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Preghiere, non armi
Giornata di preghiera e di digiuno per la pace in Ucraina. Continua l'offensiva russa con bombe termobariche e a grappolo. Zelensky conquista la Ue. Draghi ottiene la fiducia di tutti: nuova emergenza
Oggi è la Giornata di preghiera e di digiuno per chi aderisce alla proposta di papa Francesco, dedicata alla pace in Ucraina. È una proposta allargata anche a chi non crede, a tutti coloro che sperano e invocano la fine delle ostilità. Anche gli ortodossi russi si schierano contro la guerra. E intanto si invoca un primo cessate il fuoco, uno stop immediato ai bombardamenti e alla strage di civili. C’è uno spiraglio per una nuova fase delle trattative, grazie ad una possibile mediazione della Cina, ma è una strada molto in salita.
Dal terreno dello scontro bellico le notizie che giungono intanto sono sempre più drammatiche. L’esercito russo intensifica gli attacchi. Un convoglio lungo sessanta chilometri, ripreso dai satelliti occidentali, si appresta a raggiungere Kiev. A Kiev, lo racconta Brera su Repubblica, hanno colpito anche la torre della tv e il memoriale della Shoah. Mentre è impressionante il racconto dell’evacuazione dell’Ambasciata italiana da Kiev, che ha messo in salvo anche una ventina di minori, fra cui sei neonati. L’Onu calcola che l’ondata di profughi arriverà a 4 milioni, mentre proseguono le polemiche sugli ingressi selettivi dei polacchi che alla loro frontiera respingono o fanno ritardare l’ingresso alle persone di colore.
Drammatica la riunione ieri del Parlamento europeo. Gli eurodeputati si sono collegati con il bunker di Kiev dove era nascosto il premier ucraino Zelensky. In t-shirt militare e barbara lunga, il presidente è apparso in diretta e ha chiesto in un discorso a braccio solidarietà all’Europa, di cui l’Ucraina si sente parte a pieno titolo. Il discorso di Zelensky è stato un appello alla sopravvivenza dell'Ucraina ed insieme un appello politico alla Ue. Poche ore più tardi si è sentito in dovere di spiegare in un'intervista alla Cnn che «è una situazione molto seria, non siamo in un film».
L’aula di Strasburgo ha poi votato una mozione per l’ingresso del Paese, ma l’iter è lungo e il voto non è vincolante per la Commissione. Ma la commissaria della Ue Ursula von Der Leyen ha detto: “Per l'Europa questo è il momento della verità. È in corso uno scontro tra lo Stato di diritto e lo Stato delle armi, tra democrazie e autocrazie, tra un ordine basato su regole e un mondo di nuda aggressione”.
Il Parlamento italiano ieri ha autorizzato il Governo ad inviare armi in Ucraina, ha approvato uno stanziamento di aiuti a Kiev per 110 milioni di euro e lo stato d’emergenza fino al 31 dicembre. In altri tempi, si sarebbe detto che Mario Draghi ha avuto una maggioranza bulgara. Anche Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ha votato insieme agli altri partiti di maggioranza. Pochissimi i no. Libero ha pubblicato integralmente “il discorso storico” di Draghi. Aggiungendo nell’eccitazione bellicista: “Non ci resta che vincere”.
Pacifisti e anti pacifisti. Con genialità Aldo Grasso ha creato un neologismo: i No Pax. Sono gli interventisti di oggi, i guerrafondai da talk e da opinione. Contro la pace e per la guerra. Stanno rapidamente sostituendo i No Vax. Assolvono ad un compito delicato: convincere gli italiani (brava gente?) alla necessità del conflitto in Ucraina. Ieri Federico Fubini ha scritto sul Corriere della Sera: «Noi occidentali stiamo perdendo la potenza delle armi perché non sopportiamo più di subire perdite in una guerra convenzionale. All'epoca dei nostri nonni un caduto era motivo d'orgoglio in famiglia, oggi è considerato inaccettabile». Bei tempi quelli dei caduti in ogni famiglia… Da non perdere anche l’uscita di Danilo Toninelli, per cui l’Ucraina è nella Ue. Da tempo.
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LA FOTO DEL GIORNO
Ritrae un momento chiave: Volodymyr Zelensky parla al Parlamento europeo di Strasburgo. E dice: “Vorrei sentire da parte vostra che la scelta dell'Ucraina verso l'Europa venga incoraggiata. Vogliamo essere membri a pari diritti dell'Ue. Stiamo dimostrando a tutti che questo è quello che siamo".
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Preghiera e digiuno mentre cadono le bombe. Avvenire sottolinea il valore del gesto collettivo e prende le distanze dall’invio di aiuti militari: Armati solo di preghiera. Il Corriere della Sera racconta le ultime ore in Ucraina: Pioggia di missili sulle città. Per La Repubblica è: Martirio ucraino. La Stampa è concentrata sui destini di Kiev: L’assedio. Il Fatto commenta il discorso di Draghi al Senato: Entriamo in guerra ma non si deve dire. Libero invece apprezza e riporta tutto il discorso del premier: Fine della ricreazione. Per La Verità prevale: La follia dell’armiamoci e partite. Il Sole 24 Ore riflette le speranze dei mercati in una mediazione di Pechino: Attacco alle città, Cina pronta a mediare. Borse in caduta e spread in discesa. Il Foglio esalta la partecipazione di Zelensky alla seduta del Parlamento di Strasburgo: Razzi sul patriottismo europeo. Il Giornale mette a tema l’involuzione del presidente russo: Da Zar a criminale, Putin contro i civili. E l’Europa lo sfida. Anche il Quotidiano Nazionale accusa lo Zar: Il massacro di Putin. Il Manifesto mostra una foto delle distruzioni delle città: Delitto internazionale. Per Il Mattino è una: Tempesta di bombe. Per il Messaggero una: Pioggia di bombe. Il Domani dedica la prima pagina-copertina ad un ritratto di Pier Paolo Pasolini: Il silenzio di un innocente.
UNA GIORNATA DI DIGIUNO PER LA PACE
Oggi, Mercoledì delle Ceneri, è la Giornata che papa Francesco ha chiesto di dedicare all’invocazione della pace per l’Ucraina. Un impegno che si accompagna al tradizionale digiuno di inizio Quaresima: l’invito è esteso anche ai non credenti. Gianni Cardinale per Avvenire.
«Oggi, Mercoledì delle Ceneri, la Giornata che Francesco ha chiesto di dedicare all'invocazione della pace per l'Ucraina Un impegno che si accompagna al tradizionale digiuno di inizio Quaresima. L'invito esteso anche ai non credenti Roma Il Mercoledì delle Ceneri segna l'inizio del tempo di Quaresima. In questa ricorrenza i cattolici sono chiamati alla preghiera e al digiuno. Quest' anno papa Francesco ha chiesto a tutti, «credenti e non credenti », di fare di questo giorno una Giornata di digiuno per la pace. E ha invitato «in modo speciale» i credenti a dedicarsi «intensamente» alla preghiera e al digiuno. L'appello del Papa è stato lanciato mercoledì scorso, a meno di 24 ore dell'attacco militare russo all'Ucraina, quando ormai tutti i segnali andavano verso questa drammatica evoluzione. «E ora - aveva detto il Pontefice - vorrei appellarmi a tutti, credenti e non credenti. Gesù ci ha insegnato che all'insensatezza diabolica della violenza si risponde con le armi di Dio, con la preghiera e il digiuno. Invito tutti a fare del prossimo 2 marzo, Mercoledì delle Ceneri, una Giornata di digiuno per la pace. Incoraggio in modo speciale i credenti perché in quel giorno si dedichino intensamente alla preghiera e al digiuno. La Regina della pace preservi il mondo dalla follia della guerra». Francesco ha rilanciato l'appello domenica scorsa dopo la recita dell'Angelus, quando la guerra scatenata dalla Russia di Vladimir Putin aveva già cominciato a mietere vittime, anche tra i civili. «In questi giorni - erano state le sue parole - siamo stati sconvolti da qualcosa di tragico: la guerra. Più volte abbiamo pregato perché non venisse imboccata questa strada. E non smettiamo di pregare, anzi, supplichiamo Dio più intensamente. Per questo rinnovo a tutti l'invito a fare del 2 marzo, Mercoledì delle Ceneri, una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Ucraina. Una giornata per stare vicino alle sofferenze del popolo ucraino, per sentirci tutti fratelli e implorare da Dio la fine della guerra». L'appello del Papa è stato accolto anche oltre i confini della Chiesa cattolica. Vi ha aderito, ad esempio, il primate della Comunione anglicana, Justin Welby. La settimana scorsa poi i vescovi riuniti a Firenze per l'incontro "Mediterraneo frontiera di pace", esprimendo «preoccupazione e dolore per lo scenario drammatico in Ucraina», fatto proprio l'invito di Francesco a vivere il 2 marzo una Giornata di digiuno e preghiera per la pace, e hanno fatto «appello alla coscienza di quanti hanno responsabilità politiche perché tacciano le armi ». Ieri il Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa), ribadendo l'adesione all'appello del Papa, ha annunciato che a partire da oggi, e per tutto il tempo di Quaresima, i presidenti delle Conferenze episcopali del nostro Continente celebreranno la Messa per invocare la pace e pregare per i morti a causa della guerra e per il Covid. Secondo la disciplina ecclesiastica della Chiesa cattolica, il digiuno e l'astinenza devono essere osservati il Mercoledì delle Ceneri (o il primo venerdì di Quaresima per il rito ambrosiano) e il Venerdì Santo; mentre sono consigliati il Sabato Santo sino alla Veglia pasquale. L'astinenza deve essere osservata poi in tutti e singoli i venerdì di Quaresima, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità (come il 19, san Giuseppe, o il 25 marzo, l'Annunciazione). Al digiuno sono tenuti tutti i maggiorenni fino al 60° anno iniziato; all'astinenza coloro che hanno compiuto il 14° anno di età. Dall'osservanza dell'obbligo del digiuno e dell'astinenza può però scusare una ragione giusta, come ad esempio la salute. Secondo le disposizioni in vigore rispettare il digiuno significa in pratica fare un unico pasto durante la giornata, con la possibilità di prendere un po' di cibo al mattino e alla sera. Mentre con l'astinenza è proibito l'uso delle carni, come pure dei cibi e delle bevande che, ad un prudente giudizio, sono da considerarsi come particolarmente ricercati e costosi».
È ancora possibile una mediazione vaticana? Se lo chiede Matteo Matzuzzi per il Foglio.
«La Santa Sede può facilitare un'intesa fra la Russia e l'Ucraina, "perché in Ucraina la Santa Sede ha un suo peso", dice al Foglio don Stefano Caprio, docente di cultura russa al Pontificio istituto orientale di Roma e profondo conoscitore della realtà che un tempo si sarebbe definita "d'oltrecortina", se non altro per averci vissuto dal 1989 al 2002. "In Ucraina l'incrocio tra le chiese è tale che la Santa Sede potrebbe dire la sua e dare qualche risultato. Non solo perché il 15 per cento di fedeli ucraini è greco-cattolico e il 5-6 per cento latino. L'apoteosi sarebbe che il Papa si incontrasse con Kirill a Kyiv, ma mi rendo conto che allo stato è impossibile", dice don Caprio. "E' un conflitto anche religioso e culturale, quello cui stiamo assistendo, perché lì, in Ucraina, si scontrano le obbedienze, le giurisdizioni, le tensioni che variano fra Costantinopoli e Mosca. La Chiesa di Kyiv è nata per essere in comunione con tutti, per cui sarebbe significativo se si unissero nel chiedere la pace il metropolita della Chiesa autocefala ucraina e il metropolita Onufri (che risponde a Mosca)". Un bel problema, acuito dal fatto che la posizione del patriarca Kirill appare ambigua, a volte sembra il cappellano del Cremlino, tanto è schierato con Vladimir Putin. "Kirill - dice don Caprio - lo conosco da quando ero giovane. E' innamorato della Chiesa cattolica, dei gesuiti, dell'occidente. Non è per niente d'accordo con l'invasione dell'Ucraina, però ha ispirato un certo nazionalismo ortodosso che ora gli è scappato di mano. Putin è andato oltre il disegno originario e ora, Kirill, non sa cosa fare. Non può contestare il presidente né appoggiarlo. E' in mezzo". "C'è una parte del patriarcato di Mosca che è molto putiniana, ma un numero considerevole di membri del clero moscovita gli è ostile. La maggioranza del popolo russo, poi, appoggia Putin perché ne condivide l'idea di tornare allo zarismo e di restaurare in qualche modo l'Impero sovietico, ma non sostiene la guerra. Aspetto che Putin ha sottovalutato". Cosa succederà ora? "Se il Cremlino otterrà la neutralità ucraina potrà vantarsi di aver risolto il problema: fermata la Nato e creato un territorio neutrale attorno alla Russia, che poi è lo scopo principale dell'azione di questi giorni. A meno che, ovviamente, la situazione non sfugga di mano, cosa sempre possibile". La Chiesa russa, intanto, si trova in una posizione estremamente delicata: "In molte chiese ucraine del Patriarcato moscovita, domenica scorsa non è stato ricordato il nome di Kirill. E' come se da noi i sacerdoti omettessero, durante la messa, di pronunciare il nome del Papa o del vescovo diocesano. Una cosa grave e significativa, perché - prosegue il nostro interlocutore - se Mosca perde l'Ucraina, il Patriarcato diventa minoranza nell'ortodossia". Uno scenario quasi apocalittico. "Sì, calcoliamo che oggi il 70 per cento degli ortodossi nel mondo appartiene al Patriarcato di Mosca e di questi il 35 per cento è rappresentato da fedeli ucraini. Un'enormità. Inoltre, la metà dei preti ortodossi in Russia è ucraina. E' chiaro che Kirill non possa perdere l'Ucraina, e lui lo sa benissimo: prima del 2014, lui si recava tre volte all'anno in quel Paese, curandolo con estrema attenzione. La Chiesa ucraina, insomma, riveste un'importanza fondamentale per Mosca, se si pensa anche che la Crimea dipende ancora dalla Chiesa ortodossa ucraina, che è fedele a Mosca". Quel che è importante fare, per comprendere la situazione, dice don Stefano Caprio, è studiare la storia, i simboli, la geografia: sapere cos' è il Donbas, perché - anche storicamente - sia così importante per l'ideologia putiniana ("Il principe Dimitri di Mosca lì vinse sui tatari", ad esempio). Conoscere la storia è utile anche per rispondere alla ricostruzione storica che fa Putin, visto che "Kyiv viene prima di Mosca, ma il leader del Cremlino porta ogni cosa dalla sua parte, come hanno fatto prima di lui i vecchi principi, gli zar e poi i capi del Partito comunista". E poi ricordarsi "che l'Ucraina è il centro geografico dell'Europa. Se la perdiamo, dovremmo chiederci cos' è l'Europa e cosa siamo noi". Intanto, sul terreno l'avanzata russa prosegue. Nel pomeriggio di ieri, il segretariato dell'arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc, ha lanciato l'allarme: "Sono giunte informazioni che le truppe russe stanno preparando un attacco aereo sul santuario più importante del popolo ucraino dai tempi della Rus' di Kyiv: la cattedrale di Santa Sofia di Kyiv. Sua Beatitudine Sviatoslav (Shevchuk, ndr), capo e padre della Chiesa greco-cattolica ucraina, invita tutti i cristiani a pregare per il santuario spirituale dei popoli slavi ed esorta l'aggressore ad astenersi da questo orribile atto di vandalismo. Possa Santa Sofia - la Sapienza Divina, - far rinsavire coloro che hanno deciso di commettere questo crimine", ha detto mons. Shevchuk. Oggi, Mercoledì delle ceneri, è la giornata di digiuno e di preghiera per la pace indetta dal Papa».
KIEV, LE BOMBE E L’ASSEDIO
Reportage di Paolo Brera dalla capitale per Repubblica. Le voci e la disperazione di donne e uomini nella capitale ucraina assediata dai tank russi e dagli attacchi aerei. Colpita la torre della Tv.
«Marina Polischiuk, la costumista dell'Opera nazionale ucraina, se ne sta in casa a ciondolare sulla sedia, la tv accesa, la sigaretta pure anche se non ha mai fumato in vita sua. Le ha fregate al marito. Fa male? «Chissenefrega», dice. Bella e austera, Kiev è una tigre ferita, ruggisce di rabbia e piange di dolore. Sessanta chilometri di carri armati si affacciano alle porte, un concerto di sirene dell'allarme antiaereo scandisce le giornate, il borbottio delle esplosioni è un lugubre presagio di morte. Lei però non va neppure più al rifugio: «Troppa gente, dopo sei giorni di guerra non sopporto più nessuno». Migliaia di persone fuggono dall'incubo come possono. In treno come Diana Oleniuk, la pianista del Conservatorio di Kiev; in auto come Dmitro e la sia famiglia; nei convogli organizzati dalle istituzioni come neonati, famiglie e giornalisti riportati a casa dalla nostra ambasciata. Per giorni li hanno ospitati come potevano nella residenza privata dell'ambasciatore Pierfrancesco Zazo, dove s' era trasferita tutta la struttura diplomatica: la sede era troppo vicina a quella dei Servizi ucraini, un obiettivo più che sensibile. «Abbiamo evacuato 16 neonati, 7 minori e più di cento adulti, facendo gli scongiuri tutto bene», dice Zazo ormai in prossimità del confine e della salvezza. La sua casa si era trasformata in una base lunare stracolma di italiani in trappola tra coprifuoco ed esplosioni, un'operazione scattata di sera con un trasferimento adrenalinico e poi tutti lì a convivere nella villa. I documenti riservati portati via dalla sede abbandonata bruciano nel falò in giardino, i neonati strillano o sorridono a prescindere dalle bombe. Gli uomini dei Servizi impegnati a far cambusa per sfamare all'improvviso tutte quelle bocche con i supermercati chiusi; a far viaggiare i pullman - per mettere in salvo altri italiani ritardatari - con i distributori a secco e i dipendenti ucraini in fuga. Ma la diplomazia italiana non abbandona il Paese: «Ci spostiamo a Leopoli per continuare a sostenere gli ucraini e ad aiutare come possiamo gli italiani sorpresi dal precipitare della crisi e rimasti bloccati», dice Zazo. A 57 anni, Marina la costumista ha i nervi a pezzi: «Piango, spero e prego. I miei mi hanno lasciata qui sola e muoio di paura», dice. «Ma ti rendi conto? Sono qui seduta in attesa degli attacchi con i missili balistici su Kiev, è tutto il giorno che ci sono rumori di bombardamenti e di esplosioni ». Al telefono c'è Dmitro: «Come va lì? Noi bene, siamo scappati in auto stamattina con Veronika e le bimbe. Sono a 300 chilometri, stiamo cercando una sistemazione per la notte. L'unica strada aperta è quella a sud, da Vasilkiv», bombardata domenica all'alba. Si va come lumache, ma si va: «Per fare cento chilometri ci metti tre ore, ci sono un'infinità di posti di blocco. Per andare verso ovest devi percorrere tutte strade di campagna, una fila di macchine su queste vie ormai buie in mezzo ai campi». Domani cercherà di raggiungere Leopoli, poi via verso l'Europa: «Ci lasceranno entrare? Speriamo. Oggi vicino a casa mia hanno ucciso 5 persone, una famiglia. Non riesco a capire: vogliono un'altra Siria?». La famiglia sterminata era nel palazzo vicino alla Torre della Tv, il ripetitore centrale di Kiev centrato dai missili. I russi mirano a tagliare le comunicazioni e a zittire l'informazione. Putin ha sguinzagliato un'unità di esperti tagliagole ceceni con un obiettivo preciso: uccidere il presidente Volodymyr Zelensky e preparare la strada alla presa di Kiev. È andato tutto storto. La brigata cecena di Kadirov ha subito perdite pesanti all'aeroporto Antonov, Zelensky è sopravvissuto e ha ritrovato sorriso e coraggio, infondendone al suo popolo con un bombardamento di video postati sui social. Così efficaci che a Mosca hanno deciso di tagliare la rete delle telecomunicazioni, non riuscendo a tagliare la sua. Lo ha annunciato senza pudore il Cremlino, che ha rivelato altri obiettivi imminenti: «Le sedi dei Servizi segreti ucraini, le strutture militari e alcuni obiettivi simbolici». Simbolico lo era di sicuro il cimitero di Babyn Iar, ma Putin non si cura dei vivi figurati dei morti. I missili sparati sulla torre della tv hanno colpito anche le tombe delle vittime del terzo massacro più orrendo dell'Olocausto, 33.771 ebrei uccisi in due giorni nel 1941 da nazisti e collaborazionisti. Il presidente russo che vuole «denazificare Kiev» comincia colpendo il cimitero di una strage nazista, suscitando la condanna del ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid. La Chiesa greco-cattolica ucraina invece teme che ora tocchi a Santa Sofia: «Secondo l'intelligence stanno preparando un attacco aereo sulla cattedrale». L'eco del bombardamento ha fatto tremare Kiev, ieri pomeriggio. Marina era terrorizzata, ti prende una solitudine nera a sentire il gelo dell'inferno senza un'anima accanto. Anna, la figlia 17enne, l'ha spedita a Ternopil, a Ovest, al sicuro. Andrei, il figlio maggiore 38enne, pediatra, è partito per il fronte. «Ma lui deve stare a Kiev a lavorare nel suo ospedale, a curare i bambini. Invece è in guerra dal primo giorno e mi chiama quando può». Il marito si è iscritto alla difesa territoriale ed è lì tra le barricate di copertoni che difende Kiev. «Pure lui mi chiama solo quando può. Se non lo fa tremo, e ogni volta che mi squilla il telefono muoio di paura. Di notte non dormo, ho più fifa che di giorno. Sto male dentro, mi viene solo da gridare "fate qualcosa. Salvateci!"». Con le unghie e con i denti, Kiev implora aiuto ma resiste. Kalashnokov a tracolla Sergiy Prokhorenko, il super manger dell'IT che lavora per multinazionali di tutto il mondo, difende la sua città. Lo aveva detto, lo fa: «Sono nella 72esima brigata meccanizzata, finora non ho combattuto ma sono pronto. Ho una paura fottuta, mi mancano mia moglie e i tre ragazzi, ma che futuro gli lascerei in un Paese satellite della Russia?». Si spera nelle trattative, per scongiurare il disastro, ma la strada è stretta. Zelensky ha dettato le condizioni minime: «Prima devono smettere almeno di bombardare le persone, poi possiamo sederci a trattare». Ieri ha parlato di nuovo con il presidente Usa, Joe Biden: «Grazie per gli aiuti, ma è una situazione molto seria: non siamo in un film». Servono opere di bene, oltre alle preghiere. Mille nubi grevi all'orizzonte, eppure gli ucraini ci credono. «Stiamo respingendo gli orchi russi - dice Eugene Yenin, primo viceministro degli Esteri - e cominciano ad arrivare aiuti militari internazionali. Si arrendono sempre più spesso. E l'attacco missilistico a Babyn Iar è l'ultima linea rossa varcata».
LA STRATEGIA RUSSA: BOMBE TERMOBARICHE E A GRAPPOLO
Con le bombe termobariche e a grappolo i russi vogliono seminare il terrore e stroncare la resistenza dei cittadini ucraini nelle città. Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il Corriere della Sera.
«Mosca ha usato il suo arsenale per mandare molti messaggi. Ha colpito il centro delle città, da Kharkiv a Kiev, provocando vittime civili. Ha usato - secondo alcuni - armi non certo precise, che possono avere un impatto devastante: i missili termobarici e le bombe a grappolo. L'esercito di Putin ha preso di mira l'antenna della tv nazionale per contrastare la propaganda efficace del nemico, abile nel documentare i mezzi abbandonati o distrutti. Ha portato avanti, sia pure con le consuete difficoltà, la testa del drago, il convoglio di mezzi lungo 60 chilometri e diretto verso Kiev, dove potrebbe organizzare un grande assedio. I russi, però, hanno guai - dicono gli americani - nel garantire cibo e benzina alla colonna. È una progressione per fasi, ogni giorno partono dei fendenti, a salire per profondità e durezza. Lo Stato Maggiore ha fatto affluire truppe più robuste, con tank e blindati, per lanciare quando è possibile assalti massicci. Questo sulla carta. Perché comunque gli ucraini si oppongono con la consueta tenacia ostacolando le linee di comunicazione. Fonti riferiscono di perdite pesanti tra gli invasori, si parla di migliaia di vittime, superiori a ogni previsione. Video mostrano veicoli sventrati, cadaveri, blindati abbandonati, razioni scadute. Da Washington sostengono che alcune unità si sarebbero arrese senza sparare: dei soldati russi avrebbero volontariamente sabotato i propri mezzi, bucando i serbatoi della benzina per evitare di combattere. Alcuni esperti ritengono poi che le comunicazioni non sarebbero sempre protette: i contatti avvengono in chiaro e persino con cellulari. Varie testimonianze sostengono che alcuni reparti di reclute siano stati informati solo all'ultimo del reale scopo della mobilitazione, pensavano di partecipare a un'esercitazione. Solo team di parà e commandos avevano dettagli più precisi, perché dovevano assumere il controllo di un aeroporto. Aspetti che potrebbero essere il risultato anche della confusione, di uno scarso coordinamento. La condotta cauta della prima fase, secondo gli analisti, è determinata da tre fattori: sottovalutazione e disorganizzazione; volontà di evitare danni maggiori; timore di avere troppe perdite. La tenuta del nemico e la lentezza degli spostamenti hanno indotto i russi a usare - secondo Kiev - le armi termobariche: sistemi utilizzati in Siria e che ora colpiscono una capitale europea. La testata è composta da gas infiammabile e particelle metalliche: quando esplode, la sostanza si disperde in modo rapido e crea una sorta di «nuvola» o bolla, quindi c'è una nuova deflagrazione. Le conseguenze sono temperature altissime, un'onda d'urto più lunga e ossigeno che brucia. Il colpo non può essere contenuto da un muro, la miscela è in grado di infilarsi negli spazi, in qualsiasi ambiente: viene usata per colpire bersagli asserragliati in un edificio, all'interno di bunker o di grotte. L'impatto è bellico, ma anche psicologico. Ci sono poi segnalazioni sul ricorso alle bombe a grappolo: l'ordigno rilascia sopra l'obiettivo una pioggia di sub-munizioni che di solito devono esplodere con l'impatto. Sono bombe pericolose anche per i civili: possono non deflagrare e restare a lungo in aree estese. Sarebbero vietate da un accordo internazionale, tuttavia diversi Paesi - fra questi la Russia, ma anche Stati Uniti Cina, Israele e Iran - non lo hanno sottoscritto. Gli effetti di questa nuova fase (parziale) si vedono nelle aree abitate. Pesante il colpo su Kharkiv, dove un missile esploso in mattinata davanti a un ufficio governativo ha ucciso almeno 10 civili. A Okhtyrka, nel Nordest, 70 militari sono invece morti in una caserma centrata da un attacco pesante. In sei giorni, sostengono da Washington, i russi avrebbero tirato 400 missili. Nella notte sarebbero entrati a Kherson. Qualcuno aveva anche ipotizzato l'arrivo delle truppe bielorusse in soccorso degli uomini di Putin, forse per chiudere il fronte Ovest e ostacolare il flusso di armi in favore degli ucraini. Il regime di Lukashenko ha negato, ma fonti militari di Kiev sostengono che alcuni reparti sarebbero entrati nella zona di Chernihiv: in giornata poi è stata pubblicata una foto di Lukashenko davanti a una mappa dell'Ucraina divisa in quattro parti, mentre illustrava movimenti di truppe al Consiglio di sicurezza, anche in direzione della Moldavia. Messaggio o depistaggio? Gli analisti si chiedono quanto potranno resistere le forze ucraine e, soprattutto, quanto dureranno le scorte, militari e alimentari. Una previsione - fosca - avverte: entro una settimana avranno finito le munizioni».
ZELENSKY DAL BUNKER PARLA AL PARLAMENTO EUROPEO
Smagrito con la barba e in t-shirt militare appare da un bunker di Kiev in video collegamento con Strasburgo. E dice: «Europei, siamo come voi non abbandonateci ora». L’Assemblea vota l’ingresso dell’Ucraina nella Ue, ma non è vincolante. Francesca Basso per il Corriere:
«Parla dal bunker in cui è nascosto a Kiev, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. T-shirt verde militare di chi è in guerra. Non deve averla mai indossata quando impersonava il presidente nella serie il «Servitore del popolo», perché nessuno sceneggiatore poteva immaginare che si sarebbe arrivati a questo. Alle sue spalle i colori bluette e giallo della bandiera ucraina, che ritornano nell'Aula del Parlamento europeo riunito in plenaria ad ascoltarlo. C'è chi li indossa per solidarietà, come la vicepresidente della Commissione Ue, Margrethe Vestager, e molti altri. E ci sono i cittadini ucraini, ammessi alla plenaria, con gli occhi lucidi che lo ascoltano. Parla a braccio Zelensky, perché «non siamo più nella fase dei discorsi scritti, nel mio Paese oggi vengono uccise delle persone, oggi diamo la nostra vita per la libertà: stiamo rinunciando alle persone migliori, alle più forti, alle più coraggiose». Poche ore più tardi si sentirà in dovere di spiegare all Cnn e alla Reuters , in un'intervista, che «è una situazione molto seria, non siamo in un film». «Io non sono una figura iconica, l'Ucraina lo è» insiste Zelensky, «l'Ucraina è il cuore dell'Europa, penso che l'Europa veda l'Ucraina come qualcosa di speciale per questo mondo. Ecco perché il mondo non può perdere questo qualcosa di speciale». Il discorso di Zelensky è un appello alla sopravvivenza dell'Ucraina ed è un appello politico all'Unione europea. «Senza l'Ue l'Ucraina sarebbe sola: abbiamo dimostrato la nostra forza. Abbiamo dimostrato che siamo come voi. Mostrateci che siete al nostro fianco, che non ci abbandonerete, che siete veramente europei. Solo così, insieme, la vita vincerà contro la morte, la luce contro il buio». Scandisce le parole, il volto stanco e provato di chi vive braccato e sa che potrebbe morire da un momento all'altro. Ma il cuore del discorso di Zelenky agli eurodeputati è che «stiamo combattendo per i nostri diritti e per la nostra libertà e ora lottiamo per la nostra sopravvivenza, ma vogliamo anche essere membri alla pari dell'Europa e credo che oggi stiamo mostrando a tutti quello che siamo, l'Ue sarà molto più forte con noi». Libertà ed Europa sono le parole che ripete più spesso, non è un discorso di eroi ma il racconto della resistenza di un'intera nazione invasa dalla Russia: «Gli ucraini sono incredibili, vinceremo contro tutti e supereremo tutto. È chiara la scelta europea dell'Ucraina, è questa la nostra direzione». Ma non basta. «Vorrei sentire da parte vostra che la scelta dell'Ucraina verso l'Europa viene incoraggiata», dice. Ed è questo il filo rosso del suo discorso, il legame dell'Ucraina con l'Europa democratica, il sogno perseguito in questi anni trasformato in guerra. Zelensky incalza i leader e le coscienze. «Sono molto felice che abbiamo unito i Paesi dell'Ue ma non sapevo che questo sarebbe stato il prezzo da pagare: è una tragedia». Descrive il dramma dei bombardamenti, dei giovani «brillanti e intelligenti» che muoiono a Kharkiv nella piazza della Libertà colpita da due missili. Muoiono i più piccoli: «Ieri 16 bambini sono stati uccisi. E ancora Vladimir Putin dice che le sue operazioni puntano alle infrastrutture militari». Dirà più tardi nell'intervista che «è necessario almeno smettere di bombardare la popolazione, solo fermare i bombardamenti e poi sedersi al tavolo negoziale» ed esorta la Nato a imporre una no fly zone per fermare l'aviazione russa. Non sorride mai l'ex comico, solo alla fine, quando alza il pugno in segno di forza per poi aprire subito la mano e salutare. Scoppia un lunghissimo applauso. Ieri il Parlamento Ue ha votato a larghissima maggioranza a favore della concessione all'Ucraina dello status di Paese candidato all'adesione alla Ue. Ma non è una risoluzione vincolante».
I colloqui fra le due delegazione, quella russa e quella ucraina, potrebbero riprendere domani. Ma se non ci saranno fatto nuovi, fanno sperare ben poco. L’Ucraina però ha chiesto alla Cina di mediare. Simone Pieranni sul Manifesto.
« È ancora presto per parlare di svolta, ma la telefonata di ieri tra il ministro degli esteri cinese e la sua controparte ucraina segna un momento rilevante nelle vicende diplomatiche collegate alla guerra in corso in Ucraina. La telefonata, avvenuta su richiesta di Kiev, ha portato Wang Yi - che ha tenuto una posizione identica da prima dell'inizio della crisi fino ad oggi - a usare per la prima volta in comunicazioni ufficiali cinesi la parola zhan shi, «guerra» fino ad oggi mai menzionata. Altro elemento rilevante: la telefonata è stata riportata in modo identico da Cina e Ucraina, un altro segnale importante (di solito, ad esempio in occasione delle chiamate con gli Usa o con Paesi europei, le due versioni divergono, perché ciascun governo sceglie di segnalare focus diversi, i più vantaggiosi per i propri interessi). La Xinhua, come in precedenza aveva fatto Kuleba, in una nota ha riportato le parole del ministero degli esteri: «La Cina invita la Russia e l'Ucraina a ricorrere alla negoziazione e sostiene tutti gli sforzi internazionali costruttivi che favoriscano una soluzione politica della questione. La situazione in Ucraina è cambiata drasticamente e la Cina deplora il conflitto tra Mosca e Kiev» sottolineando che Pechino sostiene sempre «il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale di tutti i Paesi» e che «la sicurezza di un Paese non può essere raggiunta a scapito della sicurezza altrui, così come la sicurezza regionale non può essere ottenuta espandendo blocchi militari». Per questo «la massima priorità è mitigare il più possibile la situazione ed evitare che il conflitto vada fuori controllo». Wang ha proseguito sottolineando che la Cina è «estremamente preoccupata» per gli attacchi contro i civili e auspica che il governo ucraino continui a «intraprendere tutte le misure necessarie per garantire la protezione dei connazionali» nel Paese. Kuleba ha replicato definendo «costruttivo» il ruolo svolto dalla Cina nella crisi, auspicando che Pechino continui a lavorare per promuovere la fine delle ostilità, chiedendo a Pechino di sfruttare il livello delle relazioni con Mosca per costringere la Russia a fermare la sua aggressione armata contro il popolo ucraino. Un passo rilevante, che da un lato mette in evidenza la capacità diplomatica di Wang Yi, già utilizzato da Pechino con ruoli di grande importanza in Giappone (era ambasciatore) e con Taiwan, nonché in negoziati delicati come quelli tra Stati Uniti e Corea del Nord (celebre la sua fuga in bagno durante uno degli incontri, lasciando le due delegazioni a gestire un bilaterale anziché un incontro a tre, mediato da Pechino). Conosce bene anche gli Stati Uniti Wang Yi, parla un ottimo inglese e dall'inizio di questa crisi è parso decisamente dialogante sia con l'Unione europea, sia - benché con il consueto metodo piuttosto opaco della Cina - con Washington. La mossa conferma anche - nonostante la propaganda nazionale continui a indirizzare a senso unico, anti Usa, il dibattito interno - quanto si va osservando nel pianeta Cina dall'inizio della crisi: le parole dei consiglieri ucraini trasmessi dalla televisione di Stato, il messaggio contro la guerra dell'ambasciatore a Kiev, l'appello degli accademici sfuggito per un attimo alla censura e la più generale impostazione proprio di Wang che ha sempre sottolineato la necessità di risolvere la crisi con il ritorno agli accordi di Minsk prima e poi, una volta scoppiata la guerra, con la necessità di sedersi a un tavolo negoziale. Adesso la domanda diventa un'altra: se mai la Cina intercederà davvero, Putin ascolterà i consigli degli «amici» cinesi?».
PROFUGHI, 4 MILIONI IN FUGA DALL’UCRAINA
Secondo l’Onu, alla fine, saranno quattro milioni i profughi in fuga dall’Ucraina. La cronaca di Avvenire.
«Un "esercito" di invisibili. Che prova, in tutti i modi, a sfuggire all'orrore della guerra. Secondo una stima dell'Onu, sono un milione gli sfollati interni in Ucraina. «C'è stata molta attenzione su coloro che fuggono nei Paesi vicini, ma è importante ricordare che la maggior parte delle persone colpite si trova in Ucraina», ha spiegato una funzionaria dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, Karolina Lindholm Billing. C'è chi ha poi scelto di abbandonare il Paese, cercando rifugio superando il confine. Sono almeno 680mila: oltre 400mila sono entrati in Paesi Ue, la maggior parte in Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania. «I numeri stanno crescendo in modo esponenziale. Sono passati solo sei giorni dall'inizio del conflitto », ha detto da Ginevra la portavoce dell'Agenzia dell'Onu per i rifugiati (Acnur- Unhcr), Shabia Mantoo, assicurando che l'Onu sta mobilitando le risorse necessarie per rispondere più rapidamente ed efficacemente possibile all'emergenza. «Di questo passo, con un aumento così esponenziale, la situazione è destinata a diventare la più grande crisi dei rifugiati in Europa dall'inizio del secolo », ha aggiunto. «In arrivo quattro milioni di rifugiati dall'Ucraina, non lasciamo soli i Paesi che accolgono»: è l'accorato appello lanciato dall'Alto commissario Filippo Grandi in una lettera aperta al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Mentre la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson ha parlato di «cinque milioni di profughi»: «L'Onu parla di prepararsi a cinque milioni di persone e penso sia il numero a cui dovremmo prepararci».
L’accoglienza in Italia è fatta di tante storie. Da Napoli quella di un ucraino, Vitalij, che era qui per lavoro quando tutto è iniziato. La moglie Viktoria ha viaggiato da sola con una bambina fino alla frontiera: il marito l'aspettava lì e adesso staranno nell'ex Covid residence all'Ospedale del Mare. La cronaca di Avvenire.
«Si chiamano Vitalij e Viktoria i primi cittadini ucraini in fuga dalla guerra accolti presso il residence dell'Ospedale del Mare di Napoli. Durante i periodi più duri della pandemia, la struttura ha ospitato la quarantena dei positivi al Covid-19. Ora è stata riconvertita dalla Regione in struttura di prima accoglienza per i profughi del conflitto ucraino. Ne potrà accogliere fino a 156. Vitalij e Viktoria: nomi che, secondo Lara, la mediatrice culturale che dal consolato generale dell'Ucraina di Napoli ha accompagnato al residence loro e la loro bambina di un anno, Alina, lasciano ben sperare per il futuro dell'Ucraina. Sono nomi di buon auspicio, perché ricordano la 'vita' e la 'vittoria'. È lei a parlare per loro. Lo fa con profonda commozione. Più di una volta le sue parole sono interrotte dalle lacrime. Ha scoperto solo da poco che la giovane coppia che accompagna proviene dalla sua stessa città, Dubno, città di 37mila abitanti a 200 chilometri dal confine con la Polonia. «Vitalij - racconta - è un autista. Era in Italia per lavoro quando è scoppiata la guerra. Viktoria ha guidato per oltre 400 chilometri con la sua bambina fino a Cop, città ucraina al confine con l'Unghe- ria. Il marito la aspettava dall'altra parte della frontiera ». Dalla frontiera fra Ungheria e Polonia è partito il viaggio di oltre 1.700 chilometri che li ha condotti a Napoli, dove vivono 25mila loro connazionali (50mila in tutta la Campania). Tra loro c'è uno zio di Viktoria, che da dieci anni vive nel capoluogo campano. «Ma non potrà ospitarli - spiega la mediatrice culturale -. Sta per tornare in Ucraina per combattere contro l'esercito russo». Al loro arrivo a Napoli, Vitalij e Viktoria si sono rivolti al Consolato generale dell'Ucraina. «La prima richiesta dei cittadini ucraini in fuga dalla guerra è l'alloggio. Altri invece possono contare sull'ospitalità offerta dai parenti che vivono in Italia ». La famiglia ucraina è arrivata alle 18 nel residence, accolta dal direttore generale dell'Asl Napoli 1 Centro, Ciro Verdoliva, con la stessa auto che li ha condotti dal confine fra Ungheria e Ucraina fino a Napoli. Alla piccola viene consegnata una Barbie. Ad accoglierli ci sono dei palloncini con i colori della bandiera ucraina. Anche la tavola che li attende per la cena è stata apparecchiata con tovaglie che riproducono i colori della loro patria. La Protezione Civile della Regione Campania ha preparato anche un vasto campionario di indumenti per la loro permanenza in Italia. Tra le lacrime, Lara fa presente ai rappresentanti della Regione le richieste del consolato per l'accoglienza dei profughi del conflitto. Verosimilmente arriveranno in gran numero, e il residence dell'Ospedale del Mare fungerà solo da struttura di prima accoglienza. Ieri si è tenuto un incontro presso la Prefettura di Napoli per organizzare l'accoglienza. Vi hanno partecipato il prefetto, Claudio Palomba, il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, i consoli a Napoli dell'Ucraina e i rappresentanti della Croce Rossa Italiana e della Caritas. Sarà il Comune di Napoli a coordinare il tutto. I profughi saranno dislocati in diverse strutture, come quella di proprietà dello stesso Comune a Marechiaro che potrà ospitare 55 persone. In prima linea anche i Centri di accoglienza straordinaria della regione: 40 posti saranno disponibili a Napoli, 30 a Benevento, 31 a Salerno, 50 a Caserta, 30 ad Avellino. Anche diversi enti del Terzo settore - oltre alla Croce Rossa, che ha già messo a disposizione 25 posti, e alla Caritas -, privati cittadini, conventi e alcune strutture alberghiere hanno raccolto l'appello del Comune a mettere a disposizione posti per i profughi».
Gli italiani in fuga da Kiev: i bambini che strillano, la rabbia, la paura il viaggio sul pullman dei nostri connazionali. Il racconto di Francesco Battistini per il Corriere.
«L'Ucraina è una bestemmia, adesso che scappiamo, e la vita una preghiera. Tutt' e due scorrono sul finestrino e nella mente di Emiliano Bonato. Due paesaggi devastati, ciascuno a modo suo. Le barricate, le code ai benzinai, una colonna di fumo nero, le fiamme, ancora code, altre barricate di gomme: è tutto quel che si vede dal pullman. Borse di cibo, bottiglie d'acqua, bimbe che strillano, mogli in angoscia, niente in tasca: è tutto quel che resta di prima. «Questa strada l'ho fatta un sacco di volte ed ero felice», Emiliano Bonato perde lo sguardo, incantato nel ricordo. Le scritte dei cartelli sono scarabocchiate con la vernice, nell'estremo tentativo degli ucraini di dirottare i carri armati, ma ai russi basta il gps a sapere che di qui si va a Odessa, poi in Moldavia. A bordo asfalto, superiamo chi scappa a piedi nella neve, coi serbatoi mezzi vuoti, perfino sui monopattini. «A Kiev ho lasciato due case piene di cose, due macchine, dodici anni di bellezza. Non sono riuscito a spostare neanche i miei soldi in banca». Emiliano faceva il rappresentante di mobili, vendeva noce e massello dappertutto: «Anche al Cremlino! Quando fanno vedere in tv salone di Putin, mi viene rabbia: il parquet e le porte sono miei...». Il trono dell'Ucraina, no: lo Zar se lo sta facendo da solo. E a Emiliano, 47 anni e un'esistenza piallata, resta solo questo pullman che lo faccia tornare subito, subitissimo a Bassano del Grappa. Kiev addio. Si esce. Settanta italiani, esistenze spazzate e spiazzate. Una ventina di bambini, alcuni minuscoli: molti sono frutto delle maternità surrogate, figli ad ogni costo venuti al mondo nel peggiore dei mondi. L'ambasciata italiana li ha salvati tutti. Figli e figliastri. Con due pullman cercati alla disperazione e per una settimana, in una Kiev che li ha requisiti tutti per il trasporto truppe, mentre le famiglie italiane bivaccavano nel bunker della residenza diplomatica, crescendo ogni giorno: un piccolo, nato da un utero in affitto ucraino, con un furgone d'una clinica di Kiev è stato recapitato a una coppia solo poche ore prima della fuga. Fuori di corsa. L'evacuazione degli italiani da Kiev è un batticuore da Saigon. Si bruciano i documenti sul retro, si recuperano giornalisti e ultimi dispersi, s' ammaina e si piega in valigia il tricolore. L'ambasciatore Pierfrancesco Zazo aiuta un anziano a trascinare il trolley per la discesa ghiacciata. Il console Filippo Nicolaci recupera il latte in polvere per i bambini. Via tutti, ordine immediato. Come i francesi e i tedeschi, che però hanno ricevuto dai loro governi le auto blindate. Come la Croce Rossa, spostata da Kiev. La rappresentanza italiana andrà a Leopoli, annuncia con un certo anticipo sugli eventi il premier Mario Draghi, ma non subito: mamme e neonati, ucraine e pensionati, i nostri pullman se ne vanno destinazione Polonia e Moldova. Anche Zazo deve scollare così: troppo pericoloso attraversare Kiev in auto, i rimbombi dei cannoni russi s' avvicinano, alle tre del pomeriggio meglio sfollare assieme agli altri italiani. L'uscita tranquilla di un ambasciatore che ha saputo gestire ore drammatiche. Non è stato facile. «Spirito di servizio, dedizione, coraggio», riconosce Draghi a Zazo e al suo staff. Perché nulla è mai stato come prima, dal primo giorno di guerra. Piovono le prime bombe, giovedì scorso, e l'ambasciata italiana tiene sulla strada due pulmini, per gli italiani da evacuare: spariti poche ore prima della partenza. Lo stesso accade con le guardie ucraine incaricate della sicurezza: se ne vanno di colpo, forse perché si sono sentite abbandonate, spezzando nei cruscotti le chiavi delle auto e rendendole inservibili. Dannata Kiev, maledetta Mosca. «Che anni sono stati», è amaro in pullman un designer, sulla strada dell'esilio i bagliori notturni delle bombe: «E i russi, poi. Una volta mi han fatto diventare matto. Volevano arredassi un loro consolato con una lampada introvabile. Allora, sono andato su un sito cinese. Ne ho trovata una a 2,76 euro. E gliel'ho fatta pagare 2.760. Il mio piccolo contributo per fotterli».
PARLA BIDEN: “PUTIN È UN DITTATORE AGGRESSIVO”
Nella notte italiana il presidente usa Joe Biden ha pronunciato il tradizionale “Discorso sullo stato dell’Unione”. In esso ha confermato che non invierà soldati in Ucraina per evitare la “terza guerra mondiale”, ma che non ci sarà più spazio per la prepotenza di Putin. Giuseppe Sarcina per il Corriere.
«Putin pensava che l'Occidente e la Nato non avrebbero reagito, per questo motivo ha rifiutato gli sforzi della diplomazia. Putin si sbagliava. Noi ci siamo fatti trovare pronti». Così Joe Biden ha difeso la sua strategia sull'Ucraina nel «Discorso sullo Stato dell'Unione», pronunciato ieri sera (le 3 del mattino in Italia) davanti al Congresso, riunito in seduta plenaria. Il presidente americano ha inserito il leader russo tra i «dittatori» con queste parole: «Attraverso la storia abbiamo imparato che quando i dittatori non pagano un prezzo per le loro aggressioni, continuano a provocare ancora più caos. Continuano ad agitarsi. E i costi e le minacce per l'America e per il mondo continuano ad aumentare. Ecco perché fu creata l'Alleanza Atlantica. In modo da assicurare la pace e la stabilità in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti fanno parte di questa alleanza insieme con altre 29 nazioni. È una cosa importante. La diplomazia americana è importante». Il presidente Usa promette altri aiuti «per la sicurezza (cioè armi e mezzi militari ndr ) economici e umanitari» all'Ucraina. Ma conferma che non invierà soldati Usa a combattere contro i russi per difendere il governo di Volodymyr Zelensky. Non manderà neanche i caccia per presidiare lo spazio aereo, sigillando una «no fly zone» per impedire ai bombardieri russi di attaccare le città. Il rischio sarebbe insostenibile: «La Terza guerra mondiale». Anche per questo motivo Biden lascia cadere l'ultima provocazione di Vladimir Putin, che ha messo in stato di allerta l'arsenale nucleare. Gli Usa non risponderanno «perché il livello di sorveglianza è più che sufficiente». L'Amministrazione Biden ha invece reagito duramente alle notizie in arrivo da Kharkiv, dove la popolazione civile è stata colpita con ordigni micidiali. Il Segretario di Stato, Antony Blinken, intervenendo nell'Assemblea dell'Onu sui diritti umani ha detto: i «crimini di guerra della Russia stanno aumentando ora dopo ora: vengono presi di mira ospedali, scuole e case. La comunità internazionale chiamerà il governo russo a risponderne». Nella mattinata di ieri Biden ha parlato al telefono con Zelensky e gli ha anticipato i temi dello «speech» che avrebbe tenuto più tardi in Parlamento. Gli Stati Uniti «non lasceranno da sola l'Ucraina». Il presidente intensificherà la fornitura di armi e di mezzi militari, in coordinamento con gli alleati europei. Inoltre Biden assicura l'impegno per assistere la massa di profughi in fuga. È un messaggio, quindi, in prima battuta di solidarietà, di vicinanza, sottolineato anche da gesti simbolici. Ieri l'ambasciatrice ucraina a Washington, Oksana Markarova, è stata l'ospite d'onore al Congresso, su invito della First Lady Jill Biden. L'altro tema cruciale è quello delle sanzioni. Biden ha insistito su un punto: «Sono misure senza precedenti», che hanno già condizionato i mercati finanziari e seminato preoccupazione nel gruppo dirigente del Cremlino. Ci vorrà, però, del tempo prima che abbiano piena efficacia, trasformando la Russia in «un paria» dell'economia mondiale. La Segretaria al Tesoro, Janet Yellen ieri ha detto al vice presidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovkis che «sono necessarie altre forti restrizioni». Washington sta cercando di coinvolgere anche Stati come India, Brasile, Argentina che hanno relazioni economiche importanti con Mosca. Proseguono i contatti con la Cina. Intanto, però, il governo americano ha dovuto incassare il «no» pesante alle sanzioni della Turchia. Gli Stati Uniti, infine si preparano a bandire i voli commerciali russi dagli aeroporti americani. In generale la gran parte degli Stati Uniti condanna la guerra scatenata dai russi. Tuttavia Donald Trump ha trasformato anche questa crisi in propaganda, contrapponendo la «forza» di Putin alla «debolezza» di Biden».
DRAGHI E LE ARMI ALLA RESISTENZA UCRAINA
Mario Draghi ha illustrato la posizione del governo e ottenuto una maggioranza ancora più ampia del solito. La risoluzione che appoggia lo stato d’emergenza e l’invio del materiale bellico agli ucraini è stata approvata con soli 13 no al Senato e 25 alla Camera. «L'Italia non si volta dall'altra parte», ha detto. La cronaca di Monica Guerzoni per il Corriere.
«La pace arriverà e sarà grazie al dialogo, ma adesso è «il momento di fare i conti con la storia». E con la guerra. Mario Draghi, che fino all'ultimo aveva sperato si potesse evitare «la mostruosità» delle bombe, i conti con il drammatico presente li fa davanti al Parlamento: «L'Italia non intende voltarsi dall'altra parte». Da entrambe le Camere il premier incassa il sì quasi unanime alla risoluzione bipartisan che impegna il governo a sostenere il popolo ucraino, anche inviando armi per la legittima difesa. «Decisione sofferta», afferma Draghi ringraziando i deputati «per la compattezza nella condanna dell'orrore». Gigantesca migrazione L'invasione dell'Ucraina, esordisce il premier a Palazzo Madama, «segna una svolta decisiva nella storia europea» e rompe l'illusione decennale che mai più in Europa avremmo visto gli orrori del secolo scorso. Le macerie di Kiev, Kharkiv e Mariupol e l'eroica resistenza del presidente Zelensky e del suo popolo «in lotta per la libertà dell'Europa» ci riportano indietro di 80 anni, costringendoci a «compiere scelte fino a pochi mesi fa impensabili». Draghi rinnova la riconoscenza e il sostegno all'Ucraina («siamo al vostro fianco nel dolore») e, dopo l'applauso più lungo, si impegna ad aiutare il Paese aggredito e le nazioni vicine «nel dramma dell'impatto di una gigantesca migrazione». La situazione umanitaria è gravissima, 18 milioni di persone potrebbero avere bisogno di aiuto e l'Italia della solidarietà è in prima linea: il governo ha stanziato 110 milioni per Kiev ed è «pronta a fare di più», a cominciare dall'attivazione di corridoi umanitari per i minori orfani. Tantissimo ha fatto l'ambasciatore Zazo e il premier strappa per lui un doppio applauso. La guerra di Putin, «ingiustificata, premeditata e preparata da tanto tempo», purtroppo sarà lunga. Guerra premeditata Il dittatore ha imposto all'Occidente «un grosso cambiamento», che ci porterà in un futuro «radicalmente diverso». Nella replica al Senato Draghi torna sulla metafora della giungla che invade il nostro «giardino di pace» e definisce necessaria la reazione «sempre più dura e punitiva» della Ue. Sanzioni giuste Le sanzioni sono «giuste, senza precedenti ed efficaci» e la reazione di Putin ne è la prova. Tenere aperta la porta al dialogo resta «essenziale», ciononostante «l'Italia è pronta a ulteriori misure restrittive». Ecco le proposte di Draghi. Creare «un registro internazionale degli oligarchi con un patrimonio sopra i 10 milioni», intensificare la pressione sulla Banca centrale russa e «chiedere alla Banca dei regolamenti internazionali, con sede in Svizzera, di partecipare alle sanzioni». Ricatto nucleare Ai parlamentari che criticano l'Europa, Draghi risponde ribaltando il concetto: «Oggi c'è più Europa. La risposta alle minacce russe e al ricatto estremo del ricorso alle armi nucleari è stata pronta, ferma, rapida, forte e unita. Putin ci vedeva impotenti e divisi e si è sbagliato, siamo stati e saremo pronti a reagire». A chi si smarca dalla risoluzione unitaria in nome della pace il premier risponde severo: «Tollerare una guerra d'aggressione metterebbe a rischio la nostra sicurezza. Non è vero che ci siamo rassegnati a perseguire la pace». Lui continuerà a cercarla «senza pausa», ma ammette che oggi è difficile: «Chi ha più di 60 chilometri di blindati davanti alle porte di Kiev non vuole la pace in questo momento». Al dialogo non c'è alternativa, però la diplomazia «è fatta anche di forza». Agli italiani preoccupati Draghi assicura che il governo lavora «per contrastare le possibili ricadute». Il Viminale ha emanato direttive per proteggere gli obiettivi sensibili ed è stato attivato un Nucleo per la cybersicurezza. E il gas? Il premier stima che anche una completa interruzione del flusso a seguito di ritorsioni «non dovrebbe comportare seri problemi». Abbiamo scorte per 2,5 miliardi di metri cubi, ma nel prossimo futuro «la situazione rischia di essere più complicata» ed è urgente diversificare le fonti di energia: «Non possiamo essere così dipendenti dalle decisioni di un solo Paese». La risoluzione Parlando al «cuore del popolo italiano», pronto a cucire il suo destino con quello di altri Paesi, Draghi cita l'Alcide De Gasperi del «costruire un mondo più giusto e più umano», poi ringrazia i 3.400 militari inviati ai confini dell'Europa, i ministri Guerini, Di Maio, Cingolani, Lamorgese e il sottosegretario Gabrielli, l'intero governo e il Parlamento. Le divisioni fanno poco rumore, anche Fratelli d'Italia vota la risoluzione. Per Meloni «è il tempo di una risposta compatta». Per Salvini è «il tempo della diplomazia», ma anche la Lega affida a Draghi un «mandato totale». Finisce con 244 sì, 13 no e 3 astenuti al Senato e con 520 sì alla Camera, dove si è votato per parti separate. Tra i 25 contrari c'è Fratoianni di Sinistra italiana: «Inviare armi errore drammatico». Il M5S è scosso dal voto contrario di Petrocelli, che presiede la commissione Esteri del Senato e non vuole dimettersi. Da sottolineare anche il sì di Berlusconi alla risoluzione di dura condanna del Parlamento Ue nei confronti di Putin, al quale lo lega (o lo legava?) una ventennale amicizia».
Con il decreto ora approvato e lo stato d’emergenza fino al 31 dicembre, il governo dovrà solo tenere informato il Parlamento. Giacomo Salvini sul Fatto.
«Se fosse stato l'ennesimo decreto approvato d'urgenza scavalcando il Parlamento, forse nessuno se ne sarebbe accorto. Ma quando, nella notte tra lunedì e martedì, i capigruppo delle commissioni Esteri di Camera e Senato hanno ricevuto la risoluzione firmata dal dem Piero Fassino, in molti sono saltati sulla sedia. Non tanto per il merito del documento approvato ieri a larga maggioranza in Parlamento - l'invio di "strumenti e apparati militari", cioè armi, all'Ucraina - quanto per il metodo: dopo il voto di ieri, da qui al 31 dicembre il governo avrà mani libere su armi e truppe da mandare in guerra e non dovrà più rispondere al Parlamento. Ché dopo la risoluzione, l'unico altro voto con cui le Camere potranno influenzare l'azione dell'esecutivo sarà la conversione del decreto approvato lunedì in Consiglio dei ministri con cui viene dichiarato un nuovo stato d'emergenza e autorizzato l'invio di 3.400 soldati al confine con l'Ucraina e di armi per 50 milioni. Poi più niente. Tutto sarà demandato ai decreti interministeriali scritti dai ministeri della Difesa, Esteri ed Economia che potranno decidere quali e quante armi mandare in Ucraina. Una decisione, quella di approvare una cornice molto generica che dia potere assoluto al governo sulla guerra, che non è piaciuta all'asse Lega-M5S. Nella riunione di lunedì con il ministro per i rapporti col Parlamento Federico D'Incà, il primo a farsi sentire è stato Gianluca Ferrara, senatore del M5S , che ha manifestato tutti i suoi dubbi sull'invio di armi: "Siamo in guerra - si è sfogato Ferrara con i colleghi - e il Parlamento dovrebbe essere sempre coinvolto". Subito dopo gli ha dato manforte il leghista Stefano Candiani che prima ha chiesto di motivare l'invio di armi solo "per legittima difesa" e poi che il Parlamento "voti di volta in volta l'autorizzazione a mandare missili e mitragliatrici". Non solo. Perché è stata Loredana De Petris, capogruppo del Misto, a far notare un'altra sgrammaticatura istituzionale: "Il Parlamento è chiamato ad approvare una risoluzione dopo che il governo ha già deciso tutto con un decreto, così non va". Ma non c'è stato niente da fare. Fassino si è impuntato: "Serve velocità, siamo in una crisi". D'Incà invece ha provato a rassicurare i presenti spiegando che "il Parlamento convertirà il decreto" e che i decreti interministeriali "passeranno dalle commissioni competenti". Per poi concedere un inciso ai partiti riottosi: nella risoluzione si legge che le armi vengano mandate "tenendo costantemente informato il Parlamento". Un contentino o poco più perché il parere delle commissioni parlamentari sui decreti interministeriali non è vincolante e il governo potrà avere mano libera fino alla fine dello stato d'emergenza. Così, alla fine, i partiti hanno dovuto incassare, pur storcendo la bocca. "Avremmo preferito che l'azione del governo fosse conseguente degli indirizzi del Parlamento" ha detto Candiani. La Lega pensa di presentare un emendamento al decreto per obbligare il governo a passare dalle Camere. Mentre De Petris ci va giù pesante: "Così il Parlamento viene mortificato - attacca - quella di oggi (ieri, ndr) è un'autorizzazione molto anomala". Anche Giorgia Meloni, nel suo intervento a Montecitorio, ha posto il problema del Parlamento scavalcato: "La crisi non diventi il pretesto per calpestare la democrazia. È grottesca una nazione nella quale ci sono contemporaneamente due stati di emergenza". Enrico Letta, lo yankee di Draghi, invece parla di "polemica inutile"».
Alessandro Sallusti su Libero (titolo: Non si può dire ma siamo in guerra) sostiene che quello di Mario Draghi è stato un discorso storico.
«Il discorso pronunciato ieri al Senato con il quale Mario Draghi ha chiesto al Parlamento di approvare le misure di aiuto all'Ucraina e di sanzioni alla Russia è di quelli che restano nella storia di un Paese. Draghi ha rivendicato il dovere di schierare l'Italia nel blocco Occidentale senza se e senza ma, costi quel che costi. E costerà - il premier lo ha fatto capire forse più di quanto oggi ognuno di noi possa immaginare. Siamo a un bivio non della cronaca ma della storia e l'Italia non può avere incertezze né fare calcoli di utilità per evitare danni collaterali. Quello che Mario Draghi non ha detto, né avrebbe potuto dire, è che da oggi l'Italia è di fatto entrata in una situazione di guerra, insieme agli altri paesi della coalizione Occidentale, contro la Russia. Perché in sintesi ciò che ieri il nostro parlamento ha approvato è offrire supporto economico, umanitario e soprattutto militare all'Ucraina. Tanto che il ministro degli Esteri russo non ha tardato a farci sapere che "i cittadini e le strutture europee coinvolte nella fornitura di armi e lubrificanti alle forze armate ucraine saranno ritenute responsabili di qualsiasi conseguenza di tali azioni nel contesto dell'operazione militare speciale in corso e non possono non capire il grado di pericolo delle conseguenze». È vero che la parola "guerra" è bandita dalla nostra Costituzione, ma non lo è dal vocabolario umano. Non l'abbiamo cercata né voluta, abbiamo fatto il possibile per evitarla ma ora c'è e non resta che prenderne atto sapendo che, comunque vada a finire, nulla nei rapporti internazionali, e quindi nella geopolitica e nell'economia del mondo, sarà più come prima. A parte una dozzina di grillini e qualche loro collega di sinistra in libera uscita, i parlamentari hanno capito e approvato l'appello di Draghi, compresi quelli - tra i più convinti - di Fratelli d'Italia, unico partito di opposizione. Tra tante incertezze almeno da oggi ne abbiamo due in meno: la prima è che l'Italia non fugge di fronte a scomodi doveri, la seconda è che con il senno di poi tenere Mario Draghi a Palazzo Chigi invece che spedirlo al Quirinale si è rivelata, all'insaputa del parlamento che l'ha fatta, una scelta provvidenziale».
Mattia Feltri sulla prima pagina della Stampa prende in giro Danilo Toninelli, che sui social fa un po’ di confusione sulla politica estera.
«Arriva Luca e gli scrive: «Non credi che gli Usa non faranno nulla avendo fatto la stessa cosa loro in Iraq?». Va bene, non è la prosa di Montale, nemmeno la logica di Kissinger, però la domanda è chiara: gli Stati Uniti hanno invaso l'Iraq e quindi nulla faranno alla Russia che invade l'Ucraina. L'esperto, ovvero Danilo Toninelli, risponde: «È completamente diverso, credimi, perché lì erano stati loro ad andare in Iraq, qua invece è un altro Paese che ha invaso». Non so voi, ma io non ho capito la risposta, e di sicuro Toninelli non ha capito la domanda. Potete trovare l'integrale su Facebook, dove il nostro Toninelli tiene una rubrica chiamata Controinformazione. Ed effettivamente di controinformazione si tratta, poiché Toninelli riesce a collocare Gorbaciov a capo dell'Impero Russo, caduto con la Rivoluzione d'Ottobre nel 1917, e Gorbaciov non era nemmeno nato. Non male anche quando gli scrive Boomer Mau e lui lo chiama «Bomer», alla bresciana. Ma il capolavoro di controinformazione - non ci potevo credere, gridavo «Crozza togliti la parrucca!» - è stato quando, per spiegare le origini della guerra, Toninelli ha premesso che l'Ucraina è nell'Unione europea. Io lo ignoravo, accidenti. Ma lo ignorava anche Putin sennò col cavolo che invadeva l'Ucraina, cioè l'Europa. E lo ignora Zelensky, il presidente ucraino che da una settimana chiede di essere ammesso nell'Unione, di cui però fa già parte. Lo ignora tutto il mondo, ma non Toninelli. E dal preambolo trae l'arguta analisi, sicché una gli dà del fesso, e lui sale alle vette del sublime e la inchioda: «Studia!». Ridete, ridete. Ma questo ha fatto il ministro».
A CHE COSA SERVE L’ONU?
Per Domenico Quirico sulla Stampa è diventato un palazzo inutile. Eppure gli Stati lo avevano inventato per garantire un mondo dove prevalesse sempre il confronto e la pace. Al posto della guerra.
«Lo confesso: sono un ingenuo. Da una settimana, da quando la coscienza rantola sotto le rovine dell'Ucraina mi ostino a cercare notizie dell'Onu. Sì. Nella ennesima quaresima del dispotismo, e questa venata di allarmanti cantilene atomiche, mi sforzo di trovare notizie di Antonio Guterres, il segretario generale. Il segretario generale: riempie la bocca, segretario generale, dà l'idea di un onnipotente. Sono cresciuto e non sono certo il solo, nell'idea che ci sono delle istituzioni che per la loro natura, la vita che vi è raccolta e condensata, i ricordi e le speranze che ci si intrecciano alla loro fondazione, talvolta anche con il solo suono del nome o l'evocazione del palazzo che li ospita, diventano, nel bene e nel male, l'immagine obbiettiva di una situazione, di una vicenda, di una storia. E finiscono per identificarsi con quella come fossero la loro forma reale, la loro proiezione esterna, politica, umana. Ecco: il Palazzo di vetro, le Nazioni unite per gli ingenui di tutto il mondo come me sono ancora la pace, la possibilità almeno della pace, il luogo fisico dove la pace può diventare forza e diritto. Dove esiste, comunque, anche quando le trame di violenti e concussori tentano e talora riescono a umiliarla e a guadagnare posizioni. Ebbene nel corso dei decenni, mentre la Storia finiva e poi ricominciava e ricominciava ancora e forse l'Ucraina è quest' altro terribile inizio, le agenzie delle Nazioni unite sembrano aver soppiantato la casa madre impegnata in vaste capitolazioni. Perché funzionano abbastanza bene, li vedi nelle grandi crisi umanitarie, salvano e sfamano fuggiaschi, scavalcano a fatica una elefantiasi burocratica che spesso fa asciugare vanamente molte energie nella sabbia del superfluo. Lì ci sono ancora uomini di buona volontà che agiscono e non chiacchierano. Ma questo non basta. L'Onu non è nato forse per la pace, per impedire le guerre, per punire e frenare i prepotenti? Per questo non resiste da mezzo secolo nelle bufere della Storia? Lo so che fa cilecca da almeno mezzo secolo, che da artificiere degli incendi dei conflitti si è trasformato nello squallido teatro della solita solfa. Opera come datore di lavoro di caschi blu arruolati in paesi poverissimi alla ricerca di una paga, che assistono impotenti ai massacri dei prepotenti, senza mezzi, senza ordini, senza forza. Li ho osservati ieri nella riunione, ovviamente di urgenza, convocata per il precipitare della crisi ucraina. Gente che andava e veniva, scranni vuoti, i rappresentanti russo e ucraino che sventolavano fogli di carta con le prove della perversione diabolica dell'uno e dell'altro. Una tribuna periferica e neppure troppo importante per la propaganda. Il solito labirinto minotaurico delle buone intenzioni, una ritualità sgonfia di effetti ma stratificata e inestricabile come un palinsesto bizantino. Un accorto burocrate di scuola borbonica vi avrebbe riconosciuto, con cognizione di causa, la triste odissea della pratica «guerra in Ucraina». È lo stesso iter di quella della guerra siriana, del genocidio ruandese, della mattanza somala eccetera eccetera. Un cataclisma sulla scena internazionale è dapprima etichettato come "normale", fase in cui è sacrosanto non fare nulla. Poi diventa "urgente": non prestate attenzione ai toni isterici delle dichiarazioni, i navigatissimi argonauti del palazzo di vetro sanno che non val la pena di dar loro retta. Poi approda all'"urgentissimo'' come nel caso dell'attacco russo a Kiev. E allora tutto si placa, a poco a poco si spegne e diventa superfluo. Il ruolo di Guterres, portoghese ma che per il suo ruolo sembra appartenere più al Mistero che a una patria, si è esaurito in una spelacchiata dichiarazione di estrema preoccupazione, nell'invito ai belligeranti a mantenere la calma, a non far follie. Forse è timido, eppure è stato confermato per un secondo incarico. Si occupa molto di ecologia, argomento sicuramente meno infiammabile dei bombardamenti di Charkov. Setaccio giornali agenzie televisioni: solo Nato, ancora Nato, Unione europea, Stati uniti con l'appendice inglese, oltre che naturalmente russi e ucraini in prima linea. E le Nazioni unite? Attendiamo con modesta impazienza la solita riunione "urgentissima" che forse passerà al voto di una inutile mozione di condanna della aggressione russa. Poco più della lega araba e l'Organizzazione dell'unità africana o l'associazione tra i paesi del basso Pacifico, che forse qualche ragione geografica per non immischiarsi ce l'hanno. Ma non era a New York il parlamento dell'uomo, inventato proprio per offrire un luogo fisico e politico dedito alla mediazione, alla diplomazia dell'ultimo minuto e dell'impossibile, anche con piccoli metodici passi? Dove certo ci si scambiava i fragorosi "niet" e si faceva propaganda ma dove al momento cruciale anche le superpotenze potevano confrontasi prima di compiere gesti di cui non si aveva il tempo per pentirsi. Durante la Guerra fredda questo è stato il loro ruolo. Pensavo che questa volta non sarebbe successo come per il Ruanda o la Cambogia, la religione nichilista del nostro tempo non avrebbe accomunato i rappresentanti di tutti i paesi del mondo in un ripiegamento su se stessi, in una inerzia di parole in attesa che la catastrofe passi, ammesso che ci risparmi. Che fa sempre il gioco dei disegni dei nichilisti. Questa volta non era una guerra di fanatici o un regolamento di conti etnici, uno dei protagonisti dispone delle bombe atomiche e siede in quel sinedrio dei potenti per definizione, a cui spettano i poteri e le maggiori responsabilità di causare catastrofi. C'è una urgenza ancor più disperata di inventare, di operare. Di offrire una sponda ai tanti che sperano ancora nella diplomazia senza arrendersi al sopruso ma senza allinearsi rassegnati alla forza. Invece i giorni scorrono via, i morti e le distruzioni aumentano, gli attori della tragedia si moltiplicano e le Nazioni unite semplicemente non esistono. L'unico tremolante negoziato è iniziativa dei due contendenti e il terreno neutro è fornito da un satrapo per di più direttamente implicato nello scontro. Le Nazioni unite sono comunque una autorità morale, non potevano prendere l'iniziativa di mettere di fronte i contendenti? Perché teniamo in piedi la recita del Palazzo di vetro? A che servono le migliaia di funzionari ambasciatori diplomatici che affollano il grattacielo di New York? ».
Henry Kissinger immaginava un’Ucraina neutrale, solo otto anni fa. Giampiero Gramaglia sul Fatto.
«L'Occidente ha forse trascurato, sia nel 2014 che nelle ultime settimane, le ragioni della rigidità della Russia sull'Ucraina. È quanto emerge da una rilettura, otto anni dopo, dell'analisi scritta all'epoca dell'annessione della Crimea da Henry Kissinger sul Washington Post e dall'esistenza d'un documento del 1991 scovato da uno storico statunitense e ora riproposto da Der Spiegel. Anche se ovviamente nulla avalla o giustifica l'invasione decisa da Putin la scorsa settimana, che costituisce una palese violazione del diritto internazionale. Del resto, Kissinger, nel 2014, dopo avere argomentato sui fondamenti storici della posizione di Putin, aveva concluso: "È incompatibile con le regole dell'ordine mondiale esistente che la Russia annetta la Crimea. Ma dovrebbe essere possibile mettere le relazioni della Crimea con l'Ucraina su una base meno ostica. La Russia riconoscerebbe la sovranità dell'Ucraina sulla Crimea. L'Ucraina dovrebbe rafforzare l'autonomia della Crimea nelle elezioni che si terranno alla presenza di osservatori internazionali". Nulla di tutto ciò è accaduto. E, anzi, otto anni dopo Putin non s' accontenta di riconoscere le autoproclamate repubbliche separatiste del Donbass, Donetsk e Lugansk, ma aggredisce tutta l'Ucraina, con l'obiettivo di un "cambio di regime" a Kiev. Kissinger, che ha 98 anni, oggi non commenta, ma non sarebbe certo condiscendente nei confronti del leader russo, ferme restando le considerazioni di allora. Nel 2014, nel pieno della crisi innescata dalla sommossa di piazza Maidan, che aveva rovesciato Viktor Yanucovich, presidente ucraino democraticamente eletto, filorusso, l'ex consigliere per la Sicurezza nazionale e segretario di Stato di Richard Nixon argomentava che l'Occidente doveva avere una più attenta valutazione delle esigenze di sicurezza manifestate da Mosca e soprattutto delle radici di quella "ossessione ucraina" espressa dal presidente Putin a tutti i suoi interlocutori Usa. Kissinger è uomo da real politik. Oggi è meno presente sulla scena politica, ma resta una figura autorevole, seppur discussa. Nel 2014, scriveva: "L'Occidente deve capire che, per la Russia, l'Ucraina non può mai essere solo un Paese straniero. La storia russa è iniziata in quella che è stata chiamata Kievan-Rus. L'Ucraina ha fatto parte della Russia per secoli e le loro storie si sono intrecciate prima di allora. L'Ucraina dovrebbe essere libera di creare qualsiasi governo compatibile con la volontà espressa del suo popolo. I saggi leader ucraini opterebbero per una politica di riconciliazione tra le varie parti del Paese. A livello internazionale, dovrebbero perseguire un atteggiamento paragonabile a quello della Finlandia". E osservava: "Trattare l'Ucraina come parte di un confronto Est-Ovest affonderebbe per decenni qualsiasi prospettiva di portare la Russia e l'Occidente - in particolare la Russia e l'Europa - dentro un sistema internazionale cooperativo". Anche Der Spiegel spezza una lancia a favore delle richieste di Putin, ferma restando la condanna dell'invasione. Una delle tesi di Mosca, sempre respinta dall'Occidente, è che l'Alleanza atlantica si sia impegnata, alla caduta dell'Urss, a non espandersi a Est e che l'impegno sia stato disatteso. Il settimanale tedesco scrive che una nota trovata nell'archivio nazionale britannico avallerebbe il punto di vista russo. In un incontro tra funzionari dei ministeri degli Esteri di Usa, Regno Unito, Francia e Germania - non ancora unificata - a Bonn il 6 marzo 1991, il rappresentante tedesco Jürgen Chroborg dichiarò: "Nelle trattative abbiamo chiarito che non estenderemo la Nato oltre l'Elba. Non possiamo quindi dare alla Polonia e agli altri l'ingresso nella Nato". E il rappresentante Usa Raymond Seitz aggiunse: "Abbiamo chiarito all'Unione Sovietica che non trarremo vantaggio dal ritiro delle truppe sovietiche dall'Europa dell'Est". Di lì a una dozzina d'anni, tutti i Paesi dell'ex Patto di Varsavia e i Paesi baltici sarebbero stati nella Nato».
I MERCATI SPERANO NELLA MEDIAZIONE CINESE
Le conseguenze economiche del conflitto. L’escalation militare piega le Borse: vola il prezzo del petrolio. Ma lo spread va a picco. Perché la BCE non toccherà i tassi e così i rendimenti del Bund tornano negativi e con essi il differenziale con i nostri titoli. Il punto per il Sole 24 Ore è di Maximilian Cellino:
«I mercati faticano a prendere le misure agli eventi che si succedono quotidianamente dal fronte della guerra fra Russia e Ucraina, anche perché l'incertezza sugli sviluppi del conflitto e quindi sulle loro conseguenze macroeconomiche regna ancora sovrana. Iniziano però a mettere a fuoco quale potrebbe essere la reazione delle Banche centrali, ormai prossime ad appuntamenti cruciali per le loro scelte di politica monetaria, a questo scenario non del tutto previsto, e i riflessi si vedono immediatamente sull'andamento dei titoli di Stato. Ieri, in un contesto in cui i rendimenti sovrani si sono andati riducendo un po' ovunque, a partire dagli Stati Uniti e dalla Germania dove il Bund a 10 anni è tornato negativo, il movimento più eclatante è risultato alla fine quello dei BTp. Il tasso dei decennali italiani non solo è sceso di quasi 40 centesimi in una sola seduta all'1,39%, ma lo ha fatto più rapidamente del corrispettivo tedesco e ha riportato lo spread a 148 punti base dove non lo si vedeva ormai da un mese. Appare quindi chiaro come gli investitori stiano ricalibrando le aspettative sull'esito del Consiglio Bce del prossimo 10 marzo e soprattutto la marcia che l'Eurotower ha intrapreso verso la normalizzazione della politica monetaria. Se fino a qualche giorno fa si scontava un rialzo di almeno 50 punti base nel 2022 nell'area euro, ora quelle attese si sono improvvisamente dimezzate. E il fatto che possa anche allontanarsi il momento in cui cesseranno da parte di Francoforte gli acquisti di titoli di Stato giustifica il riprezzamento dei BTp. Nelle ultime ore i banchieri centrali hanno del resto fatto di tutto per confermare il sospetto che già si insinuava nella mente di analisti e operatori. Alle parole di qualche giorno fa dell'austriaco Robert Holzmann e della tedesca Isabel Schnabel si sono infatti aggiunte nelle ultime ore quelle di Fabio Panetta e del finlandese Olli Rehn, che vanno tutte sostanzialmente nella stessa direzione: quello attuale non sembra proprio essere il momento più opportuno per avviare una restrizione monetaria, ed è quindi più saggio attendere che gli effetti della crisi attuale siano almeno più chiari. Il bollettino diramato ieri sull'inflazione nei vari Paesi europei, preso in sé, non sarebbe certo rassicurante agli occhi dai banchieri centrali. Il +5,5% registrato a febbraio in Germania, il +4,1% della Francia, il +7,5% spagnolo e naturalmente anche il +6,2% annunciato ieri dall'Istat per il nostro Paese sono tutte cifre che vanno ben oltre le aspettative e preludono oggi a un valore complessivo che per l'area euro potrebbe issarsi al 5,8% con un dato «core» al 2,5% e quindi superiore all'obiettivo Bce. Le ripercussioni del conflitto sulle materie prime (ieri il prezzo del Brent è salito di quasi il 10% a 106 dollari al barile) rendono inoltre più difficile l'opera dell'Eurotower. «Potrebbe far perdere il controllo delle aspettative di inflazione nell'Eurozona, con il problema aggiuntivo della disparità nei livelli dei prezzi che si registrano tra i Paesi centrali e i periferici», avverte Alberto Matellan, capoeconomista di Mapfre Am, che però ha anche parole rassicuranti: «Una maggiore inflazione - aggiunge - porterebbe a una Bce più aggressiva, ma non in questo caso perché il rialzo dei prezzi esclusivamente legato all'energia non può essere combattuto con tassi più alti, e questo è stato chiarito dal capo economista Phillip Lane pochi giorni fa». Considerazioni simili non sembrano avere invece effetto sui listini azionari, dove ieri si è assistito a una nuova debacle, almeno per quanto riguarda l'Europa. Piazza Affari ha ceduto il 4,14% affossata dai titoli del settore bancario e con pochi (fra cui ancora una volta Leonardo, Eni e Terna) a opporre resistenza, ma al resto d'Europa non è andata poi meglio con Parigi a -3,9%, Francoforte a -3,8% e Madrid a -3,4 per cento. Come nei giorni precedenti New York è riuscita a contenere le perdite, segno evidente che gli investitori provano comunque a fare selezione fra chi (come l'Europa) è potenzialmente colpita in prima battuta dall'escalation bellica e chi invece può al momento ancora ritenersi relativamente al riparo. Difficile dire quanto durevole e quanto profonda possa ancora essere la correzione, ma qualcuno fra gli analisti inizia a fare qualche conto. «Nel breve termine, escludendo i forti ribassi registrati nella grande crisi finanziaria e durante la crisi Covid e guardando ai rimanenti picchi passati registrati dall'equity risk premium, il premio per il rischio richiesto per investire in azioni, riteniamo che vi sia spazio per un ulteriore ribasso di circa il 5%-10%», ipotizza Michele Morganti, Senior Equity Strategist di Generali Investments. Da qui a 12 mesi si spinge a prevedere rendimenti positivi, inclusi i dividendi, intorno al 5%, ma il suo atteggiamento resta prudente: «I mercati rimangono fortemente dipendenti dagli eventi e a oggi - ammette - ci asterremmo dall'acquistare aggressivamente titoli».
L’ARTE VIVE SOTTO LE BOMBE
Parla l'artista ucraino Pavlo Makov che lavora a Kharkiv, sotto le bombe, dove è nascosto insieme alla sua famiglia. Prepara le sue opere per la Biennale di Venezia, dove rappresenterà l’Ucraina. Lo ha raggiunto Luca Fiore per il Domani.
«L'aria fuori è diventata irrespirabile. Fumo, polvere e odore di bruciato. Le bombe continuano a cadere». A parlare è Pavlo Makov, 63 anni, l'artista scelto per rappresentare l'Ucraina alla prossima Biennale di Venezia. Lo raggiungiamo telefonicamente allo Yermilov Center, spazio nei sotterranei dell'Università statale di Kharkiv, negli ultimi anni utilizzato per mostre di arte contemporanea. È lì che lui e altri artisti con le loro famiglie si stanno rifugiando dai bombardamenti delle truppe russe. Il collegamento internet non è buono, cade spesso, e il dialogo si sposta su Telegram. Ci promette che risponderà presto: «Non ora, però, perché sto dormendo molto poco». La notte tra giovedì e venerdì, quando ancora si trovava a casa sua, l'ha passata a fare la guardia per poter svegliare al suono delle sirene moglie, figlio, nuora e madre di 92 anni. «I miei sentimenti in queste ore? Molto diversi. Dipendono dalla situazione, dalle notizie che riceviamo. Ma quello che prevale è l'orgoglio di essere cittadino ucraino. Lo sono sempre stato, anche se sono nato a san Pietroburgo da famiglia russa. Ma adesso mi sento più che mai cittadino dell'Ucraina. In un'altra situazione, un'affermazione del genere mi sarebbe suonata patetica. Ma oggi non lo è affatto». Gli chiediamo qual è stata, finora, la circostanza più difficile. Risponde che non si tratta della prima sirena o la prima esplosione, ma il periodo di incertezza che ha preceduto l'attacco. «L'invasione russa è in corso già da otto anni. Ora, semplicemente, il conflitto ha cambiato scala. Per chi vive qui era già chiaro, voi in Europa avete fatto fatica a vederlo. Adesso è davanti agli occhi di tutti. Ma noi, a questo momento, siamo arrivati pronti. Io non sono in grado di sparare, non sono addestrato. C'è chi lo farà per me, meglio di me. Ma la gente qui è pronta a resistere, ognuno farà tutto quello che può». Ieri Makov e i tre curatori del padiglione dell'Ucraina, Lizaveta German, Borys Filonenko e Maria Lankro, dopo la notizia del forfait da parte degli artisti e del curatore del padiglione della Russia (che quindi non sarà presente alla Biennale, ndr) in cui si legge: «Condividiamo la presa di posizione della Biennale di Venezia secondo cui le mostre internazionali sono piattaforme per la collaborazione e il dialogo». Tuttavia, fanno notare, nonostante abbiano ricevuto solidarietà e offerte d'aiuto da moltissimi dei partecipanti alla Biennale, nessun messaggio è arrivato «dagli artisti e dai commissari del padiglione il cui esercito ci sta bombardando costringendoci dentro i rifugi o all'esilio». L'unica persona ad averli contattati è stato il curatore del padiglione, il lituano Raimundas Malaauskas. «Crediamo che il dialogo sia una comunicazione tra due parti, non qualcosa di imposto». La Biennale di Venezia Per Makov la partecipazione a Venezia non è soltanto un'occasione per far conoscere il proprio lavoro al mondo dell'arte: «Saremo come gli occhi del nostro paese dentro i quali tutti potranno guardare. Offriremo il nostro sguardo e, chi lo vorrà, potrà capire meglio non solo chi siamo noi, artista e curatori, ma anche cos' è l'Ucraina. Siamo un paese indipendente, uno Stato giovane. Sarebbe stata anche l'occasione per sfatare i miti stupidi che ci portiamo dietro dal periodo sovietico. Ma ora, dal giorno dell'attacco, questi miti sono stati già ampiamente spazzati via. Ma a quale prezzo?» L'artista di Kharkiv ha intenzione di esporre alla Biennale una rielaborazione di un suo vecchio progetto concepito all'inizio degli anni Novanta, intitolato Fontana dell'esaurimento. Si tratta di una piramide di 78 imbuti di bronzo con due cannelli ciascuno. Dell'acqua viene versata nell'imbuto posto al vertice e, colando in quelli sottostanti, si divide di volta in volta fino raggiungere la base piramidale in forma di gocce. L'opera si ispira alle infrastrutture fatiscenti tipiche delle città post sovietiche, all'indomani del crollo dell'Urss. L'importanza dell'acqua All'epoca l'approvvigionamento idrico era precario e a Kharkiv, dove l'artista vive da ormai quasi quarant' anni, nessuna delle fontane pubbliche funzionava. Una volta, racconta, un'incidente all'impianto di depurazione locale provocò un allagamento e un'interruzione di quattro settimane della distribuzione dell'acqua. Un lavoro concepito tre decenni fa, ma che tocca temi di grande attualità, spiegano i curatori: «L'opera vuole denunciare non solo l'esaurimento delle risorse naturali, ma anche il burnout post pandemico, la spossatezza causata nelle persone dai social media e lo sfinimento delle popolazioni provocato dalle guerre». La fontana di Makov è la metafora di come la linfa vitale dell'uomo o della natura venga sprecata a causa di strutture, scelte o logiche disumane. Quella prevista per Venezia, tuttavia, è un'opera che si distanzia dal modo consueto di esprimersi di Makov, che si è formato innanzitutto come incisore. Normalmente l'artista crea lavori a stampa usando due o più matrici di piccola dimensione, realizzate con la tecnica dell'acqua forte, il cui disegno viene impresso, in momenti successivi, su parti diverse dello stesso foglio. Il risultato sono composizioni a volte molto complesse. Mentre nella stampa tradizionale la matrice di un'immagine viene usata per la stampa di diverse copie dello stesso lavoro, qui il processo porta alla realizzazione di pezzi unici su cui l'artista, poi, interviene con matite, inchiostri e altri materiali. In un angolo del suo studio, al terzo piano dello stabile sovietico ancora oggi di proprietà dell'Unione degli artisti ucraini (senza la quale, durante il regime, non si poteva esercitare l'attività creativa) c'è la scrivania dove l'artista lavora alle matrici con il bulino, aiutandosi con una lente di ingrandimento. Accanto, a occupare gran parte dello spazio, c'è il grande torchio con cui realizza i lavori. Le matrici raffigurano alberi, piante o edifici, con cui le quali Makov compone paesaggi o mappe di città reali o immaginarie. Donetsk e la rosa Negli ultimi anni l'artista Kharkiv è tornato più volte sul tema della guerra. È il caso del libro d'artista Donrosa. Diario di un giardino di rose ucraino, omaggio alla città di Donetsk, nel Donbass. Il volume si ispira ai disegni e appunti di un appassionato di rose di Kharkiv che, tra il 2008 e il 2010, ha ricreato nella città russofona un giardino progettato nel XIX secolo e che, si dice, fosse stato pensato da paesaggisti inglesi sul modello di un girone dantesco. "Donrosa", crasi tra le parole "Donetsk" e "rosa" si apre proprio con i versi del Canto III dell'inferno: «Qui si convien lasciare ogne sospetto, /ogne viltà convien che qui sia morta. / Noi siam venuti al loco ov' i t' ho detto / che tu vedrai le genti dolorose / c'hanno perduto il ben de l'intelletto». Il giardino è visto come un labirinto a pianta centrale, composto da centinaia di roseti stampati uno a uno sullo stesso foglio. L'opera è stata poi suddivisa in sezioni e impaginata in un piccolo volume tirato in mille copie. Si tratta di un luogo immaginario dove bellezza, dolore e follia convivono. Immagine di una città in guerra. In un'opera profetica, intitolata Dorotea. Assedio di Kharkiv e realizzata tra il 2015 e il 2016, Pavlo Makov riproduce con una certa esattezza la pianta della città. Diverse tipologie di edifici si ripetono creando la trama delle strade. In basso a sinistra, si riconosce, evidenziata con il colore rosso di una matita, la piazza principale, dove si scorgono le sagome di convogli militari. Dai camini di molte case sale il fumo. Sembra una documento antico, consunto dal tempo. Invece è un'opera che parla di un futuro prossimo, che si è trasformato in un presente tragico. La prima volta che chi scrive ha visitato Makov nel suo studio è stata nell'estate del 2016. Sulla scrivania c'era una copia dell'edizione italiana de Le città invisibili di Italo Calvino. A un certo punto l'artista ha aperto il volume e ha letto con il suo accento russo l'ultima pagina: «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Ha alzato lo sguardo e ha aggiunto: «Ecco, è questo ciò che sto cercando di fare. E che in molti, in Ucraina, cercano di fare oggi».
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