La Versione di Banfi

Share this post

Putin sceglie Dugin

alessandrobanfi.substack.com

Putin sceglie Dugin

I funerali di Darya Dugina, uccisa nel misterioso attentato di domenica, segnano la svolta di Mosca: la Russia si vota alla guerra. I politici a Rimini: prevale Meloni. Oggi tocca a Draghi.

Alessandro Banfi
Aug 24, 2022
2
Share this post

Putin sceglie Dugin

alessandrobanfi.substack.com

Sei mesi dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, tutti i leader occidentali, con l’importante partecipazione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, hanno chiesto la restituzione della Crimea all’Ucraina. Ma la corsa contro il tempo della guerra sembra sempre di più favorire Mosca. Vladimir Putin non ha fretta, porta avanti un conflitto a bassa intensità e aspetta l’inverno. L’Europa invece è in crisi: le sanzioni economiche sono un boomerang terribile perché hanno contribuito a scatenare il rialzo continuo del prezzo del gas e una galoppante inflazione. È l’Occidente europeo ad essere in affanno. Di pace e trattative non si parla più, come nota oggi Avvenire. E il misterioso attentato di domenica a Mosca accresce l’ansia. Sembra infatti rappresentare un punto di svolta nella strategia del Cremlino. Simbolicamente oggi Putin non solo accetta gli esponenti della nuova destra, che ai tempi del nazional bolscevismo era tenuta in una zona folcloristica iper controllata e minoritaria, ma sembra condividerne contenuti e strumenti di azione di quel mondo. Sposando l’ideologia sovranista, fino in fondo. Così vanno lette le parole ai funerali di Darya Drugina. Dunque l’idea americana (oggi rilanciata da un’intervista del Corriere al generale Petraeus, ex capo della Cia) che alla lunga il regime di Mosca crollerà appare perlomeno azzardata.

L’attualità italiana ci porta al Meeting di Rimini dove ieri hanno parlato quasi tutti i leader. La “passerella” dei politici alla kermesse ha visto prevalere, nell’applausometro, soprattutto Giorgia Meloni e in parte anche Matteo Salvini. Oggi sui giornali è pubblicato un sondaggio della Tecné che quota il centro destra al 50 per cento dei suffragi. Il popolo del meeting somiglia molto a quello italiano. Semmai preoccupa l’insistenza di questi leader su temi economici dove l’Italia deve muoversi all’interno di un certo quadro finanziario internazionale. Torno a ripetere: gli elettori che hanno sempre votato centro destra dovrebbero rfilettere che questa volta, la prima dal 1994, il programma economico della coalizione non propone una copertura economica. Questo è il populismo. Fra l’altro colpisce che una persona intelligente come Alessandro Sallusti già oggi metta in guardia, dalle colonne di Libero, dall’entusiasmo che sta prendendo gli elettori per il futuro cambio del governo. Sallusti ricorda, fra l’altro, che un personaggio come Giulio Tremonti è divisivo, dentro la coalizione.

Molto interessante poi è l’intervento di Renato Brunetta sul Foglio. Brunetta ha deciso di rimanere fuori dalla mischia. Non si presenterà alle elezioni. Oggi scrive una pagina intera in cui analizza il dibattito elettorale sul Pnrr, la sua possibile modifica, i rapporti con l’Europa. E lancia una proposta: un Patto repubblicano condiviso da tutte le forze politiche. Per non mettere a rischio il futuro della nostra crescita: “Se il prossimo governo, di qualunque colore esso sia, saprà raccogliere, senza disperderla, l'eredità di quello uscente, allora avrà l'appoggio dei mercati e delle cancellerie europee, che questa continuità si aspettano. La continuità del Pnrr non pregiudica l'aggiornamento del Piano, anzi, è il presupposto per il suo credibile aggiornamento, perché è chiaro a tutti che il successo dell'Europa nei confronti della Next Generation è in larga parte il successo dell'Italia nella realizzazione del suo (aggiornato) Piano nazionale”. Vedremo se oggi Mario Draghi a Rimini toccherà questo tema.

Concludo la Versione di oggi in un’auto-citazione. Perché Matteo Matzuzzi ha scritto per Il Foglio un bell’articolo di resoconto dell’incontro che ho avuto l’onore di moderare lunedì sera proprio al Meeting. Coordinando gli interventi di due grandi scrittori: Eric-Emmanuel Schmitt e Daniele Mencarelli.

Oggi La Versione di Banfi, come tutti i mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente tutte le mattine può abbonarsi anche subito cliccando qui:  

LA FOTO DEL GIORNO

La “foto” che vedete è stata scattata con una telecamera a raggi infrarossi montata su telescopio. Ogni lunghezza d'onda è poi stata associata a tre filtri di colore: rosso, giallo verde e ciano, per rendere l'immagine visibile all'occhio umano. È il pianeta Giove, come non l’avevamo mai visto.

Foto: NASA, ESA, CSA, Jupiter ERS Team

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Solo Avvenire tematizza i 6 mesi di guerra e rilancia: Sogno di pace. Il Corriere della Sera registra i temi della campagna elettorale: Tasse, gas: la sfida al via. La Repubblica sostiene: La destra si divide su Putin. Per La Verità è: Assalto alla Meloni. Mentre Libero insinua che dopo la scontata vittoria del centro destra, il Quirinale voglia condizionare il futuro governo: Attenzione a Mattarella. Il Domani si concentra sulla lobby delle autostrade: Il “partito Telepass” degli amici di Benetton ha già vinto le elezioni. Il Fatto attacca il Meeting di Rimini dove i politici criticano il Reddito di cittadinanza e diventano: I mercanti nel tempio che rapinano i poveri. Il Giornale dà la notizia, con soddisfazione, della cancellazione del confronto Letta-Meloni: Stop al duello tv. Il Quotidiano Nazionale torna sulla polemica dello stupro: Meloni e il video choc: non mi scuso. Il Manifesto ricorda il terremoto di Amatrice di sei anni fa che fece 299 vittime: Cratere nero. Il Mattino sottolinea i contrasti fra Pd e FdI sull’economia: Scintille tra Letta e Meloni su lavoro e salario minimo. Così come Il Messaggero: Meloni-Letta, scontro sul lavoro. Ma su questi temi la vera preoccupazione viene dai prezzi folli dell’energia.  La Stampa annuncia: Gas razionato, ecco il piano. Il Sole 24 Ore fa i conti della crisi: Caro energia, primo impatto sulle imprese. In sette mesi + 45 % per la Cig straordinaria.

LA PACE RICOMINCIA DALLA CRIMEA?

Tutti i leader occidentali appoggiano Volodymyr Zelensky nella sua richiesta di una Crimea che torni ad essere paerte dell’Ucraina. Persino il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Brunella Giovara per Repubblica.

«La Crimea deve tornare ucraina, senza se e senza ma, ieri lo hanno detto tutti i leader dell'Occidente, preoccupati per una guerra di cui non si vede la fine. Nel giorno in cui si festeggiava la bandiera nazionale, che «sventolerà di nuovo dove si trova la sua casa, e dove dovrebbe essere di diritto: in tutte le città e paesi temporaneamente occupati», ha detto Zelensky alla cerimonia che si è svolta a Kiev. E cioè il Donbass, la zona di Kherson, la centrale nucleare di Zaporizhzhia ora base militare russa, la Crimea, «dove è iniziata la guerra, e dove finirà», nel 2014. Anche Mosca ha a suo modo festeggiato la ricorrenza, bombardando alcune città, e ieri era anche il giorno dei funerali della figlia di Dugin, uccisa nell'attentato di venerdì scorso. Oggi sarà anche peggio, nella festa dell'Indipendenza dall'Unione Sovietica, e ai 6 mesi dall'invasione. Molte città avranno un coprifuoco rafforzato, molti treni sono stati soppressi. I dipendenti pubblici dovranno lavorare da casa, e in generale si consiglia a tutti di rispettare gli allarmi aerei, di stare nei rifugi, di non sottovalutare la minaccia dei missili che sicuramente arriveranno. L'ambasciata Usa a Kiev ha chiesto a tutti i cittadini americani di lasciare l'Ucraina perché il Dipartimento di Stato sa che «la Russia sta intensificando gli sforzi per lanciare attacchi contro infrastrutture civili e strutture governative». Il presidente polacco Duda ha sfidato la sorte arrivando a Kiev, dove ha incontrato Zelensky. Più o meno nelle stesse ore la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen rendeva omaggio agli ucraini che «danno le loro vite per proteggere i valori europei». Perché il 23 agosto è anche la Giornata del ricordo delle vittime di tutti i regimi totalitari (è la ricorrenza del Patto Molotov-Ribbentrop, 1939), e perché «quest' anno Putin ha riportato in Europa gli orrori della guerra». E alla Conferenza per la Crimea, ha detto chiaramente che «l'Europa non riconoscerà mai l'annessione illegale da parte della Russia. Non solo è stata usata come base militare, ma anche come test per altre brutali annessioni di parte del territorio ucraino». Mai come ora e mai così forte è stato «il desiderio di vedere l'Ucraina membro Ue», compresa la penisola russificata nel 2014, e dalla quale, solo dal febbraio di quest' anno, sono stati sparati 750 missili, ha ricordato Zelensky.
Alla Conferenza ha partecipato il presidente del Consiglio Mario Draghi: «La lotta per la Crimea fa parte della lotta di liberazione dell'Ucraina». E così altri leader collegati da remoto, tra cui Boris Johnson e Emmanuel Macron. Insomma la questione è centrale, il segretario di Stato americano Blinken ha ripetuto che quella è terra ucraina, «è stata la nostra posizione nel 2014 e lo resta anche ora». E il presidente turco Erdogan, il "mediatore" tra Putin e Zelensky (anche se al momento senza grande successo) ha ricordato che «la restituzione della Crimea all'Ucraina, di cui è una parte inseparabile, è essenzialmente un requisito del diritto internazionale», oltre che una parte importante di eventuali futuri tavoli di trattativa per la pace. Ora, tutti questi leader sono stati definiti ieri «terroristi o loro complici», senza eccezioni, da Sergej Aksenov, capo della Repubblica di Crimea, uomo di Putin e suo fedele servitore».

SI TEMONO GLI ATTACCHI RUSSI

Dal punto di vista militare, il timore è che le ricorrenze di oggi (sei mesi dall’invasione e la festa ucraina dell’indipendenza dall’Urss) siano l’occasione ideale dei russi per colpire l’Ucraina e magari Kiev.

«Prosegue l'offensiva russa lungo il fronte orientale del conflitto, nell'Oblast di Donetsk. In particolare, le truppe di Mosca hanno aumentato la pressione sulla linea difensiva ucraina nei pressi delle città di Soledar e Kodema, situate rispettivamente a nord-est e sud-est di Bakhmut. L'obiettivo dei russi sembrerebbe quello di avanzare da entrambe le direzioni per poi convergere proprio sulla città Bakhmut, situata 50 chilometri a est di Kramatorsk. Nelle ultime ore, nuovi bombardamenti russi hanno colpito anche la città di Dnipro, capoluogo dell'Oblast di Dnipropetrovsk, in Ucraina orientale.
Proseguono le incursioni dei droni ucraini nella penisola di Crimea controllata dai russi. Fonti della Difesa della Federazione Russa, in particolare, hanno affermato che la contraerea sarebbe entrata in azione abbattendo un aeromobile a pilotaggio remoto nei cieli della città portuale di Sebastopoli, sede del quartier generale della flotta russa nel Mar Nero. Il recente intensificarsi delle operazioni ucraine contro infrastrutture militari russe nella penisola, oltre a mettere in luce le vulnerabilità delle forze di Mosca, ha avuto l'effetto di portare la questione del futuro controllo della Crimea sul tavolo dei negoziati internazionali. Per questa ragione, sembra probabile che, compatibilmente ai mezzi a disposizione, gli ucraini proseguano e intensifichino gli attacchi contro obiettivi militari russi in Crimea, nelle prossime settimane. Intanto, l'Intelligence statunitense ha segnalato l'imminente rischio di attacchi russi contro infrastrutture civili e governative nella capitale Kiev dove, il 24 agosto, sarebbero previsti i festeggiamenti per l'anniversario dell'indipendenza del Paese. L'aviazione russa, secondo Washington, potrebbe agire per rappresaglia contro i recenti attacchi che hanno distrutto obiettivi militari in Crimea e a Belgorod, e all'attentato che ha causato la morte di Darya Dugina, imputato dai russi a un'agente speciale di Kiev fuggita in Estonia».

LE GABBIE DI MARIUPOL PER I MILIZIANI DI AZOV

Gabbie nel teatro di Mariupol: si allestisce un processo dallo stile staliniano ai combattenti del battaglione Azov. Vanno verso la pena di morte. Anna Zafesova per La Stampa.

«Tenere un uomo la cui colpa non è ancora stata dimostrata in gabbia di fronte al giudice è assolutamente inammissibile». Mentre nella sala della filarmonica di Mariupol operai inviati da Pietroburgo stanno saldando le gabbie che dovranno ospitare gli imputati del maxi processo ai militari ucraini, un esponente importante del potere di Mosca, il senatore Andrey Klishas, chiede al parlamento di abolire la pratica delle gabbie nelle aule dei tribunali. Il senatore è un membro importante dell'establishment putiniano, autore di alcune delle più repressive iniziative legislative del Cremlino, molto vicino secondo alcuni esperti alle fazioni più dure del regime putiniano. La sua svolta "garantista", anche se non lo dice chiaramente, è molto probabilmente il segnale di uno scontro in atto nelle ultime settimane a Mosca, non più tra falchi e colombe (il Cremlino ultimamente non è un habitat favorevole ai messaggeri di pace), ma tra i fautori della linea dura e i pragmatici. E una delle linee di scontro, soprattutto dopo l'attentato che ha ucciso la figlia dell'ideologo degli oltranzisti Aleksandr Dughin, passa sulla necessità o meno di processare i prigionieri di guerra ucraini. Una linea rossa che Volodymyr Zelensky ha tracciato senza mezzi termini: «Se la Russia terrà il processo potrà scordarsi qualunque negoziato». Una minaccia che il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ieri ha respinto, invocando un «processo pubblico che tutti aspettano». Il "premier" dei separatisti di Donetsk Denis Pushilin ha annunciato che «tutti i criminali di guerra, soprattutto i neonazisti di Azov, devono venire puniti», e che il tribunale si aprirà a settembre con i primi 80 imputati. Nelle "repubbliche popolari" di Donetsk e Luhansk non vige il diritto russo, e quindi i prigionieri ucraini rischiano la pena di morte. Donetsk ha già condannato alla fucilazione tre volontari stranieri che combattevano per l'Ucraina, e il giornalista russo in esilio Aleksandr Nevzorov non dubita che le sentenze ai membri di Azov saranno capitali: «Ma prima di ucciderli si godranno la loro umiliazione». Almeno duemila militari del battaglione Azov si sono arresi a Mariupol dopo aver difeso per più di due mesi la città martoriata dai russi. La resa era stata negoziata tra Kyiv e Mosca con le garanzie dell'Onu e della Croce Rossa, ma 50 prigionieri sono morti un mese fa nel carcere di Olenivka, vicino a Donetsk, in quello che i russi sostengono essere stato un bombardamento ucraino e che Kyiv denuncia essere stata una strage per occultare le torture e le uccisioni dei detenuti. I militari di Azov liberati in seguito agli scambi di prigionieri raccontano di essere stati spogliati e umiliati dai carcerieri: «Ci infilavano aghi nelle ferite aperte, ci facevano la tortura dell'acqua», ha raccontato in una conferenza stampa a Kyiv Vladislav Zhaivoronok, che è finito nelle mani dei russi dopo aver perso una gamba e dice che gli avevano negato gli antibiotici per costringerlo a testimoniare contro i suoi comandanti e «confessare uccisioni di civili». I falchi di Mosca vogliono un "processo di Norimberga" che dovrebbe confermare la narrazione russa di una "guerra contro il nazismo", e legittimare l'invasione, almeno agli occhi dell'opinione pubblica interna. Quella internazionale difficilmente potrà credere a un processo-spettacolo con "confessioni" di imputati torturati, sul modello dei grandi tribunali contro i "nemici del popolo" voluti da Stalin negli anni Trenta, e l'Alto commissariato dell'Onu per i diritti umani ha dichiarato ieri che un processo ai prigionieri tutelati dalla convenzione di Ginevra sarebbe «un crimine di guerra commesso dalla Russia». Secondo Mosca però il battaglione Azov è una "organizzazione terrorista", e non a caso i servizi segreti Fsb hanno accusato dell'omicidio di Darya Dugina una agente ucraina che ne farebbe parte. Un crimine «barbaro, i cui autori non meritano alcuna pietà», ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri Sergey Lavrov. Allo schieramento di quelli che bramano il sangue si è aggiunto anche il capo del Comitato per la cooperazione estera Evgeny Primakov, che ha dichiarato in pubblico di sognare l'ex deputato russo Ilya Ponomaryov, fuggito a Kyiv, che «striscia sulle gambe rotte sputando i denti». Un ideale estetico e politico che perfino gli estimatori del Gulag staliniano finora hanno esitato a elogiare in pubblico. Ieri, mentre molti propagandisti televisivi invocavano bombardamenti del centro di Kyiv per vendicare Daria Dugina, il presidente del comitato Esteri della Duma Leonid Slutsky ha lanciato ai suoi funerali un nuovo slogan: «Un Paese, un presidente, una vittoria». Un parallelo imbarazzante con il culto di Hitler, e la frase è stata censurata dalle tv. Nessuno dei rappresentanti altolocati del governo si è presentato al funerale, animato soprattutto da esponenti dell'estrema destra nazionalista, in un altro segnale di una lotta interna al Cremlino: qualcuno nella cerchia di Putin spera ancora di fermare il montaggio delle gabbie a Mariupol».

DOPO 6 MESI A RISCHIO È LA NOSTRA DEMOCRAZIA

La ricorrenza dei sei mesi dall’invasione russa stimola riflessioni e commenti. Maurizio Belpietro scrive su La Verità.

«Il pericolo di una guerra a oltranza, che potrebbe protrarsi per anni nel cuore dell'Europa, dunque si fa sempre più palpabile e i governi occidentali non paiono avere idee su come interromperla. Quando i Parlamenti europei decisero di sostenere la resistenza ucraina, la scelta di campo fu spiegata con la ragione di sostenere la democrazia di un Paese invaso. Motivazione nobile, però sei mesi dopo la democrazia di Kiev non è stata salvata, mentre sembrano un po' barcollanti quelle occidentali. La mia vi sembra una considerazione priva di fondamento? Provate a pensare che cosa accadrà in Europa se il prezzo del gas continuerà a salire. Già ora si segnalano situazioni allarmanti. In Gran Bretagna le bollette sono alle stelle e mentre si registra un'inflazione che sfiora il 20 per cento, il numero degli utenti morosi perché non in grado di far fronte al salasso di riscaldamento e luce aumenta. In Germania si discute da prima dell'estate di come affrontare la situazione, mentre da noi il governo ha preferito rinviare qualsiasi decisione, ma nelle prossime settimane la questione potrebbe diventare esplosiva. Ecco, voi pensate che Paesi da tempo non più abituati a fare sacrifici siano pronti a fronteggiare una tale emergenza? Credete davvero che la crescita dell'inflazione, accompagnata dalla crisi economica e dal rischio di distacchi di luce e gas, non avrà effetti sulla situazione politica e sociale dell'area economicamente più progredita del mondo? Io temo che le conseguenze saranno pesanti, e da difensori della democrazia ucraina rischiamo di vedere attaccata la democrazia in casa nostra. Del resto, questo è ciò che vuole Putin, il quale non ha dichiarato guerra solo a Kiev, ma al mondo occidentale, giudicato da lui e dalla sua banda decadente e degenerato. Vi sembro eccessivamente pessimista? Non credo di esserlo: semplicemente guardo i fatti. Siamo entrati in guerra convinti che non ci saremmo sporcati le mani perché a farlo sarebbero stati gli ucraini. In realtà, Putin ci ha messo nel mirino usando le materie prime e il rubinetto del gas, mandando in crisi il nostro sistema. L'astuzia di aggirare l'articolo della Costituzione che impedisce all'Italia di partecipare a una guerra è servita a poco, perché, a differenza di ciò che hanno sempre detto i sostenitori dell'aiuto a mano armata di Kiev, noi siamo già in guerra e gli effetti li stiamo già toccando con mano. Non so che cosa vorrà fare il governo che uscirà dalle prossime elezioni, ma credo che dopo il voto un bilancio dei primi sette mesi di guerra non sarà solo utile, ma indispensabile per decidere il da farsi».

PARLA PETRAEUS: ANCORA UN MESE E CAPIREMO

L'intervista di Viviana Mazza per il Corriere della Sera all’ex capo della Cia, il generale David Petraeus. «L'iniziativa è passata all'Ucraina: il prossimo mese capiremo la sua forza».

«Lo scorso marzo il generale ed ex capo della Cia David Petraeus disse al Corriere che la guerra in Ucraina era in una fase altamente imprevedibile. Ognuno dei due campi avrebbe potuto prevedere: uno stallo sanguinoso che poteva durare mesi.

Ora, dopo sei mesi dall'inizio del conflitto, come valuta la possibilità di una vittoria dell'Ucraina?
«Dopo la nostra conversazione la Russia completò il ritiro delle sue forze da Kiev, Sumy e Chernihiv nel nord, essendo stata sconfitta in quelle battaglie; allora ha concentrato le truppe a est, intorno a Kharkiv, e ha puntato a espandere il controllo sulle regioni di Lugansk e Donetsk nel sud est e a completare la conquista di Mariupol. L'Ucraina ha tenuto a distanza le forze russe intorno a Kharkiv e le ha respinte, cosicché la loro artiglieria non potesse più colpire la città, ma ha dovuto arrendersi nella roccaforte di Mariupol, il complesso di Azovstal, dopo una difesa eroica costata cara a Mosca. Le forze ucraine, con riluttanza, si sono dovute ritirare anche dalle ultime aree dell'Oblast di Lugansk, dopo averle difese con determinazione per due mesi, di fronte al grande impiego di artiglieria, razzi, missili e soldati di Mosca. Da allora - circa due mesi fa - i russi hanno conquistato assai poco terreno nel Donetsk e sono stati respinti dai sobborghi di Mykolaiv e messi sulla difensiva nella regione di Kherson, sul lato occidente del fiume Dnipro, nel sud».

I russi dunque adesso sono sulla difensiva? Che cosa ha cambiato i rapporti di forza?
«Per la prima volta dall'inizio della guerra, gli ucraini ora sembrano aver preso l'iniziativa dal punto di vista strategico, usando i sistemi lanciarazzi multipli americani e altre armi fornite da alleati occidentali, con effetti devastanti: prendono di mira in modo preciso i depositi di munizioni e di carburante russi, i loro quartier generali, le aree per la riorganizzazione delle unità intorno e a est di Kherson. E, più di recente, hanno usato una varietà di sistemi per attaccare le basi aeree russe in Crimea e persino il quartier gener della Flotta del Mar Nero».

Qual è l'obiettivo?
«Sembra essere costringere i russi a spostare le basi logistiche, i comandi e le basi aeree molto più lontano, sul retro delle linee del fronte - o addirittura in Russia, nel caso delle piste per l'aviazione.
Questo renderà molto più difficile supportare le loro forze sulla linea del fronte. Così le azioni ucraine hanno avuto considerevole successo nel "preparare le condizioni" per la controffensiva per liberare la città di Kherson, come pure tutte le zone dell'Ucraina controllate dai russi a ovest del Dnipro - ed è assai probabile che continueranno anche a est di esso. I russi sembrano temere l'offensiva, infatti hanno ritirato il quartier gener da Kherson. Insomma, il prossimo mese sarà molto interessante. Sembra che, con il supporto degli "Arsenali della Democrazia" (i Paesi occidentali) l'Ucraina stia vincendo la "force generation battle" (la battaglia per la produzione di forze, ndr ): è stata cioè più efficiente nel reclutare, addestrare, equipaggiare, organizzare e utilizzare forze e capacità militari aggiuntive rispetto a quelle della Russia, che non ha tuttora dichiarato una mobilitazione gener. Le prossime battaglie rifletteranno probabilmente questa realtà».

 La morte della figlia di Aleksandr Dugin potrebbe spingere Putin a ripensare le sue azioni oppure rischia di espandere la guerra clandestina?

«È molto difficile determinare i reali dettagli della sua morte: ci sono ricostruzioni conflittuali. Finché i fatti non sono noti, è difficile fare speculazioni».

Gli ucraini hanno abbastanza armi e munizioni per l'offensiva su Kherson? C'è cautela da parte degli Usa nel fornire certi tipi di armi per evitare l'escalation del conflitto in Europa?

«Gli Stati Uniti, la Nato e molti altri Paesi occidentali hanno rifornito l'Ucraina in modo imponente con sistemi di armamenti, munizioni (incluse quelle per l'artiglieria, molto accurate e costose, e razzi), veicoli e altro. Gli Stati Uniti hanno appena annunciato un altro grosso contributo militare, che ora ammonta a oltre 10,5 miliardi di dollari dall'inizio del 2022, inclusi, di recente, 15 sistemi aerei senza pilota di particolare valore. L'America ha fornito questi mezzi generalmente alla stessa velocità con cui gli ucraini sono stati addestrati ad usarli. E vedremo altri contributi nelle prossime settimane».

La guerra in Ucraina dimostra che l'America possa essere ancora leader, nonostante il ritiro dall'Afghanistan, come lei stesso ha notato, abbia portato a dubitare della sua affidabilità?

«Sì, lo credo davvero (anche se ritengo tuttora che ci fossero alternative al ritiro dall'Afghanistan). La risposta americana all'invasione non provocata dell'Ucraina è stata imponente. Gli attacchi per giustiziare l'emiro di Al Qaeda e l'emiro dello Stato islamico, in Afghanistan e in Siria rispettivamente, hanno inoltre mostrato le nostre capacità di intelligence e militari, e la nostra prontezza a usarle».

I FUNERALI DI DUGINA

Ieri a Mosca funerali solenne per la figlia del filosofo Aleksandr Dugin, rimasta uccisa nell’attentato di domenica. Rosalba Castelletti per Repubblica.

«Ha serrato le mani in un pugno, se le è portate al petto, mentre parlava e a stento tratteneva le lacrime. «Dasha è morta per la Russia, la madrepatria, al fronte che non è in Ucraina, ma qui», ha detto Aleksandr Dugin avvolto in un completo nero, l'iconica barba lunga, occhi scuri e voce tremante, alle centinaia di persone accorse ieri alla Torre televisiva di Ostankino, a Mosca, per il funerale della figlia. «Ha vissuto per la vittoria ed è morta per la vittoria. La nostra vittoria russa, la nostra verità, la nostra fede ortodossa, il nostro impero », ha concluso l'ideologo sovranista sessantenne volgendo lo sguardo verso la moglie e madre di Daria Dugina, Natalia Melentieva. Politici e amici hanno poi sfilato davanti alla bara di legno scuro sormontata da una grande fotografia in bianco e nero di una Dugina sorridente, mentre nella sala risuonava una musica lugubre. È stata la consacrazione a "martire" di Daria Dugina, giornalista e politologa ultranazionalista uccisa domenica a 29 anni da un'autobomba alla periferia di Mosca. «Un crimine spregevole e crudele », lo ha definito Putin conferendo a "Dasha" l'Ordine postumo del Coraggio. «Un crimine barbaro per il quale non può esserci perdono», gli ha fatto eco il ministro degli Esteri Serghej Lavrov chiedendo di «non avere pietà per gli organizzatori, gli sponsor e gli autori» dell'attentato che, secondo l'Fsb, sarebbe opera di una donna ucraina, Natalia Vovk, fuggita in Estonia. Una versione smentita da Kiev, ma cavalcata dai falchi russi alla vigilia dell'anniversario dei sei mesi dall'inizio di quella che la Russia chiama "operazione militare speciale" in Ucraina. Mentre Ned Price, il portavoce della diplomazia statunitense, si è astenuto da ogni speculazione. «Dato che l'omicidio di una giornalista non viene commentato neppure sotto questo punto di vista, che è comunque così importante per le autorità americane, Washington non ha il diritto morale di giudicare i diritti umani nel mondo», ha reagito su Telegram la sua omologa russa Maria Zakharova. Tanti i tributi durante l'elegia funebre. Da quello di Konstantin Malofeev, finanziatore dei media di Dugin: «Grazie alla fine prematura di Dasha, saremo sicuramente vittoriosi in questa guerra». Sino all'intervento dei leader parlamentari di tre partiti, tra cui Leonid Slutskij, a capo dell'ultranazionalista Ldpr, nonché presidente della Commissione Esteri della Duma, che ha lanciato un appello all'unità: «Un Paese, un presidente, una vittoria». Un'eco di un motto nazista, hanno notato ironicamente molti sui social».

LA RUSSIA È VOTATA ALLA GUERRA

L’attentato alla Dugina e i funerali celebrano una svolta nella linea strategica di Vladimir Putin: la sovranità prevale sulla democrazia, e con essa l’idea di un Paese votato alla guerra. Luigi De Biase per il Manifesto.

«Una democrazia sovrana che nei piani del suo estensore originale, l'ex ministro Vladislav Surkov, oggi a quanto sembra lontano dalle scene, doveva somigliare a una grande recita rigidamente diretta dal Cremlino. Quella recita prevedeva un ruolo alla Duma per il partito di governo Russia unita; per i comunisti di Gennady Zyuganov, che pure a Putin avevano conteso il potere alla fine degli anni Novanta; per un certo numero di formazioni liberali ispirate ai più moderni movimenti europei; e persino per le tesi radicali di Vladimir Zhirinovsky e del suo partito populista Ldpr. Insomma, una finzione collettiva aperta a chiunque accettasse senza condizioni la supremazia di Putin e il controllo di Surkov, con una sola eccezione: la corrente nazional bolscevica dello scrittore Edvuard Limonov, della rockstar Igor Letov e del filosofo Aleksander Dugin, sempre e comunque ai margini del dibattito pubblico. Sembra oggi che la guerra in Ucraina abbia modificato il sistema con cui Putin gestisce il potere. Che il concetto di sovranità abbia preso definitivamente il sopravvento su quello di democrazia. E che il Cremlino adesso accetti di buon grado e in modo esplicito non solo gli esponenti della nuova destra, ma anche gli strumenti che questi intendono adoperare. L'omicidio di Daria Dugina rappresenta in questo quadro un segnale preoccupante. È una cupa svolta nelle vicende del paese. Gli inquirenti hanno chiuso il caso in due giorni, ma in Russia storie simili risolte troppo in fretta hanno mostrato negli anni passati la mancanza di professionalità degli apparati di sicurezza, anziché la loro efficienza. Nulla nella versione fornita dalle autorità pare convincente. Né l'identità della presunta assassina, una Natalia Vovk, quarantatré anni, passaporto ucraino e addestramento nel Battaglione Azov; né la possibilità che abbia usato la figlia dodicenne per piazzare un ordigno esplosivo sull'auto di Dugina; né tanto meno la fuga in Estonia ripresa chilometro dopo chilometro da decine di telecamere nel momento in cui la sicurezza nel paese si trova da mesi al massimo livello. La versione è debole. I sospetti sugli apparati russi crescono. E dipendono certamente anche dal fatto che Dugina fosse la figlia di Alexander Dugin, e che abbia passato gran parte della propria esistenza a sostenere le ragioni dell'assalto all'Ucraina. Era, in un certo senso, la vittima perfetta di una guerra che è entrata in Russia, e che Putin in qualche modo deve risolvere. Colpisce in particolare quel che la morte di Dugina ha suscitato in Russia. Non è stata una reazione emotiva. Si è trattato nella migliore delle ipotesi di una risposta politica. Nel suo messaggio di cordoglio Putin ha definito l'omicidio «vile e crudele» e ha parlato di Dugina come di un «vero cuore russo», che ha «mostrato con i fatti che cosa significa essere patrioti». Dopodiché le ha assegnato postuma una onorificenza dell'Ordine del Coraggio, che il Cremlino riconosce agli eroi della patria. «La vendetta non ci basta, ora vogliamo la vittoria», aveva detto lunedì Alexander Dugin. Ieri, alla camera ardente, ha usato parole ancora più esplicite. «Daria è vissuta nel nome della vittoria ed è morta per la vittoria. È morta per il popolo russo. Per la nostra nazione, per l'ortodossia, per l'impero». Più che un'orazione funebre, la sua è sembrata una dichiarazione di intenti. Centinaia di persone hanno assistito alla cerimonia. Fra loro molti esponenti politici di questa nuova Russia, sempre più votata alla guerra, e disposta, adesso, anche a celebrare una morte violenta in nome di piani e di programmi aggressivi.
Sulle ragioni di quella morte gli interrogativi sono enormi. Il paese, prima o poi, sarà costretto ad affrontarli».

LA PACE RESTA L’OBIETTIVO

Non si parla più di pace. Ma c’è chi non molla la presa. Daniela Fassini per Avvenire.

«Non si parla più di pace. Dopo l'ondata di protesta e dissenso che ha seguito l'invasione russa in Ucraina, oggi tutto sembra tacere. La politica ha preso il sopravvento. Eppure c'è chi, ancora una volta, insieme ad organizzazioni religiose e laiche, non molla la presa. «Oggi più che mai c'è bisogno di pace - spiega Angelo Moretti, patron ed ideatore del movimento pacifista Mean -. Il progetto appare sfumato, eppure la guerra in Ucraina è più atroce adesso rispetto a quando tutto cominciò. Le crudeltà rischiano di aumentare, perché se si lascia andare avanti il conflitto e non si fa nulla per togliere veleno, il male crescerà». L'odio tra i due popoli, infatti, sta diventando qualcosa di viscerale. «Sta succedendo quello che noi non volevamo» ammette Moretti, che ha appena concluso via Teams una sessione di lavoro per difendere il patrimonio culturale delle terre più colpite dalla guerra. Al centro dell'incontro online c'era la difesa dei beni museali. Italiani, ucraini ed europei davanti alla telecamera via web per mettere a punto un piano di azione comune. Uno dei tanti gruppi nati in risposta a quel progetto specifico di costruzione della pace e di azione non violenta che ha seguito la manifestazione a Kiev dello scorso 12 luglio. Data simbolo per l'Europa. «Dal 24 febbraio 2022, la vita dei musei, come dell'intero Paese, è cambiata radicalmente. Le truppe russe stanno cercando di distruggere non solo l'esercito ucraino, ma anche la nazione ucraina e la sua cultura, materiale e spirituale. Ecco perché i musei, così come i monumenti storici e religiosi, diventano i loro obiettivi consapevoli. Per questo dobbiamo difenderli» spiega l'esponente del movimento pacifista italiano. Moretti punta poi a ritornare in Ucraina con una presenza di massa. «Dobbiamo andare in milioni, italiani ed europei » ribadisce, non senza ricorrere a una sana utopia. Intanto, concretamente, a settembre comincerà anche la formazione online con tutti gli attivisti di pace per dare avvio a quel sogno che è il corpo civile di pace. Nello stesso mese ci saranno nuovi incontri per organizzare i prossimi presìdi in Ucraina, presumibilmente a Leopoli con i sindaci dei piccoli Comuni accoglienti. È stata infatti un'estate all'insegna dell'accoglienza e della solidarietà per tante famiglie dei piccoli borghi italiani, che hanno aperto le porte di casa a chi fuggiva dalle bombe dell'Est Europa. Dopo i primi gruppi arrivati a luglio, venerdì prossimo arriveranno in Italia altre 14 famiglie ucraine (in tutto una cinquantina di persone) per partecipare al 'Summer Camp' del progetto di pace del Mean. «Abbiamo proposto una vacanza all'insegna della pace e dello scambio culturale - spiega -. È stato un modo per costruire quel dialogo importante con la società civile, espressione di quella 'non violenza attiva' che è alla base del movimento di pace». Il resto lo fa lo scenario geopolitico, che resta ad alto rischio d'instabilità. «Se il tema di fondo è che purtroppo di pace non parla nessuno e che la pacificazione la sta facendo Erdogan, non possiamo non essere preoccupati». La Turchia, ricorda Moretti, è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per le privazioni perpetuate nei confronti degli oppositori del governo. «Il mondo sta di fatto dando ad Ankara la leadership sulla pace e questo è un fatto grave» sottolinea il responsabile del movimento pacifista. «Questa idea di poter fare alleanze con altri poteri autocrati per aiutare l'Ucraina è molto preoccupante. Purtroppo dopo la caduta di Draghi non abbiamo più visto quel tavolo di lavoro che sembrava cominciato con Macron e con Putin». E anche l'opinione pubblica sembra ormai poco interessata. I cittadini italiani in questo momento paiono essere molto più preoccupati del caro-bolletta e delle sanzioni russe. Intanto gli ucraini continuano ad essere sotto assedio. Ma la pace oggi non può essere solo chiedere a russi ed ucraini di fare pace, ne è convinto l'attivista che rilancia una nuova presenza per i prossimo autunno con tutta la rete del suo attivismo pacifista. «Dobbiamo essere presenti in Ucraina, non vediamo altre strategie. Sentiamo forte l'assenza dell'Europa. Il popolo ucraino è lasciato solo con le armi».

RIALZO DEL GAS, 90MILA AZIENDE A RISCHIO CHIUSURA

Le conseguenze economiche dell’invasione russa dell’Ucraina: il prezzo del gas ieri è un po’ calato ma sta provocando una crisi terribile nel sistema delle aziende italiane.

«Un rialzo a 291 euro al megawattora all'apertura del mercato, per poi chiudere con un ultimo prezzo in calo del 6% a 260 euro rispetto a ieri, per un prezzo medio finale di 269 euro. Il prezzo del gas sul mercato europeo di riferimento, ad Amsterdam, ha avuto una tregua: si tratta del primo ribasso dopo quasi due settimane di rialzi consecutivi e questo grazie alla prese di beneficio, non a un miglioramento delle prospettive, visto che all'orizzonte incombe l'interruzione del gasdotto Nord Stream 1 dal 31 agosto al 2 settembre «per manutenzione». Le quotazioni del metano ormai stabili su livelli dieci volte quelli di un anno fa (27,6 euro il prezzo del 24 agosto 2021) dal mercato virtuale si ripercuotono sulla vita reale di imprese e famiglie, perché a questo prezzo fanno riferimento i fornitori che poi vendono concretamente il gas. E il mondo industriale ed economico italiano, dopo le parole del presidente di Confindustria Carlo Bonomi l'altro ieri, è tornato a lanciare il suo allarme. «In autunno si rischia il collasso», ha dichiarato ieri Patrizia De Luise, presidente di Confesercenti, che rappresenta 350 mila imprese di commercio, turismo artigianato e piccola industria. «Il caro bollette - spiega De Luise - sta diventando una variabile incontrollabile per tantissime imprese. E questo nonostante gli interventi di sostegno fin qui adottati dal governo, che scadranno fra settembre e ottobre». Per le imprese, stima Confesercenti, è impossibile gestire aumenti di costi così rilevanti, a cui si aggiungono anche quelli delle materie prime alimentari, traslando sui prezzi di vendita gli interi importi. Il rischio è che il 10% delle imprese esca dal mercato, ovvero circa 90 mila attività per un totale di 250 mila posti di lavoro. Le proposte rivolte al governo non mancano. Confesercenti - così come la Fipe-Confcommercio - chiede di estendere anche alle piccole imprese il credito d'imposta per l'energia elettrica, di raddoppiare (da 15% a 30% e da 25% a 50% per il gas) e prorogare gli interventi almeno fino al 31 dicembre 2022. E auspica un «Superbonus al 110%» per gli investimenti di chi può rendersi autonomo attraverso la produzione di energia pulita. La federazione italiana pubblici esercizi invoca un «intervento immediato, altrimenti «presto i consumatori si troveranno a fare i conti anche con l'impennata dei listini in bar e ristoranti». Tra le richieste dell'organizzazione presieduta da Lino Stoppani, la possibilità di rateizzare le bollette «monstre», perché il «credito d'imposta è successivo al pagamento e anche se più "generoso" non potrà mai compensare interamente l'extra costo». Secondo un'analisi dell'Ufficio Studi Fipe, a luglio i prezzi dei servizi della ristorazione sono saliti in media nei Paesi Ue del 7,8%, con incrementi del 9,2% in Austria, dell'8% in Olanda e del 7,7% in Germania. La ristorazione italiana deve fare i conti con bollette triplicate».

AL MEETING PIACE IL POPULISMO DI MELONI E SALVINI

Nella pagina politica in primo piano il confronto dei leader dei partiti sul palco del Meeting di Cl. Applausi per Giorgia Meloni, presidente di FdI che illustra il programma, soprattutto economico. Dal fisco al welfare, dai giovani al reddito di cittadinanza: proposte facili da comunicare e difficili da realizzare. Conchita Sannino per Repubblica.

«Aggiudicarsi la partita sugli altri, almeno quella del gradimento in Fiera che comunque resta un indicatore del Paese, è fin troppo agile. Giorgia Meloni e Matteo Salvini si comportano già da vincitori in mezzo al popolo di Cl, punzecchiano Enrico Letta e Luigi Di Maio senza aggredirli, si applaudono a vicenda quando l'altro ha smesso di parlare, ma soprattutto portano a Rimini parole "chiave" e ricette immediate, pensate su misura per una platea del "fare", non importa quanto realizzabili e a quale prezzo. E quindi. «Abolire il reddito di cittadinanza » (la leader di Fdi), «estendere la flat tax a lavoratori dipendenti e famiglie» (il capo della Lega), «prevedere un sistema serissimo di borse di studio, per i nostri ragazzi che nel Covid sono stati calpestati e hanno perso tutto, dal diritto alle relazioni al diritto allo sport» (lei), «detassare tutti i premi e gli straordinari (lui). Ah, e poi c'è il liceo che mancava: quello sul "made in Italy". È un pensiero per le giovani generazioni, lo propone ancora lei, la presidente-patriota che ieri è al suo primo bagno di folla al Meeting (l'anno scorso era videocollegata) e viene accolta quasi da un'ovazione. «Mi piacerebbe che il nuovo governo istituisse questo nuovo corso di studi superiori. È una proposta di Fratelli d'Italia - annuncia dal palco - chi lavora nella moda mi dice che non riesce a trovare addetti, eppure è un settore fortissimo, una delle eccellenze che amano e ci invidiano nel mondo». È il giorno più atteso di questa 43esima edizione, insieme al clou che arriva oggi con il discorso di Mario Draghi: l'enorme padiglione registra la coda di spettatori già un'ora prima. Nell'auditorium gremito della Fiera entrano tutti insieme i sette leader - oltre a i vertici di Lega, Fdi, Pd e Ic, ecco anche Antonio Tajani di Fi, Ettore Rosato di Iv e il centrista Maurizio Lupi, interno di Cl e presidente del Gruppo Interparlamentare per la Sussidiarietà che qui è di casa. In fila indiana, tutti cinti e protetti dai ragazzi del servizio d'ordine, come fossero rocker che si apprestano a suonare, e invece eviteranno comprensibilmente di suonarsele. Prima scintilla tra Meloni e Letta. Quando lui promette «se anche non dovessimo vincere, non permetteremo che il Paese scada nel presidenzialismo, difenderemo la Carta, vogliamo un Parlamento anche più centrale di oggi», lei, ironizzando, «ma è a un passo da noi, a Parigi, il semipresidenzialismo, e Letta mi pare molto amico della Francia, strano che non gli piaccia». Lei sempre alle prese con fogli e appunti ma più padrona della scena, Salvini in maniche di camicia, i più formali Letta e Di Maio con la cravatta. Ma è sulle proposte su lavoro, tasse e scuola che scatta la sintonia con la platea. Meloni: «Quando Giovanni Paolo II venne qui al Meeting, disse che le risorse sono dell'uomo quando le raggiunge con il lavoro. Ecco, il reddito ha un paradosso: diamo sino a 700 euro a un giovane valido quando un disabile prende 270 euro di pensione». Applausi scroscianti, sebbene non ci sia proporzione tra le due categorie. «Il lavoro ha sempre una dignità», si accalora poi la presidente, e a quel punto sfodera la carta della ragazza che ha fatto la cameriera. «E Dio solo sa se mi ha insegnato più quel lavoro giovanile rispetto a molti altri anni in Parlamento», ovazione. Letta recupera con l'dea del partito come comunità, parola che al Meeting è cara, dicendo: «Badate sono l'unico che sul simbolo non ha messo il proprio nome », con Salvini che si sporge in avanti e con la mimica gli fa "Embe'?". poi promette agli insegnanti: «Avranno uno stipendio dello standard europeo». Ma cade, sotto qualche buu e una civile contestazione, quando chiede «scuola dell'obbligo all'infanzia e anche fino ai 18 anni». Quel pubblico chiede più lavoro, e sbocchi sul mercato. Prima, non dopo. Ecco perché Salvini ha successo quando va giù netto con il suo cavallo di battaglia. «Alzare il tetto della flat tax da 65mila a 100mila euro per il lavoro autonomo - ripete il leader della Lega - e nell'arco dei 5 anni estenderlo a lavoratori dipendenti e famiglie, ovviamente con un tetto partendo dai redditi più bassi". In italia è necessario 'detassare gli straordinari e i premi a dipendenti e collaboratori ». È in linea Maurizio Lupi quando, infervorato sugli interessi di chi produce e ha bisogno di sostegno, sbotta addirittura contro il codice: «In questo Paese non si può più pronunciare la parola interesse. E' un reato chiedere di essere tutelati, esiste un reato che si chiama traffico di influenza e non si capisce perché». Anche Tajani rincara: «Piccole e medie imprese sono la grande ossatura, L'Italia si libera se diamo più lavoro, più soldi in busta paga e meno tasse». Il pubblico approva, Da queste parti, il cuore già batte più a destra».

A RIMINI OGGI PARLA DRAGHI

Due anni fa il suo discorso a Rimini fu importantissimo. Oggi il premier Mario Draghi tornerà al Meeting. Quali sono le indiscrezioni della vigilia? Che cosa dirà? Draghi non vuole farsi coinvolgere in campagna elettorale e traccerà un metodo per il futuro. Fabio Savelli per il Corriere.

«Quello di due anni fa, col senno del poi, fu un manifesto programmatico. Tra riforme non più procrastinabili, una visione del Paese improntata al rispetto della persona e dell'ambiente e la distinzione tra «debito buono» e «debito cattivo» che divenne il primo segnale di una nascente «agenda Draghi». L'intervento di oggi al Meeting di Rimini, dopo aver guidato il Paese per 19 mesi, non può inevitabilmente avere quel carattere prospettico. D'altronde Mario Draghi ha governato ed è pure stato costretto al passo indietro poco più di un mese fa per il venir meno di un'ampia maggioranza parlamentare. Ma il discorso anche stavolta, assicurano i suoi, sarà di ampio respiro. Con una chiara curvatura generazionale, perché i destinatari saranno i giovani. Conterrà un bilancio del suo mandato e traccerà alcune linee di metodo per il futuro. Quel che più sta a cuore al premier, ora alla guida di un esecutivo per gli «affari correnti», è la necessità di non dilapidare quanto si è fatto finora. La credibilità internazionale che il Paese ha saputo costruirsi uscendo dall'emergenza pandemica dimostrando una grande capacità di resilienza. Gli italiani, ha rivendicato nell'ultima conferenza stampa, hanno saputo reagire mostrando coesione e spirito di sacrificio aderendo in massa alla campagna vaccinale. Oggi rinforzerà questo concetto tenendosi alla larga dalla disputa elettorale. La stessa locuzione di «agenda Draghi», ha ripetuto, non è che lo convinca, perché finisce per personalizzare la visione riformista che il Paese dovrebbe avere a prescindere da chi raccoglierà il suo testimone a Palazzo Chigi. Quel che serve,lo ripeterà anche oggi, è rispondere in maniera tempestiva alle sfide sociali ed economiche che abbiamo di fronte. Sfide che potranno essere superate da chiunque sarà investito dal mandato popolare. Certo, chi avrà l'onere di indirizzare l'azione politica si scontrerà con un'inflazione ai massimi da trent' anni trainata dai prezzi dell'energia andati ormai fuori giri. Senza smontare il Pnrr che vincola il Paese a riforme da troppo tempo rimandate, in primis quella fiscale con una legge delega che rischia di finire su un binario morto. La dialettica con Bruxelles sarà decisiva. Le spinte a rinegoziare il Recovery plan, che alcuni partiti suggeriscono imponendo condizioni diverse a un'Europa del Nord che ha faticato a digerire la prima collettivizzazione europea del debito, non lo convincono. Alcuni Paesi del Nord, ha detto il 4 agosto ai giornalisti, hanno dovuto accettare di tassare i propri cittadini per dare soldi (anche a fondo perduto) all'Italia per consentirle di uscire in fretta dalla crisi sanitaria. Non si può immaginare di tirare troppo la corda. Invece bisognerà proseguire nella transizione ecologica e digitale, aprirsi maggiormente alla concorrenza, investire sulla formazione e su una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Draghi parlerà di necessario «ammodernamento del Paese». Per realizzarlo sono stati già costruiti i primi bandi e le relative gare del Pnrr, si è già attinto alle prime tranche dei fondi. Cambiare percorso può essere deleterio. Soprattutto davanti ai prezzi che corrono senza freno, con una pressione fortissima sulle classi meno agiate».

ATTENZIONE A MATTARELLA. E NON SOLO

Alessandro Sallusti per Libero cerca di spengere gli entusiasmi dei supporter del centro destra: non sarà una passeggiata prendere in mano il Paese. Perché Sergio Mattarella metterà delle condizioni. E anche fra gli alleati del centro destra non tutto andrà liscio: ad esempio Giulio Tremonti, oggi con Fratelli d’Italia, è ancora considerato un traditore da Silvio Berlusconi…  

«Leggo di scenari di nuovo governo in caso di vittoria del Centrodestra a trazione meloniana: Nordio alla Giustizia, Tremonti all'Economia, tizio di qua, caio di là. Tutto facile, all'apparenza, come completare un album di figurine Panini, quelle dei calciatori. Ma non è così, noi in teoria siamo una Repubblica parlamentare ma di fatto ci troviamo in un regime presidenziale (di sinistra) nel quale non si muove foglia che il Quirinale non voglia. Hai voglia a dire che il presidente è un arbitro super partes, un semplice notaio. Balle, il presidente dà le carte, certamente le più pesanti - come ha ricordato ieri il sito sempre ben informato Dagospia- tipo Giustizia, Esteri ed Economia e chiunque cerchi di forzargli la mano non fa una bella fine. In questo senso Giorgia Meloni, se toccherà a lei fare la sintesi del nuovo governo, non parte certo avvantaggiata essendo l'unica leader politica che a febbraio scorso ha votato contro la rielezione di Sergio Mattarella. Vabbè, tra uomini (e donne) di mondo ci si può intendere. Ma scordiamoci che il presidente, che è anche capo del Csm (l'organo di autogoverno dei magistrati), accetti un ministro della Giustizia che non abbia il gradimento di quel sistema perverso che è la magistratura, così come essendo il Quirinale il referente principale dell'Europa, un ministro dell'Economia non gradito nei palazzi di Bruxelles. I precedenti in questo senso non mancano: Renzi rischiò di non iniziare neppure la sua esperienza di primo ministro perché si era intestardito nel volere un magistrato non allineato, Nicola Gratteri, alla Giustizia. Alla fine si arrese a Napolitano così come Di Maio e Salvini si arresero a Mattarella che non voleva saperne di mettere un anti europeista come Paolo Savona ministro dell'Economia dello sgangherato governo giallo-verde. E poi ci sono, ci saranno, i veti interni alla coalizione. Uno per tutti Giulio Tremonti, considerato da Berlusconi un traditore che tramò con Napolitano nel 2011 per fare cadere il suo ultimo governo. Tra veti e ambizioni formare il nuovo governo non sarà una passeggiata e Giorgia Meloni, sempre - lo ripeto - che tocchi a lei, avrà un bel da fare a tenere a bada l'assalto alle poltrone dei suoi non pochi colonnelli smaniosi di un posto al sole. Insomma, il 25 settembre nelle urne si deciderà tanto ma non tutto del futuro governo. Anzi, il difficile a occhio verrà dopo».

BRUNETTA: SERVE UN NUOVO PATTO

Renato Brunetta ha deciso di rimanere fuori dalla mischia. Non si presenterà alle elezioni. Oggi scrive una pagina intera del Foglio molto ben ragionata. In essa analizza tutto il dibattito elettorale sul Pnrr, la sua possibile modifica, i rapporti con l’Europa. E lancia una proposta: un Patto repubblicano condiviso da tutte le forze politiche. Ecco i passaggi più significativi. L’integrale è nei pdf.

«Quando la situazione si fa calda bisogna mantenere la testa fredda. Sarebbe sbagliato mescolare il tema della necessità di provvedimenti emergenziali contro il caro energia con quello della revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), cosa diversa dall'aggiornamento dei suoi contenuti (questo sì, indispensabile, come vedremo). Finora il governo Draghi è riuscito nell'intento di contrastare l'inflazione: da inizio anno ha stanziato più di 50 miliardi di euro per calmierare bollette e prezzi dell'energia e per tutelare il potere d'acquisto delle famiglie e la competitività delle imprese. Tutto senza razionamenti, senza nuovo deficit, mantenendo alta la crescita e rispettando gli obiettivi del Pnrr. Questo impegno "duale" dovrà continuare su entrambi i fronti: da un lato le misure per affrontare le emergenze, dall'altro la realizzazione puntuale delle riforme e degli investimenti previsti dal Pnrr. Senza rinunciare alla proposta del price cap in sede europea, e usando integralmente i margini consentiti sulle deroghe ai divieti sugli aiuti di stato già in vigore. Alla luce di questa doverosa premessa, è comprensibile che i cambiamenti economici e geopolitici intervenuti dall'aprile 2021 a oggi abbiano aperto un dibattito, nell'attuale campagna elettorale, sull'opportunità di modificare il Pnrr per adattarlo al nuovo contesto. Un dibattito sicuramente legittimo, sia perché la revisione del Pnrr è legalmente possibile, sia perché la richiesta di cambiamento arriva dall'unica forza politica che è sempre stata all'opposizione del governo Draghi, unica astenuta al voto del 27 aprile 2021 sulle risoluzioni di maggioranza che hanno dato il via libera al testo del Piano trasmesso alla Commissione Ue il successivo 30 aprile. Ma la domanda che occorre porsi è se, oltre che legittima, una revisione del Pnrr risulti anche conveniente per il futuro del paese. Le norme che regolano il processo di revisione del Piano sono dettate dall'articolo 21 del regolamento Ue 241/2021 del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza. Esso stabilisce che qualora il Pnrr, compresi i pertinenti traguardi e obiettivi, non potesse più essere realizzato, in tutto o in parte, dallo stato membro interessato a causa di circostanze "oggettive", lo stesso stato membro può presentare alla Commissione una richiesta motivata per poter presentare una proposta tesa a modificare o sostituire le precedenti decisioni di esecuzione del Consiglio. (…)  Come si può ben capire, quindi, essendo il Pnrr un contratto a prestazioni corrispettive, che genera obblighi vincolanti per entrambi i sottoscriventi, la sua modifica non può che avvenire, come per ogni altro contratto, per volontà esplicita tanto del governo interessato quanto della Commissione europea. Non può, inoltre, essere chiesto per una ragione qualsiasi, ma solo per motivazioni di comprovata impossibilità sopravvenuta nel poter rispettare il precedente contratto. Questo è il punto cruciale, che rende la richiesta di modifica del Pnrr legittima ai sensi dell'articolo 21, politicamente ed economicamente difficile e pericolosa da percorrere per il nostro Paese. (…) La morale, per concludere, è molto semplice. E' segno di serietà, per un nuovo esecutivo, proseguire il lavoro svolto da chi lo ha preceduto, soprattutto se quel lavoro ha dato lustro al paese e se ci sono ingenti risorse finanziarie da salvaguardare, ben 191 miliardi, delle quali l'Italia ha estremamente bisogno per sostenere la crescita. Non farlo, interrompere il percorso virtuoso che ha portato un aumento del pil del 6,6 per cento nel 2021 e che probabilmente ci porterà oltre il 3 per cento nel 2022, costerebbe al nostro paese un danno economico e politico di dimensioni enormi. Un danno che gli italiani non meritano. Continuità. E' questa, dunque, la parola che dovrebbe caratterizzare il delicato passaggio di testimone che avverrà tra il governo Draghi e il futuro esecutivo. Continuità su due fronti: quello delle riforme contenute nel Pnrr e quello della sostenibilità della finanza pubblica. L'Italia è un paese fortemente indebitato, come ha ricordato Draghi, e quel debito deve essere ridotto, innanzitutto tenendo la barra a dritta sulla crescita virtuosa, senza nuovo deficit. E se il governo uscente presenterà a settembre una Nadef con i saldi solo tendenziali, al prossimo toccherà scrivere il quadro programmatico della legge di Bilancio 2023, che dovrà seguire queste due direttrici: continuità nelle riforme e sostenibilità del debito. Al primo punto si inseriscono le riforme fondamentali del fisco, della concorrenza e della giustizia, oltre al completamento di quella della Pubblica amministrazione. Sono 55 gli obiettivi da raggiungere entro il 31 dicembre per ottenere 21,8 miliardi dall'Ue, 27 entro il 30 giugno 2023 per incassare altri 18,4 miliardi, ben 69 nella seconda metà del prossimo anno per 20,7 miliardi. E così via, di semestre in semestre, fino a fine 2026. Se il prossimo governo, di qualunque colore esso sia, saprà raccogliere, senza disperderla, l'eredità di quello uscente, allora avrà l'appoggio dei mercati e delle cancellerie europee, che questa continuità si aspettano. La continuità del Pnrr non pregiudica l'aggiornamento del Piano, anzi, è il presupposto per il suo credibile aggiornamento, perché è chiaro a tutti che il successo dell'Europa nei confronti della Next Generation è in larga parte il successo dell'Italia nella realizzazione del suo (aggiornato) Piano nazionale. Chiunque vincerà le elezioni e si ritroverà alla guida del paese dopo il 25 settembre dovrà allora prendere una prima decisione importante: scegliere tra la continuità o la discontinuità rispetto al Pnrr e agli accordi che Draghi ha siglato con l'Europa. Una scelta dirimente, da cui dipenderà il destino di tutti noi. Lancio dunque una proposta: anziché azzuffarci in campagna elettorale sul modificare o non toccare per nulla il Pnrr, sarebbe una prova di maturità se, su tutte le tematiche riguardanti gli impegni dell'Italia con l'Europa (Pnrr, riforma del Patto di stabilità, riforma dei trattati) si riuscisse a costruire un grande Patto repubblicano. Un Patto con alcuni chiari intenti comuni (come quelli che ho provato a delineare per il Pnrr), utile di fatto per evitare di ricacciare il nostro paese nel vicolo cieco di un conflitto permanente con l'Ue, con conseguente stigma dei mercati, che pagheremmo a carissimo prezzo. Un Patto che consentirebbe al nuovo governo, chiunque sarà a guidarlo, di inserirsi subito nel solco di credibilità e autorevolezza tracciato dal governo Draghi, senza alimentare confusioni e incertezze. Farebbe onore a tutti, vincitori e vinti. Perché metterebbe al centro l'unica vittoria che conta: l'interesse dell'Italia, dei suoi cittadini e delle sue imprese».

QUI WASHINGTON. TRUMP FA CAUSA ALL’FBI

Le altre notizie dall’estero. Negli Stati Uniti è ancora il caso dell’inchiesta su Donald Trump a tenere banco. L’articolo è del Fatto.

«Donald Trump va alla guerra contro lo Stato. Per ora, tecnicamente, la battaglia è legale: i suoi avvocati hanno presentato a una Corte di West Palm Beach, in Florida, la richiesta di bloccare le indagini di Fbi e Dipartimento di giustizia Usa sui documenti sequestrati dagli agenti federali nella sua residenza di Mar a Lago durante la clamorosa perquisizione dell'8 agosto. Da notare che il giudice incaricato di esaminare le richiesta è stato nominato dallo stesso Trump nel 2020. Nelle 27 pagine del documento si chiede anche la designazione di una terza parte, il cosiddetto 'special master", un legale indipendente, incaricato di decidere se quel materiale rientri nell'executive privilege, la prerogativa che consente ai presidenti di tenere segrete un certo tipo di comunicazioni. Trump è sotto inchiesta per il possibile uso improprio di documenti classificati: secondo il New York Times ne avrebbe portati a Mar a Lago oltre 300, invece di consegnarli agli Archivi nazionali come previsto dalla legge a fine mandato. A gennaio era stato costretto a restituirne la metà: gli altri gli sono stati sequestrati durante il raid. Fra le carte, materiale della Cia, dell'Fbi e della Nsa, i vertici delle agenzie di sicurezza. La sua linea difensiva è duplice: da una parte negare ogni addebito, sostenendo che tutti quei documenti fossero declassificati e che la perquisizione, senza precedenti, non avesse giustificazione legale: dall'altra, strumentalizzare le indagini presentandole come una perquisizione politica. In quelle 27 pagine, infatti, si legge quella che la Cnn definisce una roadmap, una tabella di marcia elettorale: il Dipartimento di Giustizia è accusato di 'volere a tutti costi trovare documenti politicamente utili a impedire che il presidente Trump si candidi di nuovo". Insomma, un complotto dell'amministrazione democratica al governo per eliminarlo dalla corsa verso una nuova».

QUI SEUL, CHE COSA FARE CON I SEMICONDUTTORI

L’allenza lanciata da Biden si chiama Chip 4, ma la Corea del Sud non vuole scontrarsi con la Cina. Guido Alberto Casanova per il Manifesto.

«Cambiano i governi, ma i problemi della Corea del Sud rimangono sempre gli stessi. Come risolvere il dilemma del bilanciamento tra Cina e Stati uniti? Da una parte il principale partner commerciale, dall'altra l'alleato storico di Seul, impegnati da ormai diversi anni in un confronto geopolitico a distanza che si gioca in primo luogo sul piano della tecnologia. In queste settimane se ne è discusso a Seul, dove il governo conservatore del neoeletto presidente Yoon Suk-yeol sta decidendo se aderire alla tanto chiacchierata alleanza a guida statunitense sui semiconduttori. L'alleanza, proposta dal presidente Joe Biden lo scorso marzo, è stata soprannominata "Chip 4" e dovrebbe coinvolgere, oltre a Stati uniti e Corea, anche Giappone e Taiwan. L'iniziativa è al centro dell'impegno statunitense a rimodellare le catene globali degli approvvigionamenti di tecnologie avanzate come i semiconduttori, coordinando tra paesi affini la produzione di questi beni essenziali per l'economia globale. In poche parole, Chip 4 è un'operazione di friend-shoring. Se però Giappone e Taiwan hanno già deciso di aderire, per la Corea la partecipazione all'iniziativa suscita diverse preoccupazioni. Sebbene questo non sia l'obiettivo dichiarato, Chip 4 è considerata un tentativo di contrastare l'influenza di Pechino nel mercato globale dei semiconduttori, cercando di isolare la Cina da queste catene di approvvigionamenti high-tech. Le società sudcoreane leader nella produzione di microchip, tuttavia, sono profondamente integrate nel tessuto tecnologico e industriale cinese: per Samsung Electronics e SK Hynix, due delle principali società al mondo per la produzione di semiconduttori, le loro attività produttive in Cina sono difficilmente sostituibili. Lo stabilimento della Samsung di Xi' an, costato circa 25 miliardi di dollari, rappresenta da solo il 40% di tutta la produzione di memorie flash NAND della società sudcoreana. Oltre alla produzione in loco poi, la Cina è un partner fondamentale anche per quanto riguarda le esportazioni: il colosso economico asiatico assorbe infatti il 59,7% dell'export sudcoreano di microchip. Durante l'estate il dibattito sulla partecipazione a Chip 4 in Corea del Sud è stato molto acceso, anche per via dei tempi stretti a disposizione di Seul per rispondere all'invito di Washington. Yang Hyang-ja, a capo della commissione parlamentare per i semiconduttori, sostiene l'adesione rivendicando la necessità di mantenere la vicinanza con Washington. «Se la Corea rimane indecisa sul tema dell'alleanza tech con gli Stati Uniti, il paese dovrà affrontare sfide significative per la propria sicurezza Attorno a queste grandi società i governi della regione stanno elaborando le proprie strategie. Stati Uniti e Giappone sono riusciti a coinvolgere TSMC nei propri piani per ravvivare le rispettive industrie nazionali dei semiconduttori, concordando la costruzione di nuove fabbriche nei due paesi. Washington dal canto suo ha intrapreso una campagna ad ampio raggio per attrarre anche le maggiori società sudcoreane: negli ultimi mesi, oltre a TSMC, sia SK Hynix che Samsung Electronics hanno annunciato di voler investire decine di miliardi per costruire nuovi impianti produttivi nel paese. Il Giappone invece ha adottato un approccio diverso. Attraverso l'istituzione di centri di ricerca e sviluppo, Tokyo sta permettendo alle società giapponesi di entrare nella corsa per lo sviluppo dei microchip da 2 nm in collaborazione con gli attuali leader del settore. Resta però l'incognita cinese, che è all'origine di molti dei movimenti nel mercato dei semiconduttori che osserviamo oggi. Pechino sconterebbe un ritardo tecnologico di diversi anni rispetto ai propri concorrenti ma secondo un'indagine di un centro di ricerca canadese la società leader del mercato cinese, nota come SMIC, sarebbe effettivamente in grado di produrre semiconduttori da 7 nm. La notizia rimane per certi versi misteriosa visto che SMIC nell'ultimo rapporto finanziario riportava che la propria tecnologia più avanzata non superasse i 14 nm. Ciononostante, Pechino ha ancora bisogno degli investimenti sudcoreani per accorciare il proprio ritardo ed è per questo che Chip 4 è una questione cruciale per Pechino».

QUI ATENE, BATTAGLIA PER IL QUARTIERE ANARCHICO

C’è una battaglia per salvare il quartiere anarchico della capitale greca.

«Da due settimane il centro di Atene è presidiato da agenti in assetto antisommossa e blindati: iniziano i lavori della nuova stazione della metro in piazza Exarchia e tornano le barricate nel quartiere simbolo dei movimenti studenteschi e anarchici, dei centri di solidarietà e degli scontri del 2008. Le nuove proteste sono in corso dal 10 agosto, giorno in cui gli operai di Metro Attiki, società del ministero dei Trasporti, hanno aperto il cantiere e chiuso la piccola piazza triangolare. Da allora almeno 200 agenti, tra cui il corpo speciale Drasi ("Azione"), pattugliano le vie che dalla piazza portano al Politecnico, simbolo della resistenza ai Colonnelli del 1974. La nuova metro collegherà Atene da nord a sud, il cantiere durerà almeno 5 anni: quattro entrate con doppie scale mobili, con il sacrificio dei 70 alberi che da oltre 50 anni adornano il quartiere. Le proteste di residenti e anarchici iniziano subito: almeno 30 arresti, decine di feriti e di manifestanti in commissariato. E con la riapertura delle università, studenti e anarchici riempiranno le piazze. La rabbia sale anche fra i 10mila residenti di Exarchia. Quattro anni fa il ministero dei Trasporti aveva firmato un accordo per costruire la stazione a 500 metri dalla piazza seguendo la proposta del laboratorio di urbanistica del Politecnico. Ma il governo di centrodestra del premier Mitsotakis, eletto nel 2019, ha ripreso un progetto di 20 anni fa che prevede la stazione al centro della piazza, a pochi metri da un altro quartiere storico: la collina di Strefi, uno dei più caratteristici angoli di Atene. Proprio dove il comune di Atene, il cui sindaco è Nikos Bakogiannis, nipote di Mitsotakis, sta affidando nuove concessioni a società immobiliari per comprare edifici privati e botteghe storiche e sostituirli con bed and breakfast, hotel di lusso e centri commerciali. «È un'operazione politica - denuncia Lefteris Stoukogeorgeos, economista di Syriza - la regola del governo è la disuguaglianza e le questioni di piazza Exarchia e di Strefi ignorano la volontà della comunità locale». Del resto Mitsotakis aveva promesso di "ripulire" Exarchia, i suoi simboli e le sue contraddizioni: la rivolta contro i Colonnelli, i movimenti anarchici e studenteschi, le piccole case editrici, i centri per rifugiati, ma anche lo spaccio di eroina, la microdelinquenza e gli edifici occupati. «Il governo pensa di poter distruggere la dissidenza, ma si sbaglia spiega Olga Athaniti, residente a Exarchia - molti di noi sono stati arrestati con un pretesto qualsiasi: è un'operazione di pulizia». Dopo la crisi del 2008 gli altri due quartieri storici di Atene, Monastiraki e Psirri, sono diventati preda di speculazioni commerciali e immobiliari: souvenir e gadget per il turismo di massa al posto del vecchio bazar delle pulci, delle taverne e delle botteghe. Adesso è il turno di Exarchia e Strefi, spiegano i residenti. Che cercano di resistere. «Il governo vuole sconvolgere l'attuale fisionomia del quartiere - spiega l'architetto Spyros Koulioulis - non c'è bisogno di una stazione della metro, Exarchia e Strefi devono rimanere cosi non perché lo dicono gli anarchici, ma perché sono l'anima di Atene». Mentre cerca di ripartire dal Covid, la capitale greca si lecca ancora le ferite degli scontri iniziati a Exarchia a dicembre 2008 quando la polizia uccise il 16enne Alexis Grigoropulos durante un controllo: la scintilla che infiammò la rabbia sociale anti troika. Il timore è di tornare a quell'incubo. «A settembre, quando torneranno gli studenti, le violenze aumenteranno», spiega Olga Athaniti. Ma il governo tira dritto. Il centro di Atene è militarizzato, le piccole librerie da via Themistokleus a via Mavromichali resistono ma Exarchia è silenziata: è il caso del centro anarchico Vox o delle mense sociali o dei centri di accoglienza come Spirou Trikoupi 17. Altri come il City Plaza Hotel, che ospitò più di 400 rifugiati, sono già chiusi. La crisi del 2008, la pandemia, il caro affitti: da tempo a Exarchia non ci sono più i kafeneion o le taverne che odorano di ouzo, di storie di profughi dall'Asia Minore e di rebetika, il blues greco che sa di malinconia e nostalgia per un tempo perduto. «Il governo ha ripreso questo progetto solo per fini politici - spiega Nikos Belavilas professore e direttore del laboratorio di Urbanistica al Politecnico - è una idea violenta che produrrà ancora più violenza a settembre. Prevedo un inverno molto difficile». Spyros Koulioulis sospira, sconsolato. «Tra pochi mesi si vota e il sospetto è che questa operazione sia un pretesto del governo per alzare la tensione e tenere unita la destra».

GIOVE, LO SPETTACOLO DELL’UNIVERSO

Le immagini, frutto di una telecamera a infrarossi montata su un telescopio, svelano un pianeta Giove mai visto così: gli anelli, le lune e con le aurore brillanti.  Elena Dusi per Repubblica. 

«Anche Giove ha le sue aurore polari. Sono le luci fluorescenti che si formano quando le particelle energetiche emesse dal Sole incontrano il campo magnetico del pianeta. Uno dei fenomeni più spettacolari della Terra è stato osservato anche ai poli di Giove, grazie al telescopio spaziale James Webb, in orbita a 1,5 milioni di chilometri da noi, che sta ridisegnando con i suoi meravigliosi colori la nostra immagine del cosmo. La "foto" è stata scattata con una telecamera a raggi infrarossi montata sul telescopio. Ogni lunghezza d'onda è poi stata associata a un colore, per rendere l'immagine visibile all'occhio umano. Accanto a Giove si notano due lune, Amalthea e Adrastea. Il pianeta è circondato da anelli semitrasparenti. Nella sua atmosfera tormentata si agitano venti e tempeste. Sullo sfondo si intravedono appena anche due lontane galassie. Webb è costato 10 miliardi di euro ed è gestito da Nasa, Esa e Agenzia spaziale canadese. È stato lanciato lo scorso Natale, ma ha aperto gli occhi il 12 luglio, con la prima immagine disvelata dal presidente americano Joe Biden: un ammasso di migliaia di galassie, le più antiche delle quali risalgono a 13,2 miliardi di anni fa, 600 milioni di anni dopo il Big Bang. Webb, che ha uno specchio di 6,5 metri e lavora a - 230°, è specializzato nell'osservare gli oggetti più antichi dell'universo, ma può anche fornire nuovi dettagli del sistema solare e capire la composizione degli esopianeti. Su uno di essi, proprio il 12 luglio, ha già trovato le prove della presenza di acqua».

DUE SCRITTORI IN CERCA DI FELICITÀ

Dio e Sigmund Freud, mistero e dolore. La lotta dell'uomo contro l'idea tossica di felicità. Matteo Matzuzzi sul Foglio racconta e stintetizza molto bene l’incontro di lunedì 22 fra due scrittori di grande fama: Eric-Emmanuel Schmitt e Daniele Mencarelli (qui su Youtube per chi se l’è perso).  

«"Il male è il motore del progresso", dice subito il drammaturgo, scrittore, saggista, traduttore, regista e sceneggiatore francese Éric-Emmanuel Schmitt, lasciando da parte i discorsi ad alto contenuto di melassa sull'uomo votato alla ricerca del bene, sempre e comunque. A Rimini, moderati da Alessandro Banfi, Schmitt e Daniele Mencarelli (dal suo Tutto chiede salvezza è stata tratta una serie tv, presto su Netflix) hanno discusso della questione fondamentale e cioè l'irriducibilità dell'uomo anche - e soprattutto - quando si trova immerso in situazioni disperate. Le vive e ne fa esperienza. E' vero, la letteratura ci racconta l'invincibile domanda di bene, ma "nulla è nuovo, l'uomo non è più morale di Platone, Aristotele, Kant. L'uomo nostro contemporaneo - sentenzia il drammaturgo francese - non progredisce". Dopotutto, aggiunge, "occorrono conflitti mondiali per creare le società delle nazioni, servono le pandemie per dare vita all'Oms. Gli uomini non vogliono il bene, vogliono semplicemente evitare il meno peggio". Pessimismo cosmico? Tutt' altro: Schmitt si definisce "ottimista tragico", perché "si progredisce sì, ma a far progredire è il male". Non c'è sempre un lieto fine, le cose non terminano sempre bene come magari vorremmo. Si prenda il suo Oscar e la dama in rosa, libro che si legge d'un fiato, con le sue 120 pagine. E' la storia di un bambino malato che non guarisce. Sa di non potercela fare, tutti ne sono consapevoli. Ma lui è lì, è una persona e di lui si occupano tutti. Ecco, in quest' epoca dove il progresso è vissuto come una conquista definitiva, non bisognerebbe dimenticarsi che "il progresso della medicina non deve diventare la disumanizzazione della cura". Il male, insomma. Che scuote o, per dirla con Mencarelli, "sveglia". "Ci servono le sveglie, altrimenti ci troviamo chiusi in appartamenti lussuosi convinti che ci basti quella consuetudine. Ecco la mediocrità. L'uomo è fatto per abbracciare la sua fragilità e trovare in quei momenti barlumi d'allegria. Abbiamo un'idea tossica della felicità, come se questa fosse una terra da raggiungere per poi restarci sempre". Sono altri gli interrogativi che bisogna farsi, soprattutto in tempi come questi segnati dalla superficialità e dalla semplificazione: "La vera domanda che ci dobbiamo porre è: come amiamo?", dice Mencarelli. Bisogna, chiarisce, "stanare l'uomo rispetto al suo agnosticismo naturale mettendo in scena il niente, costruire cioè la vertigine senza senso. L'abisso va visto e toccato". Solo così si riesce a dare un valore alle cose, alle parole, al senso dell'amore e della felicità. Che non sono frasi buone per motti adolescenziali o spot televisivi. No, sono qualcosa di serio e profondo. Di misterioso. E il mistero piace a Schmitt, che non teme di dire che "siamo tutti fratelli agnostici, perché si può pensare che Dio esista ma nessuno può dimostrarlo empiricamente. Di Dio si può fare esperienza: il credente dirà di non sapere se c'è ma pensa di sì, il non credente dirà di non sapere se c'è ma pensa di no. E' in quello spazio grigio che sta a metà che gli uomini si trovano vicini. "Questo è l'umanesimo, la condivisione della stessa domanda". Schmitt ha cercato di far comunicare questi due mondi, mettendo Dio sul lettino di Freud. "Non hanno niente in comune e quindi hanno tante cose da dirsi. La loro conversazione ruota attorno alla domanda su come si possa credere a un mondo contrassegnato da così tanto dolore. Freud processa Dio, ma Dio risponde e ogni uomo potrebbe riconoscersi in ciascuna delle due parti. Noi uomini - osserva il drammaturgo francese - dobbiamo unirci attorno alle grandi domande; siamo tutti assaliti dalle stesse domande anche se diamo a esse risposte diverse". L'uomo è al centro di questa quarantaduesima edizione del Meeting, non per altro il titolo della rassegna è "Una passione per l'uomo", citazione tratta da un intervento di don Luigi Giussani al Meeting del 1985.  Lo si vede negli incontri, negli stand, nelle mostre. C'è quella su don Emilio de Roja, sacerdote friulano morto nel 1992 che Giovanni Paolo II, visitando Udine solo tre mesi dopo la sua scomparsa, avrebbe definito "apostolo della Carità". Scelse di stare a Udine in un quartiere difficile, tra quelli che si definiscono ragazzi difficili. Eppure, come dice uno di quelli che più l'ha conosciuto, "era un uomo felice, parlava sempre e in ogni occasione con felicità, come se il mondo intero gli regalasse felicità e non brandelli umani, come se le miserie fossero occasione per essere felice". Ecco, forse, quel che Daniele Mencarelli intendeva per vera felicità, sperimentabile solo quando si scende nelle profondità dell'abisso umano».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 24 agosto:

Articoli di mercoledì 24 agosto

Share this post

Putin sceglie Dugin

alessandrobanfi.substack.com
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing