La Versione di Banfi

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Poli opposti e un terzo incomodo

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Poli opposti e un terzo incomodo

Letta presenta il centro sinistra a quattro punte. Oggi si vedono i capi del centro destra. Conte annuncia: il mio terzo polo è quello giusto. Ma così vincerà Meloni. Si rivedono Erdogan e Putin

Alessandro Banfi
Jul 27, 2022
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Poli opposti e un terzo incomodo

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Ok, il polo è giusto. Dice Giuseppe Conte che rivendica con orgoglio la corsa solitaria alle urne del Movimento 5 Stelle. Faranno parte per loro stessi, direbbe il Poeta. Ma giusto o sbagliato che sia, secondo un interessante rapporto pubblicato ieri dall’Istituto Cattaneo, questo significa una cosa sola: il centro destra (che poi è sempre più destra-destra) otterrà il 70 per cento dei collegi uninominali. Il “Rosatellum” impone coalizioni e idee chiare sul premier ma i due schieramenti faticano a star dietro a questa regola elettorale. Ieri il segretario del Pd Enrico Letta ha presentato l’alleanza che si raccoglie attorno al suo partito: da Fratoianni a Calenda. Matteo Renzi invece, come l’avversario Conte, correrà da solo, per ora, con il suo Italia viva, sperando di superare lo sbarramento del 5 per cento.

Oggi si riuniscono anche i leader del centro destra. Sul tavolo c’è anzitutto la questione del candidato premier. Silvio Berlusconi lascia trapelare sui giornali la considerazione che prefigurare la premiership di Giorgia Meloni farebbe perdere voti, spaventando l’elettorato. Lega e Forza Italia in realtà temono l’ascesa della leader di Fratelli d’Italia, che viene da una legislatura di coerente opposizione. Maurizio Belpietro sulla Verità avverte i tre: non fate come a Verona, dove per i vostri litigi ha prevalso la sinistra. La questione vera è la spartizione dei collegi sicuri e di quelli probabili. I capi dei partiti e delle coalizioni hanno infatti in mano il potere di determinare le candidature (che si chiudono il 21 agosto). “Il mio regno per un collegio sicuro”, direbbe l’altro poeta, il Bardo.

Battute a parte, il futuro è cupo. Carlo De Benedetti, in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere, si dice molto preoccupato del voto del 25 settembre. Con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, secondo l’imprenditore, l’Italia diverrebbe come l’Ungheria. La Stampa ha raggiunto il politologo Moses Naim che dice: “In Europa il timore della recessione è più che altro legato alla tenuta della democrazia e alla ripresa dei cosiddetti populismi. Questa mi sembra possa intendersi come rivolta sociale”.

A proposito di Europa, ieri i ministri Ue dell’Energia (per l’Italia Cingolani) si sono riuniti per decidere un piano di riduzione del consumo di gas del 15 per cento, con possibili deroghe per ogni Paese: l’Italia dovrà diminuire i suoi consumi del 7 per cento. Intanto oggi è il giorno della prima nave col carico di grano in partenza da Odessa. (Vedi Foto del giorno).

Dal campo bellico prosegue la pausa dell’offensiva russa. Si segnalano bombardamenti a distanza sulle città ucraine. Non è ancora chiaro se Mosca abbia deciso un rallentamento o se l’esercito russo abbia veri problemi. Scontato l’esito plebiscitario del referendum sulla nuova Costituzione in Tunisia. Terzo giorno del viaggio del Papa in Canada, dedicato ai nonni.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae una stretta di mano tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il presidente russo Vladimir Putin. I due leader si vedranno di nuovo a Sochi il 5 agosto. Lo ha reso noto ieri la presidenza turca. Oggi dovrebbe partire la prima nave carica di grano.

Foto Archivio Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera mette insieme i preparativi nei due schieramenti in vista del 25 settembre: Sfide incrociate sui leader. La Repubblica mette la foto dei capi del centro destra e titola: Acerrimi alleati. Ma sarebbe perfetto anche per lo schieramento avversario. Stesso discorso per Il Giornale, che cerca di minimizzare la scelta del premier: Tutti in coda per il trono. Il Domani nota: Hanno cacciato Draghi e adesso non sanno chi mandare a Palazzo Chigi. Il Fatto è eccitato dalla proposta dei 5 Stelle: Letta elogia FI. E Conte lancia il “Polo giusto”. Libero mette in primo piano il rapporto dell’Istituto Cattaneo che ha previsto che cosa accadrà nei collegi: L’Italia quasi tutta azzurra. La mappa che spiega perché il Pd è disperato. Il Quotidiano Nazionale va sui contenuti: Il reddito di cittadinanza appeso al voto. Il Manifesto riformula il proverbio citando il leader di Azione: Il gioco non vale la Calenda. Il Mattino rilancia una frase cupa di Draghi: «Sarà un autunno difficile». Che Il Messaggero fa precedere da buone notizie: Aiuti per bonus e taglio Iva. Draghi: autunno difficile. Il Sole 24 Ore apre sulle stime dell’economia mondiale: Fmi: rischio recessione (dal 2023). La Stampa dà spazio alla decisione dei Ministri Ue dell’energia: L’Europa taglia i consumi del gas. Così come Avvenire: Europa no gas. La Verità non dimentica il tema pandemia: Generazione rovinata da Speranza & c.

IL NUOVO CENTRO SINISTRA SENZA I 5 STELLE

Alla Direzione del Partito Democratico di ieri Enrico Letta ottiene il mandato a trattare coi futuri alleati. Ma chi saranno? Sarebbe "irreversibile” il no ai 5 Stelle. L’alleanza di centro sinistra si presenta a quattro punte: con Fratoianni-Bonelli, Calenda-Bonino e Di Maio. La cronaca di Giovanna Vitale per Repubblica.

«Nel giorno in cui può coltivare la ragionevole certezza di aver ricomposto il centrosinistra, mettendo in piedi «un'alleanza elettorale» a quattro punte per contendere alla destra i collegi uninominali, Enrico Letta chiama a raccolta gli italiani. Tutti, inclusi gli elettori di centrodestra che hanno a cuore la democrazia e l'Europa contro chi invece - Meloni e Salvini - l'Europa la vogliono distruggere e oltreconfine occhieggiano ai regimi autoritari. «Si potrà vincere la partita solo se sapremo convincere quelli che, anche alle ultime amministrative, non hanno votato per noi», scandisce il segretario del Pd nella Direzione convocata per ottenere (all'unanimità) il mandato a trattare con i partner potenziali: il tandem riformista Calenda- Bonino, i rossoverdi Fratoianni e Bonelli, Luigi Di Maio col supporto di Beppe Sala. «Non sono alleati semplicissimi», ma lui è quasi sicuro di riuscire a persuaderli. Tranquilizzando la sinistra del partito, che teme il sopravvento dei centristi: «Il cuore del nostro progetto sarà la lista del Pd, aperta ed espansiva»; Articolo1 e Demos, il movimento che si richiama a Sant' Egidio, troveranno posto sotto l'ombrello dei Democratici e Progressisti. La posta in gioco è troppo alta per perdersi in distinguo: «Mai dal '48 a oggi il voto sarà determinante sugli equilibri politici continentali. Il pareggio, con il Rosatellum, non è contemplato». È un Letta modalità capo della Resistenza repubblicana insidiata dalle pulsioni estremiste degli avversari quello che si presenta alla Camera per disegnare il perimetro del nuovo centrosinistra. Costruito su intese tecniche che «siamo costretti a fare per via della legge elettorale», niente patti organici come fu con i 5S: utili per provare a strappare i seggi nel maggioritario decisivi ai fini del risultato. Una missione che dopo la rottura coi grillini sembrava impossibile. E invece, «noi siamo pronti e lo sono anche gli italiani», incalza il segretario. «Ci dicono: giocatevela, è fra voi e la Meloni. E noi ce la giochiamo». In ballo c'è la collocazione internazionale del Paese, minacciata dai nazionalisti tricolori: «O vince l'Europa comunitaria del Next generation Eu, dell'Erasmus e della speranza, oppure vince l'Europa di Orban, Vox e Marine Le Pen», spiega Letta nella sua relazione. «Non ci sono terze opzioni». Un concetto poi ripreso sia da Luigi Zanda, che esorta a incentrare l'intera campagna su questo rischio, sia da Gianni Cuperlo. «Io non penso che il pericolo sia l'insorgere di un nuovo fascismo», riflette l'ex presidente del Pd, «penso che il rischio più concreto stia nel tentativo di condurre l'Italia fuori dai binari della sua identità e tradizione europeista, liberaldemocratica e occidentale». Tanto più che l'eventuale vittoria non sarebbe neppure garanzia di stabilità: «A destra litigano così tanto che durerebbero un mese», graffia Letta. No al M5S Mentre Giuseppe Conte fuori da Montecitorio protesta, «noi andremo soli, saremo il terzo polo, il campo giusto, un progetto che va da Calenda a Renzi a Di Maio a Brunetta ai fuoriusciti da FI non ci interessa», il leader dem ribadisce che la frattura «è irreversibile». Ciò tuttavia non significa pentirsi, «rinnegare i tre anni che abbiamo alle spalle». Sono stati importanti: «Senza il lavoro al fianco del M5S non ci sarebbe stato il Conte 2, che poi ha reso possibile il governo Draghi» insiste. Fine delle concessioni, però. Quanto è successo il 20 luglio segna «una cesura». Per questo «ora vi chiedo di darmi mandato su tre criteri: andare a discutere con forze politiche fuori dal trio dell'irresponsabilità», ossia 5S, Lega e Fi che hanno fatto mancare la fiducia, «in grado di portare un valore aggiunto, che abbiano spirito costruttivo e che non mettano veti». Il nodo candidature Tanti cani all'osso per pochi posti, è la questione che agita la truppa dem: il rischio di non essere ricandidati, prima ancora che eletti, li terrorizza. Ma il segretario non finge, né rassicura. Invita anzi a fare esercizio di realismo. «Il taglio dei parlamentari è passato in cavalleria, ma si vota per un Senato di 200 componenti e la maggior parte dei seggi saranno con l'incertezza». Distribuiti in base a due requisiti, che non ammettono deroghe: parità di genere e volontà dei territori. «Le persone devono tendenzialmente correre a casa propria», non saranno più calati dall'alto come in passato. La selezione dei "migliori" «Ci sono 30 collegi al Senato e 60 alla Camera da cui dipenderanno le elezioni. Lì siamo sotto di 5-6-7 punti, dobbiamo scegliere il candidato giusto. E la gente andrà a vedere se c'è il paracadute oppure no». Nessuno si faccia illusioni, è il messaggio. Venir riprotetti sul proporzionale sarà un'eccezione. E infatti «ci saranno tantissimi scontenti», prevede Letta, chiedendo a tutti «generosità e impegno, specie a chi ha più esperienza, ai nomi importanti». Con la lista del Pd aperta agli esterni, qualche interno resterà fuori. Guai tuttavia a creare problemi, «altrimenti si passano le prossime settimane facendo volare stracci». Ma qualcuno ha già cominciato».

RENZI, PER ORA, CORRE DA SOLO

Matteo Renzi, per ora, con la sua Italia Viva pare deciso a correre da solo. L’obiettivo è arrivare al 5 per cento. Marco Esposito per il Corriere.

«Una corsa in solitaria. Matteo Renzi, leader di Italia Viva, intervistato dal Tg5, esplicita quello che era nell'aria da ormai qualche giorno: il suo partito andrà da solo al voto il prossimo 25 settembre. Una situazione, per la verità, in parte subita, vista l'indisponibilità di un pezzo rilevante del Pd ad allearsi con l'ex rottamatore dopo la scissione di Iv. «Tutte le alleanze purtroppo in questo momento mi sembrano molto elettorali e poco sui contenuti. Da destra fino alla sinistra. La vera scommessa - aggiunge - è quella di fare un'alleanza con i cittadini per votare non sulla base del risiko dei partiti, ma delle idee che vengono proposte». E, a precisa domanda: quindi correrete da soli? La replica di Renzi sembra lasciare poco spazio ad un ripensamento: «Al momento assolutamente sì...». Rimane aperto però uno spiraglio per un confronto con Azione di Carlo Calenda, con il quale lunedì sera ha avuto una breve riunione: «È stato un incontro tra amici ma naturalmente l'amicizia non basta, bisogna vedere se condividiamo le idee». «Le alleanze - aggiunge - non si fanno sulla base delle alchimie o del gioco delle coppie, ma mettendo al centro le scelte per i cittadini. Io voglio valorizzare le riforme fiscali come l'assegno unico familiare per i figli. Se su queste cose siamo d'accordo, allora si può andare insieme alle elezioni». Immancabile, la stoccata al Pd: «È andato molto a zig zag in questi anni, una volta per Conte, una volta per Draghi, una volta per il Reddito di cittadinanza e una volta per toglierlo. Noi invece siamo sempre andati per la nostra strada, spero che finalmente si chiariscano le idee». Nel pomeriggio Renzi precisa i contorni della sua «scommessa»: «L'obiettivo è arrivare al 5%. Andare da soli al voto è la sfida più difficile - spiega - e come tutte le sfide più difficili è quella che mi carica di più. Durante la crisi di governo del 2021, quella che ha portato alla sostituzione di Conte con Draghi, eravamo soli, soli contro tutti. E tuttavia abbiamo fatto la scelta che tutti, nel corso dei mesi, hanno riconosciuto come lungimirante. Siamo abituati ad andare contro tutti». Sullo stato dei rapporti con Enrico Letta, attuale segretario dei Dem, Renzi racconta: «Voglio pensare che la distanza tra noi e Letta sia solo politica e non legata a fatti personali. Se fosse legata a fatti personali sarebbe un problema solo suo, non mio». Rimane invece esclusa ogni ipotesi di alleanza non solo con il M5S, ma anche con il ministro Di Maio: «Sono stato il suo bersaglio per anni e oggi non divento certo il suo compagno di viaggio».

CONTE: SAREMO IL TERZO INCOMODO

Intervista di Emanuele Buzzi del Corriere a Giuseppe Conte. Che spiega la linea del Movimento:

«Presidente Conte, si sente colpevole della crisi di governo?
«È in corso una caccia alle streghe contro il M5S, ma siamo abituati: ad un certo apparato di potere abbiamo pestato più volte i piedi, lo sappiamo. Guardiamo però i fatti e ricostruiamoli con onestà. Il governo - su volontà del Pd - ha inserito una norma per costruire un mega-inceneritore dentro un decreto per aiutare cittadini e imprese in crisi. È stata una provocazione inaccettabile contro il M5S. Tutto parte da qui. Poi il resto lo avete visto con i vostri occhi: in questa crisi di governo il M5S ha chiesto al premier risposte concrete alle urgenze del Paese. La destra, invece, ha solo chiesto più poltrone per se stessa. E Draghi ci ha voltato le spalle, con il silenzio complice del Pd. Noi siamo stati gli unici a difendere famiglie e lavoratori in difficoltà».

Intanto il Movimento ha rischiato un nuovo collasso. Non si può certo dire che la pensiate tutti nello stesso modo. Ora si è dimesso anche Crippa da capogruppo.
«Crippa ha portato avanti una posizione che si è rivelata minoritaria nel gruppo della Camera. Rispetto la sua opinione, ma era il capogruppo e le sue dimissioni mi sembrano conseguenti».

Resta un bilancio in perdita. Anche l'alleanza con il Pd è andata in fumo.
«Auguro al Pd e a tutti i suoi numerosi compagni di viaggio buona fortuna, ne avranno bisogno. Noi siamo un'altra cosa rispetto a questa affollata e confusa compagnia: il nostro sguardo non si è mai fermato ai salotti buoni delle Ztl, su questo siamo sempre stati chiari. Piuttosto, questa chiarezza manca totalmente al campo largo. Come pensano di conciliare il liberismo sfrenato di Calenda con le politiche sul lavoro di Orlando? E a proposito di chiarezza, dovranno spiegare ai loro elettori perché sono passati dall'agenda del Conte II all'agenda Draghi, mettendosi insieme a chi quel governo Conte II lo ha sabotato».

Così facendo rischiate di lasciare praterie al centrodestra.
«Il Pd pensa di contrastare la destra e vincere nei collegi uninominali imbarcando nel campo largo tutto e il contrario di tutto. Noi puntiamo a vincere con la forza e la serietà delle nostre proposte. Non siamo schiavi della mappa dei collegi uninominali».

Lei ha detto che se non c'è alleanza «questo vale a Roma come a Palermo». Ma allora perché avete corso alle primarie in Sicilia?
«Alla vigilia delle primarie il Pd ha iniziato a chiudere la porta al M5S e alla nostra agenda sociale. Prima del voto gli abbiamo lanciato un ultimo messaggio di dialogo: pretendiamo coerenza e soprattutto la meritano i cittadini. La strada che ha preso il Pd con cespugli vari, di Forza Italia, Iv, Azione non è la nostra. L'ho detto in tempi non sospetti: per noi la larghezza del campo sarebbe stata comunque un problema. Con i cittadini vogliamo prendere impegni chiari e sostenibili. Questo obiettivo è incompatibile con uno schieramento confuso, pieno di prime donne litigiose».

Siete alleati anche al Comune di Napoli e alla Regione Lazio per citare due esempi. Che succederà nelle realtà locali?
«Le amministrazioni già nate e che lavorano bene vanno avanti, ma se il Pd nell'azione amministrativa dovesse fare strane inversioni sui valori condivisi ne trarremo le dovute conseguenze».

La campagna elettorale sarà una triplice contrapposizione agenda Draghi-centrodestra-M5S?
«Sì, saremo in tre a contenderci la guida del Paese. Quello che noi proponiamo, in antitesi al centrodestra e al campo dell'agenda Draghi, è un "campo giusto", il campo della giustizia sociale. Centrodestra e campo largo stanno già litigando per chi deve fare il premier, noi stiamo lavorando h24 sulle risposte da dare alla crisi che in autunno si farà ancora più dura. Non ci interessa un nuovo Ulivo, che non è credibile e rischia di rimanere vittima delle sue contraddizioni: saremo il terzo polo, un "terzo incomodo". L'unico voto utile è quello di chi, coerentemente con i propri valori, fa di tutto per mantenere la parola data agli elettori. Non chiediamo voti per gestire il potere ma per realizzare riforme».

Una traccia un po' vaga.

«Questo terzo polo sarà aperto alla società civile e a tutti coloro che difendono i valori della Costituzione e tutti coloro che credono nella vera transizione ecologica. E che vogliono contrastare le politiche della destra».

RISCHIO TAFAZZI SUL CENTRO DESTRA

Sindrome Tafazzi nel centrodestra, che ora rischia di naufragare sui collegi. Nonostante la batosta di Verona, i partiti continuano a dividersi. Sul candidato premier ma soprattutto sulla spartizione dei candidati. Fi e Lega fanno i conti sull'ultima tornata, Fdi sui sondaggi e rivendica il 50% dei posti disponibili. L’articolo di Maurizio Belpietro per La Verità.

«La sindrome di Tafazzi, personaggio televisivo che amava colpirsi le parti basse con una bottiglia di plastica, ha già consentito al centrodestra di perdere alcune sfide alle elezioni amministrative, tra cui la più recente è quella per la guida della città di Verona. Come ha ricordato qualche giorno fa Mario Giordano, i Montecchi e Capuleti dell'area moderata, dividendosi, hanno regalato la vittoria a Damiano Tommasi, nonostante la schiacciante maggioranza di un elettorato che vede la sinistra come il fumo negli occhi. Tuttavia, il caso Verona, con un centrodestra che contribuisce alla propria sconfitta, non pare aver insegnato nulla ai leader della coalizione, perché in vista del 25 settembre non sanno fare nulla di meglio che litigare. A dividerli è la questione della leadership, ossia di chi debba guidare il governo in caso di vittoria. O per lo meno, questo è lo scoglio principale che si intravede leggendo le cronache. In realtà, sotto sotto c'è una faccenda più immediata ma altrettanto discussa, ovvero la composizione delle liste. In pratica, a tenere banco, più che il nome del futuro presidente del Consiglio, che sarà tale solo se il centrodestra avrà i numeri per governare, sono i candidati, in particolare quelli nei collegi uninominali. Per effetto del Rosatellum, il sistema elettorale imposto da Matteo Renzi nel 2017 in funzione anti 5 stelle, è eletto il candidato che ottiene il maggior numero di voti. Il che appare logico, ma meno logica è la scelta di chi schierare nel collegio, perché se si tratta di una coalizione il rappresentante messo in lista può essere indifferentemente di Fratelli d'Italia, come della Lega o di Forza Italia. Dunque, il criterio con cui si sceglie un candidato sarà fondamentale perché al di là delle percentuali conseguite dal singolo partito, a essere eletto sarà solo uno e potrà esserlo indifferentemente dai voti presi dal suo partito. In passato, la regola adottata prevedeva una distribuzione nei collegi in base alla media ponderata dei sondaggi, ritenendo le stime elettorali lo strumento più attendibile per adattarsi alla realtà. Ma ora, a fronte di un'alta volatilità elettorale, Forza Italia e Lega sarebbero propensi a cambiare, facendo le liste con un occhio ai sondaggi e un altro ai voti conquistati nel 2018. Come è ovvio il partito di Giorgia Meloni, che nel 2018 prese poco più dell'4,5 per cento e oggi è dato al 23, non ci sta, perché significherebbe diluire i propri eletti per favorire i candidati degli alleati. Anziché il 50 per cento della coalizione (oggi la Lega è data al 14,6 e Forza Italia all'8,3) in questo modo Fratelli d'Italia sarebbe valutato intorno al 30, con evidenti conseguenze nel numero di candidati che potrebbe schierare nei collegi. Da ciò ne consegue anche la scelta del premier, perché un conto è avere la metà degli eletti di centrodestra e un altro è esprimerne un terzo. Insomma, attorno a questi calcoli, che certo non sono secondari per chiunque ambisca a governare, si consuma il duello fratricida. Che però rischia di essere un tira e molla devastante come lo sono state le diverse sfide per le amministrative. A forza di rimpallarseli, il centrodestra è arrivato alle elezioni per i sindaci senza candidati, ponendo il veto su questo o quell'altro fino a costruirsi una sconfitta là dove ci poteva essere una vittoria. Verona, come dicevamo, è d'esempio: due candidati di centrodestra non hanno fatto un sindaco, nonostante gli ampi margini di distacco nei confronti del centrosinistra. Tuttavia, in questo caso non è in ballo una città seppur importante come Verona: qui si gioca il futuro del Paese. E siccome le divisioni nel centrodestra, già nel 2011 hanno consegnato l'Italia ai tecnocrati scelti da Bruxelles, vorremmo evitare l'ennesimo premier non eletto da popolo. Di Mario Monti ne abbiamo avuti abbastanza e undici anni dopo vorremmo che a decidere per noi non siano la grande finanza, i poteri forti e l'Unione europea. Se il popolo è davvero sovrano, come dice la Costituzione, dev' essere il popolo a scegliere da chi farsi guidare. Dunque, cari signori del centrodestra che oggi vi riunite in conclave, datevi una regolata, perché in ballo non c'è solo la rielezione di qualcuno o la nomina di qualcun altro. In queste elezioni voi vi giocate la faccia, ma gli italiani si giocano il portafogli. Perché già li vediamo gli avvoltoi della sinistra: se per malaugurato caso vincessero le elezioni, lo ius scholae, la cannabis, il fine vita e pure la patrimoniale non ce li leverebbe nessuno. Hanno provato a far passare tutte queste leggi senza numeri, immaginate che cosa farebbero se avessero i voti. Insomma, ci siamo capiti. Se non volete essere mandati al diavolo, voi e le vostre ambizioni, piantatela di litigare e trovate un accordo. Altrimenti anche queste elezioni saranno inutili».

LA LEGGE ELETTORALE COSTRINGE A STARE INSIEME

Stefano Folli per Repubblica mette insieme le difficoltà dei due schieramenti su candidato premier e collegi uninominali.

«Le cronache confermano giorno dopo giorno che è assai complicato comporre il mosaico delle alleanze, sia a destra sia a sinistra. Se non ci fossero i vincoli della legge Rosato, i due maggiori partiti, FdI e Pd, intorno ai quali si giocherà la contesa elettorale, avrebbero tutto l'interesse a presentarsi da soli davanti agli elettori. Ormai è tardi, ovviamente, per tentare l'avventura, ma due o tre mesi fa qualcuno aveva suggerito una strada del genere: forzare i limiti del "Rosatellum", sulla base di un impegno d'onore dei due rivali a non costruire alleanze e alchimie nei rispettivi campi. Ciascuno avrebbe fatto il massimo sforzo sia nell'uninominale sia nel proporzionale, confinando i partner in un ruolo subordinato. Le intese di governo si sarebbero poi stipulate nel nuovo Parlamento. Era una tesi estrema, ma non inverosimile. Se ne avverte l'eco nelle ultime ore: a destra Giorgia Meloni è insofferente verso le trappole apparecchiate per lei dal duo Salvini-Berlusconi. A sinistra Enrico Letta deve comporre ciò che sulla carta è problematico, a meno che non ci sia la volontà di chiudere l'accordo per ragioni di convenienza: deve incollare segmenti della sinistra, che sono abbastanza vicini alle tesi dei 5S anche nel giudizio diffidente verso Draghi, con i centristi lib-dem di Calenda e sullo sfondo di Renzi, le cui posizioni sono opposte. Al punto in cui sono giunte le cose, l'intesa si presenta plausibile a destra, dove si tratta di riconoscere la candidatura a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni e accordarsi sui collegi mettendo la sordina agli odi interni. Viceversa, a sinistra è più difficile, in quanto più profonde sono le ragioni del dissidio. Letta è pressato dalla sinistra interna che lo sollecita a essere più incisivo sui temi sociali. Il sottinteso è che la rottura con Conte tende a spingere il Pd su una linea moderata, quasi di centrodestra; di conseguenza occorre bilanciare l'apertura a Calenda con figure di garanzia. Peraltro il capo di "Azione", che sta raccogliendo i profughi del berlusconismo (da Brunetta a Mara Carfagna) ritiene di essere credibile solo se non darà l'impressione di aver svenduto la linea "liberale" in cambio di qualche seggio, accettando per di più la convivenza con la sinistra e Di Maio. A sua volta Letta non può apparire prigioniero dei centristi: Calenda oggi e domani magari Renzi. Se il suo scopo è recuperare voti dagli elettori 5S delusi da Conte, il segretario del Pd non può apparire troppo entusiasta per la mano tesa di centristi ed ex berlusconiani. Si cammina su un crinale sottile e non è un caso che Renzi abbia rotto gli indugi e si sia detto pronto ad andare al voto da solo o insieme ai centristi che decidessero di rifiutare il patto con Letta. È solo una manovra per alzare il prezzo dell'intesa in termini di seggi? Può darsi, in tanti lo pensano. Tuttavia i motivi per distinguersi non mancano. Calenda insieme a Italia Viva, Bonino ed ex berlusconiani potrebbe ottenere un discreto successo, sia pure solo nel proporzionale. Se l'obiettivo è svuotare Forza Italia, allora è meglio un cartello che non si allea a sinistra con le correnti desiderose di condizionare il vertice del Pd: anche sulla politica estera, cioè sulla questione Russia-Ucraina. È una tesi, non si sa quanto sincera, ma può essere sostenuta. In quel caso spetterebbe a Letta, libero dall'ipoteca centrista, l'onere di recuperare voti dal mondo 5S su una linea laburista».

REPORT DELL’ISTITUTO CATTANEO: AZZURRI IN TESTA

L’Istituto Cattaneo presenta un report, simulando i risultati del 25 settembre. Il 70 per cento di collegi sarà in mano alla destra. La partita è aperta nelle grandi città. Matteo Pucciarelli per Repubblica.

«Il Pd e il centrosinistra partono in svantaggio, ma possono contare su un proprio zoccolo duro di consenso: le grandi città (Roma, Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli) e parte della ex zona rossa di antica memoria (Emilia- Romagna e Toscana). Sono i collegi dove la partita è più che aperta e anzi, i progressisti sono in vantaggio. Dopodiché la mancata alleanza con il Movimento 5 Stelle «potrebbe consentire al centrodestra di prevalere in circa il 70 per cento dei collegi uninominali di Camera e Senato». Già perché nel resto d'Italia dem e soci rischiano il cappotto: il report elaborato dall'Istituto Cattaneo prefigura scenari foschi per il centrosinistra. Il contesto, intanto. Considerando le medie di tutti i sondaggi pubblicati in questo mese, ai tre partiti di centrodestra (FdI, Lega, FI) viene attribuito circa il 46 per cento delle intenzioni di voto sul piano nazionale (ottennero il 50 per cento dei consensi alle Europee; sembra aver perso qualche punto percentuale a favore del movimento Italexit di Gianluigi Paragone); al complesso dei soggetti di centrosinistra viene accreditato di circa il 36 per cento delle intenzioni di voto (avevano preso il 30 per cento alle Europee); al M5S circa l'11 per cento (aveva ottenuto il 17 per cento). Con questa legge elettorale però la percentuale del centrodestra può arrivare a valere il 60 per cento dei seggi. Infatti un fronte che mette assieme Pd, Azione, l'Alleanza verdi sinistra (presentata ieri, Sinistra italiana più Europa verde) e Insieme per il futuro, senza il partito di Giuseppe Conte, farebbe molta fatica sia nella quota proporzionale che nel maggioritario, cioè nei collegi. In questi ultimi, su 147 seggi alla Camera, solo 42 andrebbero al centrosinistra; su 74 al Senato, invece, solo 18. In pratica, il 70 per cento dei seggi del maggioritario sono appannaggio del centrodestra. Anche per il M5S nella sua corsa solitaria a questo giro andrebbe non male, ma peggio: zero seggi alla Camera, zero al Senato, sempre per la quota maggioritaria. Il risultato, a questo punto, sarebbe scontato: «FdI, Lega e FI otterrebbero una confortevole maggioranza assoluta di seggi sia alla Camera che al Senato» - cioè tra il 57 e il 58 per cento dei seggi nelle due aule - scrivono Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati. Ulteriore annotazione degli autori: «Dai nomi di chi sarà collocato in posizioni più o meno sicure si capirà, ad esempio, quanto è ampia la delega di cui dispone Enrico Letta nel Pd per creare un gruppo parlamentare in sintonia con la sua agenda o quale sarà il grado di continuità/innovazione che Giorgia Meloni imprimerà rispetto al nucleo originario di Fdi oggi prevalente». Altra elaborazione interessante, quella di YouTrend con Cattaneo Zanetto. Qui si sono ipotizzati tre diversi scenari per il centrosinistra. Opzione uno, il "fronte progressista": Pd, M5S e Allenza verdi sinistra. Quindi senza i partiti di centro. In questo caso il centrodestra vincerebbe 221 seggi su 400 alla Camera e 108 su 200 al Senato, ottenendo la maggioranza assoluta. Sul fronte collegi uninominali: il centrosinistra ne vincerebbe 48 alla Camera e 25 al Senato. I centristi si fermerebbe a zero seggi per la quota maggioritaria. Secondo scenario, quello che al momento sembra il più probabile sul piano politico. Ovvero Pd, Azione, Alleanza verdi sinistra e Insieme per il futuro, più anche Italia Viva. In tal caso il centrodestra arriverebbe ad avere una maggioranza ancor più ampia, sfiorando il 60 per cento dei seggi: 240 alla Camera e 122 al Senato. Un risultato simile a quello a cui è arrivato l'Istituto Cattaneo. Nei collegi si prevede una Caporetto: per il centrosinistra sarebbero solo 27 alla Camera e 12 al Senato. C'è poi la terza possibilità, ovvero il campo largo immaginato da Enrico Letta prima di rompere con i 5 Stelle, una grande alleanza da Carlo Calenda a Giuseppe Conte. A quel punto il centrosinistra formato extra large potrebbe mettere in difficoltà la nascita di un governo di centrodestra, che si fermerebbe a 202 deputati e 99 senatori. Dopodiché sia l'Istituto Cattaneo che un ulteriore sondaggio a cura di Izi, analizzano il voto dei 5 Stelle. Il 33 per cento del 2018 è un lontano ricordo, e lo si sapeva. Ma dove andranno a finire i voti di allora? Secondo la fondazione bolognese, «possiamo ora attenderci lo spostamento di circa un terzo degli elettori che nel 2019 hanno votato per il M5S verso il centrosinistra o verso l'astensione». Per la società di indagini demoscopiche Izi, la rilevazione effettuata è del 25 e 26 luglio, il 42 per cento conferma la preferenza al Movimento; il 14 per cento è indeciso, il 12 per scelto virerà sul Pd, l'11 verso FdI, il 10,5 si asterrà e un altro 10 per cento seguirà Luigi Di Maio con la sua lista Ipf. «L'emorragia del M5S non agevola né la destra né la sinistra, è bene che i partiti, tutti, ne tengano conto. Il dato interessante - spiega Giacomo Spaini, amministratore delegato di Izi - è che in questo flusso verso le altre forze politiche non entrano Lega, Italia Viva né Azione di Carlo Calenda. Le coalizioni, in questo momento, pescano nell'elettorato 5 Stelle a piene mani ma possiamo dire che gli elettori del Movimento restano tra il 10 per cento e il 15, superando l'intenzione di voto analizzata in questi giorni».

DE BENEDETTI: L’ITALIA È IN PERICOLO

Intervistone, in una paginata del Corriere della Sera, di Aldo Cazzullo a Carlo De Benedetti. L’imprenditore si dice molto preoccupato del futuro politico del nostro Paese.

«Corriamo il pericolo più grave nella storia della Repubblica».

Addirittura, ingegner De Benedetti?

«Mai finora avevamo vissuto il rischio di uscire dalla nostra collocazione internazionale, di rompere le nostre alleanze storiche. Neppure nel 1948».

Allora c'erano i comunisti.

«Ma dopo l'attentato a Togliatti furono proprio i sovietici, nel loro cinismo, ad avvertire i comunisti di casa nostra di non provare a fare la rivoluzione. La linea era tracciata: c'era stata Yalta; poi ci sono stati i trattati di Roma che hanno creato l'Europa. L'Italia è stata messa sui binari. Ora, per la prima volta, rischia di deragliare».

Perché dice questo?

«Perché la vittoria della destra alle prossime elezioni sarebbe una catastrofe».

Centrodestra. C'è pure Berlusconi.

«Destra. Berlusconi non c'è più. Ci sono le sue badanti, che rispondono a Salvini. E c'è la Meloni. Ha visto il suo discorso in Spagna, dai franchisti di Vox?».

Ha riconosciuto di aver sbagliato i toni.

«I toni erano inequivocabilmente e tecnicamente fascisti. Del resto la sua storia, la sua cultura è quella. Ma i contenuti sono anche peggio».

Perché? Giorgia Meloni ha espresso posizioni di destra.

«No. Non è una questione ideologica. Qui non abbiamo di fronte i conservatori britannici. La nostra destra è biecamente fascista e nazionalista. La Meloni ha detto in sostanza: abbasso Bruxelles, viva le nazioni. Il suo modello è Orbán. Con lei alla guida, l'Italia diventerebbe come l'Ungheria».

Ma l'Europa ormai c'è. E ci sono i fondi del Pnrr.
«Con questa destra tutto è a rischio, anche il Pnrr. Bruxelles, Parigi, Berlino ci frapporrebbero ogni sorta di ostacolo, per evitare il contagio. Si ricordi che in Germania hanno Alternative für Deutschland. In Francia Marine Le Pen è al 42% e ha portato novanta deputati all'Assemblea Nazionale. Poi c'è l'America».

Che c'entra l'America?

«So per certo, dalle mie fonti nel Dipartimento di Stato, che l'amministrazione americana considera orripilante la prospettiva che questa destra vada al governo in Italia».

Le sue parole accenderanno polemiche. L'Italia è un Paese sovrano. La gente vota. E decide.
«Certo. Ma la gente deve essere informata. Deve sapere a cosa va incontro. Questa destra va fermata. E per fermarla si deve costruire un fronte repubblicano, con un programma marcatamente riformista».

È la formula che ha usato Calenda.
«Lodevole. Ma non sufficiente. Perché va allargata il più possibile».

Calenda in effetti dice che da trent' anni si chiede di votare contro qualcuno, e poi non si riesce a governare.
«Non è così. È vero, si chiedeva di votare contro Berlusconi. Ma Berlusconi non metteva a rischio la democrazia e la collocazione internazionale dell'Italia».

Proprio lei lo dice, che di Berlusconi è stato l'avversario storico?
«Berlusconi significava il degrado del civismo, l'evasione fiscale eretta a sistema, le leggi ad personam sulla giustizia. Ma non gli è mai passato per l'anticamera del cervello di rompere con l'Europa e con gli Stati Uniti d'America».

Proprio lei, in un'intervista al «Corriere», due mesi fa ha criticato la linea atlantista sull'Ucraina.
«Che c'entra? Ho detto che secondo me l'Italia sbaglia a mandare armi che alimentano la guerra. Ma considero Putin il peggior criminale su piazza. Non la penso certo come Salvini».

Salvini le sembra meno peggio della Meloni?

«Salvini è un personaggio da bar. Ha aperto la campagna elettorale proclamando che con lui non entrerà un solo immigrato. Che fa, gli spara a vista? Siamo seri. Salvini mi ha pure querelato, quando gli diedi dell'antisemita. E ho vinto la causa».

Perché antisemita?

«Perché ha corteggiato Casapound e Forza Nuova. Se non sono fascisti quelli... Lui si è proclamato amico di Israele; ma una cosa è Israele, un'altra sono gli ebrei».

Chi dovrebbe entrare nel fronte repubblicano?

«Tutti. Letta, Renzi, Calenda, Speranza, Brunetta, Gelmini...».

Anche i 5 Stelle?

«I 5 Stelle sono finiti; non possono provocare altri danni. Hanno fatto una sola cosa giusta: il reddito di cittadinanza, perché non possiamo lasciar morire la gente di fame. Solo che non l'hanno capita, e si sono inventati i navigator...».

Perché quindi imbarcare pure i 5 Stelle?

«Perché dobbiamo entrare in una logica di Cln. Nel Comitato di liberazione nazionale c'erano tutti, comunisti e monarchici, azionisti e cattolici: perché bisognava combattere un nemico comune, Mussolini».

Ingegnere, oggi in Italia non c'è Mussolini.

«Certo che no. La storia non si ripete mai due volte. La Meloni e Salvini non ci metterebbero in camicia nera. Ma metterebbero a rischio la democrazia, l'Europa, i nostri valori. E isolerebbero l'Italia. Proprio come fece Mussolini».

Chi dovrebbe essere il candidato premier del Fronte repubblicano? Draghi?

«Se lui se la sentisse, certo. Ma credo che Draghi voglia fare il presidente del Consiglio europeo al posto di Michel, nel 2024. Il candidato premier non è così importante. È importante lo spirito con cui bisogna unirsi. Anche rinunciando ai simboli di partito».

Perché il Pd dovrebbe rinunciare al suo simbolo?

«Perché da solo non ce la farà mai. Il Pd è un partito borghese, votato da persone di buon senso. Ma ha perso i rapporti con le classi popolari. Le disuguaglianze sono ormai insostenibili, e non mi pare che Letta se ne occupi».

Draghi come ha governato?

«Draghi è il meglio che possiamo mettere in campo. Ha riportato in alto il prestigio del nostro Paese, ha affrontato bene la pandemia, sostituendo Arcuri con Figliuolo. Il bilancio dei suoi 17 mesi è positivo. Resta il fatto che l'Italia oggi è più povera, più indebitata, più ingiusta rispetto all'inizio della legislatura. E una vittoria di questa destra sarebbe il colpo finale, con una recessione severa in arrivo».

LAMPEDUSA, RECORD DI SBARCHI

Le notizie dall’Italia. Il Viminale punta a svuotare in fretta l'hotspot dell'isola di Lampedusa, dove si sono ammassate oltre 2mila persone nelle ultime ore. Ma Schiavone (Asgi) dice: la vera emergenza? Non sono gli arrivi ma i tagli all'accoglienza. La cronaca di Daniela Fassini per Avvenire.

«Ancora sbarchi e soccorsi. Non si arresta il flusso di migranti verso Lampedusa, dove il sovraffollamento nell'hotspot resta a livelli record, con oltre 2.200 persone accolte. Ed è corsa contro il tempo per alleggerire la struttura: il ministero dell'Interno ha già provveduto a trasferire 600 profughi sulla nave Diciotti della Guardia costiera con destinazione Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, mentre altre 150 persone sono state imbarcate sul traghetto di linea Sansovino e altrettante verranno portate sulla nave militare Foscari. Il centro di accoglienza e la sua gestione, peraltro, sono finiti nel mirino della Procura agrigentina che ha aperto un fascicolo per ora senza indagati e ipotesi di reato. Da un paio di mesi i pm, con a capo il facente funzioni Salvatore Vella, raccolgono atti per comprendere come il centro di accoglienza che ha una capienza massima sulla carta di 350 persone possa ospitarne, ciclicamente e in diversi giorni, fino a oltre 2.000 in una situazione per nulla dignitosa: promiscuità, mancanza di letti, condizioni igieniche al limite. L'hotspot è nelle mani della cooperativa Badia Grande che gestisce anche altri centri in Italia. Non si ferma intanto anche la polemica politica. Con il tema 'emergenza migranti' che è entrato di fatto nella propaganda elettorale, sfoderato con piglio da una certa destra e con il segretario della Lega, Matteo Salvini, che ha già annunciato di voler essere sull'isola il prossimo 4 e 5 agosto. «Non abbiamo nessuna emergenza migranti - sottolinea invece Gianfranco Schiavone di Asgi, l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione -. Il problema non è Lampedusa, con le dimensioni del suo hotspot, ma il sistema di accoglienza italiano che è andato complessivamente diminuendo dopo il 2018, a seguito delle scelte fatte. Solo dal 2020 in poi, il modello di accoglienza si è un po' risollevato, ma solamente in termini molto ridotti». Schiavone fa l'esempio di un ospedale di una grande città con reparti chiusi: quando scatta la discussione sul tema emergenza, in realtà l'emergenza riguarda il servizio sottostimato, con pochi posti letto, non il numero dei malati. «Al momento - prosegue il giurista, esperto di immigrazione - abbiamo una presenza complessiva di circa 61mila persone nei centri di accoglienza e altre 30mila nel Sai (il Sistema accoglienza e integrazione ex Sprar, ndr) dove però sono in prevalenza titolari di protezione. Il sistema rimane sottodimensionato per la realtà italiana, tenuto conto che l'esame delle domande di asilo in Italia dura tanto tempo e le persone hanno diritto sia ad avere un esame accurato delle proprie richieste di protezione, sia successivamente a fare ricorso, nel caso di istanza respinta». La realtà è che il ministero non ha posti dove mandare i migranti. «Il vero problema non è l'emergenza degli arrivi, ma l'insufficienza dell'accoglienza» conclude Schiavone. Continuano intanto anche i salvataggi da parte delle Ong. Sono più di mille (per l'esattezza 1.052, ndr) i migranti salvati dal mare e ora in attesa di un porto sicuro. In 226 sono sulla Geo Barents di Medici senza frontiere: tra gli ultimi 48 in salvo dopo l'allerta di Alarm Phone, mentre erano su un gommone in pericolo nella zona di ricerca e soccorso libica, c'erano 20 minori, di cui 15 non accompagnati. Oltre alla bambina di due anni salvata durante il primo intervento e nell'ultima operazione di soccorso sono stati salvati un bambino di un mese e una donna incinta. Sono invece 439 i migranti salvati che sono sulla Sea Watch 3, mentre altri 387 si trovano sulla Ocean Viking. Intanto da Bruxelles fanno sapere che la Commissione europea sta lavorando «con gli Stati membri interessati per l'attuazione del meccanismo di solidarietà» volontaria per quanto riguarda la ripartizione dell'accoglienza dei migranti giunti via mare. Lo ha detto la portavoce Ue, Anitta Hipper, rispondendo a una domanda sugli sbarchi che stanno interessando l'Italia ma anche la Spagna. «Il ruolo della Commissione è di coordinare il meccanismo di solidarietà - ha aggiunto - e la dichiarazione di solidarietà, adottata il 22 giugno scorso da 13 Paesi membri, rappresenta il primo passo della progressiva attuazione del nuovo Patto sulla migrazione».

ITALIA SEMPRE PIÙ CEMENTIFICATA

In un anno sono andati perduti 19 ettari di suolo al giorno: mai così negli ultimi dieci anni. I dati del 2021 sono contenuti nel Rapporto nazionale sul consumo di territorio redatto dall'Ispra. Luca Martinelli per Il Manifesto.

«Il consumo di suolo nel 2021 torna a crescere, con una media di 19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni, per un valore che sfiora i 70 chilometri quadrati di nuove coperture artificiali in un solo anno. Il cemento ricopre ormai 21.500 chilometri quadrati di suolo nazionale, dei quali 5.400, un territorio grande quanto la Liguria, riguardano i soli edifici, che rappresentano il 25% dell'intero suolo consumato. La fotografia della cementificazione in Italia arriva dal Rapporto nazionale «Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2022» di Ispra. Quest' anno il dossier si apre con tre immagini di un'area di 23 ettari che a Novara è stata trasformata per realizzare un polo logistico: scattate nel 2020, 2021 e quindi 2022, non hanno bisogno di commenti. Negli ultimi 15 anni, a partire dal 2006, il Belpaese ha perso 1.153 kmq di suolo naturale o seminaturale, con una media di 77 kmq all'anno, «a causa principalmente dell'espansione urbana e delle sue trasformazioni collaterali che, rendendo il suolo impermeabile, oltre all'aumento degli allagamenti e delle ondate di calore, provoca la perdita di aree verdi, di biodiversità e dei servizi ecosistemici, con un danno economico stimato in quasi 8 miliardi di euro l'anno», spiega Ispra. Il suolo consumato pro-capite aumenta in Italia nel 2021 di 3,46 mq/abitante. A livello regionale è la Valle d'Aosta la regione con il consumo inferiore, ma aggiunge comunque più di 10 ettari alla sua superficie consumata. La Liguria è riuscita a contenere il nuovo consumo di suolo al di sotto dei 50 ettari, mentre Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Molise, Basilicata e Calabria si mantengono sotto ai 100 ettari. Gli incrementi maggiori sono avvenuti - come al solito - in Lombardia (con 883 ettari in più), Veneto (+684 ettari), Emilia-Romagna (+658), Piemonte (+630) e Puglia (+499). Le regioni che hanno consumato di più, a livello assoluto, sono Lombardia (12,12%), Veneto (11,90%) e Campania (10,49%). Tra i Comuni, Roma conferma la tendenza dell'ultimo periodo e anche quest' anno consuma più suolo di tutte le altre città italiane: in 12 mesi la Capitale perde altri 95 ettari di suolo. Gli altri capoluoghi di regione con i maggiori aumenti sono Venezia (+24 ettari, relativi alla terraferma), Milano (+19), Napoli (+18), Perugia (+13) e L'Aquila (+12). Oltre il 70% delle trasformazioni nazionali si concentra nelle aree cittadine cancellando proprio quei suoli candidati alla rigenerazione. Uno dei focus del Rapporto 2022 è quello legato agli edifici, che lo scorso anno hanno occupato oltre 1.120 ettari in più. Correre ai ripari, per Ispra, è possibile a patto di intervenire sugli oltre 310 kmq di edifici non utilizzati e degradati esistenti in Italia, una superficie pari all'estensione di Milano e Napoli. Un altro aspetto indagato riguarda la logistica: nel 2021 ben 323 ettari, prevalentemente nel Nord-Est (105 ettari) e nel Nord-Ovest (89 ettari), sono stati occupati dalla costruzione di nuovi poli, rilevati anche in aree a pericolosità idrogeologica elevata. Nel corso della presentazione del Rapporto s' è consumato uno scontro tra il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, e Luca Mercalli. Il primo ha infatti affermato che sarebbe possibile «distinguere tra consumo di suolo buono e consumo di suolo cattivo», facendo l'esempio proprio di poli logistici al servizio dello shift modale (gomma, ferro) che «implica un consumo di suolo aggiuntivo». Mercalli ha risposto che «il consumo di suolo è irreversibile, quel suolo perso è perso per sempre. Il suolo compromesso non si recupera in un anno, ma in millenni». Per questo, secondo Mercalli, «non esiste un consumo di suolo buono e uno cattivo e mi stupisco che il ministro Giovannini, persona competente, lo abbia detto nel suo intervento. Le mappe del Rapporto che abbiamo visto oggi sono come metastasi, cellule cancerose che si staccano dal tumore centrale e si propagano verso zone sane. Come potete pensare che esista una metastasi buona? È tutta cattiva». Commentando il Rapporto, Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, pone l'accento su un altro rischio. Quello che «le risorse del Pnrr e i connessi investimenti infrastrutturali finiscano con il contribuire ad una bolla espansiva del consumo di suolo, e questo sarebbe per il nostro Paese un fallimento di cui rendere conto, visto che ci siamo impegnati ad adottare e attuare, tra le riforme previste dal Piano Nazionale, anche quella relativa alla riduzione del consumo di suolo».

PARTE OGGI LA PRIMA NAVE DEL GRANO

Accordo di Istanbul alla prima prova: dovrebbe partire oggi da Odessa una nave carica di grano ucraino, battente bandiera panamense. Marta Serafini per il Corriere.

«Tutti gli occhi sono puntati su Chornomorsk, a sud-ovest di Odessa, da cui già in queste ore potrebbe partire la prima nave carica di grano. Una trentina di chilometri da Odessa, sulla riva nord-occidentale del Mar Nero, sull'estuario di Sukhyi, Chornomorsk è il quarto porto più grande del Paese. Meno minato di Odessa e meno vicino a infrastrutture industriali, potrebbe essere il primo a riaprire dopo che tutti gli scali marittimi sono stati chiusi il 24 febbraio e dopo la sigla venerdì a Istanbul dell'accordo tra Ucraina, Russia e Turchia per far ripartire oltre 20 milioni di tonnellate di grano. «Nelle prossime 24 ore saremo pronti a lavorare per riprendere le esportazioni. Stiamo parlando del porto di Chornomorsk. Sarà il primo, poi ci sarà Odessa, poi Pivdeny», aveva dichiarato lunedì il vice ministro delle Infrastrutture Yuriy Vaskov, annunciando che una prima spedizione potrebbe già partire questa settimana. «Tra 14 giorni saremo tecnicamente pronti a effettuare esportazioni di cereali da tutti i porti ucraini», ha aggiunto Vaskov. Notizia confermata anche dal vice portavoce delle Nazioni Unite Farhan Haq che ha specificato come dettagli delle procedure saranno pubblicati dal centro di coordinamento congiunto di Istanbul, il JCC, la cui inaugurazione è prevista per oggi. E mentre i dettagli della partenza vengono definiti in gran segreto, i siti di tracciamento di traffico marittimo mostrano una decina di navi all'ancora nel porto di Chornomorsk. Tra queste, la Emmakris III. Bandiera di Panama, ha una capacità di carico di oltre 73 mila tonnellate. È alla fonda dal 22 febbraio, due giorni prima dell'invasione russa dell'Ucraina. Viene citata in una dichiarazione del 4 aprile dell'ambasciata ucraina al Cairo in cui Kiev accusa Mosca di star impedendo alla nave carica di grano ucraino acquistato dal governo egiziano di dirigersi al Cairo. Indizi, che fanno pensare possa essere lei la prima a salpare. Ed è proprio durante una visita domenica in Egitto, Paese che da sempre si affida all'Ucraina e alla Russia per la maggior parte delle sue importazioni di cereali, che il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha respinto le accuse secondo cui Mosca starebbe «esportando la fame» con il suo blocco del Mar Nero. Da Ankara invece Recep Tayyip Erdogan, in un'intervista alla Tv turca Trt , ha invitato ieri Russia e Ucraina a «rispettare» il patto sul grano. «Ci aspettiamo che tutti si assumano le proprie responsabilità» ha spiegato il presidente turco. Tanti gli ostacoli. Sul tavolo resta la sicurezza del Mar Nero e dell'area di fronte al porto di Odessa disseminata di mine e i dubbi degli assicuratori sulle coperture delle navi per viaggi ad alto rischio. Da non sottovalutare anche la scarsità di manodopera perché gli equipaggi stranieri delle 85 navi da carico bloccate nei porti ucraini sono stati rimpatriati da tempo mentre molti dei marinai e lavoratori locali sono stati richiamati al fronte. Ma, soprattutto, preoccupa l'imprevedibilità di Mosca. Ieri la regione di Odessa è stata colpita di nuovo con 13 missili lanciati da aerei Su-35, Su-30 Su-22 e M-30. Lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha postato un video che mostra case distrutte a Zatoka, popolare località turistica sul Mar Nero vicino a Odessa, nonché zona di passaggio di merci verso la Romania. E non solo. Sotto «pesante attacco», come confermato dal governatore Kim, resta anche Mykolaiv, altro porto bloccato dalla guerra».

ERDOGAN E PUTIN, APPUNTAMENTO A SOCHI

Il presidente turco e quello russo si incontreranno il 5 agosto a Sochi. Giampiero Gramaglia per Il Fatto.

«Un centro per il coordinamento dei corridoi nel Mar Nero per l'export di grano dai porti dell'Ucraina entra in funzione oggi a Istanbul, in parallelo alla ripresa delle attività nel porto di Chornomorsk. Allestito presso l'edificio dell'Università della Difesa, il centro è previsto dall'accordo firmato venerdì scorso per sbloccare l'export di cereali ucraini. Nel centro di Istanbul opereranno esponenti dell'Onu e di Russia, Ucraina, Turchia. Il presidente turco Erdogan incontrerà il presidente Putin a Sochi il 5 agosto. L'annuncio conferma il ruolo di primo piano di Erdogan nella vicenda ucraina e coincide con indiscrezioni della Cnn secondo cui Mosca vorrebbe acquistare droni da combattimento turchi Bayraktar TB2. Erdogan e Putin ne avrebbero parlato la scorsa settimana a Teheran: se la voce fosse confermata, la Turchia, Paese della Nato che avrebbe già fornito all'Ucraina una cinquantina di droni dell'inizio dell'invasione, si troverebbe a essere fornitore dei due belligeranti. La pace resta lontana. "Tutte le ostilità finiscono con negoziati" e Mosca "non s' è mai rifiutata di negoziare con Kiev". Anzi, secondo il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, "i Paesi occidentali hanno proibito all'Ucraina di negoziare con la Russia sulla base degli accordi raggiunti a Istanbul" a fine marzo. L'Ue ha intanto prorogato al 31 gennaio 2023 le sanzioni anti-russe. Sul terreno, i filo-russi sostengono che la regione di Donetsk sarà liberata entro fine agosto, mentre gli ucraini puntano a riprendersi Kherson, la prima città a essere occupata. A Zaporizhzhja, sarebbero già stati rilasciati "più di 8.000 passaporti della Federazione russa". Le forze russe hanno ieri sferrato un massiccio attacco contro il porto di Mykolaiv - non sono però segnalate vittime - e hanno colpito ancora all'alba la città portuale di Odessa. Il presidente Zelensky ha pubblicato un video con case distrutte a Zatoka, una popolare località turistica sul Mar Nero vicino a Odessa. Tre civili sono stati ieri uccisi nel Donbass - per l'Onu, fanno 5.237 dall'inizio dell'invasione, 7.035 i feriti -. Nella regione di Donetsk non è rimasta una sola località che non sia stata colpita: Toretsk, Avdyivka, Mariinka, Krasnogorivka sono state attaccate lunedì sera", Bakhmut "è stata sottoposta ad attacchi di artiglieria e aerei", alla periferia di Sloviansk "sono stati uditi colpi di artiglieria." Colpite anche località nelle regioni di Chernihiv, di Sumy e di Kharkiv. Secondo l'esercito ucraino, i russi stanno preparando una offensiva sulle città di Siversk e Soledar, nel Donetsk. E forze armate bielorusse avrebbero condotto una ricognizione di addestramento ieri mattina, in direzione di Volyn e Polissia».

LA GUERRA LOGORA L’ESERCITO RUSSO?

Ancora pausa sul campo di battaglia, mentre proseguono i raid missilistici sulle città ucraine. Il punto militare è di Guido Olimpio e Andrea Marinelli per il Corriere.

«Prosegue, almeno in apparenza, la fase di pausa sul campo di battaglia. Non si fermano invece i raid sulle città ucraine, colpite dagli attacchi missilistici di Mosca. Secondo alcuni esperti, i russi sono stanchi e logori, altri sostengono però che capiremo meglio entro due-tre settimane come proseguiranno la battaglia, quando avranno completato la preparazione di circa 15 mila soldati. Intanto fanno affluire mezzi, ricorrono ai missili per terrorizzare i civili ucraini e provare a distruggere gli arsenali. Kiev, a sua volta, riorganizza i ranghi, deve assorbire il materiale Nato e pensare ad una futura offensiva su Kherson, che i russi vogliono annettere: come ha detto un ufficiale, per ora si limitano a causare «piccole onde» verso la zona occupata, poi seguiranno quelle più grandi. L'artiglieria domina in entrambi gli schieramenti. Massiccia e intensa quella degli invasori che hanno mobilitato qualsiasi «pezzo», nuovo o vecchio: arano le postazioni, provocano roghi con le cariche incendiarie, devastano. I difensori, in inferiorità per numeri, stanno risalendo la china grazie alle grandi forniture occidentali. La loro propaganda insiste sulla precisione del tiro, cresciuta con l'arrivo dei lanciarazzi Himars, dei cannoni M777, dei Caesar, di batterie polacche. Le munizioni però non bastano mai: la cadenza è di decine di migliaia di colpi al giorno sparati da cannoni e sistemi. I due nemici cercano proiettili ovunque, anche all'estero. La mancanza di scorte può incidere però sul supporto Nato alla resistenza. L'ex generale americano Mark Hertling ha spiegato che la produzione di razzi Himars è di 9 mila esemplari all'anno, che possono bastare per appena due mesi di operazioni belliche per i 16 lanciatori in dotazione attualmente all'Ucraina. Ecco perché, a suo giudizio, non sarebbe facile per Washington inviarne di più. E gli M270 - l'alternativa a disposizione degli ucraini - sono più complicati da «mantenere» e meno veloci».

GAS, L’EUROPA DECIDE. A METÀ

La riunione dei Ministri dell’energia della Ue ha approvato un piano sul gas: riduzione del 15 per cento, con deroghe. L’Italia dovrà tagliare solo il 7. Marco Bresolin per La Stampa.

«Sono state introdotte numerose deroghe ed è stato tolto alla Commissione il potere di dichiarare lo stato d'emergenza, ma il piano per la riduzione dei consumi di gas approvato ieri dal Consiglio Ue dei ministri dell'Energia rappresenta comunque un passo significativo. Perché è arrivato a soli sei giorni dalla proposta presentata da Ursula von der Leyen e perché pone le basi per un razionamento del gas come strumento di difesa dalle minacce russe. Per ora sarà su base volontaria, ma in caso di crisi delle forniture il taglio diventerà obbligatorio in un'ottica di solidarietà verso i Paesi più colpiti. «Putin userà quest' arma per creare disordini e cercherà di fermare le consegne nel momento in cui ci farà più male - ha avvertito Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione -. Per questo dobbiamo mettere fine alla nostra vulnerabilità. Non iniziare a risparmiare gas vuol dire fare una scommessa pericolosa». Soltanto l'Ungheria si è opposta all'approvazione del regolamento, che prevede di ridurre del 15% i consumi di gas nei prossimi otto mesi e che vede soprattutto la Germania tra i potenziali beneficiari. Secondo Budapest il piano è «inapplicabile perché ignora gli interessi del popolo ungherese». Per il via libera non serviva l'unanimità, ma bastava la maggioranza qualificata degli Stati membri. Così come basterà la maggioranza qualificata per rendere obbligatorio l'obiettivo di riduzione dei consumi se e quando verrà decretato lo stato d'emergenza. E se il governo di Orban si rifiutasse di tagliare i consumi? Fonti Ue assicurano che, come per tutti i regolamenti, in caso di violazione verrà avviata una procedura d'infrazione. Le deroghe introdotte sono di diverso tipo. Gli Stati membri che si trovano su un'isola - vale a dire Irlanda, Malta e Cipro - saranno esentati dall'obbligo di ridurre l'uso del gas del 15%. Le prime due hanno però assicurato che contribuiranno al taglio dei consumi, mentre per Cipro la situazione è diversa visto che praticamente non usa il gas per produrre energia elettrica. Ci saranno inoltre deroghe che terranno in considerazione la situazione dei Paesi scarsamente interconnessi al resto della rete energetica, come Spagna e Portogallo, oppure dei Paesi Baltici, visto che il loro sistema elettrico è connesso a quello russo. Ma al di là delle caratteristiche geografico-strutturali, il negoziato ha introdotto alcuni correttivi che vanno incontro ai Paesi come l'Italia. La quota di metano da ridurre scenderà per chi ha superato gli obiettivi di riempimento degli stoccaggi, per chi ha industrie critiche fortemente dipendenti dal gas, per chi ha capacità di esportazione e per chi nell'ultimo anno - a causa della ripresa economica post-pandemia - ha registrato un aumento dei consumi superiore all'8%. Secondo il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, per l'Italia questo dovrebbe tradursi in un tasso di riduzione effettivo del 7%, meno della metà di quello inizialmente previsto. Ciò significa che il nostro Paese dovrà tagliare meno di 4 miliardi di metri cubi di gas nei prossimi otto mesi (durante i quali, mediamente, l'Italia consuma circa 55 miliardi di metri cubi di gas). «Ma le deroghe non sono automatiche», ha avvertito ieri un funzionario Ue, spiegando che «ogni Stato dovrà dimostrare le proprie circostanze eccezionali» e la Commissione, dopo un'analisi, dovrà dare la sua autorizzazione.
La commissaria Ue all'Energia, Kadri Simson, ha spiegato che il vuoto da colmare in caso di interruzione delle forniture da parte di Mosca sarà di circa 30-45 miliardi di metri cubi, a seconda delle condizioni meteorologiche del prossimo inverno.
Il piano iniziale della Commissione prevedeva un risparmio totale di 45 miliardi di metri cubi, ma con le deroghe la cifra scenderebbe a circa 35-38 miliardi. Di fronte a un inverno rigido, dunque, potrebbe non bastare. La Commissione ha confermato che in autunno verranno presentate le proposte per valutare l'eventuale applicazione di un tetto al prezzo del gas. Ma secondo un funzionario Ue l'approvazione del piano potrebbe già avere effetti in questo senso: «È un segnale per il mercato, se non per ridurre i prezzi, almeno per limitare la volatilità e l'instabilità a cui assistiamo».

DEMOCRAZIE A RISCHIO PER INFLAZIONE E SFIDUCIA

Intervista al politologo americano Moises Naím, che dice: "L’inflazione e la sfiducia nella politica creano un mix devastante per le democrazie". Il politologo: "La disperazione rischia di alimentare i populismi". Alberto Simoni per La Stampa.

«C'è una generazione che non ha mai visto l'inflazione, non sa cosa significhi vivere con i prezzi che lievitano ogni giorno. E questo crea incertezza e timore per il futuro». Moises Naím alza lo sguardo sulle dinamiche globali nel giorno in cui il Fondo Monetario avverte dei pericoli di rivolte sociali. Il politologo e autore di un libro su come gli autocrati hanno preso di mira l'agenda politica del XXI secolo («The Revenge of Power») scorge un impatto diretto sulla tenuta della democrazia, la sua crisi unita alla spirale inflazionistica è una miscela esplosiva. «C'è uno scetticismo sempre più diffuso sulle opportunità che offrono i sistemi democratici - sostiene Naím -, non generano benessere, non creano crescita e lavoro, non danno possibilità di riscatto. Sono percezioni che unite alle difficoltà di portare a casa il cibo, perché i prezzi strangolano moltissime persone, sono una combinazione devastante».

Dove queste tendenze e i rischi di rivolta sono più evidenti?
«In Africa anzitutto, la tenuta del Continente è agli sgoccioli, molti fenomeni - dal debito alla crisi alimentare - si sommano. C'è inoltre la questione climatica che provoca ondate di caldo e siccità a complicare uno scenario già precario, segnato da una crescita economia bassa e dal debito estero».

L'Fmi ritiene fondamentale tenere i prezzi stabili e per questo sostiene le politiche monetarie più rigide. Ma così, il dollaro si rafforza e il debito dei Paesi più poveri in moneta Usa diventa insolvibile. Ci sono altre strade?
«L'alternativa è il controllo dei prezzi, o la svalutazione delle monete dove si può fare. Le pressioni sui governi da parte della popolazione affinché intervengano per tenere a bada i prezzi sono assai probabili. E non solo nei Paesi in via di sviluppo. Anzi. D'altronde lo stesso Biden ha scritto una lettera ai Ceo delle compagnie energetiche per chiedere di controllare i prezzi. Certo, non è un intervento impositivo, ma un segnale. In Argentina invece i controlli sono feroci, in Egitto dove il pane è una componente fondamentale della cultura e della dieta del Paese, i prezzi sono schizzati a causa della supply chain del grano compromessa. Insomma, ovunque ci sono sacche di potenziale criticità».

La primavera araba, in fondo, aveva avuto la genesi nella crisi del grano a fine 2010. Vede uno scenario di rivolte generalizzate?
«Non vedo un piano o un'organizzazione delle proteste. C'è gente disperata, non riesce a mettere in tavola un pasto e si riversa nelle strade».

Scenario anche per l'Europa e il più ricco Occidente?
«In Europa il timore della recessione è più che altro legato alla tenuta della democrazia e alla ripresa dei cosiddetti populismi. Questa mi sembra possa intendersi come rivolta sociale».

L'Italia intanto ha perso la guida di Mario Draghi e anche a Washington si teme, pur fra mille prudenze, il riemergere dei sovranismi. Che effetti avrà?
«C'è preoccupazione e un senso di frustrazione per quanto avvenuto ed è un guaio per tutti che non ci sia più Draghi. L'Italia ha un disperato bisogno di riforme istituzionali e politiche e non vedo chi possa portarle a termine. Il suo successore sarà il prodotto di accordi precari».

Teme che prevarrà in Europa a lungo andare la cosiddetta «Ukraine fatigue», la stanchezza nel sostenere il contraccolpo della guerra, fra le cause principali di frenata della crescita e aumento dell'inflazione?
«In Italia ci sono attori che hanno simpatie per la Russia e sono pronti a negoziare. La Germania si muove a rilento. Che vi siano segnali di fatica è indubbio, ma molto dipenderà dall'inverno e da come l'Europa arriverà alla sfida con le forniture di gas e greggio ridotte. Il mercato sarà abbastanza efficiente? La distribuzione e le infrastrutture riusciranno a reggere i cambiamenti? La realtà è che bisogna allestire una nuova strategia in pochi mesi e in questo clima non è facile».

Biden è andato in Arabia Saudita per convincere Mohammed Bin Salman a immettere più greggio sui mercati nel tentativo di arginare l'ingresso dei cinesi e calmare i mercati. Missione compiuta?
«Il petrolio saudita è importante, ma qui non si tratta di pensare a cosa succederà in futuro, fra anni. La questione è hic et nunc. Si ragiona in termini di mesi, sei al massimo».

A cosa puntano i sauditi e i Paesi del Golfo?

«Riad non vuole che il prezzo del petrolio cali troppo. Ma si oppone anche a un aumento poiché questo farebbe entrare nel mercato altri provider e perderebbe quote e il ruolo dominante. Il principe Bin Salman deve rispondere alle richieste interne, ovvero mantenere un flusso di cassa che consenta di proseguire le riforme e tenere a bada la società».

NUOVA TENSIONE FRA RUSSIA E ISRAELE

I due Paesi ai ferri corti sull'immigrazione ebraica. Un tribunale di Mosca sta per decidere la chiusura dell'Agenzia ebraica. Sarebbe la prima volta dopo la caduta dell'Urss. Rossella Tercatin per Repubblica.

«Un nuovo segnale inquietante, un nuovo elemento nello spettro di una rinnovata cortina di ferro. Il Ministero della Giustizia russo ha richiesto al Tribunale di Mosca di decretare lo scioglimento del ramo locale dell'Agenzia ebraica, l'ente semi-governativo israeliano che gestisce l'immigrazione verso Israele. Per la prima volta dai tempi dell'Urss, gli ebrei russi potrebbero ritrovarsi bloccati. Una mossa che - accusa il governo israeliano - si inquadra nella vendetta di Mosca verso la posizione di Gerusalemme giudicata troppo filo-Ucraina. La Legge del Ritorno dà diritto a immigrare nel Paese a tutti coloro che hanno almeno un nonno ebreo, secondo stime oggi almeno 600mila persone in Russia. Ai tempi dell'Urss, furono in molti a finire nei gulag per il loro desiderio di espatriare. A partire dagli anni Novanta sono stati oltre un milione a trasferirsi in Israele dalle ex repubbliche sovietiche. Dopo l'invasione della Crimea nel 2014, i numeri hanno ricominciato a crescere e dall'inizio del conflitto in febbraio sono già 20mila gli immigrati dalla Russia e altri 35mila coloro che hanno iniziato le pratiche, contro i 7mila nel corso di tutto il 2021. All'inizio di luglio però il Jerusalem Post aveva rivelato come l'Agenzia ebraica avesse ricevuto una comunicazione dalle autorità russe contenente diverse contestazioni circa la legalità delle sue attività, in particolare per il trattamento dei dati di cittadini russi. L'organizzazione aveva però cercato di ridimensionare l'accaduto, sostenendo che si sarebbe impegnata a risolvere le questioni sollevate nella lettera e che il lavoro proseguiva. La settimana scorsa però è arrivato l'annuncio ufficiale del tribunale, con l'udienza sul caso fissata per domani. Israele negli ultimi anni aveva mantenuto rapporti stretti con la Russia e dallo scoppio della guerra ha tentato di assumere una posizione più neutrale rispetto ad altri Paesi occidentali. Ma negli ultimi mesi le relazioni hanno dato segni di deterioramento. Il governo russo nega ogni legame tra la guerra e il caso contro l'Agenzia ebraica. La questione, secondo il portavoce del Cremlino, Dmitrj Peskov, «non deve essere politicizzata o estesa all'intero spettro delle relazioni tra Russia e Israele». Lapid lavora per ricucire lo strappo: «Israele è pronto al dialogo», dice il premier, che domenica aveva avvertito che il comportamento di Mosca avrebbe avuto conseguenze sui rapporti bilaterali. «Meno si parla meglio è», ha sottolineato il presidente Isaac Herzog, già direttore dell'Agenzia ebraica».

KAIS SAIED COMPLETA IL GOLPE COL VOTO

Con il 27,4% dei votanti il presidente della Tunisia Kais Saied completa il suo golpe. Affluenza ai minimi storici, ma ottiene un Sì "bulgaro" alla nuova Costituzione. Giuliana Sgrena per il Manifesto.

«I sostenitori del presidente tunisino Kais Saied non hanno aspettato che venissero proclamati i risultati del referendum per festeggiare la vittoria nella centrale avenue Bourghiba di Tunisi. Del resto, il 25 luglio tutto si è svolto come previsto: partecipazione al 27,4% degli iscritti alle liste elettorali, il tasso più basso mai registrato in Tunisia. E oltre il 92% ha votato sì. La maggioranza bulgara è solo un dettaglio, neanche inusuale sotto i regimi autoritari. Peraltro, l'atteggiamento dispotico di Kais Saied - che ha usato tutti gli strumenti pubblici durante la campagna elettorale - non si è frenato nemmeno nel giorno del voto: la televisione pubblica Watania, in violazione del silenzio elettorale, ha infatti trasmesso un'intervista al presidente di quindici minuti. L'osservatorio Chahed ha denunciato le violazioni nei seggi elettorali e il Sindacato dei giornalisti si è lamentato delle difficoltà incontrate dalla stampa nel seguire le elezioni. Il disinteresse a livello internazionale della pericolosa evoluzione tunisina, che con questa costituzione oltre all'iperpresidenzialismo rischia di scivolare verso la repubblica islamica, ha interessato anche il voto dei tunisini all'estero, che si attesta tra il 3 e il 5% degli aventi diritto.
In Tunisia, l'astensione intorno al 75 % non è dovuta al disinteresse per la politica ma all'indicazione di boicottaggio delle forze che hanno condannato la presa dei poteri da parte di Saied. Tra i quali il Fronte di salute nazionale che comprende i partiti islamisti, a cominciare da Ennahdha che ha criticato i dati sul referendum diffusi dall'Istanza superiore indipendente per le elezioni (Isie, nominata da Saied, quindi poco indipendente), chiede le dimissioni del presidente e si propone la formazione di un governo di salvezza nazionale che porti il paese a elezioni mobilitando il parlamento disciolto. Per il boicottaggio si erano espresse anche le forze di sinistra e il Partito desturiano libero guidato da Abir Moussi, che pur affondando le radici nel passato tunisino, ha un forte supporto nel paese nordafricano. Per Moussi la consultazione è stata fraudolenta. Il presidente Saied è contro i partiti, soprattutto quelli islamisti, perché ritiene di essere lui a realizzare gli obiettivi della Umma (comunità islamica). Tra i motivi che hanno portato a votare Sì alla nuova costituzione, secondo Sigma Conseil, un ufficio di studi e statistiche, vi sarebbe proprio l'opposizione a Ennahdha e al suo fondatore Rachid Ghannouchi. Naturalmente in quel 27,4% vi sono anche i sostenitori del progetto di Saied che mette fine alla situazione del passato con un uomo solo al potere. Il contenuto della costituzione non ha alimentato il dibattito del grande pubblico. E la piccola percentuale di no è basata, sempre secondo la Sigma, sul desiderio dei votanti di esprimere concretamente, con un voto, la propria opposizione e anche di rivendicare i principi fondamentali di una democrazia. Dopo aver eliminato la costituzione del 2014 ora il presidente si propone di rifare la legge elettorale, in vista delle elezioni di dicembre. La nuova costituzione fatta su misura per e da Kais Saied rappresenta per il presidente un importante traguardo, dopo lo scioglimento del parlamento, l'istanza nazionale per la lotta contro la corruzione, il consiglio superiore della magistratura. In violazione di qualsiasi norma il presidente aveva fatto confezionare una costituzione in tre settimane ma il testo pubblicato sulla Gazzetta ufficiale non era quello consegnatogli. Soprattutto non era stato fissato nessun quorum per la validità del referendum che dovrà regolare il funzionamento delle istituzioni tunisine negli anni a venire in sostituzione della costituzione del 2014, frutto sicuramente di compromessi ma che dopo la caduta di Ben Ali aveva ricercato un equilibrio delle istituzioni in modo da garantire un funzionamento democratico. I limiti avevano portato a una paralisi del parlamento, ma il suo congelamento non era stata una soluzione, bensì un atto di imperio del presidente che con il referendum del 25 luglio, a un anno dal colpo di forza, ha concluso il suo golpe».

IL COVID È PARTITO DAL MERCATO DI WUHAN

Nuovo studio scientifico californiano: il virus del Covid è partito davvero dal mercato di Wuhan. Fabio Di Todaro per Repubblica.

«Ormai non sembrano esserci più dubbi. La pandemia di Covid-19 che ha finora provocato 567 milioni di casi e oltre 6,3 milioni di decessi - ha avuto origine nel mercato ittico di Wuhan. Nessuna manipolazione e fuga di Sars-CoV-2 dai laboratori di ricerca. L'ipotesi più accreditata trova un'ulteriore conferma in uno studio pubblicato su Science da un gruppo di ricercatori dello Scripps Research Institute di La Jolla. «Analizzando le prove disponibili abbiamo avuto conferma che il salto di specie con cui il virus si è fatto largo nell'uomo è avvenuto a partire da animali in vendita al mercato di Wuhan negli ultimi giorni di novembre del 2019», afferma Kristian Andersen, docente di immunologia e microbiologia e coordinatore dei due studi con cui si fa luce sull'origine della pandemia. In maniera, questa volta, definitiva. I ricercatori - il loro studio era stato anticipato già a febbraio - sono giunti a questa conclusione dopo aver ricostruito le coordinate geografiche di 155 dei primi 174 casi censiti e riportati anche nel primo rapporto sulla pandemia stilato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Sebbene i primi contagi siano stati attribuiti a Wuhan, oltre 11 milioni di abitanti distribuiti su una superficie di quasi 8.500 chilometri quadrati, Sars-CoV-2 ha iniziato a circolare in un'area ristretta: a ridosso del mercato di Huanan, considerato fin dall'inizio un possibile 'detonatore' della pandemia. Coinvolgendo anche persone che non lo avevano visitato: segno di un passaggio del virus avvenuto da uomo a uomo. Da qui, con il passare delle settimane, Sars-CoV-2 si sarebbe poi diffuso nei quartieri a più alta densità abitativa della metropoli. Un percorso sostenuto dai dati ricavati dal social network Sina Weibo, in quella fase utilizzato dai cinesi esclusivamente per aggiornarsi sull'andamento della pandemia. A dare il là ai contagi, con ogni probabilità, il contatto con alcuni animali venduti vivi nell'area sudoccidentale del mercato di Huanan: come le volpi rosse (Vulpes vulpes), i tassi del maiale settentrionale (Arctonyx albogularis) e i cani procioni comuni (Nyctereutes procyonoides). Mancano i riscontri del contagio sugli animali. Ma le tracce del virus sono state rilevate in una bancarella e in campioni di acqua proveniente da quest' area del mercato. Segno che il passaggio di Sars-CoV-2 nell'uomo è avvenuto qui: a questo punto senza ulteriori dubbi».

ASSALTO ALL’ONU

Secondo giorno di disordini nel Nord Kivu: il caos si è allargato da Goma ad altre località. Assaltate le sedi della missione Monusco, accusata di non proteggere la popolazione dai gruppi armati. I manifestanti assaltano gli edifici Onu a Goma. Paolo M. Alfieri per Avvenire.

«Che la protesta potesse divampare, era sulla bocca di tutti. Che si arrivasse però a un tale livello di scontro a viso aperto, con già quindici morti, tra cui tre caschi blu, e oltre cinquanta feriti, era difficile prevederlo. Una missione Onu sotto attacco, una fazione politica che soffia sul fuoco del risentimento e della rabbia popolare per l'estrema povertà e l'insicurezza della provincia: nel Nord Kivu, nella Repubblica democratica del Congo, il caos è scoppiato lunedì a Goma, quando a centinaia hanno assaltato e razziato una sede e un magazzino dei caschi blu, chiedendo che lascino il Paese. I disordini sono quindi proseguiti ieri anche in altre località, una situazione che aggiunge tensione in un territorio ricco di risorse e dove da anni imperversano oltre cento gruppi armati. E dove negli ultimi mesi l'esercito congolese ha dovuto confrontarsi con i ribelli del gruppo M23, accusati di essere sostenuti dal vicino Ruanda. A lanciare la rivolta contro la presenza della missione Onu Monusco, la più grande al mondo ma considerata incapace di assicurare una protezione adeguata alla popolazione, è stata una fazione dell'ala giovanile del partito al governo a Kinshasa. La protesta di lunedì, inizialmente pacifica, si è improvvisamente accesa con l'assalto a un magazzino che conteneva aiuti umanitari e a una se- de della Monusco, vandalizzati, saccheggiati e dati alle fiamme. Un reporter dell'agenzia Reuters ha riferito che, a quel punto, due dimostranti sono stati colpiti e uccisi dai caschi blu dell'Onu, che oltre a lanciare lacrimogeni avrebbero aperto il fuoco contro la folla. Un portavoce governativo, Patrick Muyaya, ha parlato di un bilancio di «almeno cinque morti e circa 50 feriti» a Goma. Anche esercito e polizia congolese sono stati chiamati subito sul posto, ma non avrebbero aperto il fuoco sui dimostranti. L'esercito ha invece scortato un convoglio di dipendenti delle Nazioni Unite evacuati da Goma, le cui abitazioni sono state assaltate da gruppi di manifestanti. Le autorità locali hanno provato a lanciare appelli alla calma, ma le proteste sono continuate anche ieri e non solo a Goma. I manifestanti sono infatti scesi in strada anche nelle città di Beni e Butembo. È in quest' ultima località, secondo il capo della polizia Paul Ngoma, che si riscontrano «tre morti tra i membri della Monusco, due indiani e un marocchino ». Sempre a Butembo si registrano sette vittime tra i civili, dato che porta in tutto a 15 i morti di due giorni di violenze. L'esercito è stato schierato sulla strada che porta alla base della Monusco situata a Beni, 350 chilometri a nord di Goma, e ha disperso i manifestanti di fronte alla sede della missione dell'Onu a Butembo. Quello del Nord Kivu, provincia di cui Goma è capoluogo, è un territorio ricco di risorse naturali, ma, proprio per questo, nella zona proliferano diversi gruppi armati, in molti casi guidati dagli interessi di contrabbandieri e multinazionali. La provincia, distante da Kinshasa oltre 2.500 chilometri, è una delle zone più instabili del pianeta ed è tuttora in stato di emergenza: di fatto non conosce pace e gran parte della popolazione è costretta a fuggire dalle violenze. La missione Monusco, operativa dal 2010, vede l'impiego di quasi 18mila persone, tra cui 14mila caschi blu, soprattutto da Pakistan e India. La protezione dei civili è al primo posto nel suo mandato di intervento, ma forze politiche e organizzazioni della società civile hanno criticato la missione per il suo mancato intervento contro i gruppi armati. Critiche aumentate con le rinnovate tensioni al confine con il Ruanda, provocate dai ribelli del gruppo M23, che hanno causato altre vittime e nuovi forti rancori».

IL PAPA IN CANADA, RICORDANDO I NONNI

Terzo giorno della visita di Papa Francesco in Canada. Ricorda tutti i nonni nella festa di Gioacchino e Anna. Secondo incontro con i nativi. La cronaca di Gianni Cardinale.

«Il 26 luglio, la Chiesa fa memoria dei santi Anna e Gioacchino, i "nonni" di Gesù. Papa Francesco ha voluto che il suo «pellegrinaggio penitenziale» si svolgesse in occasione di questa festa liturgica. Anche per la grande devozione che i nativi nordamericani nutrono nei confronti della mamma di Maria. Così l'omelia per la Messa celebrata nel grande Commonwealth Stadium è un grande inno ai nonni. È grazie ai nonni, ribadisce il Papa, che «abbiamo ricevuto una carezza da parte della storia che ci ha preceduto: abbiamo imparato che il bene, la tenerezza e la saggezza sono radici salde dell'umanità». Nella casa dei nonni «abbiamo respirato il profumo del Vangelo, la forza di una fede che ha il sapore di casa». Grazie a loro «abbiamo scoperto una fede familiare, domestica». «Sì, perché - insiste - la fede si comunica essenzialmente così, si comunica "in dialetto", si comunica attraverso l'affetto e l'incoraggiamento, la cura e la vicinanza». «Gioacchino e Anna - esorta Francesco - intercedano per noi: ci aiutino a custodire la storia che ci ha generato e a costruire una storia generativa». Ci ricordino «l'importanza spirituale di onorare i nostri nonni e i nostri anziani, di fare tesoro della loro presenza per costruire un avvenire migliore». Un avvenire «dove gli anziani non vengono scartati perché funzionalmente "non servono più"». Un avvenire «che non giudichi il valore delle persone solo da quanto producono». Un avvenire «che non sia indifferente verso chi, ormai avanti con l'età, ha bisogno di più tempo, ascolto e attenzione». Un avvenire «in cui per nessuno si ripeta la storia di violenza ed emarginazione subita dai nostri fratelli e sorelle indigeni». «I nostri nonni e i nostri anziani - aggiunge Francesco - hanno desiderato vedere un mondo più giusto, più fraterno e più solidale e hanno lottato per darci un futuro». Ora «tocca a noi non deluderli». Così «sostenuti da loro, che sono le nostre radici, tocca a noi portare frutto». Siamo noi «i rami che devono fiorire e immettere semi nuovi nella storia». Con una precisazione particolarmente cara a Francesco: «La vera tradizione si esprime in questa dimensione verticale: dal basso verso l'alto». Quindi «attenti a non cadere nella caricatura della tradizione, che non si muove in una linea verticale - dalle radici ai frutti ma in una linea orizzontale - avanti/ indietro - che ci porta alla cultura dell'"indietrismo" come rifugio egoistico; e che non fa altro che incasellare il presente e conservarlo nella logica del "si è sempre fatto così"». La Messa al Commowealth Stadium inizia verso le 10 (le 18 in Italia). Ieri è stata una giornata piovosa qui ad Edmonton. Ora gli ombrelli servono a ripararsi dal sole che buca le nuvole. Fa caldo, ma non come in Italia. Prima Francesco effettua un giro in papamobile per salutare i circa 50mila fedeli accorsi. Nonostante il ginocchio malandato che lo costringe sulla sedia a rotelle, più volte si alza in piedi per accarezzare i bambini che gli vengono porti dai gendarmi che lo accompagnano. Francesco presiede il rito rimanendo seduto. La mattinata canadese del Papa arriva dopo che nel pomeriggio canadese di ieri, quando in Italia era ormai notte inoltrata, il Papa ha avuto il secondo incontro di lunedì con i nativi, presso la chiesa del Sacro Cuore di Edmonton. A loro ribadisce un concetto già espresso nella mattinata di lunedì a Maskwacis, quando «con vergogna e chiarezza » ha chiesto «umilmente perdono » per «il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene» specialmente con la gestione, per conto del governo, delle cosiddette scuole residenziali. Parole accolte con grande soddisfazione dai nativi canadesi. «Mi ferisce - ribadisce nella parrocchia del Sacro Cuore - pensare che dei cattolici abbiano contribuito alle politiche di assimilazione e affrancamento che veicolavano un senso di inferiorità, derubando comunità e persone delle loro identità culturali e spirituali, recidendo le loro radici e alimentando atteggiamenti pregiudizievoli e discriminatori, e che ciò sia stato fatto anche in nome di un'educazione che si supponeva cristiana». L'educazione invece, afferma, «deve partire sempre dal rispetto e dalla promozione dei talenti che già ci sono nelle persone». Così «non è e non può mai essere qualcosa di preconfezionato da imporre, perché educare è l'avventura di esplorare e scoprire insieme il mistero della vita». Il Signore «non sostiene con il suo Spirito chi assoggetta gli altri, chi confonde il Vangelo della riconciliazione con il proselitismo». Perché «non si può annunciare Dio in un modo contrario a Dio». «Eppure, quante volte è successo nella storia!», commenta amaramente. Infatti «mentre Dio semplicemente e umilmente si propone, noi abbiamo sempre la tentazione di imporlo e di imporci in suo nome». La via da percorrere invece, indica infine Francesco, è «non decidere per gli altri, non incasellare tutti all'interno di schemi prestabiliti», ma «mettersi davanti al Crocifisso e davanti al fratello per imparare a camminare insieme». Terminata la celebrazione Francesco uscendo benedice la statua di santa Kateri Tekakwitha, la prima nativa nordamericana canonizzata. E poi con un fuori programma che mette nel panico gli addetti alla sicurezza si avvicina, sempre nella sedia a rotelle, ad un gruppo di fedeli, perlopiù di origine latinoamericana, che lo invocano ad alta voce da dietro le transenne. Questo nel pomeriggio canadese di lunedì. Oggi (ieri per chi legge, ndr) il secondo appuntamento della giornata, dopo la Messa al Commonwealth Stadium è particolarmente suggestivo. Sempre all'insegna della "nonna" di Gesù. Alle 16 (mezzanotte in Italia) Francesco partecipa al tradizionale pellegrinaggio dei nativi nordamericani nel lago di Sant' Anna, una settantina di chilometri ad Ovest di Edmonton».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 27 luglio:

Articoli di mercoledì 27 luglio

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Poli opposti e un terzo incomodo

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