La Versione di Banfi

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Ratzinger chiede perdono

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Ratzinger chiede perdono

Lettera del Papa emerito sulla pedofilia nella Chiesa. Il governo Draghi alle prese col caro bollette e gli sprechi del bonus. Grillo ferma Conte e vuole Casaleggio jr. Ucraina, Macron in difficoltà

Alessandro Banfi
Feb 9, 2022
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Ratzinger chiede perdono

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Corriere e Repubblica dedicano il titolo d’apertura alla lettera con cui Benedetto XVI ha commentato il rapporto sulla pedofilia nella Chiesa tedesca. Un mea culpa sentito ed accorato che si rivolge anzitutto alle vittime della pedofilia compiuta da membri del clero tedesco. Una “grandissima” colpa, richiamata dal Papa emerito, che chiede pubblicamente e sinceramente perdono. Le parole di Ratzinger colpiscono perché la richiesta di perdono si accompagna anche con una precisa e dettagliata difesa concreta nel merito delle circostanze in cui il rapporto tedesco cerca di coinvolgerlo. Come ha detto padre Federico Lombardi, per Ratzinger “il servizio della verità è stato sempre al primo posto. Egli non ha mai cercato di nascondere quello che poteva essere doloroso riconoscere per la Chiesa; non ha mai cercato di dare una bella immagine falsa della realtà della Chiesa o di quello che avviene”. Nonostante che molti esponenti dell’episcopato tedesco continuino a criticarlo.

Sul fronte italiano, non sono poche le difficoltà del Governo. Le nostre città, come sottolinea il Quotidiano Nazionale, la sera piombano sempre più nel buio perché i Comuni cercano di limitare i danni del caro energetico. Da una fase di ripresa, pare di essere tornati all’austerità degli anni Settanta. Fronte pandemia: la novità è che c’è una data finale per l’uso della mascherine al chiuso (via a quelle all’aperto da venerdì) ed è il 31 marzo. Questa volta Aprile potrebbe non essere “il più crudele dei mesi”, come sosteneva il poeta TS Eliot.

La politica italiana è in grande trambusto: sul “campo largo” della sinistra pesa infatti il caos 5 Stelle, con Beppe Grillo che, tornando ai pieni poteri e stoppando Conte, vorrebbe recuperare di nuovo Casaleggio jr. e la piattaforma Rousseau. In una specie di infinito gioco dell’oca. Dal versante centro destra, Giorgia Meloni conferma alla Stampa che non ha più parlato con Matteo Salvini dal sabato mattina dell’elezione bis di Sergio Mattarella. Mentre Silvio Berlusconi dice a Chi che è pronto “a rifondare il centro destra”.

È contrastata e difficile la mediazione del presidente francese Macron che, dopo Putin a Mosca, ha visto Zelenski a Kiev. Per il Cremlino l’Europa non ha abbastanza titoli per portare davvero ad un negoziato, visto che la questione posta è tutta sul ruolo della Nato. Da studiare, per capire la crisi dell’Ucraina, l’intervista dell’ambasciatore Sergio Romano al Manifesto: la Russia non è il nemico. Anche se gli Usa hanno “bisogno del nemico”. E, aggiungiamo noi, a volte anche di una guerra.

È disponibile il quarto episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa.

In questo quarto eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Chiara Ingrao, figlia di Pietro, dal 1976 al 1979 primo presidente della Camera espresso dal Partito comunista. Primogenita dell'ex dirigente del Pci e di Laura Lombardo Radice, Chiara Ingrao inizia il suo racconto proprio dall’incontro tra i suoi genitori nei giorni più difficili e rischiosi della Resistenza contro il fascismo. Vennero poi gli anni del dopoguerra, con la militanza nel Partito comunista , di cui Pietro Ingrao rappresentò uno dei volti più significativi dell’ala sinistra, tanto poi da contestare la svolta che, dopo la caduta del Muro di Berlino, avrebbe portato al cambio di nome. Non a caso, Ingrao aderirà a Rifondazione comunista e, nei suoi ultimi anni, dichiarerà il sostegno a Sinistra, ecologia e libertà. In mezzo, anni e vicende difficilissime, come il caso Moro, vissuto come tragedia anche familiare vista l’amicizia d’infanzia tra Chiara Ingrao e una delle figlie dello statista democristiano ucciso dalle Brigate Rosse.

Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Qui il link della quarta puntata con Chiara Ingrao:

Chiara Ingrao racconta il padre Pietro

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

La lettera del Papa emerito sulla pedofilia è di apertura sul Corriere della Sera: Ratzinger: chiedo perdono. E sulla Repubblica, che appare più critica: Il mea culpa di Ratzinger. Gli altri giornali, pur dando rilievo alla notizia, scelgono altro. Avvenire va sulla modifica della Costituzione, approvata ieri: Principio Ambiente. Nel nome dei figli. Mentre Domani è sul suicidio assistito: Il parlamento è fermo sul fine vita. Speranza prova a dargli una spinta. Sulla diatriba nei 5 Stelle ci sono Il Fatto: M5S, 3 vie d’uscita e ordinanza col buco. E Il Mattino: M5S, ultima sfida Grillo-Conte. L’altro versante dello schieramento politico è sottolineato dal Giornale: Berlusconi in campo: «Pronto a rifondare il centro destra». Di economia e delle città al buio si occupa il Quotidiano Nazionale: Benzina record. Ora è proprio austerity. Il Manifesto sullo stesso tema cita una canzone di Ligabue ma si riferisce a Draghi: Ci vediamo da Mario. Il Messaggero è sul 110: Superbonus, meno vincoli. Mentre il Sole 24 Ore si occupa del risiko delle aziende di telefonini: Iliad, 14 miliardi per Vodafone Italia. La Verità resta sulla pandemia: C’è la prova: il superpass è inutile. Ma ora scatta l’obbligo sul lavoro. Libero mette l’accento su una dura polemica in commissione di vigilanza Rai: «Ricattato da Report». Scandalo a Raitre.  

PEDOFILIA. LA LETTERA DI RATZINGER

Il Papa emerito Benedetto XVI interviene sulla vicenda delle violenze sessuali nell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga. Ha affidato a quattro canonisti la replica ai presunti errori per cui è stato tirato in ballo. La cronaca di Mimmo Muolo per Avvenire.

«Lo stile profondamente umano e spirituale di Benedetto XVI e la solidità delle argomentazioni per smontare le accuse di aver coperto alcuni preti pedofili. Il coraggio di chiedere scusa per una svista dei suoi collaboratori, ma anche la fermezza nel dire: non sono un bugiardo (il caso riguarda la sua partecipazione a una riunione di curia, quand'era arcivescovo di Monaco e Frisinga). E ancora: la gratitudine per quanti lo hanno sostenuto in queste settimane difficili (papa Francesco in primis) e la compassione per le vittime degli abusi alle quali di nuovo ha espresso vergogna, dolore e sincera richiesta di perdono per ciò che hanno sofferto. E infine un pensiero alla morte, al giudizio di Dio e alla fiducia nella sua misericordia, con accenti commoventi, come si può leggere nella Lettera che Avvenire pubblica integralmente in questa stessa pagina. Così il Papa emerito ha risposto ieri alle accuse di comportamenti non corretti piovutegli addosso dopo la pubblicazione del rapporto sugli abusi nella diocesi bavarese. Benedetto XVI lo aveva detto fin dal primo momento. «Risponderò dopo aver letto interamente le quasi duemila del testo». E ha mantenuto la promessa, facendo diffondere dalla Sala Stampa della Santa Sede due documenti: la Lettera di cui si è detto e una Analisi dei fatti, firmata da tre canonisti e un esperto di diritto alla libertà d'espressione. La lettura delle controdeduzioni di papa Ratzinger è molto interessante, perché non solo smonta le accuse, ma getta anche uno squarcio di luce sulle metodologie usate nella compilazione del Rapporto di Monaco, che appaiono in alcuni casi approssimative. Si parte dalla presunta 'bugia' del Papa emerito: la sua non partecipazione alla riunione del 15 gennaio 1980 nella quale si parlò del sacerdote X, proveniente da Essen e giunto in diocesi per sottoporsi a una terapia. L'errata dichiarazione contenuta nella memoria di 82 pagine inviata da Benedetto XVI agli estensori del Rapporto, secondo la ricostruzione, è dovuta al fatto che a uno solo dei collaboratori di Ratzinger fu data la possibilità di visionare gli atti in formato digitale (8.000 pagine), mentre fu un altro collaboratore a trascrivere erroneamente il dato contenuto nel verbale di quella riunione. «Presente» diventò così «non presente». Una svista che «non si può imputare a Benedetto XVI come falsa deposizione», perché oltre tutto, fanno notare gli autori dell'Analisi «non avrebbe avuto alcun senso negare intenzionalmente la presenza alla riunione». Essa risultava dal verbale e se ne faceva cenno anche in un passaggio della sua biografia, pubblicata nel 2020 da Peter Seewald. Inoltre «non corrisponde al vero» che l'allora cardinale Ratzinger avrebbe impiegato il sacerdote X nell'attività pastorale, pur essendo a conoscenza degli abusi da lui commessi, e con ciò avrebbe coperto i suoi abusi sessuali. Gli atti mostrano che «nella riunione dell'Ordinariato del 15 gennaio 1980 non si decise l'impiego del sacerdote per un'attività pastorale», né si trattò «del fatto che il sacerdote aveva commesso abusi sessuali», ma «esclusivamente della sistemazione del giovane prete a Monaco di Baviera, perché lì doveva sottoporsi a una terapia» senza neanche menzionare il motivo della terapia. A questo proposito gli esperti che hanno scritto le controdeduzioni fanno notare che nella conferenza stampa dello scorso 20 gennaio, in occasione della presentazione del rapporto sugli abusi, il perito, rispondendo a una giornalista che chiedeva se i periti fossero in grado di dimostrare che Joseph Ratzinger fosse stato a conoscenza del fatto che il sacerdote X avesse commesso abusi sessuali, affermò chiaramente che non c'è alcuna prova che Joseph Ratzinger ne fosse a conoscenza. Secondo l'opinione soggettiva dei periti sarebbe semplicemente «maggiormente probabile» e cioè, specificò l'interrogato, «lo presumiamo con una maggiore probabilità». Anche l'ulteriore accusa secondo cui Benedetto XVI avrebbe avuto un comportamento erroneo in altri tre casi è priva di fondamento, secondo l'Analisi. «In nessuno dei casi analizzati dalla perizia Joseph Ratzinger era a conoscenza di abusi sessuali commessi o del sospetto di abusi sessuali commessi dai sacerdoti. La perizia non fornisce alcuna prova in senso contrario», si legge nel documento diffuso ieri. Infine c'è l'accusa di aver minimizzato atti di esibizionismo da parte di un parroco X. Gli esperti ricordano che «la frase utilizzata come presunta prova della minimizzazione dell'esibizionismo è decontestualizzata»; che nella memoria di 82 pagine Benedetto XVI qualifica gli abusi, esibizionismo incluso, come «terribili, peccaminosi, moralmente riprovevoli e irreparabili ». E infine che per il diritto canonico allora vigente l'esibizionismo non era un delitto in senso stretto». Ma ciò non significa che Benedetto XVI minimizzava l'esibizionismo, bensì che «lo condannava chiaramente ed esplicitamente».

Repubblica dà grande enfasi negativa alla lettera del Papa emerito. L’articolo di retroscena è a firma di Paolo Rodari.

«La richiesta del cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e consigliere del Papa sui temi economici, rivolta a Benedetto XVI affinché si decidesse a scuse esplicite in merito agli errori commessi quando era arcivescovo in Baviera sono state ascoltate nei giorni scorsi al Mater Ecclesiae, la dimora di Joseph Ratzinger nei giardini vaticani da quando nel 2013 ha rinunciato definitivamente al soglio di Pietro. La sua lettera di perdono diramata ieri dalla Santa Sede, infatti, è figlia anche della pressione di Marx e insieme del mondo ecclesiale tedesco e della stampa internazionale. Ratzinger fatica a parlare, a novantaquattro anni porta sul proprio corpo i segni indelebili della vecchiaia che avanza, ma è lucido e comprende ogni cosa. Le sue parole, lette in video dal suo segretario e primo consigliere Georg Gänswein, segnano un primo cambiamento di rotta dopo la decisione di qualche settimana fa seguita alla pubblicazione del report esterno alla diocesi di Monaco di rimandare al mittente tutte le accuse. Adesso il Papa emerito e il suo entourage si sono resi conto che un atteggiamento auto-assolutorio non può più reggere. E agiscono di conseguenza. Per questo, fra l'altro, in via ufficiale è il Vaticano stesso a riconoscere l'importanza dell'uscita. Lo fa Andrea Tornielli con un editoriale su Vatican News nel quale spiega che le parole di Benedetto sono quelle «di un "umile lavoratore nella vigna del Signore" che chiede sinceramente perdono senza sfuggire alla concretezza dei problemi e invita tutta la Chiesa a sentire come propria la ferita sanguinante degli abusi». E lo fa il suo ex portavoce, il gesuita padre Federico Lombardi, che commenta come in Ratzinger «il servizio della verità è stato sempre al primo posto. Egli - dice - non ha mai cercato di nascondere quello che poteva essere doloroso riconoscere per la Chiesa; non ha mai cercato di dare una bella immagine falsa della realtà della Chiesa o di quello che avviene. Quindi io ritengo assolutamente che non si possa dubitare in nessun modo della sua veridicità». La lettera di ieri è un primo passo importante, dunque. Di fronte al quale, tuttavia, ancora non tutti sono soddisfatti. Come spiega Hans Zollner, teologo e psicologo tedesco, professore presso la Pontificia Università Gregoriana, preside dell'Istituto di Antropologia e uno dei maggiori esperti mondiali nel campo della salvaguardia e della prevenzione degli abusi sessuali, prima di tutto «andrebbe chiesto alle vittime se della lettera di Ratzinger sono contente oppure no». Dice: «Non sono il giudice del Papa emerito, ma colpisce che abbia ringraziato prima gli amici e solo dopo le vittime. E che, in una visione più teologica che altro, non ammetta nessuna responsabilità personale e non entri nel dettaglio delle accuse che il rapporto tedesco gli muove in modo particolareggiato». In sostanza, la scelta di Benedetto XVI di redigere un testo spiritualizzante, in un quadro escatologico sulle soglie dell'ultimo miglio della sua lunga e intensa esistenza, non ha colpito positivamente quel mondo tedesco che chiedeva sì delle scuse ma ben circostanziate, punto per punto. Se da una parte Marx ha portato il Papa emerito a uscire allo scoperto con una dichiarazione pubblica, probabilmente coloro che gli sono più vicini, fra questi anche i teologi tedeschi esperti di diritto canonico che hanno redatto per lui una difesa a beneficio degli avvocati bavaresi, l'hanno invece convinto a rimanere sul generale, a trattare il tema dall'alto senza entrare nel merito. Un approccio che sembra essere ancora figlio di una reticenza mista a impreparazione che ha caratterizzato le vicende ecclesiali in merito ai casi di abusi per tutto il Novecento e oltre, fino al pontificato di Giovanni Paolo II compreso nel quale lo stesso Ratzinger ha giocato un ruolo di primo piano come prefetto dell'ex Sant' Uffizio. Benedetto XVI va oggi per i novantacinque anni. Riceve ancora diverse persone, presuli che gli sono più amici. La strategia difensiva che ha adottato è figlia anche dell'influenza che subisce da queste persone. Recentemente, ad esempio, è stato il cardinale conservatore tedesco Gerhard Müller a dire che «contro Benedetto» è in atto «una campagna di "character assassination"». E ancora: «Non sono proprio quelli che lo beffavano all'epoca come un panzerkardinal che ora criticano invece la sua mancanza di durezza nei confronti dei criminali, sebbene questi casi non forniscano prove, nemmeno deboli, di cattiva e negligente condotta?».

Aldo Cazzullo nella sua rubrica di posta sul Corriere torna a commentare l’intervista televisiva di papa Francesco.  

«Caro Aldo, a «Che tempo che fa» il Papa ha detto che il clericalismo è una perversione della Chiesa. Subito mi è balzata alla mente una scritta sui muri degli anni 70-80: «Cloro al clero». Mi chiedo e le chiedo come mai non è venuto in mente di scrivere «Cloro al clericalismo».

Caro Mansueto, la prima cosa che mi ha colpito, della storica intervista di Francesco a «Che tempo che fa», è la «rosicata», come dicono a Roma, che ha suscitato. Sono uscite stroncature preventive, che parlavano male di un'intervista non ancora fatta. Capisco che uno che nel giro di tre anni porta in trasmissione Macron, Obama, Lady Gaga e il Papa susciti qualche invidia. Ma il segreto, quando trovi qualcuno più bravo di te, è rilassarsi; e in effetti la tv di Fabio Fazio rilassa, mette a proprio agio, e predispone l'intervistato a sentirsi libero, a dire cose che non pensava di poter dire, e quindi a suscitare di volta in volta rabbia, indignazione, commozione, simpatia nel senso etimologico: soffrire e sentire con un altro essere umano. In questo caso, Francesco. Nella sua apparente semplicità, il Papa ha un'intelligenza sofisticata; lo si è visto quando ha accennato al coté piemontese della famiglia, mettendone a fuoco in tre parole la ritrosia, l'understatement, quello che Norberto Bobbio, il più importante intellettuale italiano dell'ultimo mezzo secolo, sintetizzava con il suo «esageruma nen», non esageriamo. Per quanto riguarda il tema che l'ha colpita, gentile signor Piasini, Bergoglio ne aveva già parlato in una conversazione con Eugenio Scalfari, pure quella fonte di formidabili «rosicate». La sua idea è che la Chiesa non debba essere una categoria a parte, un'istituzione separata, al riparo dalla società e dalla storia, ma debba mettersi in gioco, aprirsi, uscire da se stessa. E che quello di sacerdote non sia un mestiere come gli altri, ma richieda il darsi completamente, il vivere la vita della comunità, l'«avere addosso l'odore delle pecore». Detto questo, governare la Chiesa è un'arte complessa, come hanno sperimentato sia Ratzinger sia Bergoglio, commettendo ognuno i propri errori. Ma questa idea della «Chiesa in uscita» è destinata a restare».

IL TESTO INTEGRALE DEL PAPA EMERITO

Avvenire e Corriere della Sera riportano il testo completo della lettera che ha scritto Joseph Ratzinger. Eccolo.

 «Pubblichiamo il testo integrale della Lettera che Benedetto XVI ha scritto circa il rapporto sugli abusi nell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga.

Care sorelle e cari fratelli! A seguito della presentazione del rapporto sugli abusi nell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga il 20 gennaio 2022, mi preme rivolgere a tutti voi una parola personale. Infatti, anche se ho potuto essere arcivescovo di Monaco e Frisinga per poco meno di cinque anni, nell'intimo continua comunque a persistere la profonda appartenenza all'arcidiocesi di Monaco come mia patria. Vorrei innanzitutto esprimere una parola di cordiale ringraziamento. In questi giorni di esame di coscienza e di riflessione ho potuto sperimentare così tanto incoraggiamento, così tanta amicizia e così tanti segni di fiducia quanto non avrei immaginato. Vorrei ringraziare in particolare il piccolo gruppo di amici che, con abnegazione, per me ha redatto la mia memoria di 82 pagine per lo studio legale di Monaco, che da solo non avrei potuto scrivere. Alle risposte alle domande postemi dallo studio legale, si aggiungeva la lettura e l'analisi di quasi 8.000 pagine di atti in formato digitale. Questi collaboratori mi hanno poi anche aiutato a studiare e ad analizzare la perizia di quasi 2.000 pagine. Il risultato sarà pubblicato successivamente alla mia lettera. Nel lavoro gigantesco di quei giorni - l'elaborazione della presa di posizione - è avvenuta una svista riguardo alla mia partecipazione alla riunione dell'Ordinariato del 15 gennaio 1980. Questo errore, che purtroppo si è verificato, non è stato intenzionalmente voluto e spero sia scusabile. Ho già disposto che da parte dell'arcivescovo Gänswein lo si comunicasse nella dichiarazione alla stampa del 24 gennaio 2022. Esso nulla toglie alla cura e alla dedizione che per quegli amici sono state e sono un ovvio imperativo assoluto. Mi ha profondamente colpito che la svista sia stata utilizzata per dubitare della mia veridicità, e addirittura per presentarmi come bugiardo. Tanto più mi hanno commosso le svariate espressioni di fiducia, le cordiali testimonianze e le commoventi lettere d'incoraggiamento che mi sono giunte da tante persone. Sono particolarmente grato per la fiducia, l'appoggio e la preghiera che Papa Francesco mi ha espresso personalmente. Vorrei infine ringraziare la piccola famiglia nel Monastero "Mater Ecclesiae" la cui comunione di vita in ore liete e difficili mi dà quella solidità interiore che mi sostiene. Alle parole di ringraziamento è necessario segua ora anche una confessione. Mi colpisce sempre più fortemente che giorno dopo giorno la Chiesa ponga all'inizio della celebrazione della Santa Messa - nella quale il Signore ci dona la sua Parola e se stesso - la confessione della nostra colpa e la richiesta di perdono. Preghiamo il Dio vivente pubblicamente di perdonare la nostra colpa, la nostra grande e grandissima colpa. È chiaro che la parola "grandissima" non si riferisce allo stesso modo a ogni giorno, a ogni singolo giorno. Ma ogni giorno mi domanda se anche oggi io non debba parlare di grandissima colpa. E mi dice in modo consolante che per quanto grande possa essere oggi la mia colpa, il Signore mi perdona, se con sincerità mi lascio scrutare da Lui e sono realmente disposto al cambiamento di me stesso. In tutti i miei incontri, soprattutto durante i tanti Viaggi apostolici, con le vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti, ho guardato negli occhi le conseguenze di una grandissima colpa e ho imparato a capire che noi stessi veniamo trascinati in questa grandissima colpa quando la trascuriamo o quando non l'affrontiamo con la necessaria decisione e responsabilità, come troppo spesso è accaduto e accade. Come in quegli incontri, ancora una volta posso solo esprimere nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono. Ho avuto grandi responsabilità nella Chiesa cattolica. Tanto più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi. Ogni singolo caso di abuso sessuale è terribile e irreparabile. Alle vittime degli abusi sessuali va la mia profonda compassione e mi rammarico per ogni singolo caso. Sempre più comprendo il ribrezzo e la paura che sperimentò Cristo sul Monte degli Ulivi quando vide tutto quanto di terribile avrebbe dovuto superare interiormente. Che in quel momento i discepoli dormissero rappresenta purtroppo la situazione che anche oggi si verifica di nuovo e per la quale anche io mi sento interpellato. E così posso solo pregare il Signore e supplicare tutti gli angeli e i santi e voi, care sorelle e fratelli, di pregare per me il Signore Dio nostro. Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l'animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l'amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito). In vista dell'ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell'essere cristiano. L'essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l'amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte. In proposito mi ritorna di continuo in mente quello che Giovanni racconta all'inizio dell'Apocalisse: egli vede il Figlio dell'uomo in tutta la sua grandezza e cade ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di lui la destra, gli dice: "Non temere! Sono io..." (cfr. Ap 1,12-17). Cari amici, con questi sentimenti vi benedico tutti. Benedetto XVI».

MASCHERINE AL CHIUSO FINO ALLA FINE DI MARZO

Lotta al covid. L'obbligo delle mascherine al chiuso scade a marzo. Ecco l'ordinanza del Ministero: da venerdì stop invece all’uso delle protezioni all'aperto in tutte le Regioni, a prescindere dal colore. Michele Bocci e Alessandra Zinniti per Repubblica.

«L'annunciata ordinanza con cui il ministero alla Salute permette di togliere la mascherina all'aperto è arrivata e contiene anche un passaggio sull'uso della protezione al chiuso. «Fino al 31 marzo 2022 è fatto obbligo sull'intero territorio nazionale di indossare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private», è scritto nell'articolo 1 dell'atto. Quel giorno, infatti, termina lo stato di emergenza e tutti i provvedimenti di contrasto alla pandemia (salvo quello sull'obbligo di vaccinazione per gli over 50) sono destinati a scadere. Probabilmente, pensano al ministero alla Salute, sarà necessario tenere la mascherina al chiuso ancora per un po'. Ma è presto per dirlo, si deciderà più avanti, quando la data di scadenza dell'ordinanza sarà vicina. «Vediamo come arriveremo a quei giorni», dicono dal ministero. Si osserveranno la curva dei contagi, le occupazioni dei letti degli ospedali e gli altri indicatori sull'impatto della pandemia. Le mascherine all'aperto si potranno togliere da venerdì e appunto fino al 31 marzo. I cittadini dovranno comunque averle con sé, per metterle nel caso in cui si trovino in una situazione di «assembramento o affollamento ». Possono non indossarle i bambini sotto ai 6 anni, chi ha patologie o disabilità incompatibili con il loro uso e chi fa sport. L'unica Regione che ha deciso di mantenere l'obbligo fino alla fine di febbraio è la Campania: «Non è un grande sacrificio - dice il presidente Vincenzo De Luca - In Campania noi saremo più prudenti che nel resto d'Italia. A volte ho la sensazione che a Roma pensino di cancellare il Covid rompendo il termometro. Ma non è così. Bisogna essere estremamente prudenti». Marzo sarà il mese delle rivalutazioni e non solo per le mascherine. Questo non vuol dire che tutte le restrizioni saranno improvvisamente cancellate con la fine dell'emergenza. Come sempre fatto fin qui, si procederà con graduali allentamenti, come confermato dal sottosegretario alla Salute Andrea Costa che ipotizza per la primavera anche un uso più limitato del Green Pass, adesso obbligatorio praticamente ovunque. Di certo si comincerà da stadi e impianti sportivi la cui capienza, nuovamente limitata nel pieno della quarta ondata, verrà intanto riportata al 75% all'aperto e al 60% al chiuso dall'1 marzo e poi - se i dati dei contagi e delle ospedalizzazioni lo consentiranno - potrebbe tornare al 100% dopo poche settimane. È questo il piano su cui stanno lavorando il ministro della Salute Roberto Speranza e la sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali. «Si lavora a un primo allargamento, a partire dal 1° marzo, che porterà al 75% e al 60% il limite delle capienze rispettivamente all'aperto e al chiuso - spiegano - Per poi proseguire con riaperture complete qualora la situazione epidemiologica continuasse il trend di calo». E in controtendenza rispetto alla strada delle riaperture, le Regioni chiederanno oggi al governo di estendere l'obbligo del super Green Pass agli artisti, al personale artistico e di accoglienza dello spettacolo, come ad esempio i lavoratori del teatro. «L'intenzione di affrontare il tema è nata durante il picco della pandemia, per fortuna superato, e quando i teatri pur potendo aprire a massima capienza, per le norme allora vigenti sulle quarantene, hanno dovuto bloccare le recite a causa di alcuni contagi».

RECORD BENZINA, TRUFFE BONUS E CARO BOLLETTE

Il prezzo della benzina è alle stelle, e le città restano al buio per il caro bollette. In poche settimane, siamo passati dall'euforia di un nuovo boom a una stretta energetica preoccupante. Davide Nitrosi per il Quotidiano Nazionale.

«Dal boom all'austerity in poche settimane. Dall'Italia dei rutilanti anni Sessanta alla crisi petrolifera del 1973 con le domeniche senza auto. Un mese fa The Economist incoronava l'Italia Paese dell'anno e il ministro Brunetta esultava per il balzo del Pil, da «boom economico». Tutto vero, ma al risveglio uno spettro si aggira nel sogno italiano (che vira a incubo): l'impennata dei costi di luce, gas e carburanti. SALASSO BENZINA La benzina non è mai stata così cara negli ultimi 10 anni: si deve tornare al 2012 per trovare il prezzo raggiunto ieri alla pompa. La verde al self a 1,819 euro al litro, il diesel supera 1,690 euro (il prezzo è il più alto da marzo 2013). Al servito il prezzo della benzina va oltre i 2 euro. Secondo le associazioni dei consumatori l'aumento si traduce in un salasso di 400 euro in più a famiglia. LUCI SPENTE IN CITTÀ La mazzata al volante non è la sola che azzoppa il Paese. L'Italia che correva domani rischia di sbattere al buio. Centinaia di Comuni accoglieranno l'appello del sindaco di Cento (Ferrara), Edoardo Accorsi: luci spente nei monumenti principali, almeno per mezz' ora, tutti insieme, per denunciare l'insostenibile peso delle bollette. Per i comuni un aggravio di 550 milioni sulla spesa complessiva annua che finora era di circa un miliardo e 800 milioni. «Il caro bollette mette a rischio i servizi essenziali dei Comuni - dice il presidente dell'Anci, Antonio Decaro, sindaco di Bari - Non vorremmo ritrovarci a dover scegliere tra salvaguardare gli equilibri di bilancio e erogare servizi». IMPRESE IN GINOCCHIO Lo tsunami dei rincari fa saltare i conti delle imprese: dalle grandi fabbriche (con spese triplicate o quadruplicate), a piccoli negozi. Una stangata che ha messo kappao gli impianti sportivi, in primo luogo le piscine, con aggravi allucinanti: da 10-15mila a 60mila euro al mese. Di questo passo addio boom. Sandro Bottega, patron dell'omonima azienda trevigiana che produce prosecco, nel 2019 pagava mediamente 12mila euro al mese per l'energia elettrica, lo scorso dicembre è arrivata una bolletta da 69.600 euro, «praticamente 600mila euro in più all'anno». Stesso ritornello nei distretti: le fonderie di Brescia, le ceramiche di Modena e Reggio Emilia. E se saltano i distretti, salta la spina dorsale dell'economia italiana che ha retto alle crisi del 2008, del 2011 e alla serrata obbligata del Covid, ma non può farcela con le spese energetiche che divorano gli utili. INFLAZIONE E SALARI In questo quadro cresce pericolosamente l'inflazione. Per anni la Bce ha inseguito l'obiettivo di un'inflazione poco inferiore al 2% annuo. In gennaio l'inflazione in Italia si è attestata a quota 4,8%, ubriacata dai costi dell'energia. Mai così dal 1996. Di questo passo gli stipendi saranno erosi rapidamente dall'aumento del costo della vita. Il rischio è che si inneschi una spirale mortale per l'economia come accadeva in passato. SPREAD E INTERESSI Allo stesso tempo si riscalda lo spread e quindi il tasso dei titoli di Stato: ieri siamo arrivati a 158 punti base, che significa un tasso dell'1,85% sui titoli decennali. Pessima notizia per uno Stato indebitato che prima o poi deve ripagare gli interessi sui debiti. AUSTERITY IN FAMIGLIA Che fare? Alcune multiutility, come Hera, hanno spiegato ai clienti come ridurre le spese. L'ansia da risparmio ha contagiato tutte le famiglie. Buona abitudine, direte. Epperò non è il copione di un boom sentire nella case ordini e liti: «Spegni la luce, abbassa il riscaldamento, stacca i computer, e basta coi telefonini sempre in ricarica...!». Tutto ecologicamente corretto. Purché l'alternativa del risparmio non sia finire sotto un ponte. Anche perché non si può neppure sperare in un aiuto divino. A Udine, un parroco ha dovuto chiudere una delle sue chiese dopo aver ricevuto una bolletta da 6mila euro per il riscaldamento. Ora il governo promette nuovi aiuti: si accettano miracoli».

Bonus e bollette, ecco le mosse del governo: altri 4 miliardi per sostenere famiglie e piccole imprese sui rincari energetici. Ma sono previste altre correzioni al superbonus: verso più cessioni del credito, ma con vincoli. Enrico Marro sul Corriere della Sera.

«La più grande frode di sempre ai danni dello Stato. A dirselo, interrogandosi se mai sia capitato qualcosa del genere, per esempio, con i falsi invalidi o con il reddito di cittadinanza, sono stati i tecnici e i politici al vertice del ministero dell'Economia, ieri mattina. I dati sul tavolo sono impressionanti: circa un paio di miliardi di euro di crediti d'imposta maturati col Superbonus e gli altri bonus edilizi sono già oggetto di sequestro da parte della magistratura, che indaga per truffa in diverse procure d'Italia. Un cortocircuito generato dalla possibilità di cedere più volte i crediti, generati grazie ai lavori di ristrutturazione e riqualificazione degli immobili, tra privati e a banche e intermediari finanziari. Il tutto senza sufficienti controlli a monte. Ora però, dopo la stretta decisa dal governo con il decreto Sostegni ter, che ha rafforzato i requisiti (asseverazioni, visti di conformità) e ha limitato a una sola volta la cedibilità del credito,il mercato si è di fatto fermato. Per questo il governo sta lavorando ad alcuni correttivi. Il ministro dell'Economia, Daniele Franco, riferirà venerdì in consiglio dei ministri e poi, probabilmente la prossima settimana, verranno prese alcune misure. La cessione plurima del credito verrà ripristinata, ma solo tra banche e intermediari finanziari appartenenti allo stesso gruppo e tra soggetti vigilati dalla Banca d'Italia. L'entità dei bonus (90% per le facciate e 110% per l'efficientamento energetico) abbinata alla cessione del credito aveva messo le ali al settore edile: sono stati effettuati lavori per circa 35 miliardi relativi a 5 milioni di pratiche, innescando però illeciti che in base alle prime stime superano i 4 miliardi. Di qui il giro di vite deciso dal governo. Dopo il quale giganti finanziari come Cassa Depositi e Prestiti e Poste Italiane e istituti bancari come Bpm, Popolare di Sondrio, Illimity Bank, Iccrea hanno sospeso o fortemente rallentato l'attività di acquisizione dei crediti di imposta, spaventati non tanto dalle nuove norme bensì dai sequestri disposti dalla magistratura. Sequestri che determinano il rischio di future perdite di bilancio in caso di sentenza di condanna con conseguente confisca delle stesse somme. E il blocco delle piattaforme di compravendita dei crediti rischia, appunto, di mandare in tilt l'intero mercato dei lavori edili. Al vertice di ieri mattina al via XX Settembre hanno partecipato anche i dirigenti di Cdp e Poste, evidenziando che il problema non è risolvibile semplicemente ripristinando la possibilità della cessione multipla dei crediti. La principale criticità illustrata al ministro Daniele Franco e ai suoi sottosegretari è legata ai sequestri preventivi degli importi oggetto delle inchieste della magistratura. Alla fine, ai due miliardi già sequestrati se ne potrebbero aggiungere altri due, per un totale di quattro. Cifre che spaventano sia le controllate del Tesoro Cdp e Poste sia gli istituti di credito, che temono di doversi fare carico di ingenti perdite in bilancio. Gli operatori che acquistano i crediti non intendono, in assenza di una garanzia che li tenga al riparo da questo rischio, riattivare le piattaforme per la compravendita dei crediti. La soluzione è nelle mani del governo. A Palazzo Chigi è investito del problema il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, mentre al Tesoro se ne sta occupando Giuseppe Chinè, capo di gabinetto del ministro Franco. Tra le ipotesi quella di allungare i tempi di utilizzo dei crediti dissequestrati, mentre non è stata ancora trovata una soluzione per le somme che invece dovessero essere confiscate. Nel vertice si è parlato brevemente anche dei nuovi provvedimenti per far fronte al caro bollette. La prossima settimana dovrebbe arrivare un nuovo decreto legge con interventi a sostegno di famiglie e imprese per il secondo trimestre del 2022. Costo da un minimo di 4 a un massimo di 7 miliardi. Ma non ci sarà bisogno di uno scostamento di bilancio, cioè di aumentare il deficit, perché si utilizzerà il «tesoretto», cioè le entrate in più derivanti dalla maggior crescita del Pil nel 2021».

RIFORMA DEL CSM, LA MEDIAZIONE DI CARTABIA

Mediazione di Marta Cartabia in vista di venerdì, quando il Consiglio dei Ministri dovrebbe varare la riforma dell’elezione del Csm. Giovanni Bianconi per il Corriere.

«Il tentativo di fare in fretta si scontra con la necessità di modificare le proposte iniziali, per coniugare le diverse richieste ed esigenze delle parti in causa: la politica da un lato e la magistratura dall'altro, con posizioni differenti all'interno dei due fronti. Un contesto complicato, ma non c'è tempo da perdere. Le trattative per la riforma della giustizia, e in particolare dell'organo di autogoverno delle toghe, procedono a tappe forzate e la Guardasigilli Marta Cartabia lancia una nuova idea per provare a sciogliere il nodo più complicato: il sistema elettorale per il Consiglio superiore della magistratura (le prossime consultazioni sono previste in estate). L'ultimo rilancio illustrato ieri ai partiti per portarlo venerdì in Consiglio dei ministri è un metodo maggioritario binominale, come ipotizzato inizialmente, ma con una quota proporzionale per assicurare la contendibilità dei seggi e il pluralismo, lasciando spazio a candidature slegate dalle correnti o di gruppi minoritari. Nelle consultazioni con i partiti di maggioranza avvenute prima di Natale, la ministra aveva suggerito, come correttivo del maggioritario binominale, una quota di 4 o 6 seggi (a seconda che il numero dei togati resti a 16 oppure salga a 20, come sembra più probabile) da assegnare ai migliori terzi; ora, dopo ulteriori consultazioni e il vertice che c'è stato l'altro ieri a Palazzo Chigi con il premier Draghi e il sottosegretario Roberto Garofoli, Cartabia ha pensato di riservare quello spicchio di rappresentanza a candidati eletti con il sistema proporzionale puro. Per andare incontro alle istanze degli stessi giudici che, nel referendum consultivo indetto dall'Associazione magistrati, si sono espressi abbastanza chiaramente contro il maggioritario. Con questo escamotage la ministra spera di placare le riserve delle toghe, ma il rischio è che la soluzione apra un nuovo conflitto con e tra i partiti che sostengono il governo. Nella maggioranza c'è infatti la componente di centrodestra (Lega e Forza Italia) che, per eliminare il ruolo delle correnti, insiste a chiedere il sorteggio «temperato»: vale a dire l'estrazione di una rosa di candidati all'interno dei quali pubblici ministeri e giudici possano eleggere i venti consiglieri togati. Una strada che però la ministra, in linea con la commissione guidata dal professor Massimo Luciani che lo scorso anno su suo incarico ha presentato un ventaglio di possibili riforme, considera in contrasto con la Costituzione. L'articolo 104 stabilisce infatti che i consiglieri togati «sono eletti da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie», e non prevede filtri né livelli minimi di carriera per candidarsi. L'altro punto controverso è il rientro nei ranghi dei magistrati eletti in Parlamento o negli enti locali, al termine del mandato politico. Una questione che sta molto a cuore ai Cinque Stelle e della quale s' era già occupato lo stesso Csm cinque anni fa, proponendo al Parlamento di fermare le cosiddette «porte girevoli» con una legge. Ma non è successo nulla. Cartabia propone intanto di impedire il doppio incarico: attualmente è possibile svolgere il ruolo di amministratore o consigliere di enti locali in un luogo ed esercitare le funzioni giudiziarie in un altro, cosa che non dovrà più accadere. E non sarà possibile candidarsi nei centri in cui si è prestato servizio negli ultimi tre anni. Per quanto riguarda il ritorno al lavoro, invece, la riforma dovrebbe prevedere che terminate le «cariche elettive» i magistrati non possano assumere funzioni giurisdizionali, le stesse di prima o anche diverse. Questo significa che potrebbero essere inseriti in uffici come il Massimario della Cassazione, in ruoli amministrativi presso enti statali o soluzioni simili. Senza più indossare la toga dei pm o dei giudici, affinché non risulti incrinata l'immagine di imparzialità che quelle funzioni richiedono. Ma se questa soluzione fosse limitata agli «eletti», resterebbero fuori gli incarichi extragiudiziari a chiamata diretta, nei ministeri, negli enti locali o altre istituzioni che abbiano anche valenza politica. E non è detto che una simile differenza di trattamento sia accettata dai partiti. Innanzitutto dai grillini, che di questa questione hanno fatto una sorta di bandiera. E poi perché il numero di magistrati attualmente fuori ruolo per questo tipo di incarichi è maggiore di quelli scesi in politica dopo il vaglio elettorale».

CAOS 5 STELLE, GRILLO TORNA AL POTERE

Il garante torna a guidare i 5 Stelle e vuole decidere anche sul ritorno di Rousseau. Beppe Grillo accusa infatti Vito Crimi di avere escluso Casaleggio incautamente. E c’è l’ipotesi di eleggere un nuovo comitato di garanzia. Il retroscena di Matteo Pucciarelli per Repubblica.

«Tutto torna dove tutto era nato, nelle mani di Beppe Grillo. Dal punto di vista tecnico e giuridico senza dubbio, ma la forma è anche sostanza e quindi politicamente il fondatore si ritrova in mano l'onore e l'onere di decidere dove indirizzare il Movimento. Ovvero se riportarlo sul binario contiano, aggiustando le rotaie divelte; oppure se cambiare strada perché il problema, forse, era la direzione in sé. Ieri è stata giornata di telefonate incrociate: il fondatore da Genova, Conte a Roma e i rispettivi legali. Ma prima di tutto il garante, unica figura rimasta intatta dallo tsunami di brogliacci, ha messo in chiaro come stanno le cose con un post pubblico su Facebook. La sostanza è stata: siccome se qualcosa va storto poi pago io, stavolta niente fughe in avanti, ci si ferma, si ragiona e si fanno le cose per bene. Nel mirino di Grillo, più che Conte, c'era (c'è) Vito Crimi. L'ex reggente che dopo le dimissioni di Luigi Di Maio da capo politico doveva restare un mese, da vecchio statuto, e che invece ci rimase per oltre un anno. Colui che si incaponì contro Davide Casaleggio e volle a tutti i costi recidere il rapporto con la piattaforma Rousseau, anche se era un legame blindato sempre dal vecchio statuto e andava sciolto ripassando necessariamente da lì. Sette mesi fa il garante a Crimi lo disse chiaro e tondo: «Nel caso in cui tu decidessi di utilizzare subito la nuova piattaforma, sarai ritenuto direttamente e personalmente responsabile per ogni conseguenza dannosa dovesse occorrere al Movimento». Ecco, rivedere lunedì Conte a colloquio con Crimi per uscire dall'impasse, per risolvere un problema causato proprio da Crimi, ha mandato il sangue al cervello al comico. Di grane giudiziarie peraltro, già di suo, Grillo ne ha diverse: il figlio Ciro accusato di stupro, lui stesso di "traffico di influenze" in cambio di consulenze per l'armatore Vincenzo Onorato. A maggior ragione ora vuole piene garanzie che nessuno, in futuro, lo riterrà responsabile di aver leso i diritti di qualcuno. In questa guerra tecnico-politica dentro il Movimento, Grillo sta valutando di ingaggiare l'avvocato Matteo Bonelli dello studio Bonelli erede, dandogli il ruolo di mediatore; il garante lo conosce bene, hanno da tempo un buon rapporto e lo considera un esperto di statuti. Perciò potrebbe proporlo a Conte nelle prossime ore ma il rischio è che possa essere considerato troppo schiacciato sulle condizioni dello stesso Grillo. Una possibile soluzione per uscire dal vicolo cieco può essere far votare agli iscritti un nuovo Comitato di garanzia, il quale poi prenderà in mano le pratiche per rifare la modifica statutaria necessaria. «In questo momento di stallo c'è chi sta cercando di convincere Grillo a modificare l'assetto del M5S, riportando le lancette al Comitato direttivo a cinque, che quindi ridurrebbe di parecchio il peso del presidente», ci si lamenta dalla war room contiana. Naturalmente i sospetti sono tutti orientati verso la Farnesina, dove invece Luigi Di Maio resta una sfinge. Dopodiché anche secondo i legali del comico la via corretta da percorrere per non incappare in nuove cause passa da un rieletto Comitato di garanzia, che poi farà i passi necessari per rivotare statuto e leadership. Un percorso a tappe e senza saltare passaggi. Ma votare dove? L'orientamento di Grillo - come è convinto anche l'avvocato della controparte Lorenzo Borrè - è che si debba tornare a farlo proprio su Rousseau. Casaleggio a quel punto dovrebbe "riaccendere" la piattaforma, ricevere gli elenchi dei vecchi e dei nuovi iscritti e infine andrà pure pagato perché naturalmente non sarà gratis. E il conto, visto come si erano lasciati i vertici con Casaleggio jr, e visto che il coltello dalla parte del manico a quel punto lo avrebbe il secondo, sarebbe salato. Piccolo e curioso particolare, giusto per rendere l'idea della complessità del tutto. Il responsabile della protezione dei dati adesso era proprio Crimi, ma prima di lui c'era Valerio Tacchini, il notaio milanese vicino a Grillo e a Casaleggio. «Nel corso della mia vita nessuno mi ha mai impugnato un atto - dice Tacchini - ma non voglio esprimermi sul lavoro dei colleghi, certo mette dispiacere vedere i 5 Stelle subire un danno di immagine del genere». E almeno su questo sono tutti d'accordo».

La nemesi dei 5 Stelle non è solo quella di un partito giustizialista, tormentato dalle sentenze. Per i lettori di Repubblica Filippo Ceccarelli ironizza sulla “comica finale” di un Movimento nato dalla satira di Beppe Grillo.

«Un paio di settimane fa è arrivato un pacco a casa Grillo. Aiuto! Allarme! Artificieri! Non è una barzelletta, ma quando l'hanno aperto c'erano dentro dei carciofi, delle orecchiette e delle cime di rapa, recate in dono da un devoto benefattore. Inutile, prima che disonesto, fingere sussiego. Ma dagli involti pseudo-esplosivi ai gran pasticci legali, le avventure dei Cinque stelle fanno ridere. Questo avviene in parte perché "gli italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun'altra nazione" secondo Leopardi, che non doveva essere un allegrone. Ma proprio questa frase compare in testa a uno dei primi saggi sul fenomeno Beppe Grillo, Comico & Politico, di Oliviero Ponte di Pino (Renzo Cortina, 2014). Ebbene, l'impiccio napoletano che ha paralizzato il M5S è un tipico dispositivo da commedia. Grillo, che è un comico, lo sa benissimo; Crimi non lo sa, ma egli stesso è un personaggio da commedia, fin da quando si fece fotografare con le chiome di Roberta Lombardi sulla sua pelata a simulare un formidabile riporto. L'Italia è così e molti altri grillini sono buffi - si pensi ai social fan club di Toninelli - ma ogni giorno che passa lo sono di più. I gruppi parlamentari, intesi nel loro complessivo e originale contenuto, cioè prima delle fughe e delle epurazioni, sono una fonte inesauribile di soggetti curiosi, eletti con qualche centinaio di voti. Crudisti, abbracciatori di alberi, cacciatori di complotti, marzianofobi e sgominatori di rettiliani. Poco prima delle votazioni per il Quirinale l'onorevole Vignaroli ha postato un video su Instagram in cui spara con un Kalashnikov con Mother Russia degli Iron Maiden di sottofondo. Anni fa un sottosegretario, Tofalo, si era travestito da parà. Ma la cosa che fa ridere è che molti, espulsi o sfuggiti per sottrarsi all'Equitalia M5S, si abbandonano nelle braccia della Lega, di Renzi, di Berlusconi, per cui viene spontaneo chiedersi: ma dove li avevano presi? E qui la risposta fa ancora più ridere perché l'ordalia delle selezioni, severamente esercitata da programmatori neurolinguisti e poliziotteschi, era detta "la graticola", e di nuovo uno pensa: meno male, chissà chi sarebbe venuto fuori, senza graticola! Morale, provvisoria: ecco che può succedere quando un comico crea un partito a sua immagine e carismatica somiglianza. Quante risate ha fatto fare a spese dei nemici utilizzando la vis comica come un'arma irresistibile; però adesso il dileggio si morde la coda e l'Elevato, che ha i suoi guai, ha smesso di fare lo spiritoso. Al solito in Italia, tutto sempre già accaduto: anche Guglielmo Giannini, fondatore dell'Uomo Qualunque, veniva dal teatro leggero, cantava, ballava, era vestito strano e raccontava le barzellette, etc. Ma adesso che succede? Niente, si ride. Conte, già Avvocato del Popolo, sempre elegantone e profumato dopo il breve Aventino Rai, ha l'aria di chi comincia a capire di aver sottovalutato la faccenda, tanto più tragicomica se si pensa che in pieno agosto era stato eletto con il 92 e rotti per cento. Dagospia lo chiama "Peppiniello Appulo", nome da Atellana, o farsa arcaica. Mentre Di Maio, beh, ingiustamente deriso perché faceva il bibitaro allo stadio, ora regala lo champagne a Casini e riceve in dono croste dallo Psiconano. Dopo aver scritto il suo primo libro, la fidanzata ha già ottenuto una cadegra alla nuova Scuola di Scrittura dei Parioli; e quando l'ha presentato al Circolo Aniene, quello misogino, c'era con lei il "coro delle consorti" della Farnesina, che saranno bravissime, ma sembrava un momento di Fantozzi. Dopo l'estenuante questua, magari rientra in gioco pure Rousseau. Cliccocrate incompreso, qualche mese fa Casaleggio junior aveva lanciato "le Olimpiadi delle Idee", ma ogni volta che si parla di Rousseau, a "Un giorno da Pecora" mettono in onda il rumore di uno che russa. E' l'Italia, va così: tutto inesorabilmente congiura a vantaggio dello sghignazzo. La casa di produzione del film tratto dall'autobiografia di Casalino ha nome Kubla Khan, come un ristorante in zona Ponte Lungo. L'ex capo dei servizi segreti venezuelani che avrebbero favorito i cinque stelle è soprannominato "El Pollo". L'eroe del momento è il dissidente che aveva partecipato al reality "Matrimonio a prima vista". L'avvocato che ha trionfato nel super groviglio formale e sostanziale è uno scalatore di cime andine. Quando le "comiche finali" non sono un modo di dire».

CENTRO DESTRA, MR B. E LA MELONI

Scenari politici e contrasti anche nel centrodestra. Silvio Berlusconi interviene con un’intervista a «Chi» in cui dice: «Sto bene, sono pronto a rifondare la coalizione». Fabrizio De Feo sul Giornale.

«Il centrodestra che io ho fondato nel 1994 è un'alleanza scritta non da un notaio, ma nel cuore degli italiani. Dobbiamo rilanciarla e per farlo c'è un solo modo: consolidare Forza Italia e creare un centro moderato che possa aggregare e allargare i suoi confini». Silvio Berlusconi torna alla piena attività dopo il ricovero al San Raffaele e si concede al taccuino di Massimo Borgnis del settimanale Chi - in edicola oggi - per illustrare il suo progetto politico di rifondazione del centrodestra, uscito con molte ferite aperte dalla corsa per il Quirinale. Il Cavaliere si fa fotografare nel parco della Villa di Arcore con la compagna Marta Fascina e con i loro cagnolini (Dudù, Shoushou e Peter), mostrando di aver recuperato dai recenti problemi di salute. L'intervista, però, più che sugli aspetti personali si concentra sulle ricette da adottare per rafforzare la coalizione storica dei moderati. Il pensiero naturalmente non può non tornare alle vicende quirinalizie, con una chiara rivendicazione della candidatura di Sergio Mattarella. «Ho avuto un malessere fastidioso, per il quale io non avrei voluto ricoverarmi, ma i medici me lo hanno imposto per precauzione. Questo non mi ha impedito di continuare a lavorare, in stretto contatto con i miei collaboratori che stavano a Roma e che hanno gestito molto bene una situazione difficile. Si trattava di superare una situazione di stallo. Proprio per questo motivo sono stato il primo a chiamare Sergio Mattarella per chiedergli di accettare un nuovo mandato di garanzia per tutti». Silvio Berlusconi non si mostra deluso per la mancata candidatura. «Ogni tanto qualcuno mi chiede se sono deluso di non essere stato io il candidato votato dalle Camere. Non vedo come potrei esserlo: l'idea di candidarmi non era mia, del resto al Quirinale non ci si candida, era un'idea avanzata dai leader del centrodestra. Anche tanti parlamentari di altri partiti mi avevano assicurato il loro appoggio. E tanti cittadini mi avevano quasi sommerso di messaggi di incoraggiamento, con ogni mezzo. È stata una prova di affetto e di stima che mi ha emozionato e commosso». Chiusa la pagina dell'elezione del Capo dello Stato, adesso Berlusconi è deciso a «pensare al 2023, quando la maggioranza degli italiani si esprimerà, ne sono certo, per un centrodestra di governo che dovrà completare il lavoro di questi mesi. Nel frattempo bisogna consolidare il buon lavoro del governo Draghi: il Paese ha bisogno di stabilità e di continuità». «I rapporti personali con Matteo Salvini e Giorgia Meloni - aggiunge - sono sempre stati molto cordiali, le valutazioni politiche non sempre coincidono. Dobbiamo rilanciare il centrodestra e per farlo c'è un solo modo: consolidare Forza Italia e creare un centro moderato che possa aggregare e allargare i suoi confini, saldamente ancorato al centrodestra e alternativo alla sinistra, che sia garante dei valori cristiani, dei principi liberali, della vocazione europeista, del metodo garantista. Per fare questo bisogna rifondare il centrodestra? Se necessario, sono pronto a farlo, senza escludere nessuno».».

La Stampa intervista Giorgia Meloni attraverso il direttore Massimo Giannini, per la trasmissione "30 minuti al Massimo", in versione integrale sul sito del giornale. Ecco alcuni passaggi sul centro destra.

 «Nella confusione generale Giorgia Meloni ha poche ma importanti certezze: «L'unico partito rimasto saldamente nel centrodestra siamo noi - dice la leader di Fratelli d'Italia - e al governo con il Pd non ci andremo mai. È una vita che vogliono chiuderci in un angolo, ma non ci sono mai riusciti e non ci riusciranno». Nell'osservare l'«inconsistenza» del centrodestra, avverte Salvini e Berlusconi: «Non si possono più scrivere accordi sulla sabbia». (…) Vi siete sciolti come neve al sole, come dice Salvini? «Attualmente la coalizione ha enormi difficoltà, sul piano parlamentare ha dimostrato tutta la sua inconsistenza. Ma penso che le idee e i principi che la ispirano siano ancora maggioranza tra gli italiani, quindi è il momento di fare chiarezza tra noi». C'è spazio per una ricomposizione? «Non dipende da me, ma le persone che votano centrodestra chiedono rispetto, di essere rappresentate con orgoglio, senza rincorrere le sirene della sinistra, che è naturalmente nostra avversaria. La mia responsabilità è dare rappresentanza a questo mondo, gli altri dovranno fare le loro scelte. Nell'elezione del presidente della Repubblica hanno preferito tutelare l'alleanza di governo con Pd e M5s invece che l'unità del centrodestra». Con Salvini e Berlusconi vi siete parlati e chiariti? «Salvini non lo sento da prima che votasse per Mattarella. Berlusconi mi ha chiamato un paio di giorni fa e abbiamo parlato. Ci confronteremo, per carità, ma il punto è che non si possono più scrivere accordi sulla sabbia, dirci che stiamo uniti e poi assumere posizioni diverse su questioni serie. Io penso che il nostro ruolo sia riorganizzare il campo dei conservatori in vista delle prossime elezioni. Perché prima o poi tornerà la democrazia in questo Paese». Perché la democrazia in Italia è stata sospesa? «Da noi tutte le scuse sono buone per non votare. Noi siamo l'unica democrazia in Europa in cui il premier non ha avuto alcuna legittimazione da parte del popolo, ma solo dal Parlamento, che ormai è poco rappresentativo del Paese». (…) Ci sono i presupposti per un accordo per le prossime elezioni amministrative? «Sul territorio il centrodestra esiste, governa bene e sta portando avanti gli impegni presi con i cittadini. È un valore aggiunto, che non va disperso e da cui ripartire, anche per ricostruire il centrodestra a livello parlamentare e nazionale. Per le prossime amministrative siamo avanti con il lavoro, in molte realtà sono in campo i presidenti e i sindaci uscenti che meritano la riconferma, da Verona a L'Aquila e a Pistoia, fino alla Regione Siciliana».

LA NATURA ENTRA NEI PRINCIPI DELLA COSTITUZIONE

La tutela dell’ambiente e della bio diversità entra nei principi fondamentali della carta costituzionale. Luca Fraioli per Repubblica.

«La Natura entra in Costituzione: con decenni di ritardo, la Carta fondamentale della Repubblica recepisce una sensibilità per l'ambiente ormai diffusa tra i cittadini e nella giurisprudenza. Nel 1948 emergenze come quella climatica non erano neppure all'orizzonte e le priorità dei padri fondatori erano ben altre. Inserirono nell'articolo 9 la tutela del "paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione", ma niente di più. Ieri, alla fine di un iter durato quasi tre anni, con i previsti quattro voti tra Camera e Senato, il Parlamento ha approvato in via definitiva la Proposta di legge costituzionale che colma una lacuna storica. Il provvedimento modifica l'articolo 9 della Carta, ma anche l'articolo 41. Nel primo caso si aggiunge che la Repubblica tutela "l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali". Il riferimento alle future generazioni rappresenta il recepimento in Costituzione del concetto di sviluppo sostenibile, secondo il quale le risorse naturali non possono essere sfruttate in modo illimitato senza tener conto di chi verrà dopo. Mentre la tutela degli animali, affidata alle leggi ordinarie dello Stato, è il frutto di un compromesso raggiunto per evitare lo stallo che si era creato nel corso dell'iter parlamentare. La Lega, portavoce di alcuni gruppi d'interesse tra cui soprattutto il mondo venatorio, si era opposta alla formulazione precedente presentando centinaia di emendamenti. L'ostacolo è stato aggirato distinguendo ambiente, biodiversità, ecosistemi (tutelati direttamente dalla Costituzione) e animali (la cui tutela è affidata al legislatore). Si è intervenuti anche sullo spesso controverso rapporto tra attività economica e ambiente. L'articolo 41 è stato modificato, aggiungendo che l'iniziativa economica "non può svolgersi in modo da creare danno alla salute, all'ambiente", oltre che alle già sancite "sicurezza, libertà, dignità umana". Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani parla di «giornata epocale: la tutela dell'ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi diventano un valore fondante della nostra Repubblica». Il provvedimento è stato approvato con maggioranza qualificata e dunque non è necessario un referendum confermativo: la tutela della Natura è da ieri tra i principi fondamentali dello Stato. Esultano le associazioni ambientaliste che hanno partecipato alle consultazioni: sono già pronte a impugnare la "nuova" Costituzione per chiedere leggi più stringenti. «La legislazione futura si dovrà ispirare al voto di ieri e quella passata si dovrà adeguare», conferma Donatella Bianchi del Wwf Italia. «Ora è necessario definire un sistema normativo organico e innovativo a tutela della natura d'Italia». Una delle prime battaglie riguarda la legge 157 del 1992, che regola l'attività venatoria. Per Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, la modifica costituzionale «è una bellissima notizia, una vittoria ». Anche perché interviene su un tema che ha spesso diviso le associazioni: «Ci si è spesso opposti allo sviluppo delle rinnovabili, eolico e fotovoltaico soprattutto, appellandosi al fatto che il paesaggio italiano fosse tutelato dalla Costituzione. Ora ambiente e biodiversità vengono messi sullo stesso piano: vanno tutelati allo stesso modo del paesaggio. E questo ci aiuterà come Paese ad affrontare meglio l'emergenza climatica ».

Intervista di Avvenire a Stefano Ceccanti, deputato del pd e costituzionalista.

«Si tratta di «un adeguamento reso necessario dai tempi », che tuttavia «non banalizza l'iter di revisione costituzionale» né intacca l'equilibrio della prima parte della Costituzione. Così Stefano Ceccanti, deputato del Pd e ordinario di Diritto pubblico comparato alla Sapienza di Roma, spiega perché - per la prima volta - si è arrivati a modificare uno dei primi 12 articoli della Carta, quelli sui «principi fondamentali».

Da buona parte della dottrina erano ritenuti pressoché intoccabili. Era opportuno farlo?

L'obiezione è seria e viene da lontano. Almeno dagli anni 90, quando ci si è giustamente concentrati sugli aggiornamenti possibili sulla seconda parte, che evidenzia maggiormente i limiti del tempo. Ma sarebbe sbagliato considerare le due parti della Costituzione come compartimenti stagni, quasi proibendo interventi sulla prima. Del resto, diversamente da quanto previsto in altre Costituzioni, il nostro articolo 138 non differenzia le procedure per modificare l'una o l'altra parte.

Invece pure la prima parte (che comprende anche gli articoli dal 13 al 54, sui «diritti e doveri dei cittadini ») può mostrare i segni dei tempi che cambiano.

Era riduttivo riassumere ambiente, biodiversità ed ecosistemi, oggi a forte rischio, nel concetto di «paesaggio». Diciamo che, a differenza della seconda parte della Costituzione, la prima ha bisogno solo di eventuali interventi puntuali, incrementali, evitando comunque un'inflazione di modifiche, una banalizzazione della revisione costituzionale, mantenendo una maggiore prudenza, specie sui primi 12 articoli.

Con le modifiche apportate agli articoli 9 e 41 ci siete riusciti?

Direi proprio di sì. Per quanto riguarda il 9 e tutti i primi 12 articoli, un conto è il concetto di «principi supremi» e un altro la loro concreta formulazione, che può sempre evolvere. Ovviamente deve evolvere in positivo e non regredire. Vorrei ricordare che negli anni 80, i componenti della Commissione Bozzi - tra i quali sedevano ancora esponenti dell'Assemblea Costituente e delle prime legislature repubblicane - avevano previsto un intervento analogo per la valorizzazione del diritto all'ambiente.

Insomma, lo spirito dei padri costituenti è stato rispettato?

Restiamo dei nani sulle spalle di quei giganti che hanno scritto il testo, ma spesso, con interventi prudenti, anche i nani sono chiamati a fare il loro dovere, ad aggiornare quanto fatto dai giganti. Questo abbiamo fatto oggi, con un'impostazione sanamente pragmatica».

UCRAINA, IL TENTATIVO DI MACRON

Ucraina, gelo sul tentativo del presidente francese Emmanuel Macron. Mosca lo smentisce sul ritiro delle truppe, Zelensky si mostra freddo. Ma la mediazione franco-tedesca va avanti e si concentra sul principio di attuare gli accordi di Minsk. Leonardo Martinelli per La Stampa.

«Un ottimista, volenteroso e volitivo, che alla pace ci crede e fa di tutto per ottenerla. Così il presidente francese Emmanuel Macron cerca la ribalta nella crisi russo-ucraina e, in una girandola di colloqui, promesse e proclami, si butta nella mischia dei negoziati. Ma nella partita gioca Vladimir Putin, che parla molto, promette poco e - soprattutto - non esce mai dall'ambiguità. E ci sono, naturalmente, gli ucraini, che del presidente francese non si fidano fino in fondo. Non si fidano di lui e del suo ostentato filo diretto, o presunto tale, con Putin. L'hanno atteso per anni e anni e a Kiev non era mai venuto: solo ieri è arrivato, ma dopo aver incontrato lo Zar di Russia. È in questo contesto da sabbie mobili che si svolge l'offensiva diplomatica di Macron (in cerca di prestigio in patria, in vista delle presidenziali), che se un pregio ha è quello di aver rimesso l'Europa in gioco in questa delicata crisi. Ieri mattina il presidente francese è volato da Mosca a Kiev. Lì, a bordo dell'aereo, ha espresso la soddisfazione di aver «ottenuto» da Putin «che non ci sarà un peggioramento, né un'escalation in Ucraina». Ha aggiunto di aver voluto «aprire nuove prospettive» e che «l'obiettivo è raggiunto». Sempre sull'aereo, un rappresentante della delegazione francese ha precisato che Putin aveva promesso di far rientrare in Russia le truppe ora dislocate in Bielorussia. Un successo, insomma. Peccato che il Cremlino abbia subito fatto notare che le affermazioni francesi secondo cui Mosca non avrebbe portato avanti nuove iniziative militari contro l'Ucraina «non sono giuste». Il presunto accordo stretto dal presidente francese Emmanuel Macron con Putin per una de-escalation della crisi ucraina non c'è mai stato: «Mosca e Parigi non avrebbero potuto stringere una simile intesa, è semplicemente impossibile», ha commentato il portavoce Dmitri Peskov. «La Francia attualmente ha la presidenza di turno dell'Ue, è anche membro della Nato ma non detiene nessuna leadership nell'Alleanza atlantica». Insomma, un contesto confuso. Si naviga a vista. Macron ha poi incontrato Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino, a Kiev: tre ore, stavolta, di colloqui. Alla fine il presidente francese ha assicurato di avere ottenuto «un doppio impegno» di Ucraina e Russia a rispettare gli accordi di Minsk, quelli sul Donbass, dicendo di credere «a soluzioni concrete e pratiche» per arrivare a una distensione. Zelensky ha detto di attendersi un prossimo vertice con i presidenti russo e francese e Olaf Scholz, il cancelliere tedesco. Questo, in ogni caso, sarà preceduto da un incontro tra i rispettivi consiglieri, fissato già a domani a Berlino. Non era finita per Macron e la sua maratona contro il tempo. Ancora una nuova tappa, la capitale tedesca, dove ieri sera ha visto Scholz, di ritorno da Washington, dove lunedì aveva incontrato Joe Biden; A loro si è unito il residente polacco Andrzej Duda. Proprio lui ha espresso le preoccupazioni più vive: «Questa è la situazione più difficile in cui ci troviamo dall'89 - ha detto -. Siamo preoccupati per le esercitazioni russe al confine con la Bielorussia, che dovrebbero finire il 20 febbraio. Ci chiediamo cosa accadrà dopo». Scholz ha sottolineato la necessità di mantenere la pace intervenendo «con la diplomazia e attraverso messaggi chiari, oltre che con la volontà comune di agire insieme», riferendosi a un'Europa che cerca disperatamente di entrare nel gioco e di impedire il peggio. Macron ha ribadito che «un dialogo con la Russia è il solo cammino che renderà possibile la pace in Ucraina». Lui sembra oggi l'uomo che può parlare a Putin e Putin sembrerebbe ascoltarlo. Ma tutto questo all'apparenza non basta».

GLI STATI UNITI “HANNO BISOGNO DI UN NEMICO”

Per capire la crisi ucraina è molto interessante l’intervista di Sergio Romano a Tommaso Di Francesco del Manifesto. Romano, ambasciatore italiano a Mosca, saggista e scrittore, ha appena pubblicato un volume sulla fine dell’Unione Sovietica. La vicenda dell’Ucraina ci riporta lì, all’assetto dell’Europa e dell’Eurasia, all’indomani del crollo del muro di Berlino. La Russia non è un nemico, anche se gli Stati Uniti “hanno bisogno di un nemico”.

«In occasione dell'uscita in queste settimane del libro "Il suicidio dell'Urss" nel quale l'autore, Sergio Romano, raccoglie saggi fondamentali sulla sua lunga frequentazione della realtà sovietica e russa, abbiamo voluto intervistare l'autore - saggista, scrittore, giornalista, che è stato rappresentante permanente della Nato e ambasciatore d'Italia in Russia negli anni cruciali che vanno dal 1985 al 1989 - approfittando del valore e della complessità del suo lavoro: si tratta di materiali di prima mano. Il libro - Teti editore, 293 pp. 18 euro -, con prefazione di Luciano Canfora e introduzione di Ezio Mauro, infatti non solo è un decisivo contributo alla conoscenza storica della fine contrastata dell'Unione sovietica, ma getta una luce significativa sugli avvenimenti del presente, non ultima sull'attuale, esplosiva crisi ucraina. Nella vulgata corrente la Russia viene inesorabilmente definita come "altro" dall'Europa. Nel suo libro sostiene invece che non è così; a partire dalla stessa Rivoluzione d'Ottobre che lei spiega come approccio della Russia alla modernità (Lenin si richiama a Marx, al Capitale, e poi c'è il ruolo degli intellettuali russi come Aleksandr Herzen, al quale dedica un capitolo, in esilio nel 1848 in Europa...). Insomma la Russia è parte della storia d'Europa o no?

Assolutamente sì, la Russia è parte dell'Europa e della sua storia, non ho mai avuto dubbi in proposito. Mi sono scontrato con molte persone che non lo credevano, ma ogni volta ho constatato che se non lo credevano avevano una ragione che in fondo era una convenienza a dirlo: perché secondo loro, diplomatici e storici, la Russia rappresenta un ostacolo, una difficoltà che limita il loro Paese... Non ho mai creduto a questo scetticismo verso la Russia.

Lei spiega il "suicidio" dell'Urss come 'abbandono' e 'sfinimento' di ruoli e contenuti. Ma ci fu anche un aperto conflitto sulle sue sorti. Non a caso lei descrive il tentativo di Gorbaciov (glasnost, perestrojka, il Congresso dei deputati del popolo, Memorial, il ritiro dalla Afghanistan...). Poi arriva Eltsin approfittando del golpe dei duri del Pcus. Canfora dice che di lui non c'è più traccia. Ma non è stato Eltsin il padre putativo di Putin?

Certo. E io arriverei addirittura alla constatazione che il crollo dell'Unione sovietica è opera dello stesso Boris Eltsin. Se non avesse fatto alcune cose e se non avesse preso alcune decisioni non so dire se l'Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche avrebbe avuto sorte diversa. Certo non nel modo brusco e repentino che invece assunse quella fine. Una delle ragioni che hanno provocato la fine dell'Unione sovietica è stata proprio la decisione di Eltsin di far approvare la legge sull'elezione diretta da parte del popolo del presidente della Federazione russa, che avrebbe avuto poteri superiore a ogni altra istituzione, una decisione apertamente contraria al concetto di confederazione, perché il presidente avrebbe dovuto essere russo e il popolo coinvolto quello russo.

Allora possiamo parlare di istigazione al suicidio?

Sì, direi di sì...

Che rapporto c'è stato tra le due date storiche del nostro presente, sulle quali lei ritorna spesso, il 3 ottobre 1990 scompare la repubblica popolare tedesca, e il 26 dicembre 1991, fine dell'Urss?

Credo che quelle date siano state certamente importanti, ma che non sarebbero state altrettanto decisive se non ci fosse stato un processo di graduale disincanto nei confronti dell'Unione sovietica all'interno del suo stesso apparato interno. Le segnalo il libro di memorie di un diplomatico, per qualche tempo all'ambasciata di Russia a Roma, Anatoly Adamishin. Nelle sue importanti memorie, emerge tra l'altro il quadro del sistema burocratico dello Stato sovietico degli ultimi 20 anni prima della morte dell'Urss. Il disincanto era diventato una bomba pronta a scoppiare proprio sotto il letto dell'Urss. Perché non c'era nel Paese, come avrebbe potuto esserci negli altri, un po' di intellighenzia che potesse creare le radici di qualcosa che sarebbe diventato prima o poi partito politico d'opposizione contro il regime, Tutto è accaduto dentro il sistema. E le posso dire quali sono state le famiglie del sistema che maggiormente lo hanno involontariamente provocato. Una è stata di certo il Kgb, l'altro è stata la burocrazia del ministero degli Affari esteri e per certi aspetti anche l'interno del ministero della Difesa.

Perché queste erano bombe ad orologeria?

Ma perché conoscevano il mondo. Perché erano quelle burocrazie del sistema che maggiormente per le loro funzioni avevano un contatto esterno, quando nel Paese il contatto con il mondo esterno era enormemente scoraggiato, e qualche volta addirittura proibito. E non lo si poteva certo proibire a chi per le proprie funzioni doveva per forza rapportarsi con il mondo per dare indicazioni al Paese. Anatoly Adamishin si è formato nel ministero degli esteri negli ultimi anni di Andrej Gromiko, un grande ministro degli Esteri che suscitava ammirazione nei suoi discepoli che lui coltivava, che preparava alla professione diplomatica, perché era un patriota. Non lo ammiravano perché era un comunista, ma perché era un patriota. Il nazionalismo era contagioso, molto contagioso. Insomma Gromiko così ha finito per buttare anche senza accorgersene, se non molto tardi, all'interno degli apparati amministrativi del Paese, dei semi di nazionalismo crescente.

L'Unione sovietica finisce con enormi concessioni unilaterali prive di contropartite nei confronti degli Stati Uniti e dell'Alleanza atlantica. Il Patto di Varsavia si scioglie nel '91 e si riunifica la Germania. E accade che tutti i Paesi dell'est che facevano parte del patto di Varsavia dal 2004 concretamente sono tutti quanti entrati nella Nato. Un organismo, come lei spesso ricorda, nato dalla seconda guerra mondiale proprio in opposizione all'Unione sovietica e che sarebbe dovuto scomparire alla fine della guerra fredda. Perché è stato mantenuto in vita invece il clima della guerra fredda?

Sì. Io ho una rubrica sul Corriere della Sera - quella più recente, di domenica scorsa, ha un titolo significativo: «I Paesi satellite dell'Europa dell'Est che preferiscono la Nato alla Ue». È un tentativo di spiegare come questi Paesi che avevano fatto parte del mondo sovietico e che erano stati in qualche modo alleati dell'Urss, siano tutti finiti prima o dopo nella Nato. In realtà erano i satelliti dell'Unione sovietica. Ed erano dei satelliti nell'Europa orientale in cui il rapporto con la Russia è sempre stato un rapporto dialettico. Perché non potevano non riconoscerne l'importanza e al tempo stesso non potevano nemmeno amarla troppo. Questa confusione a un certo punto era presente anche durante la guerra fredda. Erano in quel campo, non potevano certamente prescindere dall'esistenza dell'Urss, cioè di un Paese padrone, in certo senso. A un certo punto ne sono diventati alleati. Sono Paesi che hanno una sovranità debole, un patriottismo forte e una sovranità debole. Sembrano due contraddizioni ma non è vero. I polacchi, un po' meno i cechi, ma certamente gli ungheresi, hanno personaggi molto nazionalisti ma al tempo stesso hanno sempre avuto bisogno di una casa madre in cui trovare una collocazione, la più dignitosa possibile, ma in cui il riconoscimento dell'esistenza della casa madre era inevitabile. Ebbene questi sono passati dall'Unione Sovietica agli Stati Uniti…

Armi e bagagli?

Sì, proprio così, armi e bagagli. Sono lì non perché la Nato debba difenderli... Per carità, la Nato non difende nessuno. No, sono lì perché è una grande casa politica che conferisce dignità, conferisce autorevolezza soprattutto nei confronti degli Stati associati e dei propri governati. E loro ne avevano bisogno. L'hanno trovata nell'Unione sovietica per parecchi anni e poi finita l'Unione sovietica l'hanno trovata a Washington.

Nel frattempo ci troviamo in un'Unione europea che non ha una politica estera, non solo perché non sono stati attribuiti ruoli ad una figura istituzionale - abbiamo ancora Mister Pesc -, ma perché non si riesce a costruire una politica estera autonoma. Una funzione invece surrogata dall'Alleanza atlantica, come abbiamo visto in una molteplicità di crisi internazionali, dove la Nato ha sopravanzato l'iniziativa dell'Ue. È così?

Certo. È proprio così che è accaduto. E se noi non abbiamo una politica estera, lo dobbiamo anche a molte colpe dei Paesi originari della Comunità economica europea poi diventata Unione europea. Non sarei troppo gentile su questo: bisogna riconoscere che una delle fondamentali ragioni per cui l'Unione europea non ha una politica estera è che i nuovi arrivati dell'Est Europa non hanno tentato di farla, perché si considerano più legati alla Nato e al ruolo direttivo degli Stati Uniti che all'Unione Europea.

Per il 1989, il crollo del Muro di Berlino, e per il 1991 la fine dell'Urss, lei parla di un'occasione persa perché il mondo cambiasse tutto quanto. A proposito di occasioni perse, ecco l'Ucraina, un Paese che ha una doppia vocazione, verso Ovest e verso Est, economica e culturale, con una russofonia molto forte e una storia comune con la Russia. Eppure accade quello che preconizzava Brezynski: la sua indipendenza, creerà gravi problemi. Ora l'ingresso nella Nato dell'Ucraina enfatizzerebbe invece la contrapposizione, fino al rischio di un confronto armato vista la dislocazione di sistemi d'arma occidentali che va dal Baltico al Caspio. E poi in Ucraina, nel Donbass la guerra civile c'è già stata...

Lei ha ragione. Io ho cercato di dirlo fin dall'inizio, che la collocazione che intravedevo come desiderabile per l'Ucraina era quella della neutralità, il Paese doveva diventare neutrale. C'erano anche ottime ragioni perché l'Unione europea si esprimesse in questi termini, però devo confessare che non avevo fatto in conti con gli Stati uniti. Non avevo fatto i conti con il fatto che gli Stati Uniti hanno bisogno di un nemico. Hanno bisogno di un grande nemico perché il nemico giustifica la loro politica, la loro politica delle armi, la loro industria delle armi. Quelle grandi industrie militari della California che cosa farebbero se non ci fosse un nemico?

Solo che lo scenario del confronto, della ricerca continua del nemico, stavolta è nel cuore d'Europa. Con un Paese non marginale come la Germania ora esposto in primissima istanza.

Sono un po' sorpreso che la Germania non si sia esposta più esplicitamente per la neutralità. Mi pare che sia stato detto, mi pare che certi atteggiamenti ci siamo stati... ma non con quella fermezza che sarebbe sembrata la più logica delle politiche. L'Ucraina deve essere un Paese neutrale, non può essere altro che un Paese neutrale e potrebbe trovare in questa veste anche la possibilità di un ruolo politico rispettabilissimo e molto utile per l'insieme dell'Europa. Qualche volta ho l'impressione che anche persone che considererei sagge non si siano sufficientemente schierate sul fronte della neutralità. Sono un po' deluso, perché a me sembrava così logico che il Paese dovesse essere neutrale, che sarebbe stato rispettato sia da un blocco che dall'altro. Allora se davvero si continua a volere considerare la Russia un potenziale nemico, perché si ritiene che di questo abbia bisogno il "mio Paese", ecco che a questo punto si ha bisogno di una crisi permanente.

L'Ucraina come crisi permanente...?

Sì, l'Ucraina come crisi permanente».

NO ALLA TRATTA, NEL SEGNO DI BAKHITA

Papa Francesco ha partecipato con un videomessaggio alla maratona virtuale di otto ore organizzata per la Giornata internazionale contro la tratta. Tra i testimoni trenta giovani ambasciatori impegnati nel contrasto alle moderne schiavitù. Lucia Capuzzi per Avvenire.

«Ore 13.31. La staffetta virtuale di orazioni, denuncia e testimonianze va avanti da oltre quattro ore. Poco prima, è stato il turno dei trenta giovani 'ambasciatori contro la tratta' che, dall'America all'Asia, hanno gridato il loro no alla schiavitù con le parole e con la musica. Manca una manciata di secondi alle 13.32 quando, alle oltre 120 voci di denuncia e speranza, si aggiunge quella di papa Francesco. «Sono tante le donne che hanno il coraggio di ribellarsi alla violenza. Anche noi uomini siamo chiamati a farlo, a dire no ad ogni violenza, inclusa quella contro le donne e le bambine. E insieme possiamo e dobbiamo lottare perché i diritti umani siano declinati in forma specifica, nel rispetto delle diversità e nel riconoscimento della dignità di ogni persona, avendo a cuore in modo particolare chi è leso nei suoi diritti fondamentali», dice il Pontefice nel videomessaggio con cui ha voluto partecipare alla maratona online organizzata nella Giornata internazionale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone. L'ottava da quando lo stesso Francesco decise di istituirla nella data della memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita. Stavolta, il tema dell'iniziativa, promossa dall'Unione internazionale delle superiore e dei superiori generali (Uisg e Usg) e coordinata da Talitha Kum, è La forza della cura: donne, economia e tratta di persone e si concentra sullo sfruttamento delle donne. Una questione che, però, non riguarda solo queste ultime, «è una ferita profonda che riguarda ognuno di noi», afferma il Papa. Perché il male - un male estremo come la schiavitù - nell'offendere la vittima disumanizza il carnefice e impoverisce l'intera umanità. Per questo, la forza per spezzare le catene viene solo dallo slancio comune di popoli, settori sociali, soprattutto di generi, chiamati a costituire un'alleanza nel segno della fraternità. E della cura, che parte dal riconoscimento della dignità di ciascuno. Essa è «l'agire di Dio nella storia», dice il Papa. Il contrario di quanto ancora, troppo spesso, accade. La tratta ne è segno eloquente. Essa - afferma il Pontefice - «riconsegna con violenza le donne e le bambine al loro supposto ruolo di subordinate alla prestazione di servizi domestici e di servizi sessuali» riproponendo «uno schema di rapporti improntati al potere del genere maschile su quello femminile». Da qui l'appello alla trasformazione. Un processo a cui gli uomini non devono sottrarsi. Francesco incoraggia ogni uomo e ogni ragazzo a prendervi parte: «Prenderci cura, insieme, uomini e donne, è l'appello di questa Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta: insieme possiamo far crescere un'economia della cura e contrastare con tutte le forze ogni forma di sfruttamento della tratta di persone». La maratona è stata metafora di questo nuovo paradigma di alleanza e di cura. Per poco più di otto ore, si sono alternati interventi da 51 Paesi di tutti e cinque i Continenti. Una rete globale composta da cento organizzazioni aderenti. «Quando ci prendiamo cura dei nostri fratelli e delle nostre sorelle vittime della tratta, diventiamo potenti», dice Joy Ezekiel, uno dei trenta giovani ambasciatori di Talitha Kum. «Solo attraverso l'accompagnamento empatico e gratuito, i sopravvissuti e le sopravvissute possono trovare quell'amore che risana l'umanità ferita, l'umanità violentata», aggiunge padre Fabio Baggio, sottosegretario della sezione Migranti e rifugiati del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. «Non voltiamoci dall'altra parte, lo sfruttamento avviene spesso di fronte ai nostri occhi - esorta suor Patricia Murray, segretaria esecutiva della Uisg -. Agiamo, con coraggio!».

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