consumistica lascerebbe ai margini. La storia di Anna lo dimostra. Questa l’immagine della “cover”.
Troverete Le vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo:
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Avvenire esalta la manifestazione festosa e pacifica dei giovani (e non solo) a Glasgow: La marea verde. Il Manifesto rispolvera un vecchio slogan: Assalto al cielo. Il Domani ci vede addirittura un modello: Una marea umana per il clima. Questa è la nuova sinistra globale. Le piazze italiane animate dai No Vax (sempre pochini e violenti) inducono pensieri meno positivi. Il Giornale: Il sabato italiano ostaggio dei No Pass. Titolano con le parole della Ministra degli Interni intervistata sia Il Mattino: «Estremisti tra i no vax, vogliono creare il caos» che Il Messaggero: «Estremisti, insidia vera. Serve una stretta sui rave». Della pandemia si occupano i giornaloni. Il Corriere della Sera: «Ora terza dose sotto i 60». La Repubblica: Covid, 10 città in allerta. E La Stampa, provocatoria, propone: “Valutiamo il lockdown per chi non è vaccinato”. La Verità ora tira in ballo i reparti d’urgenza: Sulle intensive siamo fermi da un anno. Il Fatto insiste nello spulciare i conti bancari del leader di Italia Viva: I 2 bonifici a Renzi dal governo saudita. Il Quotidiano Nazionale annuncia: Guida al nuovo codice della strada. Mentre Il Sole 24 Ore rispecchia l’ottimismo della finanza: Borse record, Milano in prima fila. Libero invece sostiene drastico che il governo sarebbe arrivato al capolinea: Draghi finisce qui.
CORTEI NO PASS
Sedicesimo sabato consecutivo di proteste contro il Green pass. I manifestanti hanno dato vita a cortei senza regole. A Milano, percorsi cambiati e traffico in tilt: malmenati alcuni automobilisti. Allarme per i giornalisti aggrediti, diventati ovunque bersaglio dei No vax. La cronaca del Corriere.
«Il calo dei numeri (lieve) è la sola buona notizia dell'ennesimo sabato di tensione «no pass». Manifestazioni in tutta Italia con il centro sempre più orientato su Milano. Nel capoluogo lombardo va in scena il corteo numero sedici dal 24 luglio. I 4 mila manifestanti non rispettano il percorso imposto dal questore Giuseppe Petronzi e scatenano il caos paralizzando traffico della circonvallazione e di mezzo centro città. Aggrediti e presi a calci alcuni automobilisti che hanno cercato di ribellarsi ai blocchi del corteo non autorizzato. A fine giornata, quando lo spezzone del corteo è ormai ridotto a un migliaio di manifestanti, e viene circondato da operatori e mezzi di polizia e carabinieri, sono una sessantina gli identificati dalla questura: un arresto, dieci denunciati e due fogli di via. A fare le spese delle proteste, però, sono stati soprattutto i giornalisti. Spintoni e insulti a un giornalista di Fanpage già all'avvio in piazza Fontana. Minacce e il coro «terroristi terroristi» per diverse troupe che stavano seguendo la manifestazione, tre militanti no vax bloccati dalla Digos e identificati. A Trieste, dove aumentano contagiati e focolai, un gruppo di duecento manifestanti - reduci della sfilata di ottomila persone che si era appena conclusa senza incidenti - ha tentato di forzare le transenne in piazza Unità d'Italia, ma gli agenti hanno respinto i manifestanti con una carica. Anche qui però aggressioni a operatori dell'informazione: il cronista del Piccolo Gianpaolo Sarti è stato colpito con una testata. Spintoni e mani sulla telecamera per il cronista di una tv locale Andrea Pierini che stava riprendendo la manifestazione. Giornalisti nel mirino anche a Padova dove durante la manifestazione la cronista di Telenuovo, Marzia Pretolani è stata più volte intimidita e insultata dai manifestanti: «Lei deve dormire male dalla vergogna, vi dovete vergognare tutti, vi siete fatti un vaccino inutile lei ha il cervello fuso, voi raccontate solo quello che vi pare». Proprio ieri la Federazione nazionale della stampa italiana e i Cronisti lombardi avevano lanciato un appello alla tutela del lavoro dei giornalisti in piazza. A Torino qualche momento di tensione innescato dagli anarchici con lancio di bottiglie e petardi contro un cordone di poliziotti durante un corteo sui migranti, mentre i «no pass» hanno assediato la sede Rai al grido «giornalisti terroristi» per poi organizzare provocatoriamente un aperitivo in strada. Le proteste «no pass» non si fermano e sono ormai un grosso problema sul fronte dell'ordine pubblico. A Milano i manifestanti fanno leva sul senso di impunità (nonostante oltre 300 denunce, arresti e daspo) forti del fatto che il corteo non verrà caricato dalle forze dell'ordine. Ma anche del sostegno arrivato dall'esterno, con le parole del senatore ex M5s Gianluigi Paragone che nei giorni scorsi ha attaccato duramente il questore Petronzi accusandolo di voler soffocare la protesta con daspo e denunce illegittime. Da qui la presa di posizione del portavoce dell'Associazione nazionale dei funzionari di polizia, Girolamo Lacquaniti: «Purtroppo il livello di tensione e di provocazione continua ad essere strumentalmente alimentato da soggetti le cui finalità sembrano andare ben oltre la contestazione dei provvedimenti del governo».
La ministra degli Interni Luciana Lamorgese viene intervistata sul Messaggero da Cristiana Mangani.
«Il sistema sicurezza ha garantito la perfetta riuscita del G20, ma continuano a verificarsi episodi difficili da controllare. In che modo si pensa di intervenire? «Nel momento in cui, il Forum dei Grandi della Terra si è concluso senza un solo incidente, tutti hanno riconosciuto che il governo ha vinto la sfida del G20 anche sotto i profili della sicurezza e della gestione dell'ordine pubblico che hanno comportato un grandissimo sforzo organizzativo. Lo scorso fine settimana, grazie alle misure messe a punto in sede di Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica, tutte le componenti del sistema sicurezza hanno saputo mettere in campo un complesso gioco di squadra. Quasi 10 mila unità tra forze di polizia, forze armate e polizie locali, hanno vigilato sulla sicurezza del vertice dei capi di Stato e di Governo con l'impiego di decine di mezzi speciali, dei servizi di prevenzione antiterrorismo, di un complesso dispositivo di difesa aerea, dei sistemi anti-drone, dei Nuclei per gli attacchi batteriologici e chimici dei Vigili del Fuoco. A chi ha reso possibile tutto questo rinnovo il mio ringraziamento e quello del governo, estendendo un apprezzamento anche ai cittadini romani che hanno sopportato non pochi disagi». G20 a parte, a distanza di pochi mesi dal rave di Viterbo, la scena si è ripetuta a Torino, e prima ancora è mancata la prevenzione nella manifestazione del 9 ottobre a Roma. Quali le difficoltà? «I rave party si sono sempre svolti. Solo nel 2018 ci sono stati almeno una cinquantina di raduni clandestini, dalla centrale di Montalto di Castro alla fabbrica ex Viberti di Nichelino. E come è stato osservato in più occasioni, le leggi in vigore non ci mettono in condizione di contrastare questi grandi rave illegali come avviene in altri Paesi d'Europa dove le norme sono più severe. Sono consapevole del senso di preoccupazione che questo fenomeno determina nell'opinione pubblica, sia per i comportamenti illegali connessi all'abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti, sia per i riflessi sulla possibile diffusione dei contagi». Cosa si può fare in Italia? «Non può certo essere ignorata la sentenza della Corte di Cassazione del 2017 incentrata sulla non punibilità degli organizzatori degli eventi non indetti nell'ambito di una attività imprenditoriale. I casi che si sono sinora verificati hanno riguardato raduni organizzati con un passaparola clandestino attraverso il web e soprattutto i social network, in particolare tramite canali privati e coperti come Telegram». Mancano prevenzione o leggi ad hoc? «Sono convinta che serva un intervento normativo per rafforzare il sistema di prevenzione e contrasto. Il ministero dell'Interno sta lavorando ad un'ipotesi di fattispecie criminosa che consenta di disporre la confisca obbligatoria dei veicoli e degli strumenti necessari per l'organizzazione dell'intrattenimento e che preveda l'obbligo del ripristino dei luoghi. Sul piano preventivo, potremmo introdurre la possibilità di ricorrere ad altri strumenti investigativi, come già avviene per diversi reati di particolare gravità. Tutto questo per allinearci alla legislazione degli altri Paesi europei, nei quali, evidentemente, oggi gli organizzatori dei rave party rischiano molto di più. Su queste ipotesi ci sarà un confronto con il ministero della Giustizia». Il post lockdown, oltre alle proteste legate al rifiuto delle regole e al disagio sociale generato dalla crisi economica, sta mostrando un'altra faccia della violenza, quella giovanile. E c'è chi ammazza per un aperitivo mancato. Quali le cause di una movida troppo spesso violenta? «Quello del disagio giovanile non è solo un problema di ordine pubblico. Ci sono moltissimi ragazzi ai quali bisogna dare innanzitutto risposte concrete, senza dimenticare la socialità e la fruibilità dei luoghi di ritrovo. Venendo alla movida violenta, l'alta concentrazione di pub e di ristoranti in alcune aree urbane non facilita certo le attività di controllo messe in campo dai prefetti e dalle forze di polizia che comunque fanno ogni sforzo per predisporre servizi mirati negli orari più a rischio. Un anno fa, dopo l'omicidio a Colleferro del giovane Willy Monteiro Duarte, abbiamo rafforzato la norma che permette ai questori di disporre il divieto di accesso ai locali pubblici nei confronti delle persone denunciate o condannate anche con sentenza non definitiva. I dati dimostrano l'efficacia di questa strategia basata in particolare sulle misure di prevenzione personali: nei primi tre trimestri del 2021, sono stati adottati 847 provvedimenti di questo tipo mentre i Daspo urbani per la movida violenta erano stati appena 18 nell'analogo periodo del 2020». Ogni sabato si sta riproponendo il problema delle manifestazioni che bloccano i centri storici. E i commercianti cominciano a reagire perché le loro attività stanno subendo forti danni. C'è il diritto di manifestare ma anche quello di lavorare. Come contemperare le due cose? «Stiamo attraversando una fase molto delicata per il Paese, in cui bisogna coniugare il diritto di manifestare con la tutela della salute pubblica, preservando al contempo i legittimi interessi degli esercizi commerciali in difficoltà anche per l'intensificazione dei cortei e di altre forme di protesta. Per questo, i prefetti e i questori sono impegnati al massimo per fare rispettare le regole, in modo da limitare i disagi che ricadono sulle diverse categorie economiche». Proteste incontrollate e guerriglia urbana alimentano gli attacchi della Lega e di Fratelli d'Italia. Il premier Draghi è schierato al suo fianco, ma non si sente troppo sotto esame? «Chi siede al vertice del Viminale è sempre sotto esame. E io cerco di affrontare ogni giornata di lavoro con la dovuta serenità, ascoltando sempre chi avanza proposte concrete e dà consigli costruttivi per affrontare problemi complessi e strutturali, come l'immigrazione irregolare, che non si risolvono certo con dichiarazioni propagandistiche».
GLASGOW, LA BELLA PIAZZA
Migliaia di manifestanti nella città scozzese (e in altre 300 nel mondo) sono sfilati in un’atmosfera di festa e slogan sui leader. Greta ha lasciato spazio all’ugandese Vanessa Nakate. Intanto alla Cop26 è stato siglato un accordo sull'agricoltura per 4 miliardi. Ora gli “sherpa” di Glasgow hanno una settimana per arrivare a risultati concreti. Sara Gandolfi sul Corriere.
«No, non è più un gioco da ragazzi. Una manifestazione di studenti che vogliono saltare il giorno di scuola per accodarsi alla loro nuova eroina, Greta Thunberg. Il serpentone che ieri ha invaso le strade di Glasgow, incurante del vento gelido e della pioggia sferzante, era lungo chilometri. Sembrava non finire mai, con i cartelloni colorati, i tamburi e i sassofonisti, una marea di bandiere scozzesi, a ricordare che qui si sfila per il clima ma non si dimentica la passione indipendentista. Un fiume di gente di ogni età. Erano oltre 200.000, secondo le stime arrivate in serata. Greta è cresciuta - non porta più neppure le trecce - e con lei è diventato sempre più ampio il movimento che ha ispirato. Nel mondo si sono svolti oltre 300 eventi simultanei, in occasione della «Giornata globale di azione per la giustizia climatica», da Londra a Parigi, da Copenhagen a Rio de Janeiro. Ma è ovviamente a Glasgow che hanno puntato tutti coloro che se lo potevano permettere. Greta stavolta non ha parlato, per lasciare il microfono ad altri quando dopo ore di marcia, che ha costeggiato la zona superblindata dove si svolge il vertice dell'Onu sul clima, il corteo si è finalmente fermato a Glasgow Green. La svedese si è limitata a twittare, a fine manifestazione: «Oggi centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo hanno manifestato per il clima, mandando un chiaro messaggio a chi è al potere alla Cop26, perché proteggano le persone e il pianeta. I nostri cosiddetti "leader" non stanno guidando - QUESTA è la vera leadership!». In piazza, la star della giornata è stata l'ugandese Vanessa Nakate, che ha parlato delle sfide che gli africani affrontano a causa dell'emergenza climatica e ha infiammato la piazza gridando: «La crisi climatica ed ecologica non riguarda solo modelli meteorologici o punti dati, o obiettivi netti zero. Non si tratta di statistiche, riguarda le persone». Parlano anche gli indigeni - «le nostre case sono in fiamme, il mare si sta alzando, la temperatura sta salendo e la terra si sta sciogliendo» - e dalle isole Marshall, che stanno lentamente affondando nell'Oceano Pacifico, la giovane Kathy Jetnil-Kijiner: «Contribuiamo allo 0,00005% delle emissioni globali del mondo, non dovremmo pagare le conseguenze di questa crisi». A Glasgow qualcuno arriva a paragonare la manifestazione di ieri alle grandi proteste operaie di un secolo fa. Altri tempi e altre lotte. Il 31 gennaio del 1919, la marcia dei lavoratori che rivendicavano paghe migliori sfociò in un bagno di sangue, diventato famoso come la Battaglia di George Square. Giovedì e ancor più ieri si respirava invece un'aria di festa, quasi carnevalesca. E la polizia, che seguiva il tutto in motocicletta, a cavallo e con gli elicotteri dall'alto, alla fine non sembrava neppure troppo preoccupata. I manifestanti si radunano a metà mattinata a Kelvingrove Park, incuranti del fango e della pioggia. E lentamente partono in un tripudio di bandiere scozzesi, striscioni con la scritta Net zero , cartelli sarcastici su Ben Johnson e Alok Sharma, il premier britannico e il presidente di Cop26. Tre vecchiette indossano la maschera della regina Elisabetta e, un po' chine come lei, sfoggiano i cartelli con la sua celebre frase: «È irritante, quando parlano e non fanno» (fuorionda della sovrana contro i leader a Cop26). Protestano contro un vertice sul clima che per tutti loro, come ha detto Greta, è già fallito. Ma non ci sono solo gli ambientalisti nella marcia: sfilano anche i sindacati che reclamano «Non può esserci giustizia climatica se non ci sarà giustizia sociale», ci sono i netturbini di Glasgow che scioperano per chiedere salari più alti, gli immigrati che con un grande cartellone invocano «lo stop alle deportazioni». I pacifisti che reclamano «la fine della guerra» e tanti veterani socialisti, uno dei piu anziani sfoggia il cartello con l'effige dell'ex candidato alla presidenza Usa Bernie Sanders e la sua celebre frase: «planet B is not an option». Poi arriva pure un gruppo di giovani pseudo-blackblock con il viso però da bravi ragazzi e le bandiere rosse comuniste alzate bene in aria (sono gli unici blindati pesantemente dalla polizia). Intanto molti negozi abbassano le saracinesche. Non si sa mai. Solo una piccolissima minoranza indossa la mascherina al corteo, e il distanziamento è un'utopia. Nei prossimi giorni i test antigenici Covid, qui diffusissimi e forniti gratuitamente dal servizio sanitario nazionale faranno il calcolo dei danni sanitari. Ieri, però, nessuno voleva pensare alla pandemia. Mentre fuori la città risuonava con i tamburi e le voci dei manifestanti, sotto i tendoni (altrettanto gelidi) dentro lo Scottish Event Center sono continuati i lavori della Cop26, in un silenzio rarefatto. Finito il glamour del vertice dei capi di Stato, ora è un susseguirsi di incontri tecnici e negoziati a porte chiuse. Anche ieri il presidente Sharma è riuscito ad annunciare una nuova mini-intesa: 45 Paesi hanno promesso azioni e investimenti urgenti (complessivamente 4 miliardi di dollari) per proteggere la natura e passare a metodi di agricoltura più sostenibili. Altri 10 Paesi si sono impegnati a considerare area protetta almeno il 30% delle loro riserve marine. E da settimana prossima, si torna a trattare. Mancano sette giorni per dimostrare che non sarà un fallimento».
CENA QUIRINALIZIA DA BETTINI
Festa di compleanno per Goffredo Bettini, leader romano e mente strategica del Pd. C’erano Conte (arrivato in ritardo) e Letta (però Gianni, lo zio: Enrico, il segretario del Pd, era a Siena). Si è parlato fra le portate, fatalmente, di Quirinale. Ne scrive su Repubblica Giovanna Vitale.
«Il menu della festa, tutto fatto in casa dalla signora Anna, prevedeva lasagne, polpette al sugo, pasta e ceci e verdura ripassata. Ma il vero piatto forte del pranzo con cui Goffredo Bettini, gran visir della politica romana, ha festeggiato due giorni fa il suo 69simo compleanno nella sperduta villetta a due piani dell'ex autista storico, Libero Bozzi, era ben altro. A prima vista, il panorama offerto al centinaio di invitati al genetliaco del dirigente pd più influente dell'Urbe è infatti la periferia de La Storta, remota frazione a nord della Capitale, ma l'orizzonte verso cui in tanti volgono lo sguardo nei vari conciliaboli spuntati qua e là all'ombra del patio è assai più distante da lì. Punta dritto al colle più alto, di cui ormai da settimane non si fa che parlare: il Quirinale. Nulla di ufficiale, per carità. Nel discorso venato d'ironia e ricordi d'antan con cui Bettini saluta i suoi ospiti - «Tutte persone con cui ho vissuto delle straordinarie esperienze » - non se ne fa cenno. Ma la presenza attorno allo stesso desco di Giuseppe Conte e Gianni Letta (ma non del nipote Enrico, il leader dem in trasferta a Siena), dei ministri Orlando e Franceschini insieme ai sindaci Gualtieri e Manfredi, del vicesegretario Provenzano e del governatore Zingaretti mescolati a una pletora di assessori e parlamentari tra cui Mancini, l'eminenza grigia del Campidoglio, è l'occasione per valutare in capannelli appartati gli scenari della partita più importante dei prossimi mesi. Tutti d'accordo su una premessa: se Draghi vorrà salire al Colle nessuno potrà sbarrargli il passo. «Verrebbe eletto in cinque minuti», sulla scorta però di un accordo che blindi la legislatura. Sarà poi lui a indicare il premier incaricato di portare le Camere a scadenza naturale, ché le urne anticipate non le vuole nessuno, se non Fdi e un pezzo di Lega. Troppo poco per precipitare il Paese a elezioni. Sul punto, nella villetta di periferia, pochi hanno dubbi: a palazzo Chigi andrebbe il ministro del Tesoro Daniele Franco, l'uomo di cui Draghi si fida di più. È in questo quadro che si iscrive il destino di alcuni dei presenti. Zingaretti lascerebbe la Regione per entrare nel nuovo governo. E nel Lazio si voterebbe qualche mese prima, insieme alle amministrative di primavera. Con un candidato di centrosinistra già scelto: Enrico Gasbarra, ex deputato in Italia e in Europa con solidi rapporti Oltretevere. Ipotesi sussurrate a mezza bocca. Da tenere al riparo, per ora. Come fa il festeggiato, che pubblicamente preferisce esibirsi in frizzi e lazzi. E così quando Conte arriva, in ritardo ma accolto dagli applausi, Bettini scherza: «Se vogliamo avere un rapporto unitario, deve essere paritario », lo apostrofa guardando l'orologio per poi domandargli fra gli sghignazzi: «Dov' è il regalo?». Parla d'amicizia, il regista del "modello Roma", dei legami di solidarietà creati in questi anni, e gli occhi vanno verso Letta zio che siede a un passo. «Adesso è tutto in movimento, ci sono persone che hanno idee, orientamenti diversi», accenna al governo Bettini, a quel che potrà accadere di qui a febbraio. «In questo momento non ci si capisce niente», perciò «è ora di far funzionare il cervello e di rimettere insieme questa amicizia che è un patrimonio». E se son rose, tra grillini e forzisti, certo fioriranno: magari anche per merito suo. Perciò «ringrazio in particolare Luigi, ehm Giuseppe», finge di confondere Di Maio con Conte, un giochino che fa spesso. Lui «è una new entry dei miei compleanni che spero si ripeterà in futuro». L'ultima battuta è per il Quirinale, argomento tabù solo per finta: «Io non so chi sarà il prossimo presidente della Repubblica, ma una cosa vorrei chiedergli», celia Bettini: «Di farmi corazziere!». E giù risate».
SALVINI OSSESSIONATO DA GIORGETTI
Centro destra ancora agitato dalla diatriba nella Lega. Salvini stenta a trovare serenità. Si lascia sfuggire una frase: “Il confronto è bello, la polemica fastidiosa” e tutti pensano a Giorgetti. Marco Cremonesi per il Corriere.
«Io, la pizza la mangio con la fidanzata...». Hai voglia a voler chiudere la polemica. Ma quando ti servono la battuta, resistere è dura. E così, quando i cronisti chiedono a Matteo Salvini dell'ormai celebre pizza tra Luigi Di Maio e il suo vice Giancarlo Giorgetti, la battuta arriva. Il segretario leghista, in realtà, non ha voglia di parlare («Per me le polemiche sono una fastidiosa perdita di tempo. Il confronto è bello, la polemica no») né di quello né dell'intervista a Giorgetti fatta da Bruno Vespa, che infiamma la politica da giorni. Ma è stato lo stesso Vespa, ieri alla scuola di formazione politica della Lega di Armando Siri per intervistare i ministri del partito, a chiudere la questione: «È noto che Giorgetti ha una linea più favorevole al Ppe, forse il fatto di averlo scritto ha fatto un po' di rumore. La novità non c'è. Devo dire che Giorgetti ha sempre detto: la Lega è una e il capo è Salvini. Punto e basta». In ogni caso, ieri il ministro allo Sviluppo economico non era tra i suoi intervistati: si è limitato a un videomessaggio ai giovani della scuola. Va detto che Salvini non appare interessato nemmeno alla discussione sul (non) ingresso della Lega nel Ppe. Anche qui, taglia corto con una battuta: «Mi dicono che devo entrare nei popolari. Io entro dove ca... voglio. Io mica citofono come nel giorno di Halloween, chiedendo dolcetto o scherzetto». Insomma, «se c'è un centrodestra asservito alla sinistra, il mio compito è portare l'alleanza a tornare a essere orgogliosamente centrodestra, conservatore, liberale rivoluzionario e costruttivo, in italia e in Europa». La strada però non è priva di ostacoli: nella Lega non è stato preso bene il fatto che FdI abbia già indicato il suo candidato sindaco per Como, Stefano Molinari. Salvini è invece ormai tutto proteso a ridefinire i temi dell'identità leghista, dal sostegno alla natalità al ritorno al nucleare al lavoro («Il mio modello non è Amazon»). L'immigrazione resta. Salvini commenta l'appello di Sergio Mattarella, affinché l'Ue e l'Africa facciano di più sui migranti: «Io sono d'accordissimo. Da mesi attendo un incontro con il ministro Lamorgese. A questo punto non lo chiedo neanche più perché rischio di essere fastidioso». Il nuovo corso della Lega partirà con l'assemblea programmatica di dicembre: «L'avremmo potuta fare una settimana dopo, non l'11 e 12 dicembre. Ma non potevo partecipare in contumacia». Il sabato successivo è infatti prevista l'udienza del suo processo per i fatti della Open arms: «Che il futuro candidato premier si colleghi dall'aula bunker di Palermo, dove è stato processato Totò Riina, non sarebbe stata una bella immagine...».
Antonio Socci su Libero analizza le prospettive strategiche del centro destra (lo trovate integrale nei pdf), evidenziando che lo schema classico, Fi-Lega-FdI uniti alle elezioni, con Palazzo Chigi conquistato da chi ha più voti, ha una serie di ostacoli. Il più serio dei quali è il contesto europeo ed internazionale. Ecco allora il finale del suo ragionamento:
«Le tre opzioni. Di fronte a tale situazione la coalizione di centrodestra può scegliere tre strade molto diverse: infischiarsene (cosa che provocherebbe una crisi nella decisiva componente di Forza Italia e forse la sconfitta nelle urne); lamentare il fatto che si cerca di espropriare gli italiani della loro sovranità proclamata dall'articolo 1 della Costituzione e così lanciare la "sfida patriottica" a tutti i poteri sovrannazionali (la Ue, la Bce, i Mercati ecc.), cosa che di sicuro porterebbe nel burrone. Infine il centrodestra ha una terza possibilità: fare politica. Cosa significa? Anzitutto prendere atto della situazione e partire dalla realtà che c'è, per quanto problematica, anziché da quella che si vorrebbe che ci fosse. Dopodiché ricordarsi che non il fondamentalismo, ma «il compromesso è la vera morale dell'attività politica» (Ratzinger). La storia insegna: Togliatti, che era un politico scaltro, si fece piacere pure il governo Badoglio pur di arrivare al suo scopo. Inoltre tener presente che il tempo è una dimensione fondamentale della politica che non permette mai a nessuno il "tutto e subito", ma impone di darsi strategie di breve, di medio e di lungo termine, sia per gli obiettivi, sia per le (pur legittime) ambizioni personali dei leader (che tuttavia non dovrebbero mai prevalere sul disegno politico). Non so se le riflessioni di Giorgetti siano state di questo tipo. Di sicuro, in un tale quadro, sarebbe assurdo non considerare l'autorevolezza internazionale di una personalità come quella di Mario Draghi, di cui l'Italia non può privarsi e che può essere molto prezioso anche per il centrodestra».
DRAGHI È FINITO (DICE SALLUSTI)
Attraverso un titolone estremo, come nella tradizione di quel giornale, Alessandro Sallusti su Libero sostiene che “Draghi è finito”. Ecco il suo commento in prima pagina:
«L'avventura di Mario Draghi premier più o meno finisce qui, o almeno finisce qui il primo tempo della sua partita. Si va negli spogliatoi con l'Italia in vantaggio, sarà un intervallo lungo circa tre mesi, fino al giorno dopo l'elezione del nuovo Capo dello Stato che potrebbe essere Draghi stesso, motivo per il quale il presidente del consiglio deve sospendere ogni decisione e forzatura per non compromettere la sua candidatura. Questi primi quarantacinque minuti sono stati belli, e soprattutto utili. Draghi ha centrato in pieno i due obiettivi che il presidente Mattarella gli aveva assegnato: bloccare con ogni mezzo il dilagare dell'epidemia Covid e rassicurare l'Europa sul fatto che avremmo saputo gestire quella montagna di soldi che il recovery plan ci aveva assegnato. Su tutto il resto ci ha provato ma ha capito che non era aria data l'incompatibilita tra i partiti della maggioranza che sostiene il suo governo. O meglio: ha impostato una rivoluzione rimandando però la sua attuazione in là nel tempo, a tempi migliori e forse a premier diversi da lui: sulle pensioni cade quota cento ma non si torna subito alla Fornero, sulle tasse si prevede un taglio da otto miliardi ma non si dice dove e come, sulla casa si riordina il catasto ma per tre-cinque anni tutto rimarrà uguale, il reddito di cittadinanza si mette in riga ma resta in piedi, sulla liberalizzazioni di licenze e concessioni si ribadisce l'urgenza ma nulla accade. I partiti tirano un sospiro di sollievo, ogni passo in più rischiava di procurare lacerazioni interne che avrebbero potuto portare a una crisi di governo che nessuno intendeva intestarsi perché tutto sommato Draghi agli italiani in questo momento piace più di qualsiasi leader. Con che formazioni la politica tornerà in campo nel secondo tempo dell'era Draghi è presto per dirlo, ovviamente tutto dipenderà dal ruolo che il capitano vorrà e saprà darsi. Ma da qui ad allora dimentichiamoci colpi di scena o fughe in avanti sui fronti più caldi dell'agenda economica e sociale. Al massimo, come accade nelle partite di calcio, durante l'intervallo vedremo palleggiare in campo le riserve».
MIGRANTI, MATTARELLA CRITICA ANCORA LA UE
Missione del Presidente Mattarella ad Algeri che torna a lanciare un monito: bisogna fare di più sui migranti. Ue e Africa devono collaborare. Andrea Nicastro per il Corriere.
«Con il suo atterraggio ieri mattina in una Algeri dal cielo carico di pioggia, Sergio Mattarella è diventato il primo presidente italiano dopo Carlo Azeglio Ciampi e il primo capo di Stato europeo dall'inizio dell'era Covid ad andare in visita nell'ex colonia francese. Mattarella rientrerà a Roma questa sera, ma i potenziali sviluppi diplomatico-economici fanno di questo viaggio un momento importante. Nei quasi due decenni tra le visite italiane il Medio Oriente è cambiato. L'invasione dell'Iraq ha scatenato l'islamismo, le primavere arabe hanno in gran parte fallito la democratizzazione, la vicina Libia è caduta nella guerra civile, i bassi prezzi del petrolio non hanno aiutato lo sviluppo. L'Algeria, con il suo governo ancora forgiato dalla lotta di liberazione coloniale, è rimasto tra i pochi Paesi stabili di una regione segnata dal terrorismo. Negli ultimi mesi, però, la crisi del Sahara Occidentale ha incrinato i rapporti con il vicino-rivale Marocco. Per ritorsione Algeri ha deciso di chiudere il gasdotto che andava in Spagna attraverso il regno alawide. Restano aperti per l'export solamente altri due tubi sottomarini: l'Enrico Mattei, verso l'Italia, e il Medgaz, verso la Spagna. L'ipotesi di posare una condotta nel deserto del Sahara per gli idrocarburi nigeriani riporta in vita il progetto di un collegamento sottomarino tra Algeria e Sardegna. Si formerebbe così una rete di gasdotti in grado di far concorrenza alle forniture russe. Se a quel progetto, infine, si aggiunge la speranza di un ritorno stabile sul mercato della Libia, il Sud del Mediterraneo e l'Italia conquisterebbero un ruolo di primo piano nelle strategie energetiche europee. Grandi produttori come Nigeria, Algeria e Libia tutti collegati alla Penisola. Grande la cordialità negli incontri di ieri tra Mattarella e l'omologo algerino Abdelmadjid Tebboune. «L'Italia spinge l'Ue ad un rapporto sempre maggiore con i Paesi del Mare Nostrum anche perché sono la porta con il continente africano che per l'Europa è fondamentale - ha assicurato Mattarella -. Il futuro di Africa e Europa è necessariamente comune, l'Algeria è un partner strategico e il documento approvato dall'Ue in aprile sviluppa queste prospettive. Speriamo che il rapporto che c'è tra Algeria e Italia sia d'ispirazione». Per Mattarella, Africa e UE devono «fare di più» per i migranti; se non si «governa» il fenomeno, sia le «nostre ragioni umanitarie sia i nostri sistemi statali, saranno sopraffatti». Il presidente Tebboune si è detto «molto ottimista», sperando «che i risultati del vertice intergovernativo italo-algerino - in programma per inizio 2022 con il premier Mario Draghi e l'omologo Aymen Benabderrahmane, ndr - possano portare a un rafforzamento dell'economia algerina basata, come l'italiana, sulle piccole e medie imprese. Sulla Libia abbiamo punti di vista praticamente uguali e l'amicizia tra Roma e Algeri è solida, rafforzata durante il "decennio nero" segnato dal terrorismo algerino quando l'Italia è stato l'unico Paese che ci è rimasto accanto». Importante anche il ruolo svolto dall'Eni e, soprattutto, dal suo fondatore Enrico Mattei ricordato dall'agenzia ufficiale Aps come «amico della rivoluzione contro l'occupazione francese». A Mattei, Algeri dedica oggi un giardino in centro città che verrà inaugurato da Mattarella».
ETIOPIA, GLI OCCIDENTALI SCAPPANO
L’editoriale di Avvenire è dedicato alla drammatica situazione ad Addis Abeba. Paolo Lambruschi.
«Un anno di guerra ha riportato l'Etiopia indietro di 35 anni, ai tempi della carestia che mobilitò il mondo del rock con il 'Live Aid'. Come nell'85 il secondo Paese africano, oggi indebolito dalla pandemia e dai mutamenti climatici, è sull'orlo del baratro per una guerra civile, stavolta tra Governo centrale, Tigrini e Oromo, e per una carestia provocata da mano umana per vincere con la fame quella resistenza che le armi non hanno piegato. Si ritrova così sul ciglio della dissoluzione, con il rischio di trascinare l'intero Corno d'Africa. E, comunque vada a finire il conflitto scoppiato nel Tigrai il 4 novembre 2020, e subito oscurato da un black-out comunicativo, il disastro di Abiy e dell'Etiopia è evidente. Scegliendo di proseguire con la guerra civile la lotta politica agli arcinemici del Tplf, partito guida del Tigrai e suoi predecessori alla guida dell'Etiopia per 27 anni, Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019, ha affossato in 12 mesi i successi economici segnalati da una crescita decennale del Pil a due cifre e la propria immagine internazionale di leader nuovo del continente africano, ambientalista e paladino della libertà di espressione e dei diritti umani. Oggi il Paese è flagellato dall'inflazione, butta soldi in armamenti e li sciupa in investimenti esteri sbagliati. Politicamente, si aprono scenari inquietanti - impensabili un anno fa - per la pericolosa vicinanza degli shabaab somali e per l'interesse neo-ottomano dei turchi per la regione. Se l'Etiopia federale dovesse collassare, si rischierebbe l'estensione in tutta la fascia subsahariana delle instabilità tipiche del Sahel alimentate da miseria irrimediabile e jihadismo. Nel Corno d'Africa si gioca, per di più, l'ennesima partita tra Cina e Usa. I cinesi, già alleati del Tplf per affinità ideologiche e interessi economici, da un anno - per tutelare i propri investimenti nell'area - sono passati al fianco del premier di Addis Abeba ponendo il veto al Palazzo di Vetro a ogni discussione sul conflitto. L'amministrazione Biden, invece, di fatto non crede più in Abiy, liberale e liberista, ma che un anno fa prometteva di risolvere la questione militare con i tigrini in un mese e ora rischia la sconfitta per averne sottovalutato la capacità di resistere, riorganizzarsi e contrattaccare. Eppure non era un mistero che in Tigrai si trovasse gran parte dell'arsenale etiopico e che fossero di origine tigrina molti comandanti dell'esercito federale (che, infatti, hanno disertato). Gli Usa, la Ue, l'intera comunità internazionale temono in Etiopia un bis dell'Afghanistan tre mesi dopo, con un esercito nazionale sconfitto sul campo da 'milizie 'regionali e stanno perciò evacuando il personale delle ambasciate».
AFGANISTAN, NON C’È POSTO PER LE DONNE
Quattro donne attiviste afghane sono state trovate uccise. La sintesi del Manifesto in prima pagina.
«Nel nuovo Emirato islamico, nato appena tre mesi fa, non c'è posto per tutti. E la paura aumenta: sono tantissimi gli afghani e le afghane che, a causa del loro passato, oggi temono per la propria vita. Attivisti per i diritti umani, impiegati nelle ambasciate straniere. Sognano la fuga, per ora impossibile: l'evacuazione si è fermata ad agosto. Tra chi sognava di andarsene anche l'attivista Foruzan Safi, trovata uccisa pochi giorni fa insieme ad altre tre donne. Probabilmente uccisa dai Talebani, come raccontato dal Manifesto. Le indiscrezioni parlano di una trappola: sarebbe stata attirata con la scusa di un falso via libera per raggiungere la Germania. Ma non tutti vogliono andarsene. C'è chi vuole restare per continuare a fare il proprio lavoro e chi invece pensa che il nuovo regime messo in piedi dalla leadership talebana sia l'unica soluzione possibile dopo anni di governi corrotti. Ma lo scontro non è solo identitario, è anche materiale: sulle terre e sulle case. In molti distretti le rivendicano famiglie pashtun o comunque vicine al regime talebano».
XI JINPING, PRESIDENTE IMPERATORE
Cominciano domani i 4 giorni dell’importante Plenum del Partito Comunista cinese che prepara il Congresso dell'autunno del 2022. Xi Jinping punta ad avere un mandato a vita, emulando così Mao Zedong. Cecilia Attanasio Ghezzi per La Stampa.
«Xi Jinping, il grande assente del G20 e di Cop26. Non lascia la Cina da gennaio 2020, e la pandemia non è l'unica ragione. Con il plenum che si apre domani e che per quattro giorni riunirà a porte chiuse il Comitato centrale, la crème del Partito comunista cinese, Xi prepara il colpo di scena che consoliderà la sua posizione come diretto successore di Mao Zedong e Deng Xiaoping. Per la terza volta in cent' anni, il Pcc discuterà - e quasi certamente ratificherà - una «risoluzione storica». La prima, nel 1945, aveva fatto piazza pulita di chi dissentiva dalla visione politica del Grande Timoniere quattro anni prima della fondazione della Repubblica popolare. La seconda, nel 1981, aveva spianato la strada alle politiche di apertura e riforme dell'architetto della nuova Cina con un giudizio senz' appello sull'operato di Mao: era stato «per il 70 per cento giusto e per il 30 per cento sbagliato». Si criticava ufficialmente il leader per permettere al Partito di sopravvivere, si condannava il culto della personalità e si promuoveva una grigia dirigenza collettiva che si facesse garante della crescita organica di politica, economia e società. «Non importa se il gatto è bianco o nero», era lo slogan di quei tempi. «L'importante è che acchiappi i topi». Ma i tempi sono cambiati ed è stato da subito chiaro che il ruolo di "primus inter pares" a Xi Jinping calzava stretto. Da quando si è insediato nel 2012, i suoi sforzi sono stati volti a ristabilire il suo controllo sul Partito e quello del Partito sullo Stato. Mettendo il suo pensiero in Costituzione si è assicurato la continuità diretta con i padri fondatori ed eliminando l'obbligo dei due mandati si è aperto la strada per governare a vita. All'apice della seconda economia mondiale, Xi Jinping ha promosso con forza la fedeltà incondizionata al leader, lo studio del suo pensiero e la ripetizione degli slogan, offendendo l'intelligenza di una classe media sempre più raffinata e dei suoi funzionari più navigati. È lui l'uomo forte, è hexin, «cuore e nucleo» della Repubblica popolare, vertice di una complessa piramide politica in cui Stato e Partito si sovrappongono mantenendo i confini dell'impero che fu. Xi vuole restaurare la storica centralità geopolitica della Cina e scuotere l'ordine globale costruito attorno alla leadership statunitense. Ma se oggi il Paese è certamente più integrato, ricco e assertivo di ieri, le disuguaglianze e le contraddizioni aumentano, creando lacerazioni sempre più difficilmente componibili. Nelle stanze segrete di Zhongnanhai, il Cremlino cinese, Xi Jinping deve guardarsi dai nemici politici e insieme gestire una nazione che trema sotto i colpi di una profonda crisi del settore immobiliare, del razionamento energetico e di una sempre più diffusa e potente critica delle «democrazie occidentali». Come se non bastasse, la risalita del numero dei contagi mette in seria discussione la politica "tolleranza zero" sul Covid, che Xi Jinping aveva trasformato nel fiore all'occhiello del suo governo autoritario. Il leader si è messo sulla difensiva. E così il Paese che governa. Le politiche della «prosperità comune» e della «doppia circolazione» segnano la strada più cara alle autocrazie: l'autarchia. Sempre di più si cercherà di incanalare l'innovazione del privato in un percorso economico disegnato dall'alto e portato avanti dalle grandi aziende pubbliche. Sempre più si preferiranno i marchi nazionali, sempre meno gli stranieri saranno benvenuti. Nel frattempo le purghe all'interno del Partito, lotta alla corruzione per la propaganda, si sono estese alle forze armate, al mondo della cultura, degli affari e delle grandi aziende. Quello che si apre domani sarà l'ultimo importante appuntamento politico prima del Congresso del 2022, quello che, se tutto va secondo i (suoi) piani, consacrerà Xi Jinping alla leadership perpetua. Gli osservatori della politica cinese saranno attenti a qualsiasi tenue segnale di opposizione perché potrebbe essere la spia di lotte intestine e di un esito incerto del piano del comandante in capo. E ce ne sarebbe ben donde. Quando nel 2017 si è assicurato il secondo mandato, il presidente ha incantato il popolo cinese con un crescendo di promesse che riscaldava i cuori: avanzamento scientifico e tecnologico, educazione più equa, lavori più qualificati, uno stato sociale e una sanità più giusta. Il controllo e il rifiuto del dissenso erano propedeutici al «rinascimento cinese», ma niente sembra andare in quella direzione. Il giro di vite sulle Big Tech, il divieto dei corsi extracurriculari, il calo della crescita economica, l'aumento della disoccupazione giovanile e i prezzi proibitivi degli alloggi e delle cure fanno dubitare che il Paese continui sulla strada concordata. Un anno è lungo e, come abbiamo imparato dieci anni fa, il Partito non è certo estraneo a fazioni e a sanguinose guerre intestine. L'ascesa di Xi Jinping al potere è stata costellata di fughe di notizie, storie di spionaggio, assassinii, assenze strategiche e scandali politici che hanno portato a cancellare dallo spazio e dalla memoria pubblica Bo Xilai, quello che all'epoca era considerato il suo più potente rivale. Prima di essere condannato all'ergastolo, tra l'altro, Bo fu accusato politicamente di coltivare nostalgie maoiste e di voler tornare a un concetto di leadership personalistica che avrebbe favorito il ritorno a un culto della personalità. Oggi Xi Jinping ha ridotto i membri del Partito a «schiavi della sua volontà», ma chi dieci anni fa l'ha aiutato a disfarsi dell'antagonista potrebbe esserne deluso. Da domani il leader farà bene a guardarsi le spalle perché, come Mao ci ha insegnato, «una sola scintilla può dar fuoco a tutta la prateria».
MERKEL TROPPO BUONA CON LA POLONIA?
Nella consueta rubrica domenicale di diplomazia per il Corriere, Sergio Romano critica la Cancelliera tedesca uscente per la sua linea di dialogo con la Polonia sovranista:
«Nel duello giudiziario degli scorsi giorni fra Varsavia e l'Unione europea, Angela Merkel è stata l'avvocato difensore della Polonia. Ha ricordato le molte ferite inflitte a questo Paese nel corso della sua storia (spesso dalla Germania), e il regime sovietico che le è stato imposto dall'Urss per qualche decennio dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ha aggiunto che la Polonia è chiamata oggi dalla Ue a rispettare trattati che non ha negoziato e che in certi atteggiamenti polacchi vi è un rispettabile problema di «identità nazionale». Bisogna quindi adottare con Varsavia, in questi casi, un atteggiamento dialogante. Piuttosto che imporle trattati confezionati a Bruxelles senza la sua partecipazione, converrebbe assumere una posizione conciliante e una maggiore disponibilità al negoziato. Conoscevamo le opinioni di Angela Merkel, sapevamo che anche lei è stata cittadina di un Paese comunista (la Repubblica Democratica Tedesca), che nei suoi anni giovanili ne ha probabilmente condiviso almeno in parte gli ideali, che è stata politicamente allevata e coltivata dal cancelliere Kohl, dopo la riunificazione delle due Germanie, proprio per dimostrare che la nuova grande patria tedesca non avrebbe trattato gli ultimi arrivati come cittadini di seconda classe. Ma se adottassimo questa linea non dovremmo chiedere ai polacchi di firmare ciò che gli altri membri della Ue hanno già laboriosamente pattuito. Dovremmo riaprire il negoziato per l'intera Europa o almeno permettere che i tedeschi dell'Est godano di un trattamento diverso conservando prerogative nazionali a cui gli altri membri hanno rinunciato. Se adottassimo questa linea con l'arrivo di ogni nuovo Paese nella Ue , tuttavia, correremmo il rischio di rimettere in discussione tutto ciò a cui abbiamo rinunciato per costruire insieme una Federazione europea. Non basta. Se le ragioni dell'atteggiamento polacco sono le umiliazioni subite nel corso della sua storia, la nostra risposta dovrebbe essere diversa. Dovremmo ricordare alla Polonia che la Dichiarazione europea di Robert Schuman (la pietra di fondazione dell'edificio europeo) fu pronunciata a Parigi il 9 maggio 1950 dopo due guerre europee che avevano distrutto intere città e provocato un numero ancora oggi difficilmente calcolabile di morti e feriti. Dovremmo ricordare anche a Merkel che la costruzione di una Europa unita è il più efficace dei rimedi alla possibilità di nuovi conflitti. Ma potremo progredire su questa strada, soprattutto in un'epoca pericolosamente sovranista, soltanto se eviteremo rigurgiti nazionalisti e non permetteremo ai singoli membri di sottrarsi alle regole che hanno permesso di progredire sinora sulla strada della unificazione. Non può esservi un posto nella Ue per Paesi che non condividono questi principi e non accettano di obbedire a queste regole».
LA NUOVA GUERRA DELLE SPIE
Paolo Mastrolilli, passato da La Stampa a Repubblica, esordisce da New York, con un articolone sulla nuova guerra delle spie.
«Un diplomatico russo, Kirill Zhalo, che muore precipitando dal balcone dell'ambasciata a Berlino, salvo poi scoprire che era figlio del vice direttore del servizio segreto Fsb, convolto nell'omicidio al parco Tiergarten del ribelle ceceno Zelimkhan Khangoshvili. Otto spie di Mosca cacciate dalla Nato, dove fingevano di dialogare con l'Occidente. Un docile cinese, condannato in Ohio perché in realtà rubava informazioni industriali. Un tempo le spie erano discrete, ma oggi aprire i giornali significa leggere quasi oggi giorno le loro disavventure, a conferma che il gioco dell'intelligence è tornato centrale nel risiko degli equilibri globali sempre più instabili. Yanjun Xu non indossava barbe finte, e neppure girava col fucile mascherato da ombrello. Molto più semplicemente dal 2013 frequentava università e congressi, dove adescava le prede. Le invitava in Cina per presentazioni accademiche rispettabili, pagando le spese e offrendo un gettone di riconoscenza. Laggiù poi scattava qualcosa e, tra le promesse di compensi assai più alettanti, le lusinghe e chissà quali altre offerte seducenti, trasformava gli invitati in informatori. Nel maggio del 2017 Yanjun Xu aveva fatto un colpo grosso, attirando un ingegnere della GE che si era presentato con una valigetta piena di segreti sui motori per aerei prodotti dalla sua azienda. Felice del risultato, aveva chiesto altre informazioni. La preda aveva accettato, invitandolo in Belgio nell'aprile del 2019. Quello che ignori ti uccide, però, e Yanjun Xu non sapeva che l'Fbi aveva scoperto tutto costringendo l'ingegnere a collaborare. Perciò quando l'uomo di Pechino si era presentato all'appuntamento belga, invece della fonte con una valigetta colma di ghiotti segreti, aveva trovato un agente del controspionaggio americano con le manette. Venerdì un tribunale federale di Cincinnati ha condannato Yanjun Xu, che ora rischia sessanta anni di prigione. Il tutto per confermare che le spie sono tornate, ammesso che ci avessero mai abbandonati, e svolgono un ruolo sempre più cruciale non solo nella sfida geopolitica epocale tra Usa e Cina, ma anche nelle rivalità fra Paesi avversari e alleati. Durante la Guerra Fredda era scontato che le spie ne combinassero di tutti i colori, dalle penne letali alla James Bond ai tradimenti rocamboleschi tipo Kim Philby. Crollato il Muro di Berlino quell'epoca sembrava finita e, all'inizio degli anni Novanta, il direttore della Cia Jim Woolsey aveva dichiarato che la nuova frontiera dello spionaggio era industriale, economica e tecnologica. Aveva ragione, ma forse come Francis Fukuyama aveva avuto troppa fretta nel decretare la fine della storia. Infatti lo spionaggio tecnologico era esploso, senza però che finisse il resto».
ZUCKERBERG, FUGA NEL FUTURO
Altro esordio per un cambio di testata, quello di Federico Rampini sul Corriere della Sera, che scrive quasi un saggio su Zuckerberg. L’inventore di Facebook tenta un “restyling”, guardando alle nuove frontiere degli “avatar”. Rampini lascia dopo diversi anni La Repubblica.
«Zuckerberg ha una nuova visione. Cambia nome a Facebook che diventa Meta (dal greco «oltre»), sdoppia la sua creatura, e punta a dominare il mondo del futuro: la realtà virtuale. «Metaverse» è l'universo-oltre. Ce lo descrive come «un luogo dove giocare, comprare beni virtuali, collezionare arte virtuale, trascorrere il tempo libero con i sosia virtuali (avatar) degli altri, e partecipare a riunioni di lavoro sempre virtuali». L'annuncio coincide con una grave crisi d'immagine di Facebook, bombardata di accuse per non aver vigilato abbastanza contro fake news, ideologie violente, aggressioni e odio che dilagano sul social media. Nelle rivelazioni che intitola Facebook Files, il Wall Street Journal riferisce anche di uno studio interno all'azienda secondo cui «un utente su otto fa un uso compulsivo del social media con effetti sul sonno, il lavoro, i rapporti con i figli o le relazioni sociali». Sui media americani un coro di scettici ha liquidato la metamorfosi come un trucco per distogliere l'attenzione dalle polemiche. Però sulla realtà virtuale il 37enne miliardario più famoso del pianeta aveva già messo al lavoro da tempo diecimila ingegneri. Ora ne assumerà altrettanti (gran parte in Europa), e investirà dieci miliardi di dollari. Facebook stava già conducendo una campagna acquisti in questo settore, assicurandosi il controllo di molte startup innovative. Una occupazione del territorio, in vista della prossima rivoluzione digitale? «Realtà virtuale»: immaginarne l'espansione evoca una distopia post Covid, un mondo asettico che cancella ogni contatto fisico. O magari una utopia ambientalista che elimini ogni mobilità fisica per azzerare le emissioni carboniche. In alcuni scenari estremi affiora la pulsione verso qualche forma di immortalità: trasferendo caratteri e funzioni ai nostri avatar, riusciremo a custodire in queste creature virtuali ciò che il deperimento fisico distrugge? La fantascienza gioca con queste visioni da decenni. Di fatto la tecnologia che crea un ambiente virtuale è già onnipresente. Un avatar (termine preso in prestito dall'incarnazione delle divinità induiste), è la rappresentazione grafica di noi stessi, proiettata nel mondo digitale. Architetti e costruttori fanno ampio ricorso a un mondo virtuale per progettare edifici. I militari combattono guerre simulate, wargame. Le applicazioni della realtà virtuale alla cura dell'Alzheimer sono in corso da anni. Il cinema sostituisce comparse e figuranti con dei sosia grafici (costano meno) e il film ibrido «Avatar» (regia di James Cameron, 2009) appartiene alla preistoria di questo genere. Las Vegas ha inaugurato i concerti «live» di Whitney Houston, in scena si esibisce l'ologramma tridimensionale della cantante morta nove anni fa. Per gli appassionati di videogame incarnarsi nella propria identità digitale è parte del gioco. Il boom delle criptovalute che non hanno incarnazione materiale, asseconda lo sviluppo di un universo parallelo a quello fisico. La banalizzazione della realtà virtuale è a portata di mano nel commercio: per acquistare abbigliamento e calzature online, faremo provare i prodotti al nostro avatar, che ha le nostre misure fisiche. In America i consumatori Millennial hanno imparato a decidere l'acquisto di un mobile, un arredo, una cucina, simulandone il montaggio dentro la copia virtuale della propria abitazione».
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https://www.dropbox.com/s/9qg32y9aupgezvh/Articoli%20la%20Versione%207%20novembre.pdf?dl=0
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