La Versione di Banfi

Share this post

Quirinale, la lezione di David

alessandrobanfi.substack.com

Quirinale, la lezione di David

Nel giorno dei funerali di Sassoli, i partiti decidono sul Colle. Gianni Letta invita a non perdere il suo esempio. Numeri Covid, gli scienziati temono la censura. Alto il rischio guerra in Ucraina

Alessandro Banfi
Jan 14, 2022
1
Share this post

Quirinale, la lezione di David

alessandrobanfi.substack.com

La discussione sulle cifre della pandemia che le autorità sanitarie devono comunicare sta assumendo contorni surreali. Molti scienziati temono la censura della realtà: la spinta di alcuni Presidenti di Regione è per nascondere l’evidenza e non far scattare maggiori divieti, col sistema dei colori. Diverso è il ragionamento su quarantene e positivi asintomatici. Dopo alcuni giorni (quanti?) potrebbe non essere più necessario il tampone di controllo. Come comprensibile è la richiesta di avere numeri differenziati su vaccinati e non vaccinati. Ad esempio sui 17mila ricoveri di ieri in ospedale i non vaccinati sono ben 9mila. Cifre che andrebbero più sottolineate ogni giorno. Uno spiraglio di luce ci viene proprio dai dati sulla curva giornaliera: da 48 ore sono tornati i segni meno: il contagio rallenta, l’Rt sta scendendo. Lo spiega bene il fisico Battiston su Repubblica. Vedremo oggi le decisioni e le comunicazioni dell’Iss. Tre Regioni, Piemonte, Calabria e Sicilia, che rischiano di cambiare colore già da lunedì.

Oggi è anche il giorno dell’addio a David Sassoli. La sua morte ha determinato un clima nel mondo politico italiano che fa riflettere leader e partiti in vista dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Magistrale in questo senso il commento di Gianni Letta, ieri all’uscita della camera ardente in Campidoglio. Dopo i funerali, alle 14 si vedranno tutti i leader e i segretari del centro destra a Villa Grande, sull’Appia. Silvio Berlusconi si attende un’investitura per il Colle. Arriverà già oggi una candidatura ufficiale? Stasera si riuniscono anche i grandi elettori di Italia Viva. Ieri l’assemblea dei 5 Stelle è apparsa divisa. Domani la Direzione del Partito democratico.

Fra le notizie dall’estero purtroppo in primo piano c’è anche il rischio guerra in Ucraina. Non è affatto tramontata l’ipotesi di un conflitto perché il dialogo fra Russia e Nato in questi giorni non sta dando i frutti sperati. La Stampa torna poi a raccontare i profughi fra Polonia e Bielorussia. Ieri in Libano è stata la giornata della collera: protesta popolare contro la svalutazione e la paralisi economica del Paese.

Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano se stesse e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

Trovate questa VERSIONE di nuovo nella vostra casella di posta domenica pomeriggio. Alla fine della rassegna trovate tutti gli articoli citati in pdf. Vi consiglio di scaricarli se siete interessati perché restano disponibili in memoria solo 24 ore.

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Fra trenta giorni, dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Gli scienziati temono la censura, le Regioni vogliono evitare il cambio di colore. Per il Corriere della Sera la sintesi è questa: Virus, la battaglia sui dati. Il Messaggero è anche più esplicito: La mossa delle Regioni per evitare la zona rossa. La Verità è sempre polemico: Le regole «per riaprire» ci chiudono. Avvenire la mette sul piano della sfida da rinnovare: Anno da vincere. Moltissimi i titoli di prima pagina sulla corsa al Quirinale. Divertente quello del Manifesto: Il Colle di bottiglia. Perentorio quello del Giornale: «C’è solo Berlusconi». Due punti per il Cav. Ma per La Repubblica non è proprio così: Colle, destra divisa. Il Fatto appare sconsolato: Tutti appesi a B. (e ai suoi ricatti). La Stampa rilancia il premier: Draghi ai partiti: io ci sono, tocca a voi. Di economia si occupano il Quotidiano Nazionale: Il virus delle bollette uccide la ripresa. Come Il Mattino: Il taglio dell’Irpef nel 2022 dimezzato dalle tasse locali. E Il Sole 24 Ore: Moratorie, lo Stato rischia 10 miliardi. Anche Domani è sulle tasse: L’assalto della destra al fisco è l’inizio della fine del governo. Mentre Libero pubblica le carte dell’inchiesta sugli stupri in piazza Duomo a Milano la sera di San Silvestro: Ecco i verbali choc.

LE REGIONI VOGLIONO ABOLIRE IL BOLLETTINO DELLA SCONFITTA

Come ogni venerdì, anche oggi si farà il punto della pandemia in Italia nelle diverse regioni. Potrebbero cambiare colore già da lunedì Piemonte, Calabria e Sicilia. Ma il nodo vero è il cambiamento del bollettino quotidiano sui dati. Molti scienziati temono la censura e la manipolazione delle Regioni. Adriana Logroscino per il Corriere della Sera.

«La richiesta, avanzata a gran voce dalle Regioni e raccolta con iniziale favore da una parte degli esperti del Comitato tecnico scientifico che oggi si riunisce per valutarla, manda su tutte le furie l'Istituto superiore di sanità. Rivedere il bollettino, distinguendo tra positivi sintomatici e asintomatici, e tra contagiati ricoverati con sintomi Covid e degenti positivi ma in cura per disturbi diversi, può portare, secondo gli esperti dell'Iss, a sottovalutare la pandemia soprattutto in una fase come questa in cui la circolazione del virus è ancora piuttosto fuori controllo. Una scelta sbagliata, secondo alcune voci contrarie, soprattutto se a motivarla fosse solo il tentativo di evitare il passaggio in zona arancione e le restrizioni conseguenti. Sarebbero tre (Calabria, Piemonte e Sicilia) le Regioni con numeri da cambio di colore imminente, già da lunedì, e per altre dieci l'orizzonte sarebbe simile in un tempo appena un po' più lungo. «La definizione di caso deve includere tutti i positivi, non solo chi ha sintomi respiratori, febbre elevata, alterazione del gusto e dell'olfatto», avverte, invece, l'Istituto superiore di sanità, in una nuova edizione delle domande frequenti, diffusa ieri. E spiega le ragioni. «La sintomatologia è variegata e in evoluzione per via delle varianti. L'infezione spesso per i vaccinati è asintomatica, ma non sorvegliandola si limiterebbe la nostra capacità di identificare le varianti emergenti, le loro caratteristiche, e non potremmo conoscere lo stato clinico che consegue all'infezione per età, stato vaccinale, comorbidità della popolazione. Inoltre non renderebbe possibile monitorare la circolazione del virus nel tempo e, di conseguenza, prevedere i rischi di un impatto peggiorativo sulla capacità di mantenere adeguati livelli di assistenza anche per patologie diverse». Quindi l'Istituto superiore di sanità chiarisce altri tre punti. Il primo: l'Ecdc (organismo europeo di controllo delle malattie) «non ha cambiato la definizione di caso utilizzata per la sorveglianza delle infezioni da Covid». Una risposta netta alla richiesta delle Regioni al ministero di adeguarsi alle linee guida europee. Il secondo: la definizione di «caso» utilizzata nella sorveglianza epidemiologica non influisce né sulle misure di autosorveglianza e quarantena, né su quelle di isolamento. Ma i governatori non mollano. In nome della «semplificazione», compatti, chiedono di depennare dal bollettino i non sintomatici, circa il 70 per cento del totale, e di spacchettare i ricoverati. Con ogni evidenza due modifiche degli indicatori sui quali si basa il passaggio in un'area di colore a maggior rischio: incidenza (cioè numero di positivi per abitanti) e tasso di occupazione di malati di Covid nelle terapie intensive e negli altri reparti degli ospedali. La soluzione potrebbe essere un compromesso. Un bollettino più completo, che distingua tra positivi sintomatici e asintomatici, e tra ricoverati malati di Covid e ricoverati per altre patologie, anche se positivi al tampone. Ma che comunque mantenga il calcolo complessivo, indispensabile fino a quando non si esaurirà la fase pandemica. Sarebbe la strada indicata dal ministero della Salute, per comporre punti di vista diversi. Stamattina, infatti, il Comitato tecnico scientifico si riunirà proprio per dare una risposta alle Regioni. Quello che filtra, però, è che all'interno del Cts le posizioni sono discordanti. Alcuni esperti aprono alla possibilità di rivedere il bollettino, altri sono contrari, qualcuno propone di rimandare la decisione a un momento di minore circolazione del virus. Anche il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, che si era espresso per un ripensamento della comunicazione dei dati, precisa: «Il bollettino quotidiano deve rimanere, ma abbiamo bisogno di informazioni più accurate, con maggior dettaglio per esempio sulle degenze. Il positivo non è un malato, è uno che ha fatto il tampone. Distinguerli sarà il trend, ma forse farlo oggi, che circola ancora la Delta, è presto. Veicoliamo più dati, in modo che la loro interpretazione ci aiuti a capire meglio l'andamento della pandemia, con meno ansia».

INTANTO C’È UN LOCKDOWN DI FATTO

Al di là di obblighi e regole sulle quarantene, al di là di numeri che portano i colori alle Regioni, la rapidissima diffusione del virus sta spingendo l’Italia in un lockdown di fatto. Ecco come Avvenire sintetizza una pagina di reportage dai diversi Comuni italiani.

«Strade libere come nei giorni di vacanza, mobilità ridotta, negozi e servizi di ristorazione avanti a ritmo lento Da Nord a Sud, il viaggio tra piazze e centri storici dimostra che la scelta dell'isolamento è già un fatto concreto La pandemia fiacca le città fino a mutarne il paesaggio. La rapida diffusione del virus attraverso la variante Omicron, con il numero di positivi che cresce ogni giorno, sta provocando disservizi, un preoccupante rallentamento delle attività economiche e un processo di "desertificazione" che ricorda il "lockdown" del marzo 2020, quando il Covid, nella sua fase più acuta, mise in ginocchio l'Italia. Anche la paura di contagiarsi induce i cittadini a limitare le uscite. Nelle metropoli il fenomeno appare più evidente. Poche persone in strada, turisti quasi zero, traffico "ai minimi storici", alberghi che chiudono, bar, ristoranti e negozi semivuoti e a rischio "crac". I saldi di fine stagione saranno un flop e gli esercenti lanciano l'allarme. Il picco dei contagi dovrebbe essere raggiunto alla fine di gennaio, dicono gli esperti, e la speranza è che allo stallo di adesso, che sembra spingere le imprese sull'orlo del precipizio, segua una ripresa decisa, prima che sia troppo tardi. Un'onda che si può fermare solo coi vaccini».

LA CURVA RALLENTA, SCENDE L’INDICE RT

Iniziano ad esserci segnali di un possibile rallentamento della diffusione del virus. Del resto è un fenomeno già visto in alcuni Paesi esteri. Il fisico Roberto Battiston dice a Luca Fraioli di Repubblica: "L'indice Rt è in discesa, il picco potrebbe essere già la prossima settimana".

«Può sembrare incredibile, ma Rt sta precipitando verso 1 ed il picco di infetti attivi in Italia potrebbe arrivare la settimana prossima». Mentre l'Oms lancia l'allarme sul probabile contagio di mezza Europa, l'analisi della pandemia Omicron in Italia di Roberto Battiston, docente di Fisica all'Università di Trento e coordinatore nello stesso ateneo dell'Osservatorio epidemiologico sembra indicare uno scenario diverso: «La fiammata di infetti iniziata poco prima di Natale, potrebbe raggiungere il massimo entro una settimana e poi scendere».

Quali sono i dati che indicano l'avvicinarsi del picco di Omicron?

«Sono a disposizione di tutti, occorre però guardare alla variabile opportuna: il bilancio netto dei nuovi infetti quotidiani, vale a dire i nuovi infetti meno guariti e deceduti. Se un giorno si infettano 1.000 persone e se ne negativizzano 900, l'aumento netto è 100. Quando il numero di guariti è pari a quello di nuovi infetti, Rt vale 1 e la curva sta iniziando a scendere».

È arrivato quel momento per Omicron?

«Non ancora, ma i numeri degli ultimi giorni indicano un'inversione di tendenza. Venti giorni fa il bilancio tra nuovi positivi e guariti giornalieri era di +27mila, quindi si è impennato fino a +172mila. Ma poi, al netto delle fluttuazioni quotidiane dovute alla raccolta dei dati, ha iniziato a scendere, oggi è +101mila. Il numero di nuovi infetti sta scendendo in giorni della settimana in cui di solito cresce e oggi è la prima volta che il numero di nuovi infetti negli scorsi sette giorni è minore dello stesso numero calcolato ieri. Insomma, da una parte i nuovi infetti non salgono più in modo esponenziale, raddoppiando ogni pochi giorni, anzi stanno iniziando a decrescere. Dall'altra aumentano i guariti: quando questi supereranno i nuovi infetti Rt sarà sotto 1».

Questa dinamica così rapida di salita e ridiscesa ha a che fare con le peculiari caratteristiche della variante emersa in Sudafrica?

«Su questo lascio che si esprimano i virologi. Io posso sottolineare che l'analisi dei dati ci mostra l'avvicinarsi del picco degli infetti entro la prossima settimana. È quello che si è visto in Sudafrica e, soprattutto, nel Regno Unito dove la crescita di Omicron è iniziata il 13 dicembre, ma dal 5 gennaio il numero di nuovi infetti ha iniziato a diminuire. Questo effetto si intravede ora in Italia e in Spagna, non ancora in Francia».

LA CORTE SUPREMA USA BOCCIA L’OBBLIGO VACCINALE

La Corte suprema degli Stati Uniti ha bocciato l'obbligo di immunizzarsi che Biden aveva introdotto nelle grandi aziende. Monica Ricci Sargentini per il Corriere.

«La Corte Suprema degli Stati Uniti ha bocciato ieri l'obbligo di vaccino anti-Covid voluto fortemente da Joe Biden lo scorso settembre per le aziende con oltre 100 dipendenti. Un duro colpo per il presidente americano che è già alle prese con un calo di popolarità preoccupante, soprattutto in vista delle elezioni di midterm. Dopo mesi passati invano a tentare di convincere i dubbiosi, Biden aveva deciso di rendere la vaccinazione obbligatoria per quasi 100 milioni di dipendenti in modo da prevenire, secondo le stime della Casa Bianca, 250 mila ricoveri e migliaia di decessi. Una mossa resasi necessaria dall'imperversare della pandemia che negli Usa ha raggiunto livelli record, con una media giornaliera nell'ultima settimana di quasi 800 mila casi e oltre 1.800 morti. Negli Usa solo il 62,7% della popolazione è vaccinato e un terzo ha ricevuto la dose booster. Ma, nel Paese delle libertà individuali, la misura era stata subito denunciata come un abuso di potere da molti Stati a guida repubblicana e da una parte del mondo economico. E la Corte Suprema ha dato loro ragione: «Ordinare ai cittadini di vaccinarsi contro il Covid o di sottoporsi, a proprie spese, a dei test tutte le settimane, non fa parte dell'esercizio quotidiano del potere federale ma è un'intrusione nella vita e nella salute di una larga parte dei lavoratori dipendenti» hanno scritto i giudici nella sentenza. Contrari al pronunciamento i tre membri liberali: «Agendo al di fuori della sua competenza e senza fondamento giuridico, la Corte sostituisce i funzionari del governo incaricati di rispondere alle emergenze sanitarie sul posto di lavoro», hanno scritto Stephen Breyer, Elena Kagan e Sonia Sotomayor. Il massimo organo giudiziario si è, invece, espresso a favore dell'obbligo per gli operatori sanitari impiegati in strutture che ricevono fondi federali, una misura che coinvolge oltre 17 milioni di dipendenti. Biden non ha voluto nascondere il suo disappunto e si è detto «deluso» per la bocciatura di «norme di buon senso». Ora la sua strategia anti-Covid si dovrà limitare a rendere disponibili mascherine e test fai da te gratuiti, oltre all'invio di squadre di medici militari negli Stati travolti dalla pandemia. Intanto, a sorpresa, la California ha deciso di chiedere al personale sanitario di rimanere al lavoro in ospedali e ambulatori anche se positivo al coronavirus in modo da evitare la paralisi dei servizi pubblici essenziali».

AMAZZONIA, COL PADRE IN SPALLA PER IL VACCINO

La foto ha fatto il giro del mondo ed è diventata un simbolo anche sui social. Un indigeno dell’Amazzonia ha camminato per dodici ore col padre in spalla attraverso la foresta per fargli avere un vaccino. Gabriele Santoro per il Messaggero.

«Il flagello del Covid-19 colpisce duramente anche l'Amazzonia e il vaccino è una risorsa tutt' altro che facilmente raggiungibile. Il ventiquattrenne indigeno Tawy non ha esitato nel camminare per ore con il padre Wahu di 67 anni, affetto da problemi fisici, sulle spalle per garantirgli la principale forma di protezione dagli effetti letali del virus. Tawy e Wahu appartengono alla comunità indigena Zó'é che conta circa 325 persone e vive nel Nord del Pará. È stato il neurochirurgo cinquantaduenne Erik Jennings Simões a immortalare la storia con una delle fotografie destinate a rimanere negli album della lotta alla pandemia. Jennings lavora da molti anni in una missione per la tutela della salute in Amazzonia. Il 2 gennaio ha condiviso nel proprio profilo Instagram lo scatto, che risale al 22 gennaio 2021, divenuto ora virale. Nel social network Jennings racconta così la vicenda: «Questo è stato il momento più significativo del 2021. Tawy ha legato a sé il padre con una portantina di corde intrecciate e si sono messi in viaggio. Ha camminato per sei ore nella foresta tra molti ostacoli per arrivare al nostro centro vaccinale. Dopo la somministrazione sono tornati al villaggio. Finora la popolazione Zó'é non è stata colpita da alcun contagio». La scelta di Tawy ha un forte valore culturale, perché sfida il lassismo che ha caratterizzato soprattutto nella prima fase in Brasile il contrasto alla pandemia. Un'attenta testimone sul campo della situazione in Amazzonia è Eliane Brum, classe 1966, nata a Ijuí nel sud del Brasile, giornalista e scrittrice di rilievo internazionale, tra le più importanti narratrici delle trasformazioni sociali, ambientali e politiche del gigante sudamericano. «Il coronavirus infesta i villaggi indigeni e minaccia le popolazioni isolate spiega Brum Il covid-19 e i mancati interventi rischiano di smantellare la resistenza per la tutela ambientale. Lasciare che la pandemia avanzasse nella foresta e negare misure di prevenzione e protezione ha avuto come risultato la morte di diversi importanti leader indigeni, che guidavano i loro popoli nella lotta per la terra e per la conservazione della foresta». La volontà di Tamy mostra anche il grado di apertura al mondo degli indigeni, sempre più minacciati nel loro ecosistema, che hanno accolto con favore la campagna vaccinale. «La foresta e le favelas sono forse i luoghi dove ancora si conserva un'idea di appartenenza che va aldilà del proprio ombelico prosegue Brum. Gli indigeni e gli altri popoli che abitano la foresta amazzonica vedono se stessi come parte della natura e si sono mostrati capaci di vivere per millenni senza distruggere il mondo degli altri. Hanno un profondo senso di responsabilità che si conferma anche nell'emergenza pandemica». Il pericolo principale deriva da chi arriva da fuori nella foresta e gli abitanti vogliono proteggersi. Secondo i dati della segreteria per la salute indigena il virus ha colpito 57mila nativi brasiliani e ne ha uccisi 853 che è una proporzione considerevole per queste comunità. La sfida, come in altri luoghi del mondo di difficile accesso, è prettamente logistica insieme alla mancanza di assistenza sanitaria che affligge la Regione. La squadra guidata da Jennings Simões è riuscita a raggiungere luoghi impervi, si è spinta fino ai villaggi e si è messa in connessione anche grazie alla radio. All'inizio della vaccinazione contro il Covid-19 le popolazioni indigene sono state considerate una priorità, perché sono quelle più difficili da tutelare. In questo caso è stato fondamentale il dialogo costruito dall'équipe di Jennings, che ha trasmesso fiducia e posto le basi per la campagna nei villaggi, con il rispetto delle tradizioni culturali degli Zó'é».

IL BOOM DEI PREZZI AL BAR E A TAVOLA

L’aumento dei prezzi dell’energia sta provocando un effetto perverso su tutti i prezzi. Luigi Grassia per La Stampa racconta la catena dei rincari.

«La colazione al bar potrebbe passare dagli attuali 2 euro e 40 (media nazionale per cappuccino + cornetto) a 3 euro e 40, rincarando del 48% perché i prezzi di latte, zucchero, cacao e uova (intesi come materie prime, non come prodotti finali) sono aumentati del 40%. Il caffè al supermercato ha già fatto +20% l'anno scorso e rischia il bis nel 2022, mentre la pasta e il pane sono previsti in rincaro del 38%. È questa la traduzione pratica della parola astratta inflazione, che pareva quasi scomparsa dal vocabolario dell'economia e adesso è tornata a imperversare in Italia e nel mondo. Anche se da questi esempi, legati a quel che si mangia e si beve, potrebbe non sembrare, la madre di tutti i problemi è l'energia, perché coltivare quello che ci nutre è un'attività energivora; poi ci si sono messe tutte le altre materie prime, i semilavorati e i microchip; la corsa dei prezzi partita dal basso sta risalendo la filiera produttiva e distributiva, per scaricarsi sui prodotti che il consumatore trova in negozio. L'associazione Federconsumatori fa sui prezzi nel 2022 previsioni di per sé pesantissime ma (a ben guardare) quasi moderate, nel senso che pur tenendo conto di un avvio di anno terribile, scontano un certo riflusso inflattivo nel prosieguo: per esempio la stima per l'energia nell'intero 2022 è +18,9% ma nel primo trimestre le bollette della luce hanno già fatto +55% e quelle del gas +41,8%, perciò negli altri tre trimestri dovranno frenare decisamente per fare media 18,9%; ci possiamo contare? Finora il barile di petrolio è stato relativamente lento nel rincaro, ma se nel corso del 2022 il greggio dagli attuali 80 dollari tornasse a 140 e oltre, come capitò anni fa, salterebbero tutte le previsioni sul costo dell'energia, e a cascata sugli altri beni. Il presidente di Federconsumatori, Michele Carrus, punta il dito anche in tutt' altra direzione, sui dispositivi sanitari: «Da quando le mascherine Ffp2 sono diventate obbligatorie - dice a La Stampa - ho sentito di prezzi in farmacia fino a 3 euro, nonostante l'accordo firmato col generale Figliuolo, e so di persone che hanno pagato i tamponi domiciliari anche 150 o 160 euro». Ieri Riccardo Felicetti, presidente dei pastai di Union Food-Confindustria, lamentava che «acquistare il grano duro italiano è difficile in questo periodo. Anche se la sua quotazione è aumentata del 70%, costa ancora meno di quello straniero, e viene distratto dal mercato italiano per essere venduto ad esempio in Tunisia». Gli ha risposto la Coldiretti (associazione di agricoltori): «Per acquistare il grano italiano basta pagare il giusto prezzo. Molte industrie italiane hanno preferito per anni acquistare il grano in modo speculativo sul mercato mondiale, anziché garantirsi approvvigionamenti nazionali attraverso i contratti di filiera sostenuti dalla Coldiretti». Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia (la filiera alimentare), dichiara che «non è più possibile che alcune catene della grande distribuzione continuino a ignorare le legittime richieste di riconoscimento degli aumenti di costo avanzate dalle piccole e medie aziende. L'energia è aumentata fino al 500%, il cartone del 100%, i film plastici del 25% e questo ha messo in ginocchio migliaia di Pmi agroalimentari. Perciò chiediamo che le autorità di controllo, a partire dall'Ispettorato Icqrf del ministero delle Politiche agricole, intervengano ponendo fine ai fenomeni di sottocosto che mai come ora sono odiosi e inaccettabili».

E il governo? C’è stata una riunione tecnica preliminare a Palazzo Chigi sui dieci punti elaborati del ministro della Transizione, Roberto Cingolani, per arginare l’impennata delle tariffe. Il decreto è atteso entro fine mese. Maurizio Carucci per Avvenire.

«Su bollette e 'grosso' dei ristori post-Covid ogni decisione è rimandata a dopo l'elezione del presidente della Repubblica. Ieri si è tenuta una riunione tecnica a Palazzo Chigi sul 'pacchetto energia', mentre i rincari delle bollette continuano a mordere famiglie e imprese e a preoccupare il governo. Quello della presidenza del Consiglio è stato solo un lavoro istruttorio, preliminare, di studio. Con legali e funzionari dei ministeri più coinvolti nella partita: Mef, ma anche Sviluppo economico, nonché il dicastero della Transizione ecologica guidato da Roberto Cingolani. In questa situazione, lo stesso ministro Cingolani ha preparato un pacchetto in dieci punti di misure contro il carobollette, anche strutturali. Il documento è stato consegnato durante le feste al presidente del Consiglio, Mario Draghi. Dovrebbe servire da base per un decreto legge. Per la viceministra del Tesoro, Laura Castelli, c'è «ampia convergenza su alcune proposte M5s come il contributo di solidarietà » di «produttori, fornitori o intermediari, che han- no ottenuto profitti stellari» in questi mesi e «sull'azzeramento dell'Iva sulla quota incrementale dei prezzi». Ieri la responsabile Ambiente del Pd, Chiara Braga, ha rilanciato che le misure vanno finanziate anche con uno scostamento di bilancio, come aveva chiesto il leader 5 stelle, Giuseppe Conte. Ma l'allarme rincari non arriva solo dalla politica, ma anche da Banca d'Italia, sulla base di uno studio condotto sulle aziende nazionali fra novembre e dicembre del 2021. Le imprese, si legge nel rapporto, prevedono 'un aumento dei propri prezzi di vendita nei prossimi 12 mesi'. Quindi, prosegue Bankitalia, 'i giudizi sulla situazione economica generale e le attese sulle proprie condizioni operative nei primi tre mesi del nuovo anno sono meno favorevoli rispetto al periodo precedente'. Si ragiona perciò sugli aspetti regolatori, sul contesto macro- economico, sulle variabili in campo e sugli scenari futuri. Sul tavolo anche l'ipotesi, caldeggiata dal premier, di trasformare gli extra gettiti delle società energetiche in sgravi per le imprese in affanno, costrette a bloccare la produzione per il rincaro delle bollette. «Bisogna costruire bene meccanismo e norme - ragiona una fonte di governo - si tratta di misure che non sono onerose. Ma l'intervento va studiato e costruito al meglio». Difficile, tuttavia, che la misura entri già nel 'dl Sostegni-ter', atteso in Consiglio dei ministri la settimana prossima. «La vedo difficile, ma non si può escludere nulla: la situazione è fluida», spiega un altra fonte di governo, rimarcando che, con la partita del Colle tra appena dieci giorni, «c'è comunque la volontà di accelerare». Intanto il governo sta lavorando a un decreto legge ristori senza effettuare alcuno scostamento di bilancio. Secondo l'agenzia Bloomberg, il pacchetto sarà di circa 2,3 miliardi di euro. Il turismo sarebbe uno dei settori interessati al provvedimento. Ulteriori misure contro il caro bollette verrebbero invece varate dopo l'elezione del nuovo capo dello Stato. «Abbiamo già chiesto uno scostamento di bilancio per liquidare ristori e venire incontro ai rincari di alcuni beni essenziali», ha ricordato Giuseppe Conte durante l'assemblea dei gruppi M5s. Ma il capogruppo M5s alla Camera, Davide Crippa, ha affermato invece che dalla «conferenza dei capigruppo è emerso che non è in programma nessuno scostamento di bilancio prima dell'elezione del presidente della Repubblica. Purtroppo - precisa Crippa - l'instabilità politico-istituzionale comporta anche il rallentamento di questi meccanismi, con conseguenze su famiglie e imprese. Da qui la speranza che il governo possa proseguire il suo lavoro». Crippa ha anche ricordato che «le esigenze dei cittadini, di fronte a una emergenza sanitaria che non sembra finire e che si traduce in una emergenza economica e sociale, necessiterebbero di risposte immediate e veloci». Ma per ora non se ne parla. Sullo sfondo rimane il tema della tassonomia, i criteri Ue sulle fonti energetiche. Con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, che ha ribadito che «di gas e nucleare ne avremo bisogno fino a che non ci saranno sufficienti energie rinnovabili».

QUIRINALE 1. OGGI IL VERTICE DEL CENTRO DESTRA A VILLA GRANDE

Silvio Berlusconi vuole l’appoggio dei suoi alleati: è convinto di poter trovare i voti per diventare Presidente della Repubblica. Anche se non è detto che oggi, alla riunione del centro destra a Villa Grande, inizio alle 14, ci sia l’ufficializzazione della candidatura. Per il Corriere Paola Di Caro.

«Alla vigilia del vertice che si terrà oggi alle 14, presenti tutti i leader del centrodestra, la linea è «compattezza, la partita a scacchi è ancora lunga» e a guidarla sarà Berlusconi. Che continua a «coltivare il suo sogno» di potercela fare, ma che non farà mosse azzardate come annunciare la sua candidatura a 10 giorni dal voto. Quello che ha fatto invece, mercoledì sera, è stato chiarirsi sia con Giorgia Meloni sia soprattutto con Matteo Salvini, per capire a che gioco la Lega stesse giocando. L'alleato lo ha rassicurato, ma per farlo in modo ufficiale ha aspettato ieri mattina, quando dopo aver visto come i giornali avevano letto i messaggi leghisti (uno stop a Berlusconi), ha diramato una nota per definire «inaccettabili» i veti sul Cavaliere. Era il minimo, in vista del summit di oggi. Perché comunque finisca, che si sottoponga alla prova dei numeri alla quarta votazione o apra ad altre ipotesi, oggi il centrodestra deve «essere unito» sul suo nome: «Me lo devono - continua a ripetere - pretendo un atto di lealtà». Un atto che, dice in queste ore, se andrà a buon fine «converrà a tutti: a chi non vuole andare a votare subito, a chi intende governare se vinceremo le elezioni e solo con me avrà la certezza di essere nominato premier e garantito in Europa, a chi vorrà ristrutturare il centrodestra senza la mia presenza, sia in FI che fuori». Oltre a chiedere garanzie sui numeri prima di sottoporsi a un voto, gli alleati poco potranno opporre. Anche gli agitati centristi, per Berlusconi con pochissime carte in mano e pronti ad allinearsi per mancanza di alternative. Perché, dicono gli azzurri, se «salta il patto sul sostegno a Berlusconi, salta tutto il centrodestra». Restano però i problemi. E a rappresentare plasticamente il tutto è arrivato in mattinata l'auspicio di Gianni Letta, a margine della camera ardente per David Sassoli, per un'elezione in un clima «condiviso» come quello che ha caratterizzato la commemorazione per la morte del presidente del Parlamento Ue: «Bisogna guardare agli interessi del Paese e non alle differenze di parte». Uno stop a Berlusconi? Raccontano che il consigliere di Berlusconi, che comunque è tra chi più consiglia cautela all'ex premier, abbia passato due ore ieri mattina a villa Grande, e «non c'è dissidio» giura Gasparri. Ma il punto è cruciale: si può votare un presidente della Repubblica in un muro contro muro? Secondo Matteo Renzi no, tanto che il leader di Iv coglie la palla al balzo e si dice «d'accordo con le parole di Letta, Gianni» e prevede un'elezione il «27, massimo 28 gennaio», probabilmente le prime due a maggioranza assoluta. Ma Berlusconi, che secondo Sgarbi «ha parlato con Renzi», non demorde: secondo lui, «pochissimi» lo tradiranno; il fronte avversario, poi, non ha armi: «Se ci presentiamo compatti, anche se loro disertassero la quarta votazione, per quanto potrebbero rifiutarsi di presentarsi?». E poi c'è il fronte internazionale. Le parole del capogruppo del Ppe Weber, che ieri Berlusconi ha ricevuto a cena a Villa Grande, sono un endorsement non banale. E il Cavaliere lunedì andrà a Strasburgo per votare il presidente del Parlamento europeo (esponente del Ppe) e magari ottenere altre benedizioni. In attesa, dicono i suoi, di chissà quale altro «colpo di scena». Che ci sarà, comunque finisca la partita».

Ma che cosa chiederà Matteo Salvini al Cav nel vertice di oggi? Alla domanda prova a rispondere Pietro Senaldi su Libero, che sostiene: vorrà vedere i numeri e capire se esiste un piano B.  

«Oggi a Roma da Berlusconi, a Villa Grande, si tiene il vertice del centrodestra per decidere la strategia per il Quirinale. Non è il primo, non sarà l'ultimo. Lega e Fratelli d'Italia sono pronti a sostenere la candidatura del leader azzurro, e glielo ribadiranno, ma il punto è che i loro voti, sommati a quelli forzisti, non sono sufficienti, anche al netto di franchi tiratori sempre con il revolver carico, a garantire il successo dell'operazione. Silvio sta tentando da settimane l'impossibile per farcela, con un pressing asfissiante su centristi e grillini in fuga. La posizione più delicata al momento è però quella del leader della Lega. Salvini infatti è disponibile a fare il cosiddetto king -maker dell'elezione di Berlusconi, ma non a regalargli il suo pacchetto di voti nel caso il Cavaliere, rendendosi conto di non avere i numeri per farcela, decida di far convergere il proprio sostegno su qualcun altro, salvaguardando una propria centralità a danno dell'alleato. Per questo oggi il leader della Lega farà due richieste a quello di Forza Italia. Vuole sapere esattamente su quanti numeri Silvio conta al di fuori del centrodestra e anche piuttosto specificatamente su quali nomi. Inoltre gli chiederà maggiore discrezione sulla campagna acquisti, ritenendo che le uscite di Sgarbi e di altri sodali berlusconiani non facciano che avvelenare il clima, rendendo incandescente lo scontro e riducendogli i margini di manovra. Meno ufficialmente, gli chiederà anche di impegnarsi, nel caso riuscisse a essere eletto, a una doverosa riconoscenza nei confronti degli alleati. Il timore infatti è che Berlusconi capo dello Stato si riscopra super europeista, pro accoglienza e totalmente votato alla riconciliazione, sacrificando per desiderio di passare alla storia come statista e unificatore, gli interessi di chi lo ha mandato al Quirinale. Questo il significato della frase del capogruppo leghista Molinari, che mercoledì sera ha dichiarato che il partito si deve preparare a un piano B e che tanto ha mal disposto il presidente azzurro. Ma quale può essere il piano B? Certo per Salvini sarebbe importante affermare un nome chiaramente riferibile al centrodestra, dalla Moratti a Pera, dalla Casellati a Nordio, ma sarebbe problematico far convergere su uno di essi una parte di sinistra. Renzi ha in testa Casini, Letta resiste su Draghi, che la Lega non potrebbe rifiutare anche se le sue quotazioni sono in calo, e sogna il bis di Mattarella, ipotesi molto poco gradita dalle parti di via Bellerio. La partita è quindi ancora tutta da giocare. Silvio ha messo in cassaforte le armate del centrodestra, ma il fronte deve allargarlo da solo, perché Salvini e Meloni devono preoccuparsi soprattutto del futuro dei loro eserciti personali. Chi ci guadagna In particolare, Matteo è stretto d'assedio dalla parte del Pd che poco si riconosce in Letta, che cerca di coinvolgerlo in un accordo per spaccare il centrodestra prima sulla questione Quirinale, poi su quella governo. Reggere il gioco e trovare un interlocutore però è cosa ardua, essendoci al momento due Pd, più Renzi, più tre fazioni grilline, quelli con Conte, pochi, quelli con Di Maio, di più, e quelli con se stessi o con Berlusconi, più ancora. E poi ci sono i centristi, che più che sostenere Silvio pensano ai suoi voti e a prenderseli facendolo litigare con la Lega. E Fratelli d'Italia? Sta alla finestra, ed è quello che ha meno da perdere. Meloni sostiene Silvio ma è pronta anche a votare Draghi, lo ha detto esplicitamente. Dovesse invece, come sembra sempre più probabile, profilarsi un mantenimento dello status quo, con Mattarella confermato a interim e Draghi a Palazzo Chigi, Giorgia conta di crescere ancora nei numeri, cavalcando l'opposizione e la coerenza, le due armi che l'hanno portata in alto finora».

QUIRINALE 2. L’ESEMPIO DI DAVID SASSOLI

Per una coincidenza imprevedibile, tutta la politica italiana si ritrova in queste ore a ricordare David Sassoli. Stamattina per i funerali, ieri per la camera ardente in Campidoglio. E fatalmente il suo esempio fa riflettere anche in chiave Quirinale. Francesco Bei per Repubblica.

«La prima chiama per il Quirinale è tra dieci giorni, ma è intorno e ai piedi di questa bara di legno chiaro che lo spirito della Repubblica inizia a incarnarsi. Come se David Sassoli, questa «persona perbene», come lo definisce con una sola voce la folla di romani in fila, desse corpo con la sua storia e le sue battaglie all'aspirazione di tutti i presenti. Emanuele Fiano se lo lascia scappare dalla bocca, appena sfilato per le condoglianze davanti alla moglie Alessandra Vittorini e ai figli Livia e Giulio. «David sarebbe stato un grande capo dello Stato». La politica e i politici, spesso distanti, cinici, sovente mediocri, talvolta impresentabili, per un giorno sembrano diversi. In questa bolla di commozione e dolore, il tempo è sospeso e l'esempio di Sassoli sembra incanalare questa energia rendendo tutti migliori. Il più lesto a interpretare il sentimento repubblicano è Gianni Letta, che da settimane sta cercando di dissuadere il Cavaliere dall'impresa quirinalizia. «Il clima che si respirava quando è stato commemorato David Sassoli in Parlamento era straordinario, di armonia, di desiderio da tutte le parti di contribuire a guardare agli interessi del Paese e non alle differenze di parte», dice Letta mentre si vanta di essere stato il primo direttore di Sassoli giornalista. In tutti i conciliaboli, in tutti i fugaci incontri che animano questa camera ardente, si sussurrano le stesse parole. Ci vorrebbe uno come Sassoli. L'unico nome che mette tutti d'accordo, l'unico capace di tenere (costringere?) Draghi a rimanere al suo posto, l'unico che riuscirebbe nell'impresa impossibile di tenere unita la maggioranza è Sergio Mattarella. Un cattolico democratico, di sinistra. Proprio come "David". Amato anche dalla gente comune. Graziano Delrio, che appartiene a quel filone culturale, esce sulla piazza del Campidoglio e osserva la lunga coda di romani che aspettano pazienti per tributare l'ultimo saluto a "David". Non a un vip, un attore o calciatore, ma un politico. Strano no, di questi tempi? «Il fatto è che il popolo ha una sua saggezza e si accorge quando uno è sincero». Certo, magari all'epoca lo candidarono per la sua popolarità, perché era un mezzobusto del Tg1. Matteo Renzi ricorda quando «nel 2009, nel momento per me più difficile, venne al ballottaggio a Firenze a darmi una mano. Andare per i mercati con Sassoli era una pacchia, la gente si accalcava». Ma Sassoli era anche un uomo con una cultura politica dalle radici antiche, profonde. Il cardinale Dalla Costa, che fece serrare porte e finestre dell'Arcivescovado di Firenze e stabilì che il giorno della sfilata di Hitler e Mussolini tutte le chiese della città rimanessero chiuse. Giorgio La Pira, i preti di strada, Giuseppe Dossetti, Achille Ardigò, fino a Nicola Pistelli (il padre di Lapo), amico del padre di Sassoli, Domenico. «Nicola Pistelli - ricorda Renzi - era il cervello della sinistra Dc. Zaccagnini lo diceva: se fosse stato vivo "Nicolino" il segretario Dc sarebbe stato lui e non De Mita». Memorie lontane. Il costituzionalista Stefano Ceccanti, sotto la statua del Marco Aurelio, riporta in vita uno dei circoli che videro la prima formazione politica di Sassoli, quella Lega Democratica che vedeva insieme Pietro Scoppola, lo stesso Ardigò, Paolo Prodi, Roberto Ruffilli. La politica con la maiuscola. Quella che fu anche di Aldo Moro. Il neo assessore alla cultura di Roma, Miguel Gotor, intabarrato al freddo in fila tra i tanti, rammenta l'ultima conversazione con Sassoli: «Mi confidò che spesso, alle feste romane dei giovani cattolici, si presentava sul tardi proprio Moro. Da solo, senza scorta. Per ascoltare e parlare con quei ragazzi». David Sassoli, anzi David Maria, in memoria di Turoldo, filosofo, poeta, prete, antifascista. L'ambasciatore Luigi Solari stringe la mano alla vedova e verga sul registro delle presenze una poesia bellissima proprio di Turoldo: «Cristo sparpagliato per tutta la terra/Dio vestito di umanità». Arrivano tutti. Anche gli avversari. I tempi non sono più quelli di Almirante a Botteghe Oscure per i funerali di Berlinguer. Ma fa comunque effetto vedere Salvini e poi Meloni e Tajani, Bernini, Francesco Giro e tanti altri. È quello spirito di concordia che, per l'appunto, coglie lesto Gianni Letta. E che sembra allontanare e scacciare come un cattivo pensiero candidature troppo di parte, che riaprirebbero ferite in un Paese che invece ha bisogno di cure».

QUIRINALE 3. IL MESSAGGIO DI DRAGHI

Nei colloqui coi fedelissimi il premier manda segnali ai leader dei partiti e assicura di non avere ambizioni semi presidenzialiste. Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa.

«Se toccasse a me essere scelto per il Quirinale, non potrei certo indicare un successore o mettere a punto un nuovo esecutivo. Lascerei mano libera alla politica, sarebbero i leader a trovare un accordo tra loro». Al telefono con un esponente di governo, Mario Draghi manda un messaggio che non può essere frainteso. Nessun semipresidenzialismo di fatto, nessuna mania di grandezza. Il presidente del Consiglio rispetta tutte le prerogative dei partiti e del Parlamento. Sa che il suo futuro è nelle loro mani. Soprattutto, sa che è quello che i leader vogliono sentirsi dire. A un anno e mezzo dalla fine della legislatura - bene che vada - la politica vuole riprendersi la sua autonomia. E la partita del Quirinale è lo scenario ideale per farlo. Tutto si muove in questa direzione. Soprattutto, così si stanno muovendo il presidente del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte, il segretario del Partito democratico Enrico Letta e quello della Lega Matteo Salvini. Che si sono sentiti, e visti, in una triangolazione che va avanti da giorni. Senza fare troppa pubblicità, ma senza negarlo e senza affidare la trattativa a sherpa o emissari. Perché - è quello che si sono detti - se loro tre saranno in grado di trovare un'intesa, nessuno potrà forzare la mano sulla presidenza della Repubblica. «Dobbiamo farlo per il bene del Paese», ha detto ai suoi Giuseppe Conte, davanti alla sorpresa di vederlo parlare con colui che ha fatto cadere il suo primo governo compiendo quello che l'avvocato ha considerato un tradimento politico. «Non è il momento di pensare alle nostre simpatie e non è il caso di affidare il dialogo a qualcun altro, seguirò tutto in prima persona. Fidatevi di me». Il primo segnale di un'intesa nuova, che conviene a tutti gli attori per molte ragioni, è arrivato sulla richiesta di un nuovo scostamento di bilancio per dare ristori alle attività in crisi e per aiutare le imprese e le famiglie provate dal caro bollette. Il premier ha reagito tiepido, ma la richiesta è arrivata all'inizio dell'anno dal Movimento 5 stelle, negli ultimi giorni dalla Lega di Salvini, e ieri - esplicitamente - dal Pd. Che già proprio con Letta aveva chiesto «scelte coraggiose». A Palazzo Chigi, non a caso, parlano di «un'aria di burrasca mascherata da bonaccia». Perché a Draghi - nelle conversazioni private - tutti dicono: «Se si creeranno le condizioni siamo pronti a sostenerti», ma quel che si sta tentando - invece - è di fare a meno di lui. Per il Quirinale, ovviamente. Non certo per la guida del governo in un anno che si prevede travagliato. È per questo che l'idea di un ingresso dei leader nell'esecutivo, gli assi di briscola - per dirla con Salvini - è stata subito bollata dal Nazareno come una «solenne sciocchezza». Con un avviso rivolto proprio al leader della Lega: «Per noi tutto quel che è costruzione di un dialogo va bene, ma mettiamo da parte le provocazioni». Così, il primo tentativo della triangolazione è stato quello di convincere il leghista a sostenere un Mattarella bis. Ma su questo, il segretario del Carroccio ha il problema Giorgia Meloni, mascherato da «rispetto assoluto per le parole del capo dello Stato sulla sua indisponibilità». In subordine, si tenta di trovare un nome che possa unire tutti e - questa la richiesta di Salvini - che non venga sempre dalla solita area di centrosinistra. Perché già la missione di trainare il centrodestra su una soluzione diversa da quella di Silvio Berlusconi è difficile. Se fosse per far "vincere" il Pd, sarebbe impossibile (e infatti, prende quota il nome dell'ex ministro dgeli Esteri e commissario europeo Franco Frattini). Ma siamo all'inizio della trattativa, questo è il punto. E a ogni incontro, le condizioni cambiano, si rimuovono ostacoli, se ne incontrano di nuovi. Quel che è certo è che a Conte, Letta e Salvini parlarsi conviene per una ragione fondamentale: tutti e tre hanno dei rivali da tenere a bada. Il presidente del Movimento soffre - è un eufemismo - l'attivismo di Di Maio, che avrebbe dalla sua 40-50 parlamentari (alcuni anche tra gli ex M5S del Misto). «Ormai è un corpo estraneo, se viene alle riunioni non dice una parola», dice una fedelissima contiana. Enrico Letta teme invece le mosse di Matteo Renzi, che con l'ostentato dialogo con Salvini ha già tentato di prendere il pallino in mano e che potrebbe essere pronto a tutto pur di fare l'ennesima mossa del cavallo. Ha dalla sua una cinquantina di parlamentari e un accordo con i 32 di Coraggio Italia capitanati alla Camera dall'ex forzista Marco Marin. Matteo Salvini, dal canto suo, ha l'occasione di prevalere sulla rivale interna Meloni e di guidare la coalizione su un nome più realistico di quello di Berlusconi. Che lo stesso Gianni Letta sembra escludere nel momento in cui dice, alla camera ardente di David Sassoli, che i grandi elettori dovranno ispirarsi al clima che si respirava alla Camera e al Senato durante la commemorazione del presidente del Parlamento europeo. E quindi «superare le differenze di parte». Secondo Maurizio Lupi, si tratta dell'«invito al dialogo» di chi è preoccupato e ripete a Berlusconi: «Attento, se fallisci ti fai male». Mentre altri consiglieri - come Fedele Confalonieri - lo invitano a insistere convinti della sua capacità di compiere imprese impossibili. Leader di Noi con l'Italia, dominus del gruppo misto di Montecitorio, Lupi fa una profezia: «Comunque vada, entro questo week end finisce il primo tempo della partita. Berlusconi farà vedere le sue carte, gli alleati dovranno decidere se sostenerlo fino al voto - magari puntando su di lui già alla terza votazione - o se scegliere tutti insieme un'altra strada». Che potrebbe sempre essere Draghi - almeno così sperano i ministri più legati al premier - anche se una cosa è certa: con sempre più insistenza, si cercano altre strade».

QUIRINALE 4. IL MOVIMENTO DIVISO AL VOTO

Assemblea congiunta di deputati e senatori dei 5 Stelle per discutere sul voto per il capo dello Stato. La cronaca di Emanuele Buzzi per il Corriere. Mancheranno ben 70 voti su 230?

«I contiani esultano, l'ala critica pure. La riunione dei grandi elettori Cinque Stelle (partecipano anche i delegati regionali) finisce così, sotto il segno dello scontro. E con una tensione palpabile, nonostante il dibattito non sia stato infiammato da interventi aspri così come si pensava alla vigilia. Il tema della riunione è il conferimento del pieno mandato a Giuseppe Conte a trattare per il capo dello Stato, lo stesso mandato - per intenderci - che Enrico Letta potrebbe chiedere ai dem. E lo scontro interno si gioca proprio su questo, sulla presenza o meno dei capigruppo nella trattativa. Un punto che viene visto dai vertici come fondamentale. Prima parla il presidente M5S e dice di voler «ascoltare». Il suo discorso raccoglie di fatto tutti i punti pubblici toccati dal Movimento nelle ultime settimane: il dialogo con tutte le forze in campo, l'asse saldo con Pd e Leu, il no a Berlusconi come candidato («Irricevibile»). «Non aspiriamo a fare i king maker costi quel che costi» dice Conte. E precisa: «Noi dimostreremo coi fatti che l'unico sicuro "ago della bilancia" in questa partita sarà proprio il M5S». Il leader poi puntualizza: «Non ritengo opportuno scendere nella valutazione di singoli nominativi», anche se precisa a chiare lettere: «Credo che gli italiani pretendano che il governo non perda nemmeno un giorno di lavoro per risolvere tutti questi problemi». Conte poi ammette: «Ho instaurato un canale diretto con gli esponenti di centrodestra. Questo confronto (e in particolare con Salvini) è utile». Dopo Conte intervengono i capigruppo, con Davide Crippa che ricalca il discorso fatto martedì ai deputati sulla necessità di garantire il Pnrr. A seguire c'è una sequela di interventi tutti pro-Conte. Mauro Coltorti, Gianluca Ferrara, Angela Raffa, Maurizio Santangelo, Giorgio Fede, Marco Bella, Daniela Torto, Alessandra Maiorino, Davide Serritella, Agostino Santillo si schierano con il leader. Primo Di Nicola chiede di puntare al Mattarella bis, Danilo Toninelli invoca un pronunciamento della rete. Tra i parlamentari, però, c'è malessere. «Questa è la solita claque», dice un grande elettore M5S. C'è chi parla di pressioni, messaggi durante l'assemblea per ribadire la centralità del ruolo di Conte. La tensione è palpabile. Intervengono poi alcuni esponenti - Vincenzo Presutto, Francesca Ruggiero, Luigi Iovino, Giuseppe Auddino, Orietta Vanin, Antonella Campagna e Marialuisa Faro - che chiedono la presenza di Mariolina Castellone e Crippa al fianco di Conte. Il timore - spiegano nel Movimento - è che «chi gestisce il gruppo venga informato a cose fatte». Con la riunione ancora in corso, fonti dei vertici sottolineano come la larga maggioranza abbia riconosciuto pieno mandato a Conte. Parole che riaccendono lo scontro interno. «Quanto siamo coesi lo vedremo nell'urna», dice un Cinque Stelle. Il rischio - assicurano fonti interne al partito - è che il numero di defezioni per vari motivi possa toccare quota 70 (su oltre 230 grandi elettori). «Ci sono una trentina di malpancisti, una ventina di cani sciolti e in più ci saranno anche gli assenti per Covid», spiega un parlamentare».

UCRAINA, C’È ANCORA IL RISCHIO DI UNA GUERRA

La pagina estera si apre col monito dell'Osce riunito a Vienna: non è mai stato così alto il rischio di guerra in Ucraina». Paolo M. Alfieri per Avvenire.

«Sembra che il rischio di guerra nell'area Osce sia oggi maggiore che mai negli ultimi 30 anni». È toccato ieri al ministro degli Esteri polacco, Zbigniew Rau, nel suo discorso d'inaugurazione della presidenza polacca del Consiglio permanente dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, «certificare» l'escalation legata allo scontro frontale tra la Russia e l'Occidente. Un'escalation che questa settimana è stata soprattutto verbale, con i colloqui «franchi» tra Washington e Mosca di lunedì a Ginevra e quelli tra Nato e Russia a Bruxelles di mercoledì. Ieri la nuova «puntata» all'Osce a Vienna, sullo sfondo della crisi ai confini tra Ucraina e Russia. «Da diverse settimane affrontiamo il rischio di una forte escalation nell'Europa orientale. Dobbiamo lavorare immediatamente a garanzie di sicurezza per la regione» ha detto Rau, deplorando il ritorno della retorica delle «sfere di influenza». Secondo Rau, l'Osce, un forum multilaterale per la sicurezza composto da 57 Stati nato durante la Guerra fredda, «è la piattaforma giusta per discutere di sicurezza globale da Vancouver a Vladivostok e può contribuire a mitigare le controversie esistenti». Rau ha però ribadito la linea di Kiev, di Washington e della Nato: nessun Stato membro dell'Osce può decidere sulle scelte in termini di sicurezza e difesa di un altro membro, in riferimento alla richiesta di Mosca di mantenere l'Ucraina e la Georgia fuori dall'Alleanza Atlantica. «La sicurezza di nessun Paese può estendersi a spese di un altro Paese, né può allargarsi fino al diritto di decidere a quale genere di costellazione di sicurezza o alleanza voglia appartenere», ha avvertito Rau. Il ministro degli Esteri polacco ha affermato che «qualsiasi minaccia rivolta a uno Stato confinante nell'area Osce è estremamente preoccupante non solo per il Paese contro il quale viene esercitata la minaccia ma per tutti gli Stati dell'organizzazione, che sono connessi dagli stessi principi basati sulla sovranità e l'integrità nazionali». Rau ha quindi definito il conflitto in Ucraina «il più preoccupante tra quelli estesi in corso», ma si è detto fiducioso che l'Osce sia «l'organizzazione internazionale meglio attrezzata per rilanciare il dialogo». Secondo la segretaria generale dell'Osce, Helga Maria Schmid, l'escalation in Ucraina è fonte di «seria preoccupazione» per l'organizzazione. La reazione di Mosca non si è fatta attendere. «Gli Stati Uniti e la Nato continuano il loro sviluppo militare negli Stati post-sovietici con l'obiettivo di utilizzare il loro potenziale militare contro il nostro Paese», è la posizione espressa da Alexander Lukasehvic, l'ambasciatore russo presso l'Osce. Contro l'allargamento a Est, Mosca pretende delle garanzie, ma ha sottolineato di non aver avuto ieri risposte «soddisfacenti». Per questo, come ha indicato il viceministro degli Esteri Sergeij Ryabkov, cil Cremlino non considera a questo punto utile «proseguire con i negoziati». Da parte sua, il rappresentante permanente degli Stati Uniti in seno all'Osce, Michael Carpenter, ha avvertito: «Stiamo assistendo a un dispiegamento massiccio e senza precedenti delle forze russe. Dobbiamo essere pronti all'eventualità che ci sia una escalation». A ridosso dei confini ucraini sono ancora dispiegati 100mila militari russi pronti a entrare in azione. Le conseguenze sarebbero devastanti per tutti».

È una complessa partita a scacchi in cui non c’è solo l’Ucraina. Mosca teme che l'Occidente porti dalla sua parte oltre a Kiev, anche Georgia e Moldavia. La vera sfida tra Nato e Russia è infatti su tutto il Mar Nero, sostiene Giampiero Gramaglia sul Fatto.

«Non è l'Ucraina, ma il Mar Nero la posta in palio nel braccio di ferro tra Occidente e Russia, in atto in questi giorni su tutti i tavoli della diplomazia Est-Ovest. Mosca vuole che nessuno dei tre Paesi del cosiddetto Trio Associato, Ucraina, Moldavia e Georgia entri nella Nato e pretende un impegno in tal senso dall'Alleanza atlantica. Ucraina, Moldavia e Georgia non fanno parte dell'alleanza militare post-sovietica intervenuta, la scorsa settimana, nella crisi kazaka. "Se i Paesi del Mar Nero membri della Nato più Ucraina, Moldavia e Georgia non fanno squadra, la Russia trasformerà il Mar Nero nel suo lago interno, dominando completamente la zona" aveva detto il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, citato da Euractiv dopo un incontro a Batumi tra i leader del Trio Associato, nel luglio scorso. Di recente, i ministri degli Esteri dei tre Paesi sono stati a Bruxelles, alla Nato, acuendo gli allarmi di Mosca, anche se, stando alla lettera del Trattato dell'Atlantico del Nord, nessuno di essi può entrare nella Nato, perché ciascuno è segnato da conflitti interni: il Donbass, la Transnistria, l'Abkhazia e l'Ossezia. La Russia ne teme l'adesione all'Alleanza perché esporrebbe ampie fette del suo territorio a missili a medio raggio installati entro i loro confini. L'attenzione di Mosca per il Mar Nero è confermata dall'interesse per il Mare d'Azov, un fazzoletto d'acqua tra la Crimea, il Donbass e la Russia. Per accedervi, c'è una sola via: lo Stretto di Kerch, che separa la Crimea dalla penisola di Taman, russa. Dopo l'annessione della Crimea, lo stretto è virtualmente divenuto tutto russo. Il controllo del Cremlino su quelle acque è divenuto totale ed effettivo con la costruzione del Ponte di Kerch, inaugurato nel 2018, presente Vladimir Putin. Questa settimana, c'è stata una maratona negoziale tra Occidente e Russia: i bilaterali Usa-Russia il 10 e l'11 a Ginevra; il Consiglio Nato-Russia il 12 a Bruxelles (non si riuniva da tre anni); e ieri il consulto dell'Osce a Vienna. Non ne sono scaturiti progressi: il cancelliere tedesco Olaf Scholz dice che "è compito comune favorire la de-escalation", ma tutti sembrano invece contribuire all'escalation della tensione. Nel confronto tra blocchi la Russia di Putin porta nostalgie e reminiscenze di Unione sovietica. E il ministro degli Esteri francese Yves Le Drian avverte: "Non è accettabile una nuova Yalta", cioè una divisione del mondo in zone d'influenza all'interno delle quali ciascuno fa come vuole. A Washington, il Senato prepara nuove sanzioni anti-Russia per l'ammassarsi di truppe ai confini con l'Ucraina, che, se includessero misure contro Putin, Mosca giudica paragonabili a una rottura delle relazioni. A Bruxelles, l'Ue rinnova per sei mesi le sanzioni contro la Russia prese nel 2014, dopo l'annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass. A Brest, i ministri degli Esteri dei 27 pensano a eventuali inasprimenti. A Vienna, dove si tiene il Consiglio dell'Osce, l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, il ministro degli Esteri polacco Zbigniew Rau giudica che "il rischio di guerra nell'area Osce è oggi maggiore che mai negli ultimi trent' anni". A tutti replica da Mosca il viceministro della Difesa russo Aleksandr Fomin: "Le relazioni Russia-Nato sono a un livello criticamente basso". Più duro il viceministro degli Esteri Sergej Ryabkov, un falco in ascesa al Cremlino (c'è chi lo vede in corsa per sostituire il veterano Sergej Lavrov): "Non c'è alcun motivo per proseguire i colloqui di sicurezza con l'Occidente", perché "abbiamo ripetutamente offerto all'Alleanza di adottare misure di riduzione dell'escalation ma sono state ignorate". Il che "crea i prerequisiti per l'emergere di incidenti e conflitti e mina i fondamenti della sicurezza." Che "differenze significative e non facili da superare" siano emerse tra Nato e Russia nel Consiglio di mercoledì a Bruxelles l'aveva riconosciuto, a caldo, il segretario generale dell'Alleanza atlantica Jens Stoltenberg, che pure spronava a "continuare il dialogo". Il vicesegretario di Stato Usa, Wendy Sherman, aveva ribadito che "ogni Paese ha il diritto sovrano di scegliere la propria strada." Di fatto, sottolinea Stoltenberg, la Nato rigetta la richiesta di Mosca di "garanzie legali" per frenare l'allargamento dell'Alleanza a possibili nuovi membri: "Non siamo disposti a compromessi sui principi chiave, come il diritto dei Paesi a scegliere la propria strada e il diritto dei membri dell'Alleanza alla difesa reciproca." La Nato resta aperta al dialogo su controllo degli armamenti, limitazioni dei missili, cyber-security. Ed è disposta a riaprire le rispettive missioni, a Bruxelles e a Mosca, "senza precondizioni"».

POLONIA-BIELORUSSIA, IL CONFINE DIMENTICATO

Dalla fine di luglio migliaia di migranti sono bloccati nella terra di nessuno al confine tra Polonia e Bielorussia. Drammatica la decisione di Medici senza frontiere, che si ritirano dalla zona perché non è loro permesso l’accesso ai profughi. La cronaca di Monica Perosino per La Stampa.

«Lontano dagli occhi e dal cuore dell'Europa si continua a morire sulla frontiera della vergogna. Ma morire non basta. Prima ci sono le torture con le scariche elettriche, le percosse con i bastoni e i calci delle pistole, i giochi delle guardie, che liberano i cani, e solo chi corre abbastanza velocemente si salva. Ci sono bambini separati dalle famiglie, che vagano soli nella foresta finché qualcuno non li troverà. Se qualcuno li troverà. Sei mesi dopo l'inizio di quella che viene definita surrettiziamente una guerra ibrida del regime bielorusso alla Polonia, migliaia di vite sono ancora imprigionate e torturate al confine, in quella zona rossa che resta proibita, nonostante i proclami, alle Ong e ai media internazionali. Oltre il filo spinato della Fortezza Europa non si può passare, non si può guardare, mentre Minsk continua a spingere i migranti verso la Polonia e Varsavia li respinge. In mezzo ci sono le torture, i morti di freddo, l'orrore. In migliaia sono ancora là dentro, nella foresta di Biaowiea, imprigionati da filo spinato e guardie armate. Ventidue i corpi assiderati ritrovati dalle ong fino ad ora. Qui, nel cuore dell'Europa, si sta consumando un disastro umanitario senza precedenti. Il segno finale della disfatta è il comunicato di Medici Senza Frontiere che dopo mesi di lavoro è stata costretta ad abbandonare: «Siamo costretti a concludere il nostro intervento in Polonia a causa del continuo rifiuto delle autorità polacche di concedere l'accesso all'area di confine con la Bielorussia, dove gruppi di persone sopravvivono a temperature inferiori allo zero, con un disperato bisogno di assistenza medico-umanitaria». Dopo Amnesty International, un'altra conferma, se ce ne fosse bisogno, che quanto dichiarato da Varsavia (nessun push-back illegale, nessun impedimento alle ong di soccorso) non è vero. «Avevamo accesso solo alle zone esterne - spiega la presidente di Msf Italia, Claudia Lodesani - a un numero molto limitato di persone, quelle che erano riuscite a superare lo sbarramento delle guardie di frontiera, così è impossibile continuare». Nel gelo della foresta ci sono ancora persone che hanno bisogno di aiuto, «ma nonostante il nostro impegno e volontà nell'assisterle, non siamo in grado di poterlo fare sul fronte polacco». Gli ostacoli messi sulla strada di Medici Senza Frontiere sono gli stessi che denunciano le ong polacche, in prima linea con gli abitanti dell'area proibita vicino al confine. Le lanterne verdi sono ancora accese, di notte i telefoni squillano in continuazione, chi avvista un migrante chiama le Ong che avvertono i media ancora al confine (servono testimoni). La rete di soccorso si scambia le coordinate gps, il più vicino corre più velocemente che può. Bisogna arrivare prima delle guardia di frontiera. «Siamo sempre più stanchi, esausti - dice Kornelia di Fundacia Ocalenie - lavoriamo su turni, assieme agli abitanti e a qualche sindaco di confine, ma non ce la facciamo più». Solo 48 ore fa è stato trovato un bambino di tre anni. Vagava solo nella foresta, separato dai genitori, un cappuccio a forma di orso in testa, minuscoli scarponcini da neve ai piedi. «La cosa incredibile è che questa è l'Europa, quella che si dovrebbe basare sul principio di solidarietà, sui diritti umani - dice Lodesani -, ma che invece non dà assistenza a persone che hanno bisogno di cure, a persone che muoiono di freddo. In Europa, nel 2022». Uno yazida iracheno ha raccontato ad Amnesty International che circa un'ora dopo aver attraversato il confine polacco, è stato fermato dai soldati e portato al fiume che segna il confine con la Bielorussia: «Il fiume era largo solo circa 10 o 15 metri, ma era profondo e la corrente era molto veloce. Ci hanno tirato fuori dai veicoli e ci hanno spinto in acqua. Chi non entrava veniva picchiato con i bastoni». Le testimonianze raccontano una sola versione, profondamente diversa da quella data da Varsavia: «Non è la prima volta che un governo mente - aggiunge Lodesani - ma è disarmante scontrarsi contro una volontà politica così forte. Per riequilibrare la situazione abbiamo bisogno dell'impegno della società civile, ormai assuefatta al dolore e sempre più indifferente». Nel rapporto di Amnesty International non ci sono sfumature: «La Polonia viola chiaramente il diritto e gli standard internazionali, anche violando il divieto di tortura e altre persecuzioni». E l'Europa tace. «I tentativi dell'Ue di esternalizzare le frontiere sono evidenti, ma non è una strategia lungimirante - spiega Lodesani - il fenomeno migratorio è un fenomeno complesso che va affrontato in maniera complessa».

IN GERMANIA ERGASTOLO AL TORTURATORE DI ASSAD

In Germania sentenza di ergastolo al colonnello siriano Anwar Raslan riconosciuto colpevole di «crimini contro l'umanità», esponente del regime di Assad. Daniel Mosseri da Berlino per il Giornale.

«Ergastolo per crimini contro l'umanità. È la condanna inflitta da un tribunale tedesco ad Anwar Raslan, 58 enne cittadino siriano, già inquadrato con il quadro di colonnello nel Shu' bat al-Mukhabarat al-'Askariyya, il servizio di intelligence militare della Siria. Il Tribunale superiore di giustizia di Coblenza ha trovato Rasla colpevole di almeno 27 omicidi dei 58 che la procura gli contestava, colpevole di aver torturato 4 mila persone e colpevole di numerosi casi di stupro. L'ex milite, che ha già annunciato ricorso in appello, è un esponente del regime di Bashar al-Assad, il presidente siriano che ha reagito alla primavera araba nel suo paese scatenando nel 2011 una guerra civile che non è ancora finita e che si è trasformata in una grande operazione di pulizia etnica a danno della maggioranza sunnita dei siriani. La sentenza della corte tedesca è la prima di questo genere e arriva alla vigilia dell'undicesimo anno del conflitto interno al Paese mediorientale. Teatro dei crimini di Rasla e dei suoi collaboratori è il famigerato carcere di Al-Khatib a Damasco, luogo dell'orrore dove il Mukhabarat ha «interrogato» decine di migliaia di cittadini sospettati di opporsi al regime. Per dare un'idea dell'enorme quantità di crimini commessi dentro a quella prigione, basti pensare che i 4mila casi di tortura attribuiti a Raslan sarebbero stato commessi fra l'inizio della Guerra civile siriana nella primavera del 2011 fino alla fine del 2012, durante dunque una frazione del conflitto. Nei 108 giorni di udienza di un processo iniziato ad aprile del 2020, le responsabilità del colonnello siriano sono apparse anche grazie alla testimonianza di circa 80 testimoni che ai giudici hanno raccontato delle sevizie, delle scosse elettriche, degli abusi sessuali e delle condizioni inumane in cui erano tenuti ad Al-Khatib. Raslan, che a fine 2012 aveva disertato il regime di Assad, ha fatto l'errore di chiedere asilo politico come rifugiato alla Germania, Paese in cui è arrivato nell'agosto del 2014. Ma la Repubblica federale tedesca è un paese con centinaia di migliaia di profughi siriani, uno dei quali nel 2014 riconobbe Raslan alla periferia meridionale di Berlino. L'ex colonnello è stato così arrestato sulla base del principio della giurisdizione universale che permette a uno stato di processare un cittadino di un altro paese anche per crimini contro l'umanità, per crimini di guerra o per genocidio commessi anche in uno stato terzo. Va ricordato che Russia e Cina hanno a più riprese fatto ricorso al proprio diritto di veto per impedire al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di deferire il regime di Assad alla Corte internazionale di giustizia. Ad aiutare i giudici tedeschi nel loro lavoro hanno invee contribuito i cosiddetti «fascicoli Cesare», oltre 53 mila foto torture scattate da un fotografo militare siriano e poi fatte filtrare all'estero. Lo scorso febbraio la corte di Coblenza aveva inflitto una pena a quattro anni e mezzo per concorso in tortura, al 44enne Eyad Al-Gharib, aiutante di Raslan e ritenuto responsabile dell'arresto di 30 persone poi torturate nel carcere del Mukhabarat. L'arresto per Al-Gharib, entrato in Germania a luglio 2018 anch' egli come profugo, era scattato a febbraio 2019 a seguito di un'operazione congiunte della polizia tedesca e francese. «Per la prima volta, un esponente di alto rango del regime siriano è stato condannato per crimini contro l'umanità, ha dichiarato Patrick Kroker, rappresentante della parte civile e avvocato partner dell'Ecchr, il Centro europeo per i diritti umani e costituzionali che ha sede a Berlino. Anche l'Associazione tedesca dei giudici (Drb) ha sottolineato che la decisione del tribunale «invia un segnale importante agli autori e alle loro vittime: i criminali di guerra saranno perseguiti in Germania». La condanna di Raslan è stata accolta con soddisfazione dai tanti siriani che hanno attorniato il tribunale di Coblenza in attesa della sentenza. Comune a tutti l'auspicio che sia l'ex colonnello sia gli alti dirigenti del regime di Assad possano essere processati per gli stessi in crimini questa volta però non all'estero ma in Siria».

IL GIORNO DELLA COLLERA IN LIBANO, BEIRUT CITTÀ FANTASMA

In Libano ieri è stato il giorno della collera: sciopero del trasporto privato per gli aumenti incontrollati della benzina e per la svalutazione della moneta nazionale ipersvalutata. Pasquale Porciello per il Manifesto.

«Beirut è apparsa come una città fantasma per tutta la giornata di ieri. Lo sciopero del trasporto privato dovuto ai rincari ormai quotidiani della benzina ha di fatto paralizzato la capitale e le arterie principali del paese. Il presidente del sindacato dei trasporti su gomma Bassam Tleis aveva annunciato «la giornata di collera e di paralisi del Paese» di ieri il 22 dicembre scorso quando aveva invitato tutti i libanesi toccati dalla crisi a prendere parte alla manifestazioni tra le 5 e le 17. La dollarizzazione dell'economia libanese è tra le cause della crisi finanziaria cominciata nel 2019, ma prevista da tempo. La lira agganciata al dollaro a un tasso fisso di 1.507,5 lire dal 1997 ha favorito negli anni la bolla economica e finanziaria che una volta scoppiata ha precipitato in tempi brevissimi il paese nel baratro. Al mercato nero il dollaro ha superato pochi giorni fa le 33mila lire. La svalutazione della lira e l'interruzione dei sussidi statali l'estate scorsa che calmieravano il prezzo della benzina l'ha fatta schizzare oggi oltre le 400mila lire per 20 litri, come si conta qui, ovvero ai massimi storici. Crisi del petrolio che vuol dire anche minore produzione di elettricità pubblica, aumento dei prezzi delle forniture dei generatori privati e varie ore di buio totale al giorno. Le aggressive politiche neo-liberiste implementate dall'allora premier Rafiq Hariri dopo gli anni della guerra civile (1975-90) hanno privilegiato il terziario e forti di una lira agganciata al dollaro hanno favorito le importazioni, mentre la produzione di beni primari e secondari è rimasta al 20% del fabbisogno nazionale. Crollato il castello finanziario, l'economia reale resta oggi dollarizzata, si continua a importare quasi tutto, ma la maggior parte della popolazione fa i conti con la lira deprezzata. Dieci litri d'acqua, prima della crisi, con un'economia gonfiata costavano 1500 lire, 1 dollaro. Oggi, con il dollaro fra le 30 e le 33mila, costano 15/16mila e cioè 50cent. Chi continua a essere pagato in lire, anche laddove gli stipendi sono aumentati di un minimo, ha evidenti svantaggi, mentre chi ha accesso al dollaro ha un enorme potere d'acquisto. La media borghesia, le classi subalterne, gli statali, l'esercito sono tra i più colpiti dal fenomeno. I pochi ricchi si arricchiscono. «Il problema è che guadagniamo in lire ma dobbiamo pagare tutto in dollari. L'affitto è in dollari, le rate dell'auto sono in dollari. Prima noi tassisti facevamo una vita degna, mentre oggi non riusciamo a sopravvivere. Lo Stato aveva promesso aiuti che non sono mai arrivati» ci dice Alaa Farhat, mentre col suo tassì staziona con un piccolo gruppo di colleghi davanti alla moschea Al-Amin in Piazza dei Martiri a Beirut che la polizia ha chiuso al traffico. «Non compriamo più la carne, neanche il pollo. Mangiamo riso, verdure, legumi: fa bene alla salute, il governo ci tiene alla nostra salute!» è il commento sarcastico seguito da una risata triste di un altro tassista. Appena insediato a settembre, il premier Mikati aveva in effetti promesso aiuti. L'ennesima impasse politica ha però fatto in modo che da ottobre il governo non si sia ancora riunito. La conseguenza è che gli aiuti economici promessi al Libano dalla comunità internazionale diretta da Macron in seguito all'esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut sono ancora bloccati e che la mano tesa dal Fondo monetario internazionale non è stata ancora afferrata. Essere alla vigilia delle elezioni del 15 maggio non aiuta. La tensione interna tra le forze politiche sale, come hanno dimostrato gli scontri a fuoco del 14 ottobre scorso a Tayyoune, sull'antica linea di confine tra Beirut est e ovest e nei quali sono morte 7 persone, tra cecchini vicini alle Forze Libanesi e un corteo di Amal/Hizb' allah che chiedeva la rimozione del giudice Bitar che indaga sui fatti del porto, accusato da questi ultimi di essere politicizzato. La crisi diplomatica degli ultimi mesi con il Golfo è la prova che la questione libanese valica i confini nazionali. A grandi linee, tornano a polarizzarsi nella regione, come all'interno del paese, le posizioni pro e anti Hezb' allah-Tehran-Damasco. I blocchi annunciati dai trasportatori ci sono stati, ma il popolo non ha preso parte alle proteste. Una Beirut semideserta, molti i negozi chiusi, segno della rassegnazione di chi sente che tutto è ormai inutile. La crisi ha paradossalmente ma comprensibilmente rinsaldato i vecchi vincoli clientelari ora che le necessità sono ancora più concrete o allontanato definitivamente i cittadini dalla cosa pubblica. Rimane poco delle speranze di una rivoluzione prima pacifica, poi a tratti violenta, di un ormai lontanissimo 17 ottobre 2019, di quel kullun ya' nee kullun, «tutti vuol dire tutti», che chiedeva la rimozione in blocco di una classe politica corrotta al potere da prima della guerra civile. Solo mercoledì uno sparuto ma agguerrito gruppo di dissidenti di sinistra ha attaccato la sede della Banca Centrale, ma è stato disperso dalla polizia. Martedì la giudice Ghada Aoun ha interdetto l'uscita dal Paese al governatore della Banca Centrale Riad Salameh in carica da trent' anni e uomo di Rafiq Hariri, già inquisito in Svizzera e Francia dal 2020 per frode fiscale e riciclaggio di denaro. Salameh avrebbe creato uno schema Ponzi alla base del collasso libanese e trasferito tramite società offshore importanti quantità di denaro all'estero. Le richieste di visti e permessi di soggiorno sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi due anni. Il 74% della popolazione vive in povertà e se si prendono in considerazione i dati di accesso a sanità, educazione e servizi pubblici la percentuale sale all'82%, cifra raddoppiata rispetto al 42% del 2019. Questi i numeri forniti dal report annuale dell'agenzia Onu Escwa sulla «povertà multidimensionale» in Libano del settembre 2021. Lo stallo però continua e il Paese sprofonda giorno dopo giorno nelle sabbie mobili di una crisi senza fine».

Leggi qui tutti gli articoli di venerdì 14 gennaio:

https://www.dropbox.com/s/po93b0x4v1vtqg1/Articoli%20La%20Versione%20del%2014%20gennaio.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Stasera la Versione del Venerdì.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Share this post

Quirinale, la lezione di David

alessandrobanfi.substack.com
Comments
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing