Pnrr, scientifico non farcela
Il Ministro Fitto ammette ritardi sul Piano. La colpa sarebbe di Draghi. Intanto la Ue ci taglia fuori sulle auto green. Ancora arrivi nonostante la guerra alle Ong. Nei guai Macron e Netanayahu
Il Ministro Raffaele Fitto ha scelto un’occasione ufficiale come la relazione della Corte dei Conti per dire qualcosa di importante sul Pnrr: «Se noi oggi capiamo che alcuni interventi da qui al 30 giugno 2026 non possono essere realizzati, ed è matematico, è scientifico che sia così, dobbiamo dirlo con chiarezza e non aspettare il 2025 per aprire il dibattito su di chi sia la colpa». Commenta oggi il Corriere della Sera: “Non è chiaro al momento se il governo italiano punta a rimodulare i progetti in modo da mantenere la scadenza del 2026 o piuttosto punta a ottenere una proroga di uno o due anni, come hanno dichiarato diversi ministri dell’esecutivo”. Sono due gli obiettivi dell’esecutivo Meloni: uno, molto concreto, è cercare di portare comunque a casa i 200 miliardi di euro di finanziamento europeo. L’altro è politico: attribuire ritardi ed eventuali fallimenti a Mario Draghi. Certo è che il nodo del rapporto con l’Europa è sempre più intricato. Ieri l’Italia si è astenuta sul regolamento che mette fuori produzione le auto benzina e diesel dal 2035, fronte su cui la nostra industria rischia di essere fortemente penalizzata. La Germania ha votato a favore, dopo avere ricevuto rassicurazioni sul possibile uso di carburanti sintetici. Il nostro governo italiano ha deciso di astenersi, sebbene l’ipotesi di includere in futuro i biocarburanti sia remota. Sui migranti poi l’emergenza, nonostante il dialogo riaperto con Parigi, è snobbata da Bruxelles.
Gli Usa hanno informato ufficialmente il Cremlino e il mondo che non forniranno più informazioni sulle proprie forze nucleari. «Questa è la prima azione che abbiamo intrapreso all’interno del trattato in risposta alla sospensione della Russia», avrebbe spiegato un alto funzionario di Washington al Wall Street Journal, facendo riferimento alla rinuncia del Cremlino allo Start 2. È un passaggio preoccupante, che aggiunge altri motivi di preoccupazione. Il Cremlino accusa ora la Germania di essere “coinvolta direttamente” nella guerra per l’invio dei carri armati Leopard a Kiev. Intanto la neve sembra fermare l’offensiva di primavera, annunciata da tempo dagli ucraini.
Mentre il rapporto Cariplo sottolinea le diseguaglianze sociali che aumentano anche nel nostro Paese, nel mondo politico è tempo di nuovi incarichi. Elly Schlein ha scelto i due capigruppo del Pd, Chiara Braga e Francesco Boccia, eletti poi per acclamazione: gli incarichi della segreteria confermeranno gli equilibri interni. Forza Italia ha cambiato il capogruppo alla Camera: ad Alessandro Cattaneo succede Paolo Barelli.
Il Sole 24 ore propone in un approfondimento 5 punti deboli del sistema bancario europeo, tornando sulle perdite del titolo Deutsche Bank, alla ricerca di una spiegazione razionale del comportamento dei mercati. Quelle che affliggono le nostre banche sono tante diverse malattie, non gravissime, ma che rischiano di provocare disastri se non si correrà ai ripari. Le altre notizie dall’estero sono concentrate su due capitali in fermento: Parigi e Gerusalemme. L’impressione è che la parziale affermazione delle piazze e delle proteste abbia comunque segnato il destino di due leader, all’apparenza fortissimi: Emmanuel Macron e Benjamin Netanyahu. Vedremo.
Dieci anni fa in questo giorno moriva Enzo Jannacci. Walter Gatti gli ha dedicato un bell’articolo, che trovate qui, sulla rivista .Con del Centro culturale di Milano. Ci mancano i suoi ritratti e la sua “compassione” per l’umanità in “scarp de tennis”.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae la premier Giorgia Meloni che, dopo la cerimonia per il centenario dell'Aeronautica militare, è salita su un aereo da guerra F35, nella mostra di velivoli allestita in piazza del Popolo, a Roma.
Foto La Presse
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Per Avvenire, a leggere il rapporto Cariplo, è: Un’Italia da rialzare. Per il Corriere della Sera però ci sono: I nuovi sconti sulle bollette. Sono quelli contenuti nelle nuove misure del governo. Raccontate anche dal Sole 24 Ore: Codice appalti, via libera alla riforma. Senza gara il 98% dei lavori pubblici. Dal Messaggero: Appalti, spinta al made in Italy. Quella che per Il Giornale è una svolta: Regole più severe: crolla il Reddito-truffa. Libero sottolinea il sollievo per chi è nei guai con le tasse: Altri sette mesi di tregua fiscale. La Repubblica ricorda però che sull’Europa si perdono colpi: Pnrr, la resa del governo. La Stampa attribuisce a Bruxelles un pressante invito a Roma: L’Ue: riscrivete il Pnrr entro un mese. Il Fatto sbeffeggia l’iniziativa della Meloni: Conferenza su Kiev: non viene nessuno. Il Manifesto denuncia le condizioni disumane in cui sono tenuti i tanti profughi sbarcati nelle ultime settimane: Umiliamoli a casa nostra. Il Domani vede una convergenza di proteste: Le lotte per i diritti sociali si uniscono a quelle ambientali. La Verità è ancora focalizzata sui temi No Vax: Il capo di Aifa: «Zitti sui danni altrimenti si uccide il vaccino».
PNRR, ALCUNI PROGETTI SONO “IRREALIZZABILI”
Corsa contro il tempo per seconda tranche del Pnrr. I timori in sede Ue, che però incoraggia gli ultimi passi italiani. Il Ministro Fitto spiega: alcuni progetti irrealizzabili entro il 2026, i ritardi non sono colpa nostra.
«La Commissione europea dice che non si può cambiare la data di scadenza del Pnrr: il piano di ripresa che assegna circa 200 miliardi di euro all’Italia va attuato entro il 2026. E questo nonostante il negoziato in corso fra il governo italiano e la Commissione stessa, trattativa che punta a rimodulare alcuni progetti. Il governo italiano infatti ha ormai scelto di dirlo in modo ufficiale. Ieri lo ha fatto il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto, in occasione della relazione della Corte dei Conti: «Se noi oggi capiamo che alcuni interventi da qui al 30 giugno 2026 non possono essere realizzati, ed è matematico, è scientifico che sia così, dobbiamo dirlo con chiarezza e non aspettare il 2025 per aprire il dibattito su di chi sia la colpa». Quello che non è chiaro al momento è se il governo italiano punta a rimodulare i progetti in modo da mantenere la scadenza del 2026 o piuttosto punta a ottenere una proroga di uno o due anni, come hanno dichiarato diversi ministri dell’esecutivo. Di sicuro, mentre la Commissione accorda un altro mese per le valutazioni in corso sul raggiungimento degli obiettivi del primo trimestre, lo stato dell’arte impone una riflessione su tutta la costruzione del Piano, così come è stata sinora concepita. Risulta al Corriere che nemmeno i progetti che riguardano le infrastrutture principali del Piano, quelle legate alle Ferrovie dello Stato (pari a 22 miliardi di euro), vengano ritenuti appaltabili e realizzabili da Palazzo Chigi entro la scadenza del 2026. Non ci sono ancora i progetti e «non si è mai visto che le Fs realizzino qualcosa in meno di tre anni», dicono fonti di governo. Ma è solo un esempio della criticità con la quale il Piano è stato costruito. La Commissione ha appena riaperto la valutazione su tre punti che erano stati giudicati in modo positivo sotto il governo di Mario Draghi. Ed è un’anomalia non indifferente. Ma un’altra questione, che denuncia da settimane Openpolis , l’associazione che da anni setaccia in modo capillare gli atti pubblici e i lavori parlamentari, è la «mancanza assoluta di trasparenza». Secondo l’associazione, che per due volte ha fatto richiesta di accesso agli atti, prevista dalla legge e respinta dal governo, i cittadini italiani «non sanno di cosa parliamo, quali sono i progetti, a che punto sono i lavori». È anche in questo contesto che il Pnrr è sotto i riflettori. «Sarebbe problematico cambiare la scadenza del 2026», ha detto ieri il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, nonostante da Bruxelles arrivi l’apprezzamento per «i significativi progressi compiuti nelle ultime settimane dall’Italia». Ma «la maggior parte degli obiettivi deve essere realizzata» entro i termini. Eppure, nonostante le polemiche, è ancora la Commissione che rimarca che una proroga, per la valutazione dello stato di avanzamento del Piano, non è un’anomalia, e «non pregiudica in alcun modo l’esito della richiesta italiana. È abbastanza usuale che avvenga, l’avevamo già fatto il mese scorso per avere più tempo per esaminare la richiesta». La Commissione non esclude che all’Italia, a fine aprile, possa essere concessa un’ulteriore proroga. Ieri il ministro Fitto ha anche detto che occorre «recuperare le risorse di quei progetti che non hanno una capacità realizzativa entro il 2026, valutare in modo oggettivo la necessità di modificare alcuni obiettivi», rimarcando che l’atteggiamento del governo «è assolutamente costruttivo» con tutti gli attori interessati, primo fra tutti ovviamente la Commissione Ue. Il Pnrr è «una sfida da far tremare i polsi ma posso sottolineare la determinazione da parte di questo governo», ha aggiunto Fitto. E questo mentre il Pd, con Pina Picierno, esprime preoccupazione e chiede «trasparenza» al governo. E mentre Italia viva dice che il governo Meloni sta «scaricando» i problemi sul governo precedente. Ieri la Corte dei Conti ha sottolineato che le modalità con le quali è stato definito il Piano, con assunzione di risorse umane nel settore pubblico a tempo determinato, ha aumentato la criticità dell’attuazione del Piano stesso».
“RIMETTIAMOCI IN RIGA O NIENTE FONDI”
Riunione tesa a Palazzo Chigi, in cui il Ministro Fitto striglia gli altri ministri, dicendo: “Rimettiamoci in riga o ci taglieranno i fondi”. Il retroscena è di Emanuele Lauria e Tommaso Ciriaco per Repubblica.
«Scena numero uno: nel pieno del consiglio dei ministri, Giorgia Meloni prende la parola e blocca una norma sugli ambulanti cara alla Lega. Il rischio è creare disparità e negare l’applicazione delle direttive europee, esponendosi a un altro braccio di ferro con Bruxelles. Sarà il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto a incaricarsi di sondare la Commissione europea per capire rischi e margini di questa operazione. Il risultato, nel frattempo, è che la maggioranza si incaglia sul ddl Concorrenza. Scena numero due: subito dopo la riunione dell’esecutivo, Fitto chiama a raccolta i ministri che detengono i capitoli di spesa più pesanti del Pnrr. E li striglia: «Dovete fornire in tempi rapidi un’analisi netta e chiara delle criticità relative ai progetti di competenza. Non serve una radiografia, ma una risonanza magnetica dello stato di avanzamento dei lavori, da qui alla scadenza del Piano nel 2026». Un termine, aggiunge, al momento inderogabile, nonostante le pressioni dell’esecutivo. E non basta. Il ministro chiede anche ai colleghi di «evidenziare chiaramente i punti critici, spiegarne le ragioni e individuare soluzioni percorribili». È un vero e proprio allarme. Una chiamata alle responsabilità, necessaria per «provare a rinegoziare gli obiettivi con l’Europa». Un segnale, soprattutto. Non soltanto ai ministri ritardatari, ma anche alla Commissione: ci stiamo muovendo, è il senso del messaggio, non sottovalutiamo i nostri impegni. Anche perché Roma rischia di perdere una fetta consistente dei fondi continentali. E di esporsi, anche di fronte ai mercati, a una parziale - ma dolorosissima - bocciatura. I timori non riguardano solo l’ultimatum lanciato l’altro ieri dalla Commissione, con tanto di proroga di un mese per verificare il raggiungimento dei target del terzo trimestre. La paura si concentra anche sulla quarta tranche, quella che scade a giugno 2023. Scintille, ritardi, rinvii: alla fine, è sempre il rapporto con Bruxelles a complicare la navigazione del governo sovranista. Così, Giorgia Meloni decide di tenersene alla larga. A sera, la premier varca il portone di Palazzo Chigi, percorre a piedi la piazza e raggiunge i manifestanti di Coldiretti per festeggiare lo stop per legge ai cibi sintetici. Parla a uno storico bacino elettorale. Evita invece di partecipare alla cabina di regia sul Pnrr. E salta anche la conferenza stampa, che fino a lunedì sera aveva deciso di presenziare. I cronisti le chiederebbero del ddl Concorrenza e dei ritardi del Pnrr. Più facile concentrarsi con un post sui social sulle nuove norme contro il caro bollette: «Sosteniamo famiglie e imprese». E d’altra parte, la partita con Bruxelles sul Recovery è assieme tecnica e politica, dunque assai scivolosa. Né basta il comunicato con cui la Commissione ridimensiona la portata dell’ultimatum del giorno prima a contenere il caso: «La proroga di un ulteriore mese non è inusuale, apprezziamo i significativi progressi compiuti nelle ultime settimane ». La verità è che il governo nelle ultime settimane ha toccato con mano il fatto che la squadra di Ursula von der Leyen ha reso più intensa la verifica sugli obiettivi raggiunti dai singoli Paesi. La ragione – almeno così sostengono nell’esecutivo – sarebbe la pressione della Corte dei Conti europea sulla Commissione, costretta a sua volta a stringere le maglie dei controlli sulle milestone. Tre sono quelle che Roma non ha raggiunto, sulle 55 sotto esame. Di una, in particolare, si discute in queste ore: quella che dirottava risorse per gli stadi di Firenze e Venezia. La novità è che sembra assai probabile che alla fine di questo percorso di approfondimento mensile imposto da Bruxelles, l’Italia rinunci a questi due progetti. La ragione è urbanistica, le conseguenze ovviamente politiche. Escludere le due opere dal Piano, infatti, aprirebbe innanzitutto una tensione con le due amministrazioni comunali interessate. Il governo, in questo senso, sceglierà con ogni probabilità la strada di continuare comunque i lavori, utilizzando fondi nazionali. La seconda implicazione riguarda le responsabilità di questo eventuale passo falso. Palazzo Chigi indicherà nelle scelte del governo precedente, quello di Mario Draghi, la genesi dell’errore. Meloni proverà comunque fino all’ultimo a evitare questo scenario, premendo sulla Commissione. Se alla fine dovesse capitolare, come sembra quasi certo soprattutto per lo stadio di Firenze, ricorderà di non essere la prima a trovarsi in questa situazione: già la Lituania - con un peso specifico però assai diverso dall’Italia ha rinunciato a una parte limitata delle risorse della terza tranche, cancellando alcuni progetti su cui Bruxelles aveva sollevato dubbi. Non basterà, ovviamente, a circoscrivere le polemiche».
MATTIA FELTRI: SEGNATEVI LA DATA
Nella sua rubrica sulla prima pagina della Stampa, Mattia Feltri vede nei guai sull’attuazione del Pnrr un simbolo delle difficoltà del nostro governo in Europa.
«I primi giorni del dicembre 2020, la Börsen Zeitung, giornale di riferimento della Banca centrale tedesca, definì l'Italia di Giuseppe Conte una polveriera in grado di far saltare in aria l'intera Eurozona. Era uno dei tanti segnali, e tre mesi dopo a Palazzo Chigi c'era Mario Draghi. Conte aveva avuto un ruolo importante nell'istituzione del Recovery Fund, ma i diffusi dubbi sulle sue capacità di impiegare oltre duecento miliardi a fondo perduto o tasso agevolato, arrivati dagli altri Paesi europei, non dalla Luna, stabilirono la sua fine. Ieri il ministro Raffaele Fitto ha confessato l'impossibilità di portare a termine alcuni progetti previsti entro il giugno '26. È matematico, è scientifico, ha detto. Rispetto a Conte, Giorgia Meloni ha due vantaggi. Primo, non c'è un altro Mario Draghi pronto per l'uso. Secondo, e ancora più importante, ha una legittimazione popolare e una coalizione compatta che Conte non aveva. Ma quanto l'immigrazione può fare al consenso di Meloni, il Recovery può fare alla sua credibilità: l'ammissione di Fitto porta ora in capo all'attuale premier tutte le diffidenze allora riservate a Conte. Intanto quasi sicuramente perdiamo un bel po' di denaro, poi sarà molto più difficile per il governo sovranista andare a Bruxelles a chiedere vincoli di bilancio un po' più laschi, o addirittura a portare avanti ipotesi di debito comune, cioè contratto dall'Unione europea anziché dagli Stati, per tenere in piedi le economie nazionali. Se volevate una data in cui Meloni e i suoi avrebbero cominciato a incartarsi nelle loro gutturali velleità, eccola la data, è già qui: è oggi».
LA NEVE COMPLICA I PIANI DI KIEV
Veniamo alle cronache sulla guerra. Volodymyr Zelensky continua a visitare il fronte, ma la neve sembra rinviare l’offensiva ucraina di primavera. Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«Gli ucraini attaccheranno entro pochi giorni, tra qualche settimana, oppure ancora più tardi, magari a metà estate? Siamo nella «nebbia della guerra», la propaganda è l’arma classica per confondere il nemico e non potrebbe essere diversamente. A Kiev si parla della «controffensiva di primavera» sin da dicembre, ma quando davvero avverrà e soprattutto in quali settori del fronte lo sanno solo allo Stato maggiore e nei circoli più vicini al presidente Zelensky. Non è neppure detto sia stata fissata una data definitiva. Alcuni dati sono comunque assodati. Primo: sebbene gli ultimi giorni siano stati asciutti con temperature più alte della media, adesso sul Paese nevica o piove e fa freddo. La perturbazione di fine marzo era stata prevista dai meteorologi: si diceva che la luce verde all’attacco sarebbe arrivata solo dopo che il fango si fosse asciugato e il clima riscaldato, forse dopo la prima settimana di aprile. Ieri i media locali hanno mostrato Zelensky in visita nella città di Sumy e lungo il confine con la Russia: le trincee erano fangose, i soldati imbacuccati nelle divise invernali. Ma questo sesto giorno di tour del presidente sui fronti caldi (è già stato nel Donbass, a Kherson e Zaporizhzhya) pare volto a rassicurare che il momento della riscossa è vicino. La tappa a Zaporizhzhia l’ha visto preoccupato per i combattimenti nella zona della centrale nucleare occupata. Crescono inoltre le difficoltà per i russi. Non hanno preso Bakhmut, compiono attacchi confusi, disperdono le loro forze in azioni minori che dissanguano le loro unità senza grandi risultati. Ora provano ad attaccare la cittadina di Avdiivka, che era già sulla linea del fronte di Donetsk nel 2014. Intanto, gli ucraini ricevono ingenti quantitativi di armi occidentali. Ieri hanno mostrato le immagini di alcuni dei 14 tank britannici Challenger 2 appena arrivati. Tre giorni fa sono giunti i 18 Leopard 2 tedeschi, che si sommano a decine di blindati made in Usa e centinaia di carri dalla Polonia. I portavoce del Cremlino accusano la Germania di «partecipare attivamente ad armare l’Ucraina» e di aumentare così il suo «coinvolgimento nel conflitto». Ancora Mosca denuncia di avere abbattuto una bomba teleguidata americana Glsbd (Ground-Launched Small Diameter Bomb) sparata dagli ucraini e capace di colpire in modo molto preciso obbiettivi a 150 chilometri di distanza. I comandi statunitensi hanno intanto modificato le rotte dei droni-spia nel Mar Nero in risposta all’abbattimento di uno dei loro da parte dell’aviazione russa pochi giorni fa, concedendo che i voli troppo vicini alla Crimea potevano apparire «una provocazione». Ora voleranno più distanti. Una mossa che ammettono limiterà le missioni, ma intende ridurre la tensione con Mosca».
PUTIN: “GERMANIA COINVOLTA NELLA GUERRA”
Il Cremlino reagisce all'invio dei Leopard, accusando i tedeschi: “La Germania è sempre più coinvolta in guerra”. L'Aiea avverte: “Zaporizhzhia rischia”. Giuseppe Agliastro per La Stampa.
«L'annunciato arrivo in Ucraina dei primi panzer Leopard 2 ha subito scatenato l'ira del Cremlino. «Sia direttamente che indirettamente, la Germania è sempre più coinvolta in questo conflitto», ha dichiarato il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, tuonando che «azioni e decisioni simili non porteranno certamente a nulla di buono». Appena il giorno prima il governo ucraino aveva detto di aver ricevuto i primi carri armati pesanti Leopard 2 dalla Germania e Challenger 2 dalla Gran Bretagna: armi di ultima generazione che, secondo gli esperti, le truppe di Kiev potrebbero usare per lanciare una controffensiva nel prossimo futuro. Mosca inoltre sostiene di aver abbattuto per la prima volta un razzo a lunga gittata Glsdb di fabbricazione americana. La notizia non è al momento verificata, ma un mese e mezzo fa Washington aveva promesso alle forze ucraine l'invio di questi missili a lungo raggio, che con la loro gittata di 150 chilometri consentirebbero potenzialmente alle truppe di Kiev di colpire qualsiasi zona dell'Ucraina occupata dai soldati russi. I combattimenti nel Donbass intanto proseguono senza sosta. A Bakhmut, una delle città più devastate dalla guerra ordinata da Putin, si registrano ancora scontri sanguinosi. Il leader locale dei separatisti filorussi, Denis Pushilin, sostiene che la maggior parte dei militari ucraini siano stati costretti a ritirarsi dagli impianti siderurgici Azom, sul lato occidentale della città divisa in due dal fiume Bakhmutka. «La cosa importante qui era ripulire la zona industriale dello stabilimento stesso: si può praticamente dire che ora è stato fatto, con i ragazzi che hanno appena finito i combattenti» ucraini, «che sono rimasti solo in gruppi isolati», ha dichiarato Pushilin. Ma le sue parole sono in pieno contrasto con quelle delle forze armate ucraine, che affermano di stare respingendo gli attacchi anche se la situazione resta «dinamica», e di Londra, secondo cui l'assalto dei soldati russi alla città sarebbe «in gran parte in fase di stallo». Il ministero della Difesa britannico sostiene inoltre che nella zona di Avdiivka, anch'essa martoriata dalla guerra e dai bombardamenti, le truppe russe stiano riportando «progressi marginali» e il 10° reggimento carristi russo abbia «probabilmente perso una larga parte dei suoi carri armati». Ciò che avviene al fronte resta spesso avvolto dalla nebbia informativa e difficilmente verificabile. Le tensioni sono però ben tangibili e non si sono certo ridotte quando, alcuni giorni fa, Putin ha detto di voler schierare armi nucleari tattiche in Bielorussia. Ieri Mosca ha dichiarato di aver testato dei missili supersonici "Moskit" in un'esercitazione navale nel Mar del Giappone. Mentre resta un mistero la notizia, non verificata e rilanciata da alcuni media russi, secondo cui nell'estrema periferia di Mosca sarebbero stati trovati i resti di un piccolo drone fatto a mano in legno e polistirolo dall'apertura alare di un paio di metri e con la scritta «Gloria all'Ucraina». Continua a preoccupare anche la situazione attorno alla centrale nucleare più grande d'Europa, quella di Zaporizhzhia, la cui area in questi mesi è più volte finita sotto pericolosissimi bombardamenti per i quali Mosca e Kiev si rimpallano le accuse. Il capo dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, Rafael Grossi, ha denunciato che nella zona dell'impianto di fatto controllato dalla Russia «c'è un aumento del livello dei combattimenti«. «Le mie squadre lì riferiscono quotidianamente di attacchi, rumore di armi pesanti», ha avvertito Grossi, che lunedì ha incontrato Zelensky e oggi dovrebbe visitare la centrale. Il numero uno dell'Aiea ha però anche detto di ritenere «vicino» un accordo sulla protezione della struttura. Kiev accusa Mosca di aver lanciato 15 droni di fabbricazione iraniana contro il territorio ucraino nella notte tra lunedì e martedì, ma sostiene di averne abbattuti 14. «La logica delle azioni dei russi è il terrore contro le infrastrutture civili», ha commentato la presidenza ucraina. I filorussi accusano invece le forze ucraine di aver sparato su Donetsk e affermano che i corpi senza vita di due persone sono stati trovati sotto le macerie di un edificio. Si stima che decine di migliaia di persone siano morte nella guerra, mentre milioni di ucraini sono stati costretti a lasciare le loro case. Gli Usa intanto si sono detti favorevoli a un tribunale speciale per perseguire la Russia per il «crimine di aggressione» contro l'Ucraina: un'iniziativa promossa dall'Ue».
MOSCA NASCONDE IL DEFICIT DI GUERRA
I costi della guerra per i russi vengono nascosti: il 30% del budget viene da fondi segreti. Oltre quattro volte la spesa ufficiale per le armi. Antonella Scott per Il Sole 24 Ore.
«A migliaia di chilometri di distanza dai campi di battaglia dell’Ucraina, l’eco della guerra risuona fino al mar del Giappone e precisamente nella baia di Pietro il Grande, al largo di Vladivostok. Qui il ministero della Difesa russo ha effettuato un test: un attacco missilistico contro un bersaglio fittizio, una nave da guerra nemica a 100 km di distanza. Come riferiva ieri il ministero, due “Moskit” - missili supersonici da crociera anti-nave in grado di trasportare testate convenzionali o nucleari, noti come SS-N-22 Sunburn per la Nato - hanno centrato l’obiettivo. Da tempo il Giappone – che aderisce al fronte delle sanzioni occidentali - segue con apprensione l’intensificarsi dell’attività militare russa nella regione. In questa fase è destinata ad allontanarsi ulteriormente anche la soluzione della disputa sulle isole Kurili, che tuttora impedisce a Mosca e Tokyo di concludere la Seconda guerra mondiale con un trattato di pace. A Paramushir, una delle quattro isole controllate dalla Russia, il ministro della Difesa Sergej Shoigu ha annunciato nei giorni scorsi lo schieramento di sistemi missilistici di difesa costiera: a conferma che anche in Estremo Oriente il settore della difesa è prioritario per il Cremlino. «Le spese militari non avranno limiti», aveva chiarito già in dicembre Vladimir Putin. Nel piano di bilancio 2023 preparato dal Governo la parte destinata alla difesa aumenta dal 24% della spesa totale prevista nel 2022 al 33%, per un valore di 9.500 miliardi di rubli (114,5 miliardi di euro). Ma non è tutto: in origine il budget prevedeva anche un aumento dal 16 al 22,4% della quota di spese “clandestine”, voci di cui non vengono rivelati i dettagli e che dovrebbero completare il quadro del costo reale della guerra in Ucraina. Ma già in marzo, secondo calcoli dell’agenzia Bloomberg, queste spese segrete o non specificate, tenute lontano dallo scrutinio pubblico, sono lievitate fino a toccare il livello record di un terzo della spesa prevista dal bilancio. Anche altri indicatori hanno già superato le previsioni. Il premier Mikhail Mishustin lo ha spiegato giorni fa alla Duma, il Parlamento russo: se per l’intero 2023 il disavanzo tra entrate e uscite dovrebbe fermarsi a 2.930 miliardi di rubli, pari a 35 miliardi di euro e al 2% del Prodotto interno lordo russo, a marzo il deficit segna già 3.300 miliardi di rubli, quasi 40 miliardi di euro: secondo Bloomberg, per l’intero 2023 salirà al 3-4% del Pil. In base ai dati forniti dal ministero delle Finanze russo in data 25 marzo, per le spese riservate si arriva alla cifra di 2.400 miliardi di rubli (28,9 miliardi di euro, il 32% delle spese totali) sottraendo alla spesa totale di 7.370 miliardi di rubli i 5.000 miliardi circa di spese dichiarate: una voce molto superiore alle altre, inclusa la politica sociale che si riduce rispetto al 2022; e più del doppio, calcola Bloomberg, rispetto a un anno fa. La spesa militare “in chiaro” si ferma a 531 miliardi di rubli, sempre al 25 marzo, quella per la sicurezza nazionale a 379 miliardi. Secondo Aleksandra Suslina, economista russa indipendente citata da Bloomberg, l’aumento delle voci riservate nasconde la crescita delle spese legate direttamente o indirettamente all’intervento militare in Ucraina. «È logico presupporre che tra le spese segrete rientrino anche i fondi destinati ai nuovi territori», le quattro regioni ucraine occupate e annesse unilateralmente alla Federazione Russa. Nell’era di drammatica incertezza aperta dalla guerra, ogni indicatore si limita a fotografare la realtà in un raggio sempre più breve: sull’andamento della spesa militare russa nei prossimi mesi incideranno i sussidi, gli investimenti e tutte le agevolazioni previste dal Governo Mishustin a sostegno della produzione bellica, della modernizzazione di ogni comparto coinvolto nello sforzo militare e della protezione delle imprese russe dalle sanzioni. Mentre alla voce entrate il budget dovrà affrontare l’incertezza legata ai mercati del petrolio, e la possibile introduzione di nuove sanzioni: Gherman Galushchenko, ministro dell’Energia ucraino, ha fatto appello alla Ue perché metta nel mirino anche il settore nucleare russo, finora esonerato. Attorno agli impianti nucleari ucraini, ha detto ieri Galushchenko, i russi hanno violato ogni possibile regola sulla sicurezza nucleare e radioattiva».
GLI USA: BASTA INFORMAZIONI AI RUSSI SUL NUCLEARE
Gli Usa decidono il silenzio sulle armi nucleari. Washington non fornirà più a Mosca (uscita dallo Start) notizie sul proprio arsenale. Sabato Angieri per il Manifesto.
«Il rischio di una guerra nucleare sarà anche più retorico che reale ma nelle ultime settimane si aggiunge ogni giorno un nuovo elemento. Ieri gli Stati uniti hanno informato ufficialmente il Cremlino e il mondo che non forniranno più informazioni sulle proprie forze nucleari. «Questa è la prima azione che abbiamo intrapreso all’interno del trattato in risposta alla sospensione della Russia», ha dichiarato un alto dirigente dell’amministrazione Biden, come riportato dal Wall Street Journal. E intanto Mosca ha testato dei missili antinave nel Mar del Giappone, dove è di stanza la settima flotta della Marina Usa. Il fatto è che la rivalità tra Russia e Stati uniti, esplosa con forza dopo l’invasione dell’Ucraina del febbraio 2022, ormai si alimenta alla luce del sole. In altri termini non si tratta più di contatti tra i vertici dei servizi segreti o telefonate riservate tra i ministri, ma di titoli da prima pagina sulle testate di tutto il mondo. Quando Mosca aveva annunciato la sospensione della sua partecipazione al Trattato sulla limitazione delle armi strategiche (sintetizzato dall’acronimo Start) firmato nel 1991 e rinnovato nel 2010, il 21 febbraio scorso, gli Stati uniti avevano parlato di «decisione pericolosa e incauta». Ieri, poi, il Wsj ha diffuso la notizia, già preannunciata da alcuni analisti, che anche gli Usa hanno deciso di tirarsi indietro. Ufficialmente, «il nostro obiettivo è incoraggiare la Russia a tornare al rispetto del trattato», riportano le fonti della testata americana, e siccome «la sospensione dichiarata dalla Russia del Nuovo Trattato Start è legalmente non valida, gli Stati uniti sono legalmente autorizzati a trattenere il loro aggiornamento semestrale dei dati in risposta alle violazioni della Russia». Questo nuovo capitolo dello scontro a distanza tra le due superpotenze nucleari si apre a tre giorni dall’annuncio da parte russa della costruzione di depositi ad hoc per le proprie batterie di Iskander caricati con testate nucleari in Bielorussia. A tale proposito sulle colonne del Kyiv Independent l’ex ambasciatore statunitense in Ucraina dal 1998 al 2000 e affiliato al Centro per la sicurezza e la cooperazione internazionale dell’Università di Stanford, Steven Pifer, sostiene che «l’arsenale nucleare russo – il più grande al mondo – comprende circa 1.900 armi nucleari non strategiche, che possono essere trasportate da missili di superficie, aerei e sistemi marittimi. Inoltre, la Russia possiede circa 2.500 armi nucleari strategiche. Considerato tale arsenale, il dispiegamento di armi nucleari tattiche in Bielorussia non fornirebbe alla Russia ulteriori capacità contro l’Ucraina». Ma la mossa è stata comunque effettuata. Così come ieri il ministero della Difesa russo ha dichiarato di aver lanciato un attacco missilistico simulato nel golfo di Pietro il Grande, nel Mar del Giappone, contro una finta nave da guerra nemica a circa cento chilometri di distanza. Il punto dirimente è che gli armamenti utilizzati, i cosiddetti Moskit, sono missili da crociera anti-nave supersonici con capacità di testate convenzionali e nucleari. La manovra, secondo quanto riferito dalle stesse fonti russe sarebbe stata portata a termine con successo. Tutt’altro che simulati, invece, sono gli attacchi lanciati nelle ultime ore contro le città ucraine. Secondo lo Stato maggiore di Kiev, le forze russe hanno lanciato nel complesso 24 raid aerei, 12 attacchi missilistici e 55 attacchi con sistemi di razzi a lancio multiplo. Su 15 droni kamikaze lanciati dalle postazioni russe tutti tranne uno sarebbero stati abbattuti. A Kiev sono scoppiati diversi incendi nei quartieri di Sviatoshynskyi e Obolonskyi, anche se non si registrano vittime, come chiarito dal sindaco Vitali Klitschko. Anche nella regione di Kharkiv si registrano diversi danni nella città di Bogodukhiv. Ma è nella città di Slovjansk che i danni sono stati maggiori e il bilancio delle vittime più alto. Due persone che si trovavano nella propria auto hanno perso la vita e almeno altre trenta sono rimaste ferite a causa della detonazione di due missili S-300 nei pressi degli edifici dell’amministrazione locale. Dall’altro lato del confine, secondo alcuni media e canali Telegram russi, un drone si sarebbe schiantato a 70 chilometri da Mosca, in un’area chiamata Nuova Mosca. Stando alle dichiarazioni locali il velivolo era dipinto di giallo e blu e sulle ali aveva la scritta «Gloria all’Ucraina». Le forze dell’ordine hanno riferito alla Tass che «presumibilmente, il relitto dell’Uav è stato trovato vicino ai binari della ferrovia nel villaggio di Svitino e non ci sono state vittime».
AI FERITI DI LEOPOLI I DONI DEL PAPA
Padre Enzo Fortunato porta i “doni del Papa” alle vittime ucraine dei combattimenti per la “missione di umanità e pace” voluta dai francescani conventuali, dalla cooperativa Auxilium, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Federazione italiana giuoco calcio. Per Avvenire Giacomo Gambassi.
«Appoggia il Rosario di papa Francesco, il biglietto con la sua fotografia e quello con gli auguri di Pasqua sopra le bende che escono dai pantaloncini corti e che, appena sopra il ginocchio, fasciano il punto in cui gli è stata amputata la gamba destra. «I medici hanno fatto il possibile per salvarla. Però non ci sono riusciti. Ma fra qualche giorno arriverà la protesi», dice con voce energica Andrij Kropyvnytskyi. Ha 36 anni e tre giorni dopo l’inizio dell’invasione russa si è arruolato. Soldato al fronte per un anno. Fino a quando, lo scorso 4 febbraio, si è trovato al centro di «uno scontro corpo a corpo con il nemico nella terribile regione di Lugansk», racconta. Adesso il suo presente è quello di ferito di guerra nell’ospedale di San Pantaleone a Leopoli. A lui padre Enzo Fortunato consegna i «doni del Papa», come li definisce il frate minore conventuale. «E anche queste parole del Pontefice: “Dio non è crudele. Dio coccola. È l’uomo che, quando si sente Dio, diventa crudele” ». È Andrij il primo paziente a cui il religioso affida il messaggio che il Papa gli ha chiesto di «far giungere al popolo ucraino» quando lo ha incontrato alla vigilia della partenza della “missione di umanità e pace” voluta dai francescani conventuali, dalla cooperativa Auxilium, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Federazione italiana giuoco calcio. «Poi ti porto la sua vicinanza e la sua benedizione», continua padre Enzo. E ripeterà letto dopo letto l’invito alla speranza di Francesco che è al tempo stesso monito contro i deliri d’onnipotenza insiti in ogni conflitto, compreso quello fra Russia e Ucraina. Accade davanti ad Anatoli che respira con la cannula dopo essere stato colpito a Bakhmut o salutando Iury, 21 anni, rimasto prigioniero dei russi per nove mesi. E ancora ai piccoli ricoverati nel reparto pediatrico. Un messaggio che, secondo le intenzioni del Papa, è rivolto anzitutto ai più fragili. Ecco perché padre Fortunato sceglie come primi destinatari chi porta sul corpo e nell’anima i traumi della logica delle armi e poi le famiglie sfollate che le bombe hanno costretto a vivere nella “cittadella prefabbricata” del quartiere Sikhiv. «Periferie esistenziali», spiega il conventuale. Si commuove la mamma di Andrij accarezzando l’immaginetta del Papa. «Siamo greco-cattolici », sussurra il figlio che è un ingegnere. «Prima dell’aggressione ho lavorato per un’azienda italiana, la Irem, che realizza piattaforme petrolifere». Poi la decisione di mettersi a servizio dell’esercito. «Pentito? La mia nazione andava e va difesa». In un anno sono più di 11mila i feriti di guerra passati dall’ospedale di Leopoli. « Mille i bambini», chiarisce la direttrice esecutiva Maryana Svirchuk. Sul polso porta un braccialetto giallo con la scritta “Unbroken”, nome dato al primo centro di riabilitazione postbellica del Paese. « Lo ha indossato anche il Papa durante un’udienza», tiene a far sapere. E cita la collaborazione con l’ospedale Bambin Gesù di Roma che «ha già curato oltre duemila ragazzi arrivati dall’Ucraina», ricorda il fondatore di Auxilium, Angelo Chiorazzo, mentre consegna il carico di medicinali portati dall’Italia. Le foto del Pontefice entrano anche nel villaggio modulare che accoglie 1.500 rifugiati di cui 300 con meno di quindici anni. Sono fuggiti dai missili che cadono nelle regioni di Kharkiv, Zaporizhzhia o Donetsk, come racconta Anya che ha lasciato «l’inferno» con la figlioletta Vsasselina di tre anni. E dal Papa arrivano anche i libri per ragazzi, insieme alle sue parole che risuonano in mezzo ai container. Sono, invece, targate Figc le centinaia di magliette e di tute della Nazionale che subito i “piccoli profughi” si mettono sopra i giacconi dopo la nevicata della notte. «C’è bisogno di regalare sorrisi e fiducia », ribadisce Chiorazzo. «Qui vivono i più poveri, coloro che hanno perso tutto per i missili», spiega Eugenia, volontaria di Sant’Egidio, che anima fra i prefabbricati la “Scuola di pace”, una sorta di doposcuola che per certi versi supplice alle insegnanti. «Come si fa a seguire le lezioni online se una mamma ha tre figli e un solo cellulare? L’istruzione sta diventando un’emergenza. E la guerra rischia di lasciarsi dietro una generazione senza scuola».
BOCCIATO L’ODG PER FERMARE L’INVIO DELLE ARMI
Matteo Marcelli per Avvenire racconta che il Parlamento ha bocciato un ordine del giorno proposto dai 5 Stelle per fermare la spedizione di materiale bellico italiano a Kiev.
«Un ordine del giorno per «interrompere immediatamente la fornitura di materiali d’armamento» a Kiev, assicurare «pieno sostegno e solidarietà al popolo ucraino» e promuovere «una nuova fase di sforzi diplomatici affinché sia scongiurato il rischio di una ulteriore escalation militare». A presentarlo ieri, nel corso del dibattito a Montecitorio sul dl per la protezione dei profughi ucraini, il deputato pentastellato Marco Pellegrini, nella convinzione che l’addestramento di militari ucraini in Italia per l’utilizzo dei sistemi missilistici inviati da Roma «comporti un coinvolgimento sempre più attivo dell’Italia nel conflitto in corso, nonché l’esposizione al rischio di una ulteriore gravissima escalation, ostacolando di fatto qualsiasi tipo di trattativa di pace». Il testo, con il parere negativo del governo, è stato però respinto, incassando il voto contrario non solo della maggioranza ma anche di alcune opposizioni. Circostanza di cui si è rammaricato il capogruppo grillino alla Camera, Franscesco Silvestri: « Dispiace che le forze politiche che chiedono la pace non riescano a spingersi fino ad affermarla con determinazione in Parlamento e votino contro il nostro odg al decreto Ucraina che chiedeva di interrompere immediatamente la fornitura di materiali d'armamento alle autorità governative ucraine – ha chiarito il deputato –. Oggi siamo a un punto cruciale in cui è necessario fare dei passi in avanti affinché si arresti rapidamente quella logica della guerra a oltranza e dell'escalation militare che rischia di condurci verso il baratro di un conflitto mondiale». Sulla stessa lunghezza d’onda il commento del proponente, deluso dalle forze politiche «che mostrano sensibilità nei confronti della pace» ma «quando c’è votare in Parlamento confermano la strategia dell’escalation militare». «Il fallimento del continuo invio di armi – ha aggiunto – è sotto gli occhi di tutti e ha affossato ogni ipotesi di negoziato». La proposta segue i rilievi avanzati ieri dai componenti 5 Stelle in commissione Cultura a Montecitorio, che in vista della discussione sull’accoglienza di profughi ucraini, poi proseguita oggi, avevano chiesto che le risorse necessarie non fossero «reperite attraverso tagli ai fondi destinati ai ministeri dell'istruzione, dell'università e della cultura», manifestando preoccupazione per «i tagli per oltre 30 milioni di euro complessivi, distribuiti tra istruzione, cultura e università», contenuti nel provvedimento».
LA GUERRA DEL GOVERNO ALLE ONG NON FERMA GLI ARRIVI
L'odissea degli ultimi sbarcati nei racconti delle mamme salvate dal mare: «Le barche passavano e andavano oltre». Fulvio Fulvi per Avvenire.
«La guerra del governo alle Ong non serve a fermare gli sbarchi sulle coste italiane. E le regole imposte alle navi di soccorso mettono ancora più a rischio la vita dei migranti. L’ultimo approdo risale a mezzogiorno di ieri: a Ortona, in Abruzzo, è attraccata la Life Support di Emergency con 161 profughi, tra cui 26 donne (tre incinte) e 61 minori, 52 dei quali non accompagnati. Per la maggior parte sono etiopi, ivoriani, somali, nigeriani e della Guinea Conakry. Sono stati portati al palazzetto dello sport di Villa Caldari per essere poi trasferiti in hotspot nelle Marche e in Molise. «I naufraghi erano disidratati, debilitati e si reggevano a mala pena in piedi» ha spiegato Roberto Maccaroni, responsabile sanitario della organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada. Drammatica la testimonianza di una 28enne originaria del Costa d’Avorio mamma di due gemelli di due anni: «Durante il viaggio pensavo che se fosse accaduto qualcosa ai miei bambini non me lo sarei mai perdonato: siamo stati in mare per tre giorni alla deriva perché il motore della barca si era rotto e avevamo finito acqua e cibo». Sul pavimento della barca dove erano accalcate una settantina di persone si era formata una poltiglia fatta del gasolio rovesciatosi dalle taniche, urine, escrementi e vomito, hanno raccontato i sopravvissuti. I bambini piangevano, le donne urlavano. «Appena ho visto peggiorare la situazione in Tunisia ho deciso di far partire mia moglie con la nostra bimba – racconta un ivoriano – e adesso non vedo l’ora di riabbracciarli, in più di 73 ore di mare abbiamo incontrato tante barche di pescatori ma ci dicevano che non potevano imbarcarci perché rischiavano denunce penali e multe, però avrebbero chiamato i soccorsi». «Anche a causa di condizioni meteo avverse, abbiano perso due giorni di navigazione per arrivare, come richiesto dalle autorità, nella destinazione abruzzese – ha commentato Emanuele Nannini, capo della missione – se invece ci fossimo fermati in un porto sicuro della Sicilia ora la Life Support sarebbe già in viaggio per salvare altre vite in acque internazionali ». Storie da incubo. Come quella delle quattro donne uniche superstiti del naufragio del 24 marzo nelle acque di Malta: erano partiti con un barchino in 46 dalla Tunisia, solo loro non sono annegate. Hanno perso mariti e fratelli e subìto un forte shock. “Medici senza frontiere” ha fornito alle sopravvissute un supporto psicologico. «Ci hanno raccontato che una nave gli è passata accanto senza fermarsi – riferisce Michele Alma, psicologo della Ong – e si era creata una grande onda che ha spezzato in due l’imbarcazione facendola inabissare». Nessuno degli uomini è riuscito a rimanere a galla nonostante i giubbotti di salvataggio. Ancora una tragedia nel Mediterraneo. Finora solo otto cadaveri sono stati recuperati. Un nono – appartiene a una donna – potrebbe essere quello rinvenuto ieri a Lampedusa, sugli scogli di Punta Alaimo, proprio sotto il faro. Fino alle 8 di ieri sono stati 27.059 i migranti sbarcati in Italia dal 1° gennaio: quattro volte di più di quelli arrivati nello stesso periodo del 2022. Sono 2.641, invece, i minori non accompagnati salvati fino al 27 marzo. Ieri, il centro di accoglienza di contrada Imbriacola, a Lampedusa, ospitava 1.540 profughi sui 400 posti disponibili. Non si placa, infine, la polemica sul fermo amministrativo imposto alla Louise Michel, bloccata a Lampedusa sabato «per non aver osservato le disposizioni impartite ». Per la Guardia costiera, troppi salvataggi sono stati portati a termine senza informare le autorità, ignorando l’ordine di raggiungere «senza ritardi» il porto di Trapani così da ostacolare i soccorsi. Sarebbe un reato. Ma secondo fonti che arrivano dal palazzo di giustizia di Agrigento, nessuna denuncia penale è stata presentata contro la Ong dell’artista britannico Banksy proprietaria della nave umanitaria. Accuse infondate, dunque».
LOLLOBRIGIDA: LA STRADA GIUSTA È QUELLA DEL DECRETO FLUSSI
Imprenditori e forze politiche riflettono sul boom di domande di ingresso legale al click day. La Lega invece cerca di reintrodurre lo sbarramento nel decreto Cutro. La notizia è del Fatto.
«Mentre la Lega va alla carica sul decreto Cutro presentando 21 emendamenti (15 per ripristinare i vecchi decreti Sicurezza, 6 sull’integrazione dei migranti) in Commissione Affari costituzionali al Senato, il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, di Fratelli d’Italia, in conferenza stampa dice: “L’indirizzo corretto è quello del decreto flussi, come dimostra il click day di lunedì”. Anche Forza Italia si muove in contrapposizione rispetto al Carroccio decidendo di presentarne altri cinque in senso opposto allargando le maglie dell’accoglienza: in primo luogo i forzisti chiedono di semplificare le procedure sui programmi di formazione professionale, poi di aumentare fino a 4 mila i posti per minori non accompagnati e infine inserire una quota per la categoria “apolidi-rifugiati” nei decreti flussi del governo. L’obiettivo quindi è chiaro: muoversi in senso contrario rispetto a quello di restringere le maglie dell’accoglienza voluto dalla Lega. Nel governo quindi sul tema ci sono tre posizioni diverse: quella “cattivista” della Lega, quella per l’accoglienza di Forza Italia e nel mezzo Fratelli d’Italia che non può troppo appiattirsi sul Carroccio, perché altrimenti rischia di andare allo scontro col Quirinale. Intanto ieri la maggioranza ha rischiato proprio di andare sotto in Senato sul parere della Commissione Politiche europee sul decreto Cutro. Il parere, anche se non vincolante, è passato solo grazie al voto del presidente della Commissione, Giulio Terzi di Sant’Agata: mancavano molti esponenti della maggioranza, impegnati in altre commissioni, e anche due senatori del Pd, il cui voto sarebbe stato decisivo per far andare in minoranza il governo. In Cdm ieri intanto i ministri Piantedosi e Tajani hanno parlato del caso Tunisia. L’obiettivo è bloccare le partenze».
L’ONU ACCUSA LA GUARDIA COSTIERA LIBICA
Nuova denuncia dell’Onu: la “centrale dei soccorsi” di Tripoli, finanziata ed equipaggiata dall’Italia, «ha violato il diritto alla vita dei naufraghi». Nello Scavo per Avvenire.
«Il report dell’Alto commissario per i diritti umani accusa i guardacoste e i campi di prigionia statali Il dossier sulla Libia su cui indaga la Corte penale Internazionale nelle ultime ore ha visto arrivare sul tavolo degli inquirenti dell’Aja un nuovo atto d’accusa contro le autorità di Tripoli. Lo firma la Commissione indipendente Onu sui diritti umani, che accusa la cosiddetta guardia costiera libica di essere parte attiva nella filiera del traffico di esseri umani. «Centinaia di migranti e rifugiati intercettati o salvati in mare dalla Guardia Costiera e da altri enti sono scomparsi dopo essere stati sbarcati nei porti libici. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) - si legge nel report visionato da Avvenire - ha riferito che questi individui sono esposti al sequestro da parte di gruppi armati impegnati nel traffico di esseri umani o nel contrabbando». Il testo di 46 pagine è stato trasmesso al Consiglio di sicurezza Onu e acquisito dalla Corte penale dell’Aja, che sta esaminando le richieste di mandato di cattura internazionale depositate dal procuratore Karim Khan. I nomi degli esponenti libici indagati sono ancora coperti da segreto istruttorio, in attesa che il tribunale si pronunci sulla convalida delle richieste d’arresto in campo internazionale. La Commissione indipendente ha raccolto anche la denuncia del “panel of expert”, il gruppo di esperti nominato dal Consiglio di sicurezza e che da anni indaga sulle violazioni dei diritti umani, i crimini di guerra e i traffici illeciti in tutta la Libia. Gli specialisti «nell’ambito della loro indagine sugli incidenti di naufragio hanno segnalato che il Centro di coordinamento e salvataggio marittimo (di Tripoli, ndr), l’autorità governativa responsabile, ha violato il diritto alla vita di circa 130 migranti e rifugiati non avendo adottato misure appropriate». Si tratta solo di uno degli episodi ricostruiti, a cui seguono abusi ampiamente provati. La centrale di coordinamento libica è stata finanziata e attrezzata dall’Italia, che chiede alle organizzazioni del soccorso civile di rivolgersi al centralino dei guardacoste libici. Nonostante anche secondo l’Onu i funzionari di Tripoli non garantiscano neanche i minimi standard operativi e di rispetto dei diritti fondamentali. «Il gruppo di esperti delle Nazioni Unite sulla Libia ha documentato che le guardie del Dcim (Il Dipartimento del governo per il contrasto dell’immigrazione illegale, ndr), così come i membri di gruppi armati non statali, commettono abitualmente violenze sessuali per controllare e umiliare i migranti. Gli osservatori hanno riferito che lo stupro è stato spesso usato come forma di tortura e in alcuni casi ha portato alla morte». A confermare che le sevizie siano una regola di gestione dei campi di prigionia statali ci sono prove definite «schiaccianti». L’agenzia Onu per i diritti umani (Ohchr) e la Missione Onu in Libia (Unsmil), hanno infatti «ottenuto video e fotografie delle torture subite» da migranti e profughi «e del fatto che alle loro famiglie è stato chiesto di pagare un riscatto». In uno dei video «un uomo viene torturato a morte». Secondo l’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani Onu «le donne migranti nei centri di detenzione sono trattenute in strutture prive di guardie femminili e sottoposte a “perquisizioni” da parte di agenti uomini». Donne adulte e ragazze minorenni migranti «sono costrette a praticare sesso a scopo di lucro (gli introiti vanno ai capi delle strutture, ndr) in centri di detenzione sia ufficiali che non ufficiali, in condizioni che a volte sono assimilate alla schiavitù sessuale». Molte donne migranti vittime di abusi «non sono potute tornare nei loro Paesi d’origine a causa della stigmatizzazione».
IL NO FRANCESE ALL’ESTRADIZIONE DEI TERRORISTI ITALIANI
Da Cappelli e Pietrostefani, la Cassazione di Parigi nega l’estradizione a dieci ex terroristi condannati, riparati da anni in Francia. L’indignazione dei familiari delle vittime. Il ministro Nordio: “Abbiamo fatto tutto il possibile”. Anais Ginori per Repubblica.
«La Corte di Cassazione rigetta il ricorso del procuratore generale presso la Corte d’appello di Parigi, considerando che i motivi adottati dai magistrati, che rilevano del loro giudizio sovrano, sono sufficienti». Si chiude in poche righe una storia lunga quarant’anni. La Cassazione respinge l’ultimo ricorso nella procedura di estradizione verso l’Italia riaperta due anni fa per dieci italiani fuoriusciti dal terrorismo rosso, tra cui anche le ex brigatiste Marina Petrella, Roberta Cappelli e l’ex dirigente di Lotta continua Giorgio Pietrostefani. Nella primavera del 2021, dopo mesi di trattative, Emmanuel Macron, d’intesa con l’allora premier Mario Draghi, aveva deciso a sorpresa di dare il via libera alle richieste pendenti da anni, con una lista di dieci nomi. A quasi due anni dall’arresto degli ex attivisti, l’avviso sfavorevole della Corte d’appello, conclude la Cassazione, deve essere considerato «definitivo». Le due donne e gli otto uomini, di età compresa tra i 62 e i 79 anni, erano stati condannati dalla giustizia italiana, alcuni all’ergastolo, e avevano beneficiato della cosiddetta dottrina Mitterrand, il presidente socialista che tra il 1981 e il 1995 si impegnò a non estradare gli ex attivisti che avevano rotto con il loro passato. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio prende atto della decisione: «Il nostro Paese ha fatto tutto quanto in suo potere perché fosse rimosso l’ostacolo politico che per decenni ha impedito alla magistratura francese di valutare le nostre richieste» dice il Guardasigilli, rivolgendo il suo pensiero alle «vittime di quella sanguinosa stagione e ai loro familiari ». Ed è da loro che arriva la reazione più dura. «È una vergogna che non ha fondamento giuridico e chiedo alla Francia: se fosse successa la stessa cosa al contrario con le vittime del Bataclan? », dice Roberto Della Rocca, lavoratore di Fincantieri che nel 1980 fu ferito a Genova durante un attentato delle Br. Irène Terrel, storica avvocata di diversi ex terroristi italiani, parla invece di «enorme sollievo ». «Non bisogna attizzare le piaghe fino all’eternità — commenta Terrel — questo non significa non rispettare le vittime, che io rispetto. Ma uno Stato deve fare il contrario, andare verso soluzioni politiche». Nel parere sfavorevole alle estradizioni, la Corte d’appello di Parigi si era basata sul rispetto del diritto alla vita privata e familiare e del diritto a un processo equo, come previsto dagli articoli 8 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nonostante la decisione giudiziaria, Macron aveva ribadito la volontà che i dieci fuoriusciti dalla lotta armata fossero «processati sul suolo italiano », sostenendo che erano stati «coinvolti in crimini di sangue» e quindi non rientravano nella dottrina Mitterrand. Pochi giorni dopo le parole del capo dello Stato, il procuratore generale di Parigi aveva presentato ricorso alla Corte di Cassazione, fatto abbastanza inedito. Nel pomeriggio il ministro della Giustizia francese, Eric Dupond- Moretti, ha chiamato Nordio per «ribadire la sua piena fiducia nella giustizia italiana e nella qualità della cooperazione tra Italia e Francia». Qualche giorno fa Dupond-Moretti, di origini marchigiane, aveva ribadito che per lui i dieci italiani coinvolti nella procedura rimanevano «dei terroristi che hanno sangue sulle mani». «Io ho sempre pensato che se un terrorista francese avesse commesso quei reati in Francia e fosse venuto a rifugiarsi all’ombra del Colosseo, i francesi avrebbero gridato all’ingiustizia » aveva detto Dupond- Moretti, concludendo però di rispettare l’indipendenza della giustizia».
PD, I NUOVI CAPIGRUPPO
Sono stati eletti per acclamazione i nuovi capigruppo del Pd Boccia e Braga. Guerini attacca: «Ci sono state forzature politiche». Maria Teresa Meli per il Corriere.
«Elly Schlein incassa i «suoi» capigruppo: Chiara Braga alla Camera e Francesco Boccia al Senato, per acclamazione, senza nessuna conta. I mugugni ci sono e diverse critiche vengono sollevate nel corso delle due assemblee dem a Montecitorio e a Palazzo Madama. Persino Lorenzo Guerini, gran mediatore con notevoli doti diplomatiche, non riesce a nascondere il suo disappunto. La minoranza mastica amaro, ma alla fine può solo mettere agli atti perplessità e obiezioni. Per il resto, si fa come vuole la leader. Ora certamente il braccio di ferro si sposterà sulla segreteria. L’area che fa capo a Stefano Bonaccini vorrebbe un vicesegretario da affiancare a Marco Furfaro. Schlein sonda il terreno, ma parrebbe non avere intenzione di accogliere questa richiesta. Perciò la minoranza, cui spetterebbero 2 posti dei 14 della segreteria, rilancia e ne reclama 4. La situazione al momento è di stallo e nei capannelli dem si scommette sul fatto che alla fine la leader dovrà cedere sulla richiesta del vice. E si fanno già i nomi di due possibili candidati: Alessandro Alfieri e Pina Picierno. Blazer blu pavone, la segretaria si presenta prima al Senato e poi alla Camera e non muove un muscolo facciale quando i parlamentari dem criticano il suo operato. La prima, a Palazzo Madama, è l’ex capogruppo Simona Malpezzi. «Avrei preferito che la discussione avvenisse tra di noi, prima che sui giornali». E ancora: «Schlein ci ha chiesto fiducia, questa fiducia deve essere reciproca». Sandra Zampa non le manda a dire. «Avrei preferito una rosa di nomi», esordisce. Quindi aggiunge: «Dico subito che non accetterò logiche spartitorie. Poi vorrei che si superasse la rappresentazione che si fa che chi ha votato Schlein è di sinistra e chi invece ha optato per Bonaccini è un ex renziano». Anche Graziano Delrio non nasconde le perplessità: «Sei stata talmente brava che non avrei nulla da criticare, ma bisogna ascoltarsi e parlarsi per condividere». Il dibattito termina, Boccia viene eletto con applausi e illustra subito le sue intenzioni: «Ora inizia un lavoro parlamentare in raccordo con il partito, che avrà come punto di riferimento costante le piazze». Cambio di scena: ora tocca ai deputati dem dire la loro. L’uscente Debora Serracchiani, salutata dal fragoroso applauso dei colleghi parlamentari, fa un discorso pacato, ma si toglie un sassolino dalla scarpa: «L’autonomia dei gruppi va tutelata e salvaguardata sempre». È una delle critiche principali che viene rivolta a Schlein per il modo in cui ha deciso di gestire la vicenda dei capigruppo. Serracchiani, però, non aggiunge altro. È il presidente del Copasir Guerini a fare l’intervento più articolato (e più critico) in quel consesso. L’ex ministro della Difesa esordisce con una battuta nei confronti della segretaria: «Avevo chiesto di far slittare di mezz’ora l’assemblea. È slittata di un’ora e mezza, la prendo come un anticipo della generosità di Elly sugli assetti della segreteria». Poi Guerini, con il suo solito modo di fare pacato non risparmia le critiche: «Sui capigruppo c’è stata una forzatura, ma per una prospettiva unitaria serve condivisione. Comunque il nostro confronto non termina qui, dobbiamo concentrarci sulla proposta politica complessiva che vogliamo rivolgere a tutto il Paese e non limitarci a battaglie identitarie». Quindi la conclusione: «Per trovare le ragioni per non trovarmi in disaccordo devo ricorrere al senso di responsabilità tramandato dalla cultura con cui sono cresciuto, metà cattolica e metà comunista».
BARELLI NUOVO CAPOGRUPPO DI FORZA ITALIA
Anche Forza Italia ha un nuovo capogruppo. L’assemblea lo ha indicato per acclamazione: è Paolo Barelli. Lo ha intervistato Pier Francesco Borgia per il Giornale.
«Da ieri Paolo Barelli è il nuovo capogruppo al posto di Alessandro Cattaneo, chiamato a un nuovo ruolo come vicecoordinatore nazionale del partito. Era già successo nella passata legislatura che Barelli subentrasse. Al posto di Roberto Occhiuto, quando quest’ultimo è stato eletto governatore della Calabria.
Onorevole Barelli le cronache dei giorni scorsi suggerivano una divisione del partito tra falchi e governisti. Una ricostruzione attendibile?
«Forza Italia non può far altro che essere governista dal momento che fa parte della coalizione che ha vinto le elezioni. D’altronde Berlusconi e tutto il partito hanno da sempre un senso di responsabilità istituzionale dimostrata ampiamente anche durante le drammatiche giornate del Covid. Ora è proprio questa immagine di cui lei mi parla che Berlusconi, con le sue scelte, vuole smentire. D’altronde le elezioni europee sono sempre più vicine e non ci possiamo arrivare certo con questa cattiva interpretazione».
I giornali hanno parlato anche di fibrillazioni per l’avvicendamento con Cattaneo.
«I nostri rapporti sono ottimi. D’altronde proprio in questi giorni ricorrono i 29 anni dalla prima vittoria elettorale di Forza Italia. Dalla prima intuizione di Berlusconi è passato tanto tempo e tutte le grandi personalità che si sono avvicendate nella vita del partito hanno contribuito a fare grande la storia azzurra. Nessuno di noi è indispensabile; è la squadra che conta. Una squadra che vanta un regista d’eccezione che sa sfruttare a seconda delle necessità l’attacco o la difesa della squadra».
Quali sono le prossime sfide parlamentari?
«Daremo sostegno senza alcun tentennamento al governo per migliorare decreti o atti legislativi che arrivano all’attenzione dell’Aula. È nel nostro dna l’efficacia delle norme, magari semplificando il funzionamento dello Stato per liberare le energie compresse, con un’attenzione particolare alle aziende perché aiutare il mercato del lavoro significa aiutare la crescita economica del Paese. Oggi per esempio è stato approvato in Cdm il nuovo codice degli appalti, con una necessità di accelerazione che è la stessa del Pnrr».
Nella sua agenda poi c’è la questione delle bicamerali.
«Nelle prossime ore incontrerò i capigruppo degli altri due partiti di maggioranza per dare un’accelerazione sulle nomine perché anche da esse dipende il funzionamento della macchina parlamentare».
I 5 PUNTI DEBOLI DELLE BANCHE EUROPEE
Sul caso Deutsche Bank, le autorità hanno individuato una grande operazione su Cds che avrebbe scatenato il crollo del gruppo in Borsa venerdì scorso. Le banche europee sono solide, ma in un contesto di tassi in rialzo varie problematiche emergono: dai derivati ai titoli congelati. Morya Longo ne ha individuati ben 5 e li elenca in un approfondimento per Il Sole 24 Ore.
«A guardare gli andamenti di Borsa si direbbe, paradossalmente, che la crisi sia più forte tra le banche europee che tra quelle statunitensi. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che, oltre alla bufera su Deutsche Bank, che dal giorno del crack della Silicon Valley Bank ha perso il 23% in Borsa, altre banche del Vecchio continente abbiano bruciato circa un quarto del proprio valore in meno di tre settimane: dalla francese Societé Generale (-27%) alle spagnole Sabadell (-25%) e Bankinter (-26%). Hanno certamente pesato la speculazione (secondo Bloomberg le Autorità hanno individuato un’operazione sui credit default swap dietro al crollo in Borsa di Deutsche Bank), il panico e la generale riduzione dei rischi. Ma è solo questo? Si tratta solo di irrazionalità e speculazione? Il sistema bancario europeo è davvero così solido come le Autorità ripetono a disco rotto? Oppure ci sono, anche solo in maniera potenziale, delle pur minime vulnerabilità che messe insieme rendono il nostro sistema creditizio più debole di quanto non sembri? Per rispondere bisogna partire da quelle che sono le preoccupazioni sul mercato. Sebbene in maniera molto vaga, i timori che circondano Deutsche Bank, Societé Générale e in generale il sistema creditizio europeo sono almeno cinque: i derivati, l’esposizione sul mercato dei mutui commerciali negli Stati Uniti, la quantità di perdite potenziali derivanti dai titoli di Stato “congelati” in bilancio, la dipendenza dal mercato dei titoli «Additional Tier 1» “ucciso” dalla decisione delle Autorità svizzere di azzerarli, la tenuta dei depositi e della liquidità. Perché è vero che il sistema bancario europeo è solido secondo tutti i coefficienti pubblicati dall’Eba (il capitale primario “Cet 1” è in media del 14,8%, il liquidity coverage ratio è al 162,5%, le sofferenze creditizie sono solo all’1,8%), ma è anche vero che un mondo passato all’improvviso da 15 anni di tassi a zero a tassi in veloce crescita non può non creare sconquassi anche nei bilanci delle banche. La domanda è: fino a che punto? La risposta breve è che presi singolarmente questi rischi non sembrano - a quanto se ne sa oggi - così preoccupanti. Ma è anche vero che tanti “acciacchi” messi insieme possono indebolire persino i fisici più forti. Soprattutto se la speculazione, anche attraverso i credit default swap, risveglia paure che credevamo sepolte e innesca una crisi di sfiducia.
1 I derivati. Bomba o non bomba nei bilanci delle banche?
Deutsche Bank, secondo il bilancio 2022, ha in essere contratti derivati per un valore nozionale di 42.500 miliardi di euro. Si tratta di un valore lordo in linea con quelli (monitorati dall’Occ Usa) delle grandi banche statunitensi: JP Morgan 54.300 miliardi di dollari, Goldman 51mila, Citi 46mila, Bank of America 21.600 miliardi. Più “sobria” per ammontare, in Europa, Societé Générale, che ha derivati per un valore nozionale di poco inferiore ai 15mila miliardi di euro. Eppure, a dispetto del clamore che questi numeri immensi possono suscitare, il valore nozionale non è di per sé indicativo: quello che conta è infatti la reale esposizione al rischio di controparte. Ormai, per le varie riforme varate dopo il crak di Lehman, la maggior parte dei derivati necessita di una Controparte centrale che si mette in mezzo a due contraenti annullando - per loro - il rischio che uno dei due fallisca. E se si guarda il bilancio di Deutsche Bank si scopre che la maggior parte dei derivati usa proprio una controparte centrale. Circa 13mila miliardi ne restano privi. Ma anche questi, secondo gli addetti ai lavori, sono protetti da garanzie “collaterali”. Si tratta di numeri preoccupanti? Qui nessuno ha davvero una risposta. Perché è difficile capire i rischi effettivi. Ci sono almeno due fattori che li mitigano e altri tre che potrebbero aumentarli rispetto agli anni passati. Il primo fattore mitigante è che ogni trimestre, nel bilancio, ogni banca deve iscrivere i derivati al valore di mercato: se questi strumenti finanziari hanno delle perdite, insomma, quelle fino al 31 dicembre sono già emerse. La seconda considerazione che mitiga i rischi è il fatto che il mercato dei derivati non è più quello del 2008: nel frattempo la legislazione è diventata molto stringente e prudenziale, a partire dal maggior ruolo delle controparti centrali. Detto questo, però, i rischi almeno potenziali ci sono. Il primo è il fatto che buona parte dei derivati è legata a tassi d’interesse: cioè esposta alla super-stretta monetaria della banche centrali. Deutsche Bank, per esempio, ne ha per 32.800 miliardi di euro e SocGen per 9.700. Il secondo è legato al fatto che nessuno sa quale fosse l’esposizione in derivati delle varie banche sul Credit Suisse. Il terzo dipende dal fatto che questa gigantesca struttura finanziaria rende così interconnesse le banche e il sistema finanziario da aumentare i potenziali effetti contagio. In maniera imprevedibile.
2 L’immobiliare americano. Ecco chi è più esposto su uffici e capannoni Usa
L’altra preoccupazione che gira sul mercato riguarda l’esposizione delle banche europee (e il focus anche qui è soprattutto su Deutsche Bank) sul settore degli immobili commerciali Usa. Settore in grave crisi: Morgan Stanley stima per gli uffici una caduta dei prezzi pari al 40%. Le banche europee sentiranno il colpo? La risposta è sì. Ma i numeri non sono clamorosi. Secondo i calcoli fatti da DWS, le banche del Vecchio continente hanno in generale un’esposizione sull’immobiliare commerciale globale pari in media al 6% del totale crediti, contro il 36% delle banche regionali Usa e il 16% delle grandi banche Usa. Dunque il problema è molto maggiore oltreoceano. Deutsche Bank ha un’esposizione globale sugli immobili commerciali pari al 7% del totale crediti, dunque quasi in linea con la media europea. Il problema è che la metà è negli Usa. Ma anche qui non si tratta di grandi cifre: in termini assoluti, secondo DWS, stiamo parlando di 17 miliardi di euro. Tanto, certo. Una perdita farebbe male. Ma non qualcosa di letale, se presa singolarmente, per una banca con un totale attivo di 1.300 miliardi di euro.
3 Le perdite potenziali. Il nodo dei titoli di Stato congelati in bilancio
C’è poi il tema delle perdite potenziali. Sono quelle derivanti dai titoli di Stato che le banche non svalutano perché stanno in quella parte del bilancio (chiamata «held to maturity») che consente di tenerli “congelati” al costo ammortizzato. Questa parte del bilancio è come un “freezer”: se i titoli di Stato sui mercati perdono valore (come accaduto nel 2022), nel bilancio della banca restano immacolati. Perché promettendo di tenerli fino alla scadenza, i criteri contabili permettono di non svalutarli. Il problema emerge se la banca, magari per una fuga di depositi, è costretta a venderli prima della loro scadenza: in tal caso le perdite da potenziali diventano reali. Esattamente come accaduto alla Silicon Valley Bank. Negli Usa la Fdic calcola che le banche abbiano, per questa voce di bilancio, oltre 600 miliardi di dollari di perdite potenziali. Esiste un rischio anche in Europa? Potenzialmente sì, perché le banche hanno 3.300 miliardi di titoli di Stato (dati Eba) e di questi una fetta importante è ”congelata” alla voce del bilancio «held to maturity». Su questo fronte i problemi principali sono più nelle banche del Sud Europa. Secondo un’analisi del team guidato da Andrea Filtri di Mediobanca Securities, le europee che hanno più titoli di Stato sono - in ordine - Bper (ne ha per un ammontare pari a circa il 14% degli attivi totali e a 3,2 volte il capitale Cet1), Popolare di Sondrio (17% degli attivi e 3,2 volte il Cet1), l’olandese Kbc (15% degli attivi e 3,1 volte il capitale) e via via le altre. Ma anche qui i numeri - e i commenti dei vari analisti - suggeriscono che preoccuparsi è eccessivo. Di fronte a un rialzo dei tassi di 200 punti base, se anche le banche fossero costrette a vendere tutti i titoli (scenario più che ipotetico) realizzerebbero perdite capaci di erodere il loro capitale (Tier1) in maniera comunque gestibile. Le più colpite sarebbero - in questo scenario teorico - alcune italiane: la Popolare di Milano, Intesa, Popolare Sondrio. Ma in tutti i casi avrebbero un’erosione del capitale Tier 1 non preoccupante.
4 La tenuta dei depositi. Che effetto avrebbe una fuga sulle banche Ue?
Il motivo per non preoccuparsi troppo è legato anche alla buona “salute” dei depositi in Europa e della liquidità delle banche (a differenza di ciò che accade in Usa). Questo significa che le europee difficilmente sarebbero costrette a vendere i titoli di Stato ora conservati in “freezer”, come accaduto alla Silicon Valley Bank: da noi non c’è infatti una visibile fuga di depositi, paragonabile a quella subita dalle medie banche Usa. Ma se anche per ipotesi ci fosse, le banche avrebbero liquidità sufficientemente abbondante (monitorata dal “Liquidity coverage ratio”) per evitare problemi troppo seri: considerando che il minimo di questo coefficiente è 100%, la media europea è 162,5% (dato Eba). Calcola Mediobanca Securities che in media le banche europee potrebbero sopportare una perdita del 13% dei depositi retail totali per mantenere comunque il “liquidity coverage ratio” al minimo di sicurezza del 100%. Ma tante banche (incluse varie italiane) possono reggere senza problemi anche una fuga del 20-25%. Le più vulnerabili, su questo fronte, sono Ing e Deutsche Bank: alla prima basterebbe una fuga del 7% dei depositi retail e alla seconda del 9% per portare il parametro della liquidità a 100%. Ma entrambe hanno molti depositi di aziende, non inclusi in questa analisi. Dunque nessun vero problema anche per loro.
5 I titoli AT1. Danni da azzeramento deciso in Svizzera
Quando le Autorità svizzere hanno deciso di azzerare i titoli «Additional Tier 1» (AT1) di Credit Suisse senza azzerare le azioni, per il mercato è stato uno shock. In tutto il mondo, in caso di crisi di una banca, si azzerano prima le azioni. Per il mercato è come se un professore decidesse di promuovere gli studenti che hanno 5 e di bocciare quelli che hanno 6. Ovvio il panico tra tutti i possessori di titoli AT1, sebbene le Autorità europee abbiano confermato che da noi in caso di crisi le prime ad essere azzerate sono sempre le azioni. Le vendite sono state comunque forti sui titoli AT1, che servono alle banche per rafforzare il patrimonio. Qui nasce la preoccupazione: che impatto ci sarebbe se il mercato delle AT1 sparisse e le banche non avessero più la possibilità di emetterle? Anche qui la risposta arriva dallo studio di Mediobanca Securities: se accadesse una cosa del genere, e le banche dovessero emettere azioni per rimpiazzare gli AT1, il tutto genererebbe una perdita sull’utile per azione in media del 10%. Un dramma? No. Solo un altro acciacco».
AUTO GREEN. IN UE L’ITALIA, SCONFITTA, SI ASTIENE
Via libera definitivo della Ue al divieto di auto diesel e a benzina dal 2035. Alla fine l’Italia si è astenuta, insieme a Bulgaria e Romania. No della Polonia, Germania a favore. Beda Romano per Il Sole 24 Ore da Bruxelles.
«Dopo un tira-e-molla di un mese, i Ventisette hanno finalmente approvato ieri in via definitiva il regolamento che mette al bando dal 2035 in poi la messa sul mercato di auto inquinanti. La Germania ha votato a favore, dopo avere ricevuto rassicurazioni sul possibile uso di carburanti sintetici. Il governo italiano ha deciso di astenersi, malgrado avesse più volte annunciato un voto negativo e mentre l’ipotesi di includere in futuro i biocarburanti sia remota. Con l’obiettivo di venire incontro a Berlino, la Commissione europea ha pubblicato una dichiarazione nella quale chiarisce un considerando dedicato ai carburanti sintetici (efuels, in inglese) introdotto al momento della messa a punto del testo legislativo nel 2022 (si veda Il Sole 24 Ore di domenica). In questa dichiarazione, l’esecutivo comunitario annuncia la presentazione a breve di un regolamento attuativo che permetterà l’omologazione di auto funzionanti con carburanti sintetici. Inoltre, sempre Bruxelles si è ripromessa di presentare un atto delegato che spiegherà «come veicoli alimentati con i soli carburanti sintetici contribuirebbero agli obiettivi di riduzione delle emissioni di Co2» previsti dal regolamento approvato ieri. Nel caso Parlamento e Consiglio decidessero di respingere il testo della Commissione, quest’ultima seguirà «un altro percorso legislativo, come una revisione del regolamento stesso, per applicare almeno il contenuto legale dell’atto delegato». Il testo del regolamento è stato approvato con il solo voto negativo della Polonia, e l’astensione della Bulgaria, della Romania e dell’Italia. Quest’ultima, che in precedenza aveva annunciato più volte l’opposizione al regolamento, ha tentato in queste ultime settimane di introdurre nella legislazione anche i biocarburanti, di cui il paese è grande produttore (lo sguardo rivolto anche al prossimo negoziato sulle emissioni nocive dei mezzi pesanti). Per ora, senza successo. Parlando ieri alla stampa dopo l’approvazione del provvedimento da parte del Consiglio, il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin ha assicurato ieri che il governo italiano tenterà nel prossimo futuro di dimostrare la neutralità ambientale dei biocarburanti, per ora chiaramente esclusi dalla dichiarazione comunitaria. Ha spiegato che la definizione di neutralità ambientale è attualmente «troppo restrittiva» e non sufficientemente suffragata da «prove scientifiche». Una revisione della legislazione prevista nel 2026 offre una possibile sponda. Resta che per Roma il sentiero è stretto. Il regolamento su cui si è votato ieri stabilisce infatti la messa al bando di auto che emettono Co2 (i biocarburanti producono emissioni nocive). Detto ciò, lo stesso futuro dei carburanti sintetici è incerto: sono ancora in fase di sperimentazione. Diplomatica, la commissaria all’Energia Kadri Simson ha detto di aspettarsi che «le conversazioni con i paesi membri continuino». Parlamento e Consiglio avevano raggiunto un accordo sul regolamento dedicato alle emissioni nocive delle auto nell’autunno scorso (si veda Il Sole 24 Ore del 28 ottobre). Successivamente, in febbraio, il Parlamento aveva dato la sua approvazione definitiva. Con il benestare ora del Consiglio, il testo dovrebbe entrare in vigore prima della pausa estiva».
ISRAELE, LA PROTESTA NON SI FERMA
La sospensione della riforma giudiziaria non ferma le proteste. Dicono gli oppositori: “Netanyahu vuole soltanto prendere tempo, no a una mezza dittatura”. Fabiana Magrì per La Stampa.
«Non ha sortito l'effetto distensivo che si aspettava Netanyahu, l'annuncio della sospensione della manovra di revisione del sistema giudiziario. Dopo aver valutato la situazione, i movimenti di protesta hanno indetto nuove manifestazioni, come se niente fosse stato. Confermato quindi il raduno, sabato sera - il tredicesimo - sulla via Kaplan, sotto i palazzi del ministero della Difesa a Tel Aviv. «Una mezza dittatura» è inaccettabile per le Bandiere Nere, che prevedono una «battaglia ancora lunga». Se la prende, il collettivo delle proteste, con Netanyahu «che ha danneggiato la sicurezza di Israele licenziando il ministro della Difesa» e sta solo «sfruttando la pausa delle festività per ricomporre la coalizione». Ma non risparmia nemmeno il leader dell'opposizione Yair Lapid e il parlamentare Benny Gantz per essersi piegati a negoziare con Netanyahu e i suoi alleati. In un appello pubblico, 35 organizzazioni - tra cui le Bandiere Nere, Peace Now, il Fronte Rosa e Crime Minister - hanno chiesto a Lapid e Gantz di «interrompere i negoziati ingannevoli». L'unico indiscutibile obiettivo per il fronte popolare è la «totale abolizione del golpe giudiziario». Non certo il dialogo o il compromesso a cui invece sta puntando la trattativa iniziata ieri nella residenza presidenziale a Gerusalemme, subito circondata dai manifestanti. Il primo round ha visto la partecipazione della coalizione di governo e i due leader centristi dell'opposizione, Lapid e Gantz. L'ufficio di Herzog ha spiegato che il presidente incontrerà i rappresentanti degli altri partiti nel corso della settimana. Resta insomma alta la guardia del popolo che si oppone alla contestata riforma del governo. Perché ci sono buone ragioni, hanno sottolineato gli organizzatori, per credere che il premier abbia messo in pausa le votazioni al solo scopo di spegnere le piazze. Una pausa che oltretutto già ieri ha lasciato trapelare la possibilità di eccezioni di natura tecnica, per come l'ha messa l'esecutivo. E proprio nel merito di uno dei disegni di legge più controversi della riforma: la modifica alla composizione e ai criteri del Comitato di nomina dei giudici della Corte Suprema, che attribuisce una prevalenza alla sfera politica e non tecnica. Il provvedimento, approvato un attimo prima dell'annuncio di Netanyahu dietro la spinta di Simcha Rothman di Sionismo Religioso, architetto della riforma insieme con il vice premier Yariv Levin del Likud, attende il voto finale della Knesset da un momento all'altro. Trapelano intanto le prime indiscrezioni sulla nuova forza di guardia nazionale alle dipendenze del ministro Itamar Ben-Gvir. Qualora venisse approvata, si concentrerà sulla lotta alle organizzazioni criminali specialmente nel settore arabo-israeliano. Ad alimentare il subbuglio, anche un sondaggio presentato ieri da Canale12 e realizzato dopo il licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant. Il campione intervistato ha evidenziato come la coalizione di destra guidata da Netanyahu non avrebbe più la maggioranza se si tornasse alle urne. Perderebbe consensi anche il Likud del premier, pur restando il primo partito. In ascesa è dato l'ex capo di Stato maggiore Benny Gantz. Gli opinionisti di Haaretz lo dicono da un mese. «Questa non è una crisi costituzionale ma politica. Il momento in cui Netanyahu sarà costretto a scegliere tra la sua coalizione e le istituzioni dello Stato sta arrivando».
LA PIAZZA DI ISRAELE E LA DEMOCRAZIA
Mattia Ferraresi nell’editoriale del Domani ragiona sulla pressione del popolo e il populismo.
«La marea umana che ha pacificamente circondato la Knesset è l’immagine rovesciata della folla inferocita che ha preso d’assalto Capitol Hill il 6 gennaio del 2021. Una ferma, almeno temporaneamente, il governo che vuole arbitrariamente comprimere il potere giudiziario, l’altra cerca di fermare i rappresentanti del popolo che certificano il risultato delle elezioni. Una organizza la propria mobilitazione da settimane in modo spontaneo, l’altra è diretta da un presidente disarcionato e in pieno delirio autoritario. Una si candida a salvare la democrazia dagli appetiti dei governanti, l’altra a smantellarla per assecondare un leader che dalla Casa Bianca ha caricato le armi del risentimento contro l’élite. Sono due popoli diversi? Due facce dello stesso popolo? Nell’epoca segnata dalla categoria vaga ma inevitabile del populismo, il popolo è finito nel cono d’ombra del sospetto, il demos è diventato il luogo del rovesciamento delle garanzie democratiche, la folla il serbatoio per il reclutamento di troll in carne e ossa da parte di autocrati che si curavano di presentarsi come custodi dei sentimenti della gente. Nella logica populista il popolo può solo rovesciare, detronizzare, cacciare i potenti dai palazzi con i forconi: quando non lo fa si sta in qualche modo rendendo complice delle forze oscure dell’élite, che vince sempre quando mantiene lo status quo. Le mastodontiche proteste in Israele ci mettono di fronte invece a un popolo che argina l’iniziativa del governo, opponendosi all’interpretazione di un mandato che – naturalmente – trae la sua legittimità dal voto di quello stesso popolo che da mesi è in piazza a sventolare bandiere israeliane e a declamare la dichiarazione d’indipendenza. E che dire del popolo francese che manifesta contro la riforma delle pensioni e contro gli istinti illiberali di Emmanuel Macron? È il salutare antidoto alle inclinazioni autoritarie e una riedizione dell’orda del Campidoglio, come sostiene il presidente? Distinguere un popolo buono da un popolo cattivo a seconda delle circostanze e delle convenienze è l’anticamera della bieca partigianeria, ma la fase populista di questi anni ci ha consegnato l’immagine prevalente di un popolo manipolato, violento, che non capisce, ansioso di prestarsi ai giochi dei potenti e di credere a ogni complotto, un’immagine negativa che appare contraddetta, almeno come aspirazione, dalla folla israeliana che costringe il governo a fermarsi e, magari, a ragionare. Forse una nuova fiducia nel popolo è quello che serve per considerare quello che sta succedendo in Israele una prova di vitalità della democrazia, non un indizio del suo imminente collasso».
MACRON NON VUOLE CEDERE
ll sindacato francese gli tende una mano, ma Emmanuel Macron non vuole cedere. Decima giornata di protesta. Anna Maria Merlo per il Manifesto.
«Cortei meno importanti, salvo a Parigi, con una presenza più forte di giovani esasperati dal ricorso al 49.3, con un numero crescente di università e di licei in agitazione (rispettivamente un’ottantina e più di 500). Scioperi in calo, dalla scuola alla funzione pubblica, anche se ci sono ancora blocchi stradali e proteste diffuse, per la decima giornata di mobilitazione contro la riforma delle pensioni. Alcuni simboli, come la Tour Eiffel, l’Arc de Triomphe o Versailles sono rimasti chiusi, la benzina manca ormai un po’ dappertutto nel paese, nelle stazioni c’è stata confusione, molti voli annullati anche nei prossimi giorni. La CGT ha annunciato la ripresa del lavoro, oggi, dei netturbini di Parigi, dopo 23 giorni di sciopero (resta però in agitazione la Cgt Energia, agli inceneritori). Ma l’indignazione e l’incomprensione verso il governo e l’Eliseo crescono. Ieri, l’intersindacale, su proposta del segretario della Cfdt, Laurent Berger, ha chiesto al governo di «entrare in un processo di mediazione», nominando due-tre personalità per discutere sul fondo della riforma, in attesa del parere del Consiglio Costituzionale, che dovrebbe intervenire entro il 21 aprile, cioè in tempi troppo lunghi vista la tensione. «Non abbiamo bisogno di mediatori per parlarci» ha tagliato corto il portavoce del governo, Olivier Véran (ex Ps). Il governo non intende accettare la condizione posta dall’intersindacale: sospendere l’articolo 7 della riforma, quello che alza l’età pensionabile da 62 a 64 anni, il “cuore” della legge, diventato il simbolo della sua “brutalità” per gli oppositori. Reazione indignata di Berger: «Comincia a stufare la porta chiusa alla discussione, al dialogo, è insopportabile». Per il segretario dei socialisti, Olivier Faure, «è un dito alzato» contro i manifestanti. Per Aurélie Trouvé, della France Insoumise, «Macron semina il caos». Il candidato verde alle presidenziali, Yannick Jadot, chiede al governo di «accettare la mediazione». Per Jean-Luc Mélenchon, leader della France Insoumise, «questo governo vuole solo una cosa, far passare la legge, è folle la volontà di provocare», «questi pazzi che ci dirigono non si rendono conto che la Francia non è un paese che può essere guidato a colpi di manganello». Anche tra gli alleati di Macron c’è incomprensione: il Modem si è dichiarato ieri favorevole al ricorso alla mediazione proposta dai sindacati. Ci sono stati momenti di tensione nei cortei a Rennes, Nantes, Bordeaux, Tolosa, Lione, Saint-Nazaire, Strasburgo e Parigi. La violenza della repressione della polizia è oggetto di 65 ricorsi al Difensore dei diritti, Claire Hédon, che stilerà un rapporto. Ma anche su questo fronte, il governo e le autorità restano sulle loro posizioni. «La dissoluzione della Brav-M non è all’ordine del giorno», ha tagliato corto ieri il Prefetto di Parigi, Laurent Nunez, in risposta a una petizione che ha già raccolto più di 100mila firme per mettere fine alla brigata di poliziotti in motocicletta, creata ai tempi dei gilet gialli ed erede dei famigerati Voltigeurs che nel 1986 avevano uccido lo studente Malik Oussekine in rue Monsieur Le Prince. Nei cortei, molti cartelli con «Stop Gav» (fermi di polizia), ma a Parigi ci sono stati 10mila controlli preventivi prima della manifestazione. Il ministro degli Interni, Gérald Darmanin, che dovrà spiegarsi prossimamente all’Assemblée nationale sulla gestione dell’ordine, ieri ha annunciato la dissoluzione dell’organizzazione ecologista Soulèvement de la terre, che considera responsabile dei disordini del fine settimane a Sainte-Soline, dove negli scontri con la polizia due militanti sono stati feriti gravemente (ancora ieri erano tra la vita e morte). La gestione dell’ordine pubblico mina la democrazia, dicono tutti gli oppositori. Per Olivier Faure (Ps), «Macron non ascolta, semina il caos», presidente e governo sembrano voler lasciar «marcire» la situazione per far cambiare idea all’opinione pubblica, una scelta «pericolosa» per la democrazia. All’Assemblée nationale, le opposizioni hanno attaccato il governo, «di fronte a una protesta come non c’è mai stata dal ’68 avete perso ogni connessione con la realtà», ha detto Clémentine Autain della France Insoumise. Politicamente, è sempre stallo, di fronte a una crisi del funzionamento della democrazia, della decisione e dell’ordine pubblico. Renaud Labaye, deputato del Rassemblement national, commenta: non facciamo «niente, aspettiamo nascosti nell’ombra» per vincere domani».
RAPPORTO SULLE DISEGUAGLIANZE, PARLA ZUPPI
Matteo Zuppi, il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana e arcivescovo di Bologna, è intervenuto alla presentazione del primo “Rapporto sulle disuguaglianze” della Fondazione Cariplo. Ecco il testo del suo discorso, riportato dalla Stampa.
«Innanzitutto grazie alla Fondazione Cariplo, perché il suo "Rapporto sulle disuguaglianze" aiuta tutti. È un po' un cazzotto nello stomaco, a mio parere. Rischiamo di essere talmente resistenti a tutto per cui leggiamo cose terribili, come l'aumento della povertà, e non ci scandalizziamo. Oppure non ci domandiamo: «Che cosa facciamo? Che cosa succede? Perché è successo?». Nulla accade per casualità, ma perché per esempio non abbiamo fatto delle cose, ne abbiamo fatte altre, abbiamo perso un sacco di tempo. Ognuno si è parlato addosso, lo dico anche con autocritica, e con un esame di coscienza che tutto questo ci provoca (...). Le pandemie ci hanno costretti ad aprire gli occhi: hanno fatto emergere tante fragilità, hanno mostrato le difficoltà, anche la necessità di pensarsi insieme. È stata ribadita varie volte questa parola-chiave, "insieme", che però non è automatica. Richiede qualcosa a ciascuno. Penso anche ovviamente alla Chiesa nelle varie articolazioni: da qualche anno l'espressione-chiave è "sinodale", che significa "camminare insieme". E ci riusciamo, stiamo cercando di capire come si fa a camminare davvero insieme. Tutte le istituzioni devono fare la loro parte, nessuno ce la può fare da solo. Non c'è niente di peggio, passata "'a nuttata" e superata l'emergenza, di pensare di ricominciare come prima. L'altro aspetto che vorrei sottolineare è l'ascensore sociale rotto. Non è rotto da poco tempo. Occorrono grandi investimenti per il futuro. Siamo in un momento di grande sguardo all'avvenire, c'è un Piano: se ci accontentiamo del presente, di portare a casa qualche cosa, se non mettiamo insieme un sistema, perdiamo di nuovo l'occasione. E credo che questo comporterà l'ulteriore aumento delle disuguaglianze. Le disuguaglianze non sono diminuite, sono cresciute: ci sono più disuguaglianze di vent'anni fa. A me fa male, onestamente. E ribadisco: non abbiamo fatto abbastanza, dobbiamo fare di più. La povertà diventa un destino. Anche nel Rapporto della Caritas colpisce come i poveri siano figli di poveri. Molti di noi avevano il papà povero, ora non siamo più poveri: che cos'è cambiato? Che ci facciamo più gli affari nostri, che l'individualismo ha vinto, prevale l'interrogativo «perché dobbiamo essere uguali?». Se ci pensiamo un «noi» non possiamo non essere uguali. Porto due esempi. Papa Francesco ha scritto la bellissima enciclica "Fratelli tutti", che è indirizzata a tutti. E rileggerei l'articolo 3 della Costituzione: nasceva da tanti poveri che si pensavano uguali tra loro. «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». La questione è pensarsi insieme, e questo problema impedisce lo sviluppo della persona, perché al centro della Costituzione italiana c'è la persona, e la disuguaglianza vuol dire tante persone che sono meno persone (...). La retorica del merito in questo momento è fuori luogo: perché più che i meriti sono i punti di partenza che creano opportunità o meno. Allora noi effettivamente dobbiamo dare a tutti il merito. Devo fare una campagna pubblicitaria sulle scuole professionali. Dovremmo investire tantissimo sulle scuole professionali, perché molte volte gli studenti che le frequentano sono quelli che restano indietro. La grandezza di queste scuole è di trovare - faticosamente, perché non è facile - il merito per ciascuno, e dare loro fiducia vuol dire affrancarli dal destino. Queste scuole devono diventare di serie A, perché servono tantissimo: proprio grazie a loro infatti i ragazzi trovano facilmente lavoro (...). Abbiamo un problema di manodopera in Europa e non la facciamo venire, o non diamo strumenti perché risponda alle necessità. C'è qualcosa che non funziona. Vorrei accennare al problema dei minori non accompagnati: sono una delle disuguaglianze peggiori, perché sono tanti e con difficoltà riusciamo a dare delle possibilità. Per chi è il Rapporto? Per tutti. Io l'ho trasmesso anche alla Caritas, alle varie realtà che si occupano di questi temi. Ci aiuta a capire che cosa ognuno deve fare. Perché possiamo fare di più e meglio. E soprattutto quello che serve (...). La solidarietà. Il Rapporto ci aiuta a vedere il contrasto delle disuguaglianze, e quindi anche a non accettarle. Penso alle ferite. Quest'anno sono cento anni dalla nascita di don Lorenzo Milani: ho pensato che in fondo quella "Lettera" famosa alla celebre "Professoressa" in realtà l'abbia scritta a ognuno di noi. «Non ti sei ricordato più». Lo diceva anche dei sacerdoti. E diceva che «i preti, le maestre e le puttane» hanno lo stesso atteggiamento, perché tanto i clienti ci sono sempre».
PARLA PADRE GEORG: “SCOLA AMICO DI RATZINGER”
A Milano padre Georg Gänswein ha presentato il suo libro scritto insieme al giornalista Saverio Gaeta, Nient’altro che la verità - La mia vita al fianco di Benedetto XVI . Ne scrive il Corriere milanese.
«Non pochi cardinali avrebbero vissuto bene se Angelo Scola fosse diventato Pontefice». Le parole sembrano scorrere comode nell’ampio sorriso che le accompagna. Padre Georg Gänswein, segretario particolare di Joseph Ratzinger per quasi vent’anni, non cerca spunti polemici o frasi a effetto, ma non si sottrae e non aggira le domande, tranne una.
Lei personalmente avrebbe gradito l’elezione dell’allora arcivescovo di Milano?
«Io non posso dire di essere stato amico del cardinale Scola, ma a lui mi lega una grande simpatia personale e una profonda stima. Ma dire certe cose, oggi, sapendo che in Santa Marta c’è grande sensibilità, potrebbe sembrare esprimere un giudizio negativo sull’attuale pontificato». (…)
Quali sono i suoi ricordi del rapporto tra queste due figure importanti della chiesa cattolica?
«Mi vengono in mente due visite ufficiali. La prima fu a Venezia, dove Scola era Patriarca. Nel maggio 2011: si notava già molto bene la simpatia umana e la sintonia teologica. Si conoscevano da tempo, appunto in un contesto di riflessioni teologiche, e a quel punto si ritrovavano in una bella armonia».
E un anno più tardi la situazione si è riproposta, però a Milano, dove nel frattempo Scola era diventato arcivescovo proprio per scelta di Ratzinger.
«Erano le stesse due persone, anche se il cardinale aveva cambiato ruolo e città e ricordo ancora benissimo di averli visti proprio felici quando sono entrati nello stadio San Siro gremito di persone».
In quel momento non era nemmeno ipotizzabile che un Papa si dimettesse. Ma l’11 febbraio 2013, cone le dimissioni di Ratzinger, le cose cambiarono.
«E ancora di più dal 28 febbraio, quando alle 20 il Papa firmò la rinuncia e salì sull’elicottero che lo portò a Castel Gandolfo, perché il monastero Mater Ecclesiae non era pronto a ospitarlo. Ricordo bene che tanti si sono precipitati a dare quasi per scontato che il cardinale Scola sarebbe stato il successore naturale».
E invece?
«Papa Benedetto XVI non parlò con nessuno, proprio perché non voleva e non poteva in alcun modo influenzare il Conclave. Ma come ci sono i cosiddetti “kingmaker”, esistono anche i “papamaker”. Ma il mondo cattolico è grande e diversificato, c’è sempre qualche elemento incalcolabile e concentrarsi soltanto su Roma è un errore».
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