Riad sul tetto del mondo
L'Arabia Saudita ottiene l'Expo 2030 con il sostegno di 119 Paesi. Roma umiliata. A Gaza si lavora per una tregua ad oltranza. In Italia polemiche sulle bollette non più tutelate. Il Papa è malato
119 Paesi del mondo hanno votato Riad. L’Arabia Saudita ospiterà la prossima Expo, quella del 2030. È un trionfo annunciato quello di Mohammed Bin Salman, che solo pochi anni fa sembrava oggetto dell’ostracismo internazionale e che oggi è un interlocutore fondamentale. Non solo nello scacchiere mediorientale. La notizia è comunque clamorosa, anche se i giornali italiani puntano di più sulla figuraccia di una Roma messa in lizza in modo infausto, e che è arrivata ultima con soli 17 voti, anche dopo la non famosissima sud coreana Busan. Il primo aspetto positivo della vittoria saudita è che questo Paese rappresenta un modello di sviluppo e di relazione internazionale, diverso e contrario all’islam politico. Non per niente alcuni analisti hanno scritto che l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre era in realtà volto soprattutto ad impedire la distensione fra Gerusalemme e Riad. Dopo Giordania, Egitto ed Emirati, l’Arabia Saudita potrebbe infatti riconoscere ora Israele. Da non sottovalutare poi che questa nazione ospita i luoghi santi, a cominciare dalla Mecca, particolare non secondario nel suo schierarsi contro il fondamentalismo islamista. Il secondo aspetto positivo è che, anche grazie a Matteo Renzi e come dimostra la visita ieri del nostro ministro Adolfo Urso, l’Italia è in una posizione privilegiata nei rapporti con questo Paese, per ragioni storiche, culturali e anche religiose. La diplomazia economica, a tratti disprezzata dalla cultura woke e in genere dalle ideologie, riesce spesso a dare, con realismo, un contributo positivo alla cooperazione internazionale e al multilateralismo. Viene in mente la battuta del presidente Xi Jinping in occasione dell’incontro con il presidente Usa Joe Biden: il mondo è grande, c’è spazio per tutti.
A proposito di Biden, gli Usa insistono con Israele perché si arrivi ad una tregua ad oltranza e alla riconsegna di tutti gli ostaggi rapiti da Hamas. Ci stanno lavorando i capi dei servizi segreti: l’opinione pubblica israeliana sembra decisa ad accettare un’ipotesi di questo tipo. Sul Corriere della sera c’è un’interessante intervista di Yossi Beilin, esponente di spicco della sinistra israeliana, artefice degli accordi di Oslo, che senza mezzi termini spiega come Benjamin Netanyahu e i terroristi di Hamas continuino ad avere interessi convergenti. Soprattutto su un punto chiave: non vogliono la soluzione dei due popoli in due Stati. Soluzione alla quale, racconta Beilin, si è arrivati più volte vicini nel corso della storia. C’è un nuovo appello italiano, pubblicato dal Manifesto, per il cessate il fuoco e l’inizio di un negoziato.
Oggi papa Francesco non potrà tenere l’udienza del mercoledì. Anzi la notizia è che deve rinunciare anche al viaggio previsto a Dubai. I medici lo hanno fermato e non ci sarà alla Cop28. Anche se forse sabato farà il suo intervento da remoto. Dunque la prossima conferenza Onu sul clima, che inizia domani, perde un altro protagonista importante. Non ci saranno infatti neanche i presidenti cinese e americano. La Stampa pubblica un bell’articolo di Carlo Petrini sul ruolo del cibo nella lotta all’inquinamento della terra.
Nelle vicende di politica italiana, spicca una polemica sulle bollette. L’ultimo decreto energia, approvato lunedì dal Consiglio dei Ministri, prevede infatti che si arrivi al mercato libero da gennaio per il gas, da aprile per l’elettricità. Ma la circostanza non è piaciuta a Matteo Salvini, che adesso vorrebbe tornare alla tutela dei consumatori.
La Versione si conclude con un intervento di don Roberto Regoli sull’eredità di Benedetto XVI, pubblicato dal Foglio, che pronuncerà stamane a Roma in un importante convegno internazionale.
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LA FOTO DEL GIORNO
Festeggiamenti a Riad ieri sera subito dopo l’annuncio dell’assegnazione alla capitale saudita dell'Expo 2030, arrivato da Parigi. Fuochi d’artificio e scritte luminose in città.
Foto Reuters
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
È sul decreto energia varato lunedì che scoppia la polemica. Titola La Repubblica: Bagarre sulle bollette. Mentre La Stampa fa i nomi dei protagonisti dello scontro: Tensioni sul salva-bollette. Salvini e Pd conto Meloni. Per Avvenire sono le: Tutele che dividono. Libero prende le parti, ancora una volta, di Matteo Salvini: Ecco tutta la verità sui rincari in bolletta. Gioco di parole brillante per il Manifesto che va sulla vittoria dell’Expo 2030 a Riad: Arabia esaudita. Il Giornale sottolinea la delusione per i pochi voti raccolti dalla nostra capitale: Figuraccia Roma. Il Corriere della Sera privilegia l’intervista col Ministro Nordio che dice: «Corretto valutare i pm». Il Domani sintetizza così: La guerra ai pm serve a coprire i flop. Della manovra nessuno parla più. Il Sole 24 Ore avverte che il nuovo Patto comporta molti condizionamenti da Bruxelles: Sostenibilità, pioggia di regole Ue. Il Messaggero fa sperare i dipendenti della scuola: «Prof e presidi, bonus a Natale». Mentre il Quotidiano Nazionale dà buone notizie ai sanitari: Medici, salve le pensioni di vecchiaia. Il Fatto attacca ancora sulla scia di Report: Le auto-marchette di Gasparri sul Pnrr. Mentre La Verità critica la Chiesa italiana: Dai vescovi milioni di euro a Casarini imputato per traffico di esseri umani.
RIAD FA CAPPOTTO: 119 PAESI LA DESIGNANO PER L’EXPO 2030
Stefano Montefiori per il Corriere della Sera racconta la serata parigina in cui Riad ha ottenuto la prossima sede dell’Expo nel 2030. La delusione italiana per Roma, votata solo da 17 Paesi, arrivata ultima anche dopo la sud-coreana Busan.
«La sorpresa non sta nella vittoria di Riad, ma nel fatto che sia così schiacciante: la capitale dell’Arabia Saudita ospiterà l’Expo 2030 grazie al voto di 119 Paesi su 165. La coreana Busan ha raccolto 29 preferenze mentre solo 17 sono andate a Roma, che certo non ha rivali come storia, immagine, notorietà e appeal turistico nel mondo ma non è stata giudicata la più idonea a parlare di futuro. Riad ha vinto subito, dopo la prima votazione, assicurandosi i due terzi dei voti ed evitando il ballottaggio. Non c’è stata partita. La candidatura di Riad era la più controversa perché promette «la prima esposizione universale a emissioni zero» in un Paese che è uno dei maggiori produttori di petrolio e ha un livello pro capite di emissioni di gas serra tra i più elevati al mondo. Ma i fondi pressoché illimitati dell’Arabia Saudita e lo straordinario attivismo diplomatico del principe ereditario Mohammed bin Salman hanno avuto ragione di tutti i dubbi, anche quelli sul mancato rispetto dei diritti umani. L’assassinio dell’oppositore Jamal Khashoggi, fatto a pezzi il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul da agenti delle forze speciali saudite, sembrano ormai dimenticati. Il principe «MbS» ieri ha esultato sottolineando che la vittoria di Parigi «consolida» il ruolo «pionieristico e centrale» dell’Arabia Saudita e «la fiducia internazionale di cui gode e che rende il regno una destinazione ideale per ospitare le più importanti manifestazioni internazionali». L’Arabia Saudita è destinata a ottenere anche i mondiali di calcio del 2034 e — prova che «niente è impossibile per MbS», come dicono i suoi ministri — ospiterà i Giochi asiatici invernali del 2029: nel deserto della penisola arabica sorgerà un resort di montagna nell’ambito di Neom, il progetto di città del futuro da 500 miliardi di dollari. Fino a pochi anni fa Riad era pressoché chiusa agli stranieri, ma nel 2019 il governo ha introdotto la possibilità di concedere visti turistici come primo passo di una repentina apertura al mondo e come segno della volontà di diversificare l’economia, andando oltre la tradizionale estrazione del petrolio. L’esposizione universale si svolgerà quindi a Riad dall’ottobre 2030 al marzo 2031. I sauditi hanno convinto i delegato con lo slogan «L’era del cambiamento: insieme per un domani lungimirante».
COME BIN SALMAN HA COSTRUITO IL SUCCESSO
Avventure militari e assassinio di Khashoggi avevano messo all’angolo Mohammed Bin Salman. Invece ha saputo risalire la china. Con sport, petrodollari e l'appoggio russo-cinese si è rialzato e oggi sfida Emirati e Qatar. Centrale anche per il futuro di Israele. Giordano Stabile per La Stampa.
«Mohammed bin Salman, come i suoi avi, è un uomo del deserto. Ma è un deserto fatto di enormi tende con aria condizionata, fuoristrada giganteschi, computer e megaschermi, e notti passate tra sfide ai videogiochi e film di fantascienza, fino alle prime luci dell'alba. È così che ha migliorato il suo inglese, zoppicante quando è stato proiettato nel potere mondiale, otto anni fa, con la salita al trono del padre. Non aveva ancora trent'anni, nato e cresciuto a Riad, dove ha anche frequentato l'università, con poche sortite all'estero. La sua apertura verso il mondo è fatta soprattutto di immaginazione: un Metropolis con la spietatezza degli Hunger Games. Re Salman l'ha scelto come successore per questo: radici ben piantate, ambizioni senza limiti, neppure etici. Mbs ha pagato la mancanza di esperienza internazionale nei primi anni ma adesso ha imparato e comincia a raccogliere i frutti di un'intuizione quasi naturale per l'erede trentenne di un potere detenuto da ottuagenari. Il soft power. Ha 38 anni, è un principe ereditario, padrone di un Paese di 35 milioni di abitanti, seduto su un tesoro fatto di oro nero. Ha un modello, l'uomo forte degli Emirati, Mohammed bin Zayed, detto Mbz, prima suo mentore e poi rivale. Ha un nemico molto simile a lui, Tamin bin Hamad Al-Thani, l'emiro del Qatar. Attorno a questi tre uomini gira il potere del Golfo, il potere arabo del Ventunesimo secolo. Soft power. Mbs l'ha visto con i suoi occhi a Dubai, l'ex città di pescatori, poco petrolio, eppure al centro del mondo. Mbz gli spiegava che era in corso una rivoluzione pari a quella seguita alla scoperta dell'America da parte degli europei. Il baricentro del mondo si spostava verso Est, dal centro dell'Atlantico era passato al Mediterraneo orientale e stava per posizionarsi nel Golfo, a metà strada tra la Cina e l'Europa. Bastava "gettare la rete" e i pesci sarebbero entrati. Servivano i capitali per costruire le infrastrutture ma dov'era il problema? Riad ha le più grandi riserve di greggio al mondo, facili da estrarre, ne produce 10 milioni di barili al giorno, pari a 300 miliardi di dollari all'anno. Un flusso senza fine, solo da indirizzare nel verso giusto. Mbs ha voglia di mettere in pratica la lezione. Troppa. Smania. Da ministro della Difesa, nel 2015, scatena l'offensiva contro i ribelli sciiti Houthi nello Yemen, un anno dopo quasi dichiara guerra all'Iran, con l'esecuzione dell'imam Nimr al-Nimr. Nel 2017 è principe ereditario, elimina il cugino Mohammed bin Nayef, sequestra e picchia il premier libanese Saad Hariri, rinchiude cento principi e uomini d'affari al Ritz-Carlton di Riad, per farsi dare 100 miliardi di dollari da investire nel suo sogno a occhi aperti, la Vision 2030. Impone l'embargo economico e il blocco al Qatar, colpevole di sostenere i Fratelli musulmani, suoi mortali nemici, quanto se non più degli iraniani. È un turbine che si conclude con l'uccisione dell'editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi, il 2 ottobre del 2018. L'establishment Usa gli si scatena contro, al G20 di Buenos Aires è isolato. Biden, appena arriva alla Casa Bianca, lo dichiara un "paria". La Vision 2030 però va avanti, la modernizzazione anche. Via l'abaya, il soprabito nero imposto alle donne, che ora possono guidare e andare in viaggio da sole. Via i visti per europei, americani, ricchi asiatici, per lanciare il turismo, con il sito di Al-Ula che diventa la «seconda Petra». E sport. Rally, Formula 1, tantissimo calcio. L'America è più lontana. La Russia di Putin no, con lo Zar stringe un patto per alzare il prezzo del petrolio, da 40 a 80 dollari, la soglia giusta, nasce l'Opec+. La Cina diventa il suo primo cliente. Mbs non ha più voglia di guerre. Non con Israele. Gli Emirati firmano gli Accordi di Abramo. Lui è tentato, ma un altro suo spin doctor, il ministro del petrolio Abdulaziz bin Salman Al Saud, l'inventore dell'Opec+, gli suggerisce di alzare la posta, e chiedere una soluzione per i palestinesi, in modo da mettersi alla guida dell'opinione pubblica araba moderata. Scelta saggia. Lo stesso Al-Saud lo spinge a far la pace anche con l'Iran, mediata dai cinesi. Mbs non vuole più guerre, ma due guerre lo aiutano a tornare al centro dei giochi internazionali. Da protagonista, altro che paria. L'invasione dell'Ucraina nel febbraio 2021 scatena una crisi energetica spaventosa e Biden è costretto a venire a Canossa, vale a dire a Gedda, e stringere la sua mano «insanguinata». E poi arriva il 7 ottobre, l'orrendo massacro di Hamas, la distruzione di Gaza nella rappresaglia israeliana. Il segretario Antony Blinken chiama tutti gli alleati arabi, fa la spola tra le capitali, è costretto a fare anticamera a Riad. Il qatarino Al-Thani media per gli ostaggi ma senza Riad non ci sarà la ricostruzione, l'Egitto non può reggere la crisi, è il ministro degli Esteri saudita a guidare l'offensiva diplomatica arabo-musulmana, e può parlare con tutti, cinesi, russi, europei, americani. Il Qatar ha avuto il Mondiale 2022, Dubai l'Expo 2020, Mbs avrà quella 2030 e il Mondiale 2034. I petrodollari comprano tutto. Forse anche la pace in Medio Oriente».
“HA PREVALSO LA DERIVA MERCANTILE”
Molto duro il commento di Alberto Negri sulla prima pagina del Manifesto, che riprende le sconsolate parole dell’ambasciatore Giampiero Massolo.
«L’Expo va all’Arabia Saudita del principe Mohammed bin Salman, il mandante, secondo la Cia dell’assassinio del giornalista Jamal Kashoggi, l’amico (e pagatore) del senatore Renzi - che ne ha esaltato il «rinascimento» -, invitato ironicamente l’altro giorno in Parlamento dalla presidente del consiglio Meloni a chiedere al regnante saudita il petrolio con lo sconto. Ma qui c’è poco da fare gli spiritosi e i giullari: all’Assemblea generale del Bureau international des expositions, a Parigi, Riad ieri ha portato a casa due terzi dei consensi pari a 119 voti su 182 Paesi votanti. Con 29 voti Busan, città della Sud Corea, si è classificata seconda, Roma è terza con 17 voti. Uno schiaffone sonoro perché neppure molti Paesi europei hanno votato per noi. Eppure qualche avvisaglia c’era. A fine settembre l’Arabia Saudita si era impadronita (pagando profumatamente) della Casina Valadier per dare vita a un sontuoso festival culturale proprio nel cuore della capitale: non era sfuggito che questa manifestazione precedeva di poco il voto per l’Expo 2030. I sauditi hanno lavorato benissimo con la diplomazia e i dollari per avere anche questa manifestazione che si aggiunge ai Mondiali di Calcio del 2034. E come tutti sanno Riad si è comprata con denaro pubblico (le pingui casse del regno wahabita) le star del calcio e anche l’ex l’allenatore della nostra nazionale Mancini, visto sfilare a Riad con le sciabola saudita in pugno. Altro che la Spada dell’Islam esibita in Libia da Mussolini: quella rimane custodita come un cimelio, adesso conta ben altro che la retorica del Ventennio. Ma in questo amaro frangente i soldi sauditi che ci portano grandi commesse (citofonare Leonardo), ci fanno arricciare il naso. L’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente del Comitato promotore, ha accolto con parole senza precedenti lo smacco di Parigi parlando di «deriva mercantile» e «metodo transazionale, non trans nazionale». Per poi sbottare: «Fino all’ultimo, né a noi né ai coreani risultavano numeri di questa portata, quindi anche sull’ultimo miglio qualcosa deve essere successo». «Non critico - ha continuato -, non accuso, non ho prove, ma la deriva mercantile riguarda i governi, e anche gli individui talvolta. È pericoloso: oggi l’Expo, prima i mondiali di calcio, poi chissà le Olimpiadi... non vorrei che si arrivasse alla compravendita dei seggi in consiglio di sicurezza dell’Onu, perché se questa è la deriva io credo che l’Italia non ci debba stare». Nobili parole quelle di Massolo, ex segretario generale della Farnesina, ex capo del Dis, dell’Ispi, presidente di Fincantieri e Atlantia. Ma proprio Fincantieri e Leonardo, revocato l’embargo a Riad sulle armi, fanno affari d’oro in Arabia saudita. In questi casi non disprezziamo troppo i soldi sauditi e gli 800 miliardi di dollari del suo fondo sovrano. Il problema è che il mondo è cambiato e fingiamo di non saperlo. La guerra a Gaza impedisce a Riad di unirsi nel Patto di Abramo alle altre monarchie del Golfo in affari con Israele. Ma, come rivelato al G-20 c’è il «Corridoio India-Medio Oriente-Europa», concorrenziale alla Via della Seta cinese e al canale di Suez, per una rete ferroviaria che porterà merci dall’Asia passando per Emirati, Arabia Saudita e Giordania, fino ai porti in Israele e in Europa. Noi siamo in vendita...».
GAZA, IPOTESI DI UNA TREGUA AD OLTRANZA
Sono stati liberati ieri altri dodici ostaggi ma non c’è il piccolo Kfir, di soli 10 mesi. Ora l’ipotesi è di una tregua a oltranza. Si tratta per stabilizzare l’accordo. Davide Frattini per il Corriere.
«I palloncini che colorano la piazza sono arancio come il ciuffo pel di carota del piccolo Kfir Bibas. Ha 9 mesi nel video ripreso dai terroristi, la madre lo tiene stretto assieme al fratellino Ariel, 5 anni, mentre gli uomini in mimetica la spintonano verso i furgoni, i capelli rossi di tutti e tre sono l’ultima immagine ravvicinata di chi si sta già allontanando dalla vita normale. Che non si ferma nel tempo sospeso della prigionia, Kfir ha compiuto 10 mesi da prigioniero, la famiglia è stata passata da Hamas a un altro gruppo, non è chiaro se possa recuperarla per lo scambio: così il bimbo più giovane non è ancora stato rimandato a casa. «Sono vostri nemici? L’Islam insegna a rapire gli infanti? Ogni momento che passa sono sempre più in pericolo», si appellano i parenti dal microfono in piazza dei Dispersi, com’è stato rinominato il quadrato di pietre bianche davanti al museo di Tel Aviv. Qui si ritrovano a migliaia ogni sera, il rituale della gioia e della sorpresa — i volti dei liberati che appaiono sfuocati dietro i finestrini dei fuoristrada della Croce Rossa Internazionale — guastato dal numero di ostaggi rimasti nella Striscia, 180: è il rilascio lento imposto da Yahya Sinwar, il capo dei capi, che ha bisogno di allungare la tregua, non c’è tregua però per chi aspetta e non può smettere di sperare. A 53 giorni dai massacri del 7 ottobre, 1.200 israeliani ammazzati nel Sud del Paese, i medici ancora stanno identificando i cadaveri e i dispersi possono diventare persi per sempre, come Ravid Katz, la famiglia ha saputo ieri che era morto in quell’alba di orrore. La quinta corsa a tappe verso la libertà — tra consegne, passaggi d’auto e passaggi segreti — ha riportato in Israele, oltre a due thailandesi che lavoravano nei campi attorno a Gaza, Clara Marman con la sorella Gabriela Lemberg e sua figlia Mia, 17 anni, in braccio il suo cagnolino; Ditza Heiman, Tamar Metzger, Noralin Babadila Agojo, Ada Sagi, Meirav Tal, Rimon Kirsht, Ofelia Roitman. Tra i 30 palestinesi che escono dal carcere, anche Ahed Tamimi, considerata un simbolo nei villaggi della Cisgiordania. Il boss fondamentalista cerca di sfruttare lo smottamento emotivo nell’opinione pubblica israeliana: la maggioranza adesso sostiene che l’obiettivo principale della guerra è il ritorno dei sequestrati. William Burns, capo della Cia, David Barnea, direttore del Mossad, e Abbas Kamel, la superspia egiziana, starebbero discutendo in Qatar un’intesa globale: tutti i sequestrati compresi i soldati per migliaia di detenuti palestinesi. A sfavore di Sinwar gioca l’apparente fermezza del consiglio di guerra ristretto che lascia spazio solo a 5 giorni in più di cessate il fuoco, dopo lunedì prossimo i combattimenti riprenderanno e si espanderanno nelle aree a sud dei 363 chilometri quadrati, ieri alcuni militari sono stati feriti da esplosivi piazzati dai paramilitari tra accuse reciproche di violazione del cessate il fuoco. I palestinesi ammazzati sono 16 mila, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità potrebbe morirne di più per le malattie. A sfavore di Sinwar giocano anche le testimonianze di quanti sono emersi dal buio delle segrete, racconti che stanno riaccendendo la rabbia dei primi giorni dopo gli assalti. Eitan Yahalomi, 12 anni, sarebbe stato costretto a guardare con altri ragazzini — racconta la zia al telegiornale — i video della mattanza e a quelli che piangevano veniva puntata contro la canna del fucile mitragliatore. Alle ragazze ripetevano che nessuno le voleva indietro e che se avessero parlato della detenzione sarebbero andati a ucciderle. Il premier Benjamin Netanyahu guida la campagna militare ma non abbandona le mosse da campagna elettorale. Ha permesso a Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, di far approvare un budget di emergenza per il conflitto che distribuisce anche milioni alle scuole religiose ultraortodosse e alle colonie. Per Bibi la priorità sembra accontentare gli alleati nella coalizione di estrema destra, rispondere alle esigenze dei coloni oltranzisti e messianici che Smotrich rappresenta».
“NETANYAHU HA SBAGLIATO TUTTO E FAVORITO HAMAS”
Lorenzo Cremonesi intervista per il Corriere Yossi Beilin, esponente di spicco della sinistra israeliana, artefice degli accordi di Oslo.
«Credo che la politica del nostro governo sia fondamentalmente sbagliata. Accettare la tregua in cambio del rilascio degli ostaggi ci mette alla mercé di Hamas. Come del resto era sbagliatissima la politica di Netanyahu, che ha rafforzato Hamas a Gaza. Di conseguenza, adesso vincono i terroristi decisi a guadagnare tempo estendendo il cessate il fuoco. Per il nostro esercito la situazione si fa complicata, i soldati sono bloccati nel mezzo del campo di battaglia e la tregua potrebbe durare mesi. Ciò, tra l’altro, ignora il dato per cui la grande maggioranza degli israeliani oggi, sia di destra che di sinistra, vogliono eliminare Hamas e i suoi dirigenti». Yossi Beilin è sempre stato un inguaribile sostenitore della necessità di negoziare la pace. Artefice degli accordi di Oslo con Yasser Arafat nel 1993, icona della sinistra israeliana, a 75 anni non nasconde che prima del 7 ottobre aveva provato a trattare segretamente con Hamas.
Anche nel 1989 lei iniziò a negoziare segretamente con l’Olp, quale fu la molla del successo?
«Scoprii che il leader palestinese Feisal Husseini a Gerusalemme era pronto al dialogo, in Parlamento feci abolire la legge che vietava rapporti con gli emissari di Arafat. Poi arrivò la mediazione norvegese. C’era la volontà di capirsi».
I motivi del fallimento?
«L’assassinio di Yitzhak Rabin per mano di un fondamentalista ebreo; l’elezione di Netanyahu che non voleva i due Stati; la crescita del terrorismo di Hamas. Sottovalutammo gli estremisti nei due campi pronti a sacrificarsi per boicottare la pace».
E negli ultimi tempi da Hamas cosa le rispondevano?
«Rifiutavano. Hanno detto che non erano interessati a trattare e neppure a un canale di contatto riservato».
Che fare allora degli ostaggi?
«Liberiamoli in uno scambio unico, perché allungarlo nel tempo? Quindi, riprendiamo subito a combattere».
Sulla guerra lei, un pacifista, sembra più duro del governo di estrema destra attuale.
«Su Hamas questo governo non è mai stato falco: hanno sempre preferito Hamas all’Olp».
Crede che adesso si possa costruire la pace come con l’Egitto nel 1979, dopo che Israele era stato colto di sorpresa dall’attacco del 1973?
«Il 7 ottobre è stato la totale sconfitta della politica di Netanyahu: ha voluto ignorare un partner che era pronto al compromesso per i due Stati e il cui leader, Abu Mazen, si dice assolutamente contrario alla guerra. E comunque la pace si fa dopo la guerra. Oggi non possiamo parlare con gli autori degli orrori del 7 ottobre, ma dobbiamo farlo con l’Olp».
E se fossero gli stessi palestinesi a promuovere Hamas?
«Ma Hamas non intende essere il nostro partner. Fu un errore che Hamas partecipasse alle elezioni palestinesi del 2006, il suo statuto prevede la distruzione dello Stato di Israele e dunque va contro le regole che gli stessi palestinesi si sono date».
Nel 2006 Hamas parlava di «hudna», la tregua per almeno vent’anni.
«Esatto, ma io voglio il riconoscimento pieno e la pace vera, non la tregua temporanea. Negli anni recenti quando proponevo la confederazione tra due Stati pensavo che avremmo potuto fare la pace con l’Olp e in parallelo la hudna con Hamas. Ma dal 7 ottobre non è più possibile: Hamas va battuta ed esclusa».
Come fare uno Stato palestinese in Cisgiordania dove ormai vive oltre mezzo milione di coloni?
«Di questi meno di centomila sono davvero ideologici: non intendono andarsene, noi dunque potremmo accettare in Israele altrettanti palestinesi».
Qui tanti sostengono che, dopo Oslo, i palestinesi persero il treno dello Stato due volte, quando rifiutarono offerte che sfioravano il 95 per cento dei territori occupati. Lei c’era ai colloqui tra Ehud Barak e Arafat nel Duemila, quindi nel 2007 tra Ehud Olmert e Abbas. Concorda?
«Certo, i palestinesi hanno perso diverse opportunità, inclusi i piani offerti da Bill Clinton. Ma Israele non è da meno, per esempio quando ignorò l’iniziativa avanzata da Arabia Saudita e Paesi del Golfo nel 2002. Direi che le responsabilità sono miste».
Tornando alla guerra: allora occorre distruggere Hamas senza riguardo per i civili a Gaza?
«Io proporrei loro di lasciare la Striscia, come Arafat lasciò Beirut nel 1982. E noi rinunceremo alla nostra presenza militare. Se rifiutano dovremo invece continuare la guerra sino in fondo».
Lei sa bene che Abbas e gli altri capi dell’Anp non sono pronti a governare Gaza...
«Gli americani ci stanno lavorando e non solo loro. Credo ci debba essere una sorta di coalizione internazionale come in Cambogia nel 1991 sotto l’egida dell’Onu: funzionò per 18 mesi e permise lo sviluppo della democrazia».
E sostituire Abbas con Marwan Barghouti, il leader del Fatah che è in carcere, ma viene indicato come molto popolare tra i palestinesi?
«Non sta a noi. Abbas è stato un partner onesto e credibile. Già in passato ho comunque detto che un leader giovane e popolare come Barghouti potrebbe aiutare».
Teme che Israele sia sempre più a destra?
«Gli ultimi sondaggi marcano il crollo del governo: il 75 per cento dell’elettorato si sposta verso le opposizioni, che credono alla soluzione dei due Stati, la stessa menzionata due volte al giorno dallo stesso presidente americano. Anche ai tempi degli accordi con l’Egitto la maggioranza era contraria a cedere il Sinai. Ma poi l’accettarono senza problemi. E lo stesso avvenne a Oslo con l’Olp. Sta a noi creare la politica delle opportunità di pace».
APPELLO PER UNA TREGUA PERMANENTE E PER UNA SOLUZIONE POLITICA
I promotori del nuovo appello sono Emergency, Laboratorio ebraico antirazzista - LeA, Mediterranea e Assopace Palestina, Amnesty International Italia, Arci, Libera, Gruppo Abele, AOI, Un Ponte per, Beati i costruttori di pace, Lunaria, Associazione SenzaConfine, Articolo 21. Alle associazioni e movimenti si sono aggiunti circa 4.000 sottoscrittori, tra questi 400 personalità del mondo accademico, del mondo dello spettacolo, giornalisti e diplomatici. Per l’elenco completo dei firmatari, individuali e collettivi, e per sottoscrivere andate al sito qui. Ecco il testo dell’appello:
«La fragile tregua ottenuta per Gaza è il frutto di una lunga mediazione internazionale, ma servono un cessate il fuoco permanente e una vera soluzione politica per una prospettiva concreta di pace e giustizia. II Il 7 ottobre Hamas ha ucciso e rapito civili inermi nelle loro case, per strada, a un festival sottraendoli alle loro famiglie. È stato un attacco che ha colpito prevalentemente civili ebrei israeliani, tra cui bambini, anziani, attivisti storici per la pace e contro l’occupazione ma anche lavoratori migranti, palestinesi con passaporto israeliano o residenti in Israele. Sono seguite settimane di bombardamenti indiscriminati da parte del governo israeliano contro la popolazione di Gaza, con scuole ed ospedali divenuti cimiteri. Più di un milione di palestinesi è stato costretto a lasciare le proprie case per dirigersi nel sud di Gaza, che non è più un luogo sicuro. Non ci sono corridoi umanitari adeguati, acqua, cibo, energia. In Cisgiordania è cresciuta esponenzialmente la violenza da parte di coloni armati contro la popolazione civile palestinese. Davanti a questi orrori, l’opinione pubblica internazionale in Europa si è polarizzata, con il ritorno di gravissimi episodi di antisemitismo e islamofobia, riportandoci alla retorica dello scontro di civiltà che ha fatto danni enormi negli ultimi decenni. La lotta contro l’antisemitismo non può essere né una mossa ipocrita per cancellare il retaggio del fascismo, né un’arma in più per reprimere il dissenso e alimentare xenofobia e pregiudizio antiarabo. Deve invece essere parte integrante della lotta contro ogni forma di razzismo. Questa logica binaria – da una parte o dall’altra - è la trappola a cui è necessario sottrarsi in questo momento. Non si può cancellare l'orrore del 7 ottobre, ma si può fermare la strage a Gaza. Un crimine di guerra non ne cancella un altro: alimenta solo l’ingiustizia che prepara il terreno ad altra violenza. Rivendichiamo il diritto e il dovere di guardare la guerra sempre dal punto di vista delle vittime, perché sono loro l’unica certezza di ogni conflitto. La protezione dei civili, senza distinzione di nazionalità, residenza o religione, e degli ospedali, deve essere il primo obiettivo di un’azione diplomatica della comunità internazionale e delle forze della società civile. Chiediamo la fine definitiva del massacro a Gaza, l’avvio di corridoi umanitari adeguati e la liberazione di tutti gli ostaggi. In Israele oltre mille palestinesi sono trattenuti in detenzione amministrativa, tra cui centinaia di minori, di cui chiediamo il rilascio. È necessaria una soluzione politica a partire dalla fine del regime di apartheid e delle politiche di colonizzazione e di occupazione militare israeliane. Non potrà mai esserci sicurezza – per i palestinesi, per gli israeliani, per nessuno di noi, – senza eguaglianza, diritti e libertà».
L’INDIA VIETA I CORTEI PRO-PALESTINA
Cortei pro-Palestina vietati in India. Il motivo? L’islamofobia dell’estrema destra indù, che condiziona il governo di Narendra Modi. Maria Casadei per Il Manifesto.
«Durante la votazione per il cessate il fuoco tra Israele e Palestina discussa all'Assemblea delle Nazioni Unite lo scorso 15 novembre, l’India è stata uno dei 145 paesi a votare a favore, condannando l’occupazione di Israele nei territori palestinesi, compresa Gerusalemme est e il Golan siriano. Ma nonostante il governo di Modi invii importanti aiuti umanitari in Palestina, vieta alla popolazione indiana di protestare pubblicamente contro l’offensiva israeliana. Nelle ultime settimane le forze dell’ordine indiane hanno bloccato molte manifestazioni pro-Palestina che si sono svolte nelle maggiori città del paese, tra cui Delhi, Bangalore e Calcutta. Allo stesso tempo, ogni giorno sui social media indiani appaiono migliaia di post islamofobici che presentano Israele come una vittima di Hamas e i palestinesi come terroristi jihadisti. La campagna mediatica, guidata dalla cellula IT del partito al potere, il Bharatiya Janata Party (BJP), tende a spostare la problematica sul piano religioso, presentando la causa palestinese come islamista e incoraggiando gli indù a sostenere Israele. In ambito universitario, alcuni docenti dell’Indian Institute of Technology di Bombay (IIT) sono impegnati sin dall’inizio della guerra nell’informazione agli studenti con lezioni e conferenze sul conflitto israeliano-palestinese e sulla formazione del gruppo di Hamas. Un esempio significativo del clima vigente è il caso di Sudhanva Deshpande, attore e regista attivo presso l'Istituto, che è stato quasi espulso e denunciato come simpatizzante dei «terroristi» da un gruppo di estrema destra, il Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), dopo aver proiettato un documentario storico sui fatti del 1948. Questo episodio solleva, tra le molte altre, la questione della libertà accademica, sempre più a rischio nel paese dall’ascesa del BJP nel 2014. Nonostante i docenti universitari siano impegnati a promuovere una visione equilibrata e un approccio critico alla guerra e alle sue molteplici sfaccettature, sono accusati di incoraggiare il terrorismo dai principali gruppi e leader di destra».
DA GAZA A GIULIA: NON SI POSSONO DISTINGUERE LE VITTIME
Mario Giro per il Domani mette insieme, nella sua riflessione, la polemica sulle vittime degli stupri a Gaza e la morte di Giulia Cecchettin per dire che “non si riesce a uscire del tutto dagli schemi mentali (ideologici o emozionali) che spingono le persone a schierarsi con alcune vittime e non con altre”.
«Non si possono scegliere le vittime a proprio piacere, tralasciandone altre. Le vittime sono vittime e basta, soprattutto quando sono tra le più deboli e fragili, come i bambini, i vecchi, le donne, le ragazze. L’uccisione violenta di Giulia Cecchettin ha risvegliato nella nostra società un giusto sdegno per una morte così assurda e atroce. In tanti si interrogano su come fare per educare i maschi alla fine della violenza sulle donne, al feroce senso di possesso che spesso maturano nei loro confronti tanto da non sopportare un qualunque rifiuto. Ma poi non si riesce a uscire del tutto dagli schemi mentali (ideologici o emozionali) che spingono le persone a schierarsi con alcune vittime e non con altre. Accade che le israeliane uccise o stuprate il 7 ottobre siano “dimenticate” mentre si ricordano le palestinesi uccise dalla ritorsione di Israele. Alcuni commentano: “Ma cosa c’entra Gaza con Giulia?” In realtà c’entra perché corrisponde a un modo di ragionare: scegliersi le vittime che più si preferiscono, sottovalutando le altre. Si tratta della logica – tutta maschile – del nemico. Dividere il mondo tra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, innocenti e colpevoli, così da giustificare o attenuare la violenza commessa sui secondi, è un tipico ragionamento maschile, binario e semplificato. È la logica della guerra, anch’essa un’attività prevalentemente maschile. Le donne in genere stanno da un’altra parte, quella dei sofferenti. Sul campo di battaglia di Solferino le donne lombarde raccoglievano feriti e moribondi dicendo “tutti fratelli”, come ricorda nelle sue memorie Henri Dunant, il fondatore della Croce rossa. Descrivendo la tragedia della Seconda guerra mondiale, Anna Bravo definisce le donne come «le titolari quasi in esclusiva della manutenzione della vita». Non è una concezione “tradizionale” del ruolo delle donne come qualcuno potrebbe pensare (con un ragionamento tipicamente maschile). Si tratta invece di un messaggio fondamentale: si può vivere senza violenza, cioè senza nemici. L’ossessiva ricerca del nemico è un mestiere da maschi, a cui purtroppo anche in molte possono soccombere. Al contrario “la manutenzione” della vita rappresenta l’umano irriducibile: per le donne la vita è la cosa più preziosa. Distinguere tra vittime, come Maya, Emily e Emma violentate, rapite e fatte sfilare a Gaza tra sputi e umiliazioni, e le donne palestinesi sotto i bombardamenti, non appartiene alla nostra civiltà democratica: la protezione deve essere per tutte, cioè per tutti. Anche le donne rasate a zero e umiliate perché stavano con nazisti o collaborazionisti sono state vittime di violenza. Nella cultura del diritto delle democrazie non ci può essere differenza tra vittime, non si può fare una gerarchia della sofferenza o classifiche del dolore. La logica dello schieramento è bellicista, maschilista, e produce ingiustizia. Stilare una graduatoria del male fabbricando una macabra contabilità dei morti è immorale e disonesto, perché rafforza la dialettica della vendetta e moltiplica il ciclo della violenza. Pensare che tutto accada meccanicamente mediante un ingranaggio di causa-effetto è un pensiero micidiale e totalmente maschilista, nel senso di bellico. Dovremo prima o poi arrivare a dirci sinceramente che il tanto citato articolo 11 della nostra costituzione (l’Italia ripudia la guerra...) non è una clava contro qualcuno, ma nasce da una consapevolezza maturata nella fornace del conflitto mondiale: l’Italia democratica non ha nemici, né potrà più averne. Prima di quel momento l’Italia aveva scelto di avere dei nemici, ma con la costituzione repubblicana decise di correggersi. È un dono che ci viene fatto dagli uomini e dalle donne della Costituente. Non avere nemici significa accogliere la sofferenza di ciascuno senza compilare categorie tra le vittime, senza preferirne alcune piuttosto che altre, senza parlare delle prime tacendo le seconde. Si trattò di una vera conversione nazionale: non avere nemici significò abbattere le ragioni di qualunque odio o egoismo, per accettare come sola regola quella del soccorrere e del convivere. Volle dire anche comprendere le ragioni storiche di un conflitto o di una contesa, senza condannare o partecipare a tifoserie, adepti di interpretazioni competitive. Esprime la volontà di raccogliere tutte le lacrime, per dare un senso alla pace della convivenza. Non è cosa facile né corrisponde a uno sguardo freddo, neutrale, non empatico: i bombardamenti su Gaza e l’idea celata dietro i bulldozer (andatevene via per sempre!) non possono che farci inorridire, così come l’atrocità dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Non serve metterli sulla bilancia e pesarli, per capire da che parte stare: l’Italia sta dalla parte delle vittime, sempre. Le manifestazioni di questi giorni sono dalla parte delle donne, tutte le donne senza esclusione, vittime della violenza di maschi predatori e padroni. Ogni ragionamento competitivo nasconde un’impronta maschile: la ricerca del nemico, la sfida, il duello, l’odio, il sangue e la morte. Ogni violenza commessa rappresenta qualcosa di irreparabile, come lo è l’assassinio di Giulia che ferisce tutta la società e la sfigura. Dobbiamo sentirlo sulla nostra pelle. Allo stesso tempo dobbiamo provarlo a livello globale a causa delle violenze a Gaza: un mondo sfigurato e deturpato. L’unica risposta valida è stare dalla parte delle vittime senza fare distinzioni. La sofferenza che vediamo non può essere ridotta a categoria ideologica, ma deve essere considerata reale: carne vera che possiamo e dobbiamo toccare, curare e alla fine abbracciare».
BOLLETTE, FINISCE IL MERCATO TUTELATO
Bollette: si passa al libero mercato, da gennaio per il gas, da aprile per l’elettricità. 9,5 milioni di clienti italiani vedranno finire la tutela. Chi non sarà passato al libero mercato entrerà nel regime graduale. A dicembre l’asta degli operatori per questi utenti. Celestina Dominelli e Sara Deganello per Il Sole 24 Ore.
«La fine del mercato tutelato comincia a gennaio 2024 per le forniture di gas. Ad aprile per quelle di energia elettrica. La proroga per l’elettricità, che in questi mesi era stata chiesta da più parti e ventilata da esponenti del governo, non è arrivata nell’ultimo decreto Energia licenziato lunedì scorso. Rimane la normativa (legge n. 124/2017) che ha previsto il termine dei servizi di tutela – cioè con condizioni economiche, di prezzo, e contrattuali definite da Arera, l’Autorità per l’energia, le reti e l’ambiente – e il progressivo passaggio al libero mercato, che nella generalità dei casi rimarrà l’unica modalità di fornitura. Un passaggio che si rimandava dal 2018. Oggi circa un terzo degli utenti sono ancora sotto tutela sia nella luce che nel gas. Gas, cosa succede a gennaio? A partire da settembre le utenze ancora soggette alla maggior tutela, oltre 6,1 milioni di contratti domestici, hanno cominciato a ricevere dai propri operatori indicazioni sulla possibilità di migrare verso il mercato libero. Chi tuttavia non ha sottoscritto alcuna offerta, né con il proprio né con altri operatori, a partire da gennaio riceverà un servizio erogato con condizioni economiche e contrattuali definite dall’Autorità (Placet), ad eccezione di una componente fissa annuale definita dal venditore. Cosa sono le offerte Placet? Sono offerte a “prezzo libero a condizioni equiparate di tutela”, con una struttura di prezzo, inderogabile, stabilita dall’Arera che fissa anche le condizioni contrattuali (per esempio, garanzie e rateizzazione), mentre le condizioni economiche (in sostanza il prezzo) sono liberamente decise dal venditore e rinnovate ogni dodici mesi. Luce, cosa succede ad aprile? Anche in questo caso, i 9,5 milioni di utenti ancora soggetti alle tutele di prezzo hanno cominciato a ricevere dai propri attuali operatori indicazioni circa la possibilità di scegliere un’offerta di mercato libero. Per chi non la sottoscrive, anche con altri venditori, a partire da aprile 2024 scatterà quindi il servizio a tutele graduali (Stg) in cui le condizioni contrattuali ed economiche saranno definite da Arera anche sulla base degli esiti di procedure concorsuali. L’11 dicembre infatti gli operatori interessati parteciperanno a un’asta competitiva per l’aggiudicazione delle utenze che ad aprile passeranno al regime Stg e vi resteranno per ulteriori 3 anni, arrivando nel 2027 definitivamente al libero mercato. Dagli esiti di aste simili, già condotte per pmi e micro-imprese, il prezzo di aggiudicazione è risultato più basso di quello a tutela di partenza. Le condizioni contrattuali del regime Stg corrispondono a quelle delle offerte Placet. Clienti vulnerabili. Ci sono alcune tipologie di utenti, considerati vulnerabili, che sono tutelate anche nel passaggio al libero mercato. Si tratta di chi ha un’età superiore ai 75 anni, di chi si trova in condizioni economicamente svantaggiate, come per esempio i percettori dei bonus sociali, di soggetti con disabilità (legge 104/92) e di chi abita in una struttura d’emergenza dopo eventi calamitosi. Se non sottoscrivono offerte del libero mercato, da gennaio – per quanto riguarda i clienti del gas – continueranno ad avere una fornitura alle condizioni economiche previste per il servizio di tutela gas definite dall’Autorità e con le condizioni contrattuali dell’offerta Placet. Per quanto riguarda l’elettricità invece, sono considerati clienti vulnerabili, oltre a coloro che rispondono alle medesime condizioni elencate per gli utenti del gas, anche quelli che versano in gravi condizioni di salute tali da richiedere l’utilizzo di apparecchiature medico-terapeutiche alimentate dall’energia elettrica (oppure presso i quali sono presenti persone in tali condizioni) e che hanno un’utenza in un’isola minore non interconnessa. Tutti questi continueranno ad essere, anche dopo il 1° aprile 2024, nel servizio di maggior tutela. Chi non è ancora riconosciuto come vulnerabile può segnalarlo al proprio operatore. Strumenti per scegliere. In qualsiasi momento è possibile scegliere un contratto del mercato libero. Per farlo, mettendo in comparazione diverse offerte, Arera ha messo a disposizione il sito ilportaleofferte.it. Con sportelloperilconsumatore.it (informazioni e risoluzioni di controversie nei cambi di fornitore) e consumienergia.it (per vedere i dati di consumo della propria utenza) rappresentano gli strumenti ufficiali per orientarsi. Prezzo fisso o variabile? Nella scelta al momento i contratti a prezzi variabili assicurano tariffe inferiori, visto che quelli fissi scontano una maggiore prudenza ereditata dagli anni di crisi energetica. Nel 2022 chi era a libero mercato con i prezzi fissi ha pagato meno».
SALVINI CONTRO FITTO SULLO STOP ALLE TUTELE
Il ministro per il Sud Raffaele Fitto dice: “Polemica paradossale: era nella legge concorrenza e tra gli obiettivi del Pnrr”. Ma non esclude correttivi. La Lega chiede di riaprire il negoziato con l’Ue. Elly Schlein attacca: “Senza più tutele 5 milioni di famiglie, è una tassa-Meloni”. Lorenzo De Cicco per Repubblica.
«Per il ministro Raffaele Fitto la polemica «è paradossale ». E in testa a quelli che polemizzano c’è il vice-premier del suo governo, Matteo Salvini. Un frontale intorno a Palazzo Chigi. Tanto che la leader del Pd, Elly Schlein, ha un assist al bacio servito sul piatto: «Ma Salvini in Consiglio dei ministri dov’era?». A innestare il cortocircuito nel governo è il provvedimento sfornato l’altro ieri, appunto, dal Cdm: certifica lo stop al mercato tutelato per le bollette energetiche. Dunque si passa al libero mercato, da gennaio per il gas, da aprile per l’elettricità. La prima ad attaccare la mossa è stata proprio Schlein. Ieri mattina ha convocato al Nazareno una conferenza stampa, affiancata in video-call da Pier Luigi Bersani, per chiedere all’esecutivo di Giorgia Meloni di prorogare per almeno un anno le vecchie tutele. Obiettivo: evitare di «toccare la carne viva delle difficoltà di 5 milioni di famiglie, 10 milioni di utenze, che sono esposte all’inflazione, al caro-vita, al caro-energia, al caro-bollette, al caro-benzina ». Altrimenti, sostiene la segretaria dei democratici, ci sarà una «tassa Meloni in bolletta». L’affondo serviva al Pd anche per dribblare le contestazioni, arrivate puntualissime da FdI, di chi ricorda che furono proprio i dem, col resto della maggioranza Draghi, votando il Pnrr, a prevedere lo stop alle tutele a fine 2023. L’operazione era inserita nella legge sulla concorrenza del 2022 (governo Draghi, quindi con dentro sia Pd che 5S, FI e Lega), poi oggetto di trattativa per lo sblocco della terza rata del piano di ripresa e resilienza, 18,5 miliardi versati a inizio ottobre. Ma rispetto al 2022, dice Schlein, «è cambiato il mondo, c’è stata la guerra con l’invasione criminale di Putin in Ucraina e oggi c’è un altro conflitto». A complicare le cose per la maggioranza è soprattutto l’intervento di Salvini. Il vice-premier leghista ha raccontato di avere parlato della questione proprio con Fitto, aggiungendo di essere favorevole a un rinvio: «Conto che con il dialogo si riesca a rimediare a un errore che ci siamo trovati sul tavolo», è la linea del capo del Carroccio. Mentre altre frange dell’opposizione bersagliano la misura – da Giuseppe Conte ai rosso-verdi Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli – FdI contrattacca. Addossando tutta la colpa al Pd. È l’ordine di scuderia di via della Scrofa, di cui si fanno interpreti diversi big, dal capogruppo meloniano alla Camera, Tommaso Foti, a Francesco Filini, responsabile del Programma del partito della premier: «Schlein prende una cantonata». Ma sono le parole di Fitto in conferenza stampa a Palazzo Chigi a rendere il clima rovente, a destra. Il ministro degli Affari Ue si mostra stupefatto per la sortita dell’alleato: «Non capisco chi fa polemica politica su questo, il provvedimento risale al 2022». Insomma, per il ministro di FdI «degli effetti non condivisibili ci si poteva accorgere prima» e muovere obiezioni oggi è appunto «paradossale» (da notare: la domanda dei cronisti sul tema citava solo Salvini, non Conte e Schlein). «Detto questo - afferma il titolare del Pnrr - il tema c’è e il governo se ne occupa». Anche se l’ipotesi di una trattativa con Bruxelles su una nuova proroga è al momento più che remota. E siamo agli sgoccioli».
MA IL LIBERO MERCATO È MEGLIO
Sulla Stampa Davide Tabarelli, esperto di energia per Nomisma, ricorda che il passaggio al libero mercato è un impegno preso da anni.
«Sono passati quasi 25 anni dal decreto Bersani del 1999 che recepiva la direttiva del 1996 sulla riforma dell'industria elettrica e ancora ci stiamo affannosamente arrabattando sulle liberalizzazioni del totale dei clienti finali. Si tratta di 10 milioni di famiglie sull'elettrico, su un totale di 36 milioni, e di 6 milioni nel gas, su un totale di 20 milioni. Il passaggio al libero mercato è dovuto, rinviato da anni, possibile fin dal 2007, ma che con le nostre difficoltà abbiamo sempre fatto fatica a digerire e infatti abbiamo introdotto questa stranezza che è il mercato tutelato, come che l'altro, il libero, non fosse tutelato, e preda della speculazione. Il problema riguarda l'elettrico e la necessità per quelli sul tutelato di scegliere, altrimenti finiranno in meccanismi di aste per essere distribuiti a quei venditori, ce ne sono oltre 600, che offrono le migliori condizioni commerciali su una parte della bolletta. In ogni caso, nessuno, però, rimarrà senza luce, ma, siccome per le piccole imprese il passaggio ha dato alcuni problemi di pagamento, il timore, fondato, è che ci possano essere incagli su milioni di clienti. In ogni caso, la liberalizzazione andava fatta, anche perché rimandare di qualche mese non avrebbe comunque del tutto eliminato i rischi. Momento migliore poi non c'è, perché le bollette ora sono basse, a 28 €cent/kWh, meno della metà di quelle dell'anno scorso e, salvo sorprese, dovrebbero scendere leggermente nel primo trimestre del 2024. Inoltre, la cosa più importante, lo abbiamo promesso da anni all'Europa questo passaggio ed è finito anche fra le tante riforme che dobbiamo fare per l'attuazione del PNRR e questa, peraltro, non è proprio fra le più impegnative. Potevamo certo evitare di fare tante promesse, perché, ad esempio, la Francia ha ancora il sistema tariffario e non ha mai annunciato un suo abbandono. Il vero problema nasce dal fatto che il nostro sistema elettrico ha le radici nella nazionalizzazione del 1962 quando fu creato l'Ente Nazionale Energia Elettrica, il monopolista che fece l'elettrificazione del paese e che si è ritrovato, dopo la privatizzazione del 1999, con una posizione dominante anche nel numero di clienti che, giustamente, si è cercato di ridurre. Non è archeologia economica-industriale questa, perché i fili che nelle nostre città ci portano l'elettricità, il vettore energetico sempre più importante nella nostra vita, stati realizzati da quel monopolista e semplicemente stiamo vivendo questo passaggio un po'sofferto, ma che non può essere motivo di scontro politico, al nostro interno né con l'Europa. Poi ci sono tante tutele. In primo luogo sul gas si rimane con il venditore tradizionale se non si sceglie, perché qui la concentrazione dei clienti è sempre stata più bassa. Poi i vulnerabili, i poveri e quelli con più di 75 anni, rimangono, se non scelgono, sul tutelato. O poi la parola magica è Placet, quello che tutti possono chiedere al venditore di elettricità per avere le vecchie condizioni del tutelato. È ora che facciamo questo passo, per poi rimetterci a lavorare sulla strutture delle nostre bollette, perché i nostri prezzi, liberi o tutelato, rimangono fra i più alti al mondo e le liberalizzazione potranno poco su questa nostra storica debolezza».
FIRENZE PER UN GIORNO CAPITALE MONDIALE DEL SOVRANISMO
Matteo Salvini raduna domenica a Firenze i leader populisti della destra europea, presenti i rappresentanti di 14 partiti «identitari» della Ue. E lancia un messaggio agli alleati. Atteso l’islamofobo olandese Geert Wilders, Marine Le Pen sarà in collegamento. Marco Cremonesi per il Corriere.
«Sarebbe curioso se qualcuno del centrodestra preferisse Macron e i socialisti». Matteo Salvini presenta l’evento dell’eurogruppo Identità e democrazia (Id) che si svolgerà domenica a Firenze. Si riferisce a ciò che agita i sonni di molti leghisti: e cioé, la possibilità che i Fratelli d’Italia (Forza Italia già è sicuro) si sottraggano alla suggestione di «portare il modello italiano in Europa». E che la Lega non si trovi dunque esclusa da qualunque incisività a Bruxelles dal «cordone sanitario» steso nei confronti dei partiti della destra spinta. Dunque, Salvini vuole respingere qualsiasi ipotesi avventurosa: tra le prime cose che dice è che «l’uscita dall’Ue per noi non è un’opzione». In ogni caso, se il segretario azzurro Antonio Tajani non si stanca di ripetere che non c’è possibile intesa tra Ppe e Marine Le Pen e altri alleati della destra più destra, Salvini si stupisce appunto di certi «veti incomprensibili» che arrivano «dal centrodestra». Perché il fine è «riunire tutto il centrodestra europeo, oggi diviso in tre». Senza rivalità: «Io non sono in competizione con Meloni o Tajani, l’obiettivo è stare tutti insieme». E appunto, «dispiacerebbe se qualcuno preferisse» la sinistra, di certo «gli italiani non vedranno la Lega in maggioranza con i socialisti». Eppure, c’è una certa qual similitudine tra i giornalisti italiani esclusi dalla conferenza stampa all’Associazione della stampa estera (come da regolamento del sodalizio) e i partiti alleati italiani che domenica mattina si terranno lontani dalla Fortezza da Basso in cui Salvini riceverà i suoi ospiti internazionali. «Nessun “cantiere nero”» ha detto Salvini alla stampa estera, ma un appuntamento in cui «si esporrà l’idea di un’altra Europa fondata sulla libertà». Va detto che anche dall’estero le delegazioni sono forse al di sotto delle attese. Saranno quattordici, da altrettanti Paesi europei. Ma mancheranno, almeno in parte, i leader carismatici. «L’amica Marine» Le Pen, dopo la presenza a Pontida in settembre, sarà presente solo in collegamento. Anche se manderà il giovanissimo (28 anni) Jordan Bardella. Certo, è il presidente del Rassemblement national, ma non è esattamente la stessa cosa. Mentre Alice Weidel, la leader AfD, partito tedesco protagonista di svariate scivolate nazi, invierà Tino Chrupalla. Dal punto di vista formale, è il copresidente del partito. Ma, anche qui, non è esattamente la stessa cosa. E poi, c’è il fondatore di Chega, André Ventura. Ma anche lui presente solo a distanza. Il più atteso è Geert Wilders, antico alleato di Salvini, che ha portato il suo Partito della libertà (Pvv) dalle forti connotazioni anti islamiche al 23% nelle elezioni olandesi della scorsa settimana. Lui, dice Salvini, ha «confermato la presenza». Anche se il biondo leader olandese è alle prese con il rebus di mettere insieme un governo. E dunque, ha osservato Salvini «è chiaro che tra sabato e domenica, qualcosa potrebbe cambiare: la priorità sarà data agli elettori olandesi». Va detto che Wilders, durante i negoziati per il Recovery fund, si aggirava con un cartello appeso al collo: «Neanche un centesimo per l’Italia». Salvini non se l’è presa: «Altri hanno fatto dichiarazioni anche peggiori. Ha difeso l’interesse nazionale olandese, come fa Orbán» in Ungheria. Io difendo l’interesse italiano. Domenica noi metteremo al tavolo l’interesse comune europeo». Durante l’appuntamento leghista anche una contromanifestazione della sinistra antagonista: «Io sono un sincero democratico ma se c’è chi pensa di creare confusione, c’è il diritto penale e le forze dell’ordine».
PARLA NARDELLA: SIAMO INCOMPATIBILI COL LORO LINGUAGGIO
A Repubblica parla il sindaco di Firenze Dario Nardella, che promette accoglienza ma ricorda la storia diversa della città.
«Sindaco Dario Nardella che accoglienza riserverà Firenze ai sovranisti della destra estrema? «L’accoglienza di una città democratica, europeista, che ha fatto della libertà e del pluralismo culturale la sua storia. L’opposto di quello in cui credono questi signori. Faremo trovare una bella risposta a Salvini e ai suoi amici, nel segno di David Sassoli, un fiorentino col cuore europeo. E sarebbe bello se i fiorentini volessero accogliere gli ospiti del leghista non con intolleranza ma con una bandiera d’Europa alla finestra».
La rete democratica sta organizzando iniziative di protesta. Lei sarà in piazza?
«Sabato incontro i giovani rappresentanti dei movimenti europeisti toscani, perché le nuove generazioni saranno i nostri principali alleati per un’Europa nuova e più forte. L’Europa è nata per vincere la paure del ‘900 che i sovranisti vogliono far rivivere. I nostri nonni andavano oltre il confine per combattere, i nostri ragazzi vanno oltre il confine per l’Erasmus».
Però l’Europa non è solo Erasmus, anzi è percepita come un’istituzione distante. Come si ferma il messaggio anti europeista delle destre?
«Il punto non è difendere questa Europa troppo divisa, debole, timorosa. Serve un’Europa più forte con istituzioni democraticamente rappresentative della volontà popolare. Riprendiamo con forza il sogno degli Stati Uniti d’Europa. Proprio contro i sovranisti che invece la vogliono smantellare. Se li avessimo avuti al governo d’Europa durante il Covid ci saremmo ritrovati con 27 vaccini diversi».
Salvini dice che a Firenze si parlerà di come battere l’ambientalismo ideologico di Timmermans.
«Queste destre sposano le tesi negazioniste, come per il Covid. Si ostinano ad agire come se il cambiamento climatico non esistesse. Fare un discorso del genere in Toscana a un mese dalla tragedia dell’alluvione è un clamoroso autogol. L’emergenza ambientale è tutt’altro che ideologica, è un fatto col quale dobbiamo misurarci tutti. Con scelte coraggiose».
Lo spazio dove si riuniscono i sovranisti è pubblico, la Fortezza da Basso, non potevate negarlo?
«Una città democratica non ha in sé la cultura dell’intolleranza che mi pare appartenga agli altri. Il simbolo di questa città è il David di Michelangelo che afferma la libertà contro la tirannia di Golia. Chissà se a Salvini, Le Pen e Wilders qualcuno lo dirà. Visto che andranno tutti in visita agli Uffizi, il direttore Schmidt possibile candidato sindaco della destra a Firenze l’anno prossimo oltre a mettere i tappeti rossi forse glielo racconterà. Quanto ai sovranisti, l’idea di chiudersi in una fortezza parla da sola».
Crede che i fiorentini saranno condizionati dal loro messaggio?
«Non credo proprio. Firenze per la sua storia è incompatibile con quel linguaggio basato sullo sfruttamento della paura e dell’odio. Quando nel 2017 Theresa May venne a Firenze a lanciare la Brexit non le andò molto bene. Dopo pochi mesi si dovette dimettere. E la Brexit è diventata per il Regno Unito simbolo di fallimento. Risponderemo al cantiere nero di Salvini con la forza delle nostre idee e col sorriso e il sostegno dei giovani. Peraltro io mi vergogno per Salvini che accoglie l’olandese Wilders, il più anti-italiano di tutti. Durante il Covid lanciò la campagna “mai un centesimo all’Italia”. Accanto a Salvini che ha fatto della frase “prima gli italiani” una bandiera, salvo poi dire che Wilders difendeva l’Olanda e lui difende l’Italia. Ma se ognuno difende la sua nazione così, contro le altre, il risultato è la distruzione europea, è il ritorno all’epoca buia delle guerre tra nazioni».
COP28, PARTE SENZA PAPA E SENZA BIDEN
Fra i leader mondiali ci sarà il Re d’Inghilterra Carlo III, ma l’annunciata assenza del Papa, costretto dalla malattia a Roma, del presidente americano e di quello cinese già condizionano la Cop28, la Conferenza Onu sul clima, che inizia domani a Dubai. Salvatore Cannavò per Il Fatto.
«Partiva con la novità della prima volta di un Papa a una conferenza Onu, ma ieri sera la conferenza sui Cambiamenti climatici di Dubai, la Cop 28, ha dovuto registrare l’assenza di Francesco.“Pur essendo migliorato il quadro clinico generale del Santo Padre relativamente allo stato influenzale e all’infiammazione delle vie respiratorie – si legge nel comunicato rilasciato dalla Sala stampa vaticana – i medici hanno chiesto al Papa di non effettuare il viaggio previsto per i prossimi giorni a Dubai”. Papa Francesco, continua la nota, “ha accolto con grande rammarico la richiesta dei medici e il viaggio è dunque annullato”. Il Vaticano fa sapere che sta lavorando affinché la “volontà del Papa e della Santa Sede di essere parte delle discussioni in atto nei prossimi giorni” possa essere esaudita in modalità che però al momento non sono ancora definite. Non è escluso che un ruolo in questo senso possano assumere il cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per lo Sviluppo umano integrale, il ministero che si occupa anche della terra come “bene comune”, e il presidente del dicastero per il Dialogo interreligioso, Miguel Ángel Ayuso. Il Papa sarebbe dovuto partire venerdì 1 dicembre per arrivare in serata all’hotel Al Habtoor Polo Resort&Club, situato a Dubailand. Il 2 dicembre, al mattino, avrebbe tenuto il suo discorso alla Conferenza per poi dedicarsi all’incontro con vari leader mondiali. Ma, soprattutto, la sua sarebbe stata la tipica presenza da moral suasion per uscire dalla Cop con qualche risultato rilevante in tema di riduzione delle emissioni di gas serra. I Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici, infatti, devono fare i conti con progressi molto deludenti ottenuti dopo il 2015, dalla Cop21 di Parigi a partire dai cosiddetti Nationally determined contributions, “Contributi determinati su base nazionale” (Ndcs), i piani che ogni singolo Stato propone di attuare per contribuire alla lotta al cambiamento climatico. La defezione, per malattia, del Papa segue quella, politica, di Joe Biden e dunque del Paese con più forza negoziale al mondo mentre resta l’imbarazzo del presidente della Cop 28, il sultano emiratino Ahmed al-Jaber, che è anche amministratore delegato dell’Adnoc, principale produttore di petrolio e grande emettitore di gas serra e che, secondo quanto rivelato dalla Bbc che ha citato un dossier del Centre for Climate Reporting (Ccr), avrebbe approfittato della sua posizione per negoziare accordi in materia di combustibili fossili. Tra i grandi personaggi di rilevanza mondiale resta la presenza di Re Carlo del Regno Unito. Un po’ poco per stare tranquilli».
IL CIBO AL CENTRO DELLA LOTTA CONTRO L’EBOLLIZIONE DEL PIANETA
L’analisi di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, per La Stampa: produzione e trasporto di ciò che mangiamo sono responsabili del 35% delle emissioni. È il momento di dismettere il modello agroindustriale che sta uccidendo la biodiversità.
«La 28° conferenza sul clima delle Nazioni Unite (Cop28) che inizierà domani a Dubai prende il via in un'atmosfera poco confortante. L'assenza di Biden e di Xi Jinping è sintomo di un progressivo disinteresse? E il forfait all'ultimo di Papa Francesco per malattia depotenzierà il summit? Per il secondo anno di fila, proprio mentre la crisi climatica si manifesta in maniera dirompente e diffusa, la Cop si terrà in un Paese, gli Emirati Arabi, con uno spazio civico chiuso, dove il dissenso e la difesa dei diritti umani possono portare all'incarcerazione. Nei vertici multilaterali del genere la presenza della società civile che si mobilita per chiedere maggiori impegni è fondamentale. E lo è ancora di più quando è ormai certo che il 2023 sarà l'anno più caldo mai osservato: a novembre abbiamo superato per la prima volta i 2°C di aumento della temperatura media globale su base giornaliera. Non esagera dunque Guterres, Segretario Generale dell'Onu, ad affermare che è finita l'era del riscaldamento globale ed è arrivata quella dell'ebollizione. I toni sono meno drammatici, ma la conclusione a cui giunge il sesto rapporto di valutazione del IPCC, il report scientifico più autorevole sui cambiamenti climatici, è la medesima: dobbiamo agire urgentemente. È ancora nelle nostre possibilità limitare l'aumento della temperatura a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, così come siglato da 195 Paesi nell'Accordo di Parigi del 2015. Cito questo accordo perché durante la Cop28 si analizzeranno i risultati di quell'incontro. Sappiamo già che i progressi fatti sono insufficienti. La governance globale presente al vertice saprà fornire soluzioni concrete e ambiziose che consentano all'umanità di rimettersi in carreggiata nella riduzione delle emissioni? Questo è il vero riscontro che attendiamo. In mezzo allo sconforto c'è una nota positiva: dopo che la Cop27 ha ideato per la prima volta un padiglione al cibo, quest'anno la trasformazione dei sistemi alimentari è tra le priorità dell'agenda del vertice. Il 10 dicembre sarà dedicato ad alimentazione, agricoltura e acqua con numerosi eventi tematici e un incontro istituzionale di alto livello. Contestualmente gli Emirati Arabi stanno predisponendo una dichiarazione su agricoltura sostenibile, sistemi alimentari resilienti e azione climatica. D'altronde i sistemi alimentari nel loro complesso - produzione, trasformazione, trasporto e consumo - sono responsabili del 35% delle emissioni di gas serra. Trascurarli o trattarli parzialmente è stata una grave mancanza. Dico questo anche perché i sistemi alimentari hanno la particolarità di essere una sorta di Giano Bifronte; contemporaneamente carnefici e vittime del mutare del clima. A causa del riscaldamento, del cambiamento nelle precipitazioni, dell'aumento in frequenza e intensità di eventi estremi, la crisi climatica sta infatti impattando negativamente sulla sicurezza alimentare e idrica di migliaia di comunità nel mondo (specialmente le più vulnerabili che storicamente hanno contribuito meno a causarla). Le conseguenze sono legate a una minore disponibilità di cibo, a una inferiore qualità della dieta e un aumento di malattie legate alla nutrizione. La positività data dalla rilevanza che avrà il cibo deve però essere accompagnata da cautela e da un attento monitoraggio dei contenuti che entreranno o meno a far parte del dibattito. Cito quello più scomodo: non si può pensare di trasformare i sistemi alimentari senza affrontare le radici dell'attuale insostenibilità. È giunto il tempo di dismettere il modello agroindustriale che ha dominato negli ultimi cinquant'anni causando perdita di biodiversità, deforestazione, degrado e contaminazione di suolo e acqua. Un sistema che in nome della produttività ha brevettato i semi e ha imposto agli agricoltori di piantarli su ampie distese di monoculture privandoli così della loro sovranità alimentare, che ha legittimato lo spreco alimentare come una variabile fisiologica al sistema, e che ha creato un binomio quasi indissolubile tra produzione di alimenti e consumo di fonti fossili; ormai utilizzate in tutte le fasi della filiera: dalla fabbricazione di fertilizzanti e pesticidi, passando per gli imballaggi plastici, il trasporto, senza tralasciare la produzione vera e propria del cibo. Si stima che i sistemi alimentari siano responsabili di almeno il 15% dei combustibili fossili bruciati. In questo senso la transizione energetica verso fonti rinnovabili è condizione necessaria alla transizione dei sistemi alimentari. Il fatto che il presidente della Cop28, il Sultano Ahmed al Jaber, sia anche il capo dell'11° azienda per produzione globale di petrolio e gas, non fa ben presagire. Così come non lo fa l'assenza dal programma dell'agroecologia; pratica riconosciuta dalla FAO, dall'IPCC e da molteplici movimenti per il contributo positivo che la sua adozione ha sulla salute del pianeta e delle persone. Trovano invece ampio spazio innovazioni tecnologiche quali l'agricoltura climate smart, la carne sintetica, l'applicazione dell'intelligenza artificiale al settore agroalimentare etc., che non mettono in discussione il modello lineare, industriale ed estrattivista. Senza cambio di paradigma, senza riconciliazione con la natura è però difficile immaginare come poter raffreddare l'ebollizione globale. Il tempo stringe ed è dovere dei presenti alla Cop28 usarlo sapientemente».
AVVELENATA LA MOGLIE DEL CAPO DEI SERVIZI UCRAINI. MOSSA RUSSA O FAIDA INTERNA
Veniano alle altre notizie dall’estero. Marianna Budanova, moglie del capo degli 007 di Kiev, è in ospedale ma non è in pericolo di vita. Il Cremlino è il principale indiziato, ma c’è chi guarda in casa. Sabato Angieri per il Manifesto.
«Marianna Budanova, la moglie del capo dell’agenzia di intelligence militare Kyrylo Budanov, è stata avvelenata. Al momento si trova sotto stretta osservazione medica ma non è in pericolo di vita, riferiscono i medici. Il portavoce dell’intelligence militare (in ucraino Gur) Andriy Yusov ha dichiarato ieri che all’ospedale dove Budanova è stata trasportata d’emergenza hanno diagnosticato un avvelenamento da metalli pesanti. Il fatto che tali sostanze non sono usate in ambito domestico o in attrezzature militari lascia presupporre che l’avvelenamento sia intenzionale e che si tratti di un tentativo di omicidio o di un avvertimento. In serata il quotidiano ucraino Ukrainska Pravda ha fatto sapere che oltre a Budanova, anche a diversi membri del Gur è stata diagnosticata la stessa intossicazione. Yusov non ha fornito ulteriori dettagli e non si è sbilanciato su eventuali sospettati, anche se alle insistenti domande dei giornalisti ha risposto che «l’ipotesi principale» è quella del coinvolgimento russo. Meno cauti altri commentatori, che hanno fin da subito accusato Mosca, utilizzando come indizi la lunga scia di attentati simili ai danni di oppositori o funzionari russi negli ultimi anni. Si pensi al famoso Novichok, agente nervino di produzione russa, usato contro Navalny nell’agosto 2020; al tentativo di avvelenamento della giornalista Anna Politkovskaja; al polonio 210 messo nel tè dell’ex spia russa (e oppositore di Putin) Alexander Litvinenko; o ancora al Novichok usato nei pressi di Londra contro l’ex spia Sergei Skripal e sua figlia Yulia. Per ora il Cremlino non ha rilasciato alcun commento su Budanova. I media russi hanno citato quasi letteralmente le notizie ucraine e alcuni analisti ipotizzato che potesse trattarsi di un regolamento di conti interno ai vertici ucraini. La frattura tra i centri di potere di Kiev è ormai conclamata da quando il comandante in capo delle forze armate ucraine, Valerii Zaluzhny, ha rilasciato all’Economist una lunga intervista nella quale sostiene che la guerra è ormai in una fase di stallo e che la controffensiva è sostanzialmente fallita. Si pensa che attualmente ci siano due schieramenti, uno che fa capo a Zaluzhny stesso, e l’altro con Zelensky al vertice e Budanov come capo operativo. In quest’ottica la tesi dello scontro interno, seppure in via del tutto ipotetica e in attesa di ulteriori informazioni, non è affatto peregrina. Tuttavia, è innegabile che tra gli attuali nemici del Cremlino in Ucraina, Budanov occupa sicuramente una posizione sul podio. È lui il deus ex machina delle operazioni oltre frontiera dei servizi militari ucraini e, secondo i quotidiani statunitensi, degli attentati alla figlia dell’ideologo Dugin, Darja, e al blogger nazionalista Tatarsky. All’inizio dell’anno il portavoce del Gur aveva dichiarato ai media ucraini che Budanov era sopravvissuto a 10 tentativi di assassinio compiuti dall’Fsb, i servizi segreti russi. Si può anche ipotizzare che quello di cui si è avuto notizia ieri fosse l’undicesimo. Rispetto alla moglie, Budanov aveva raccontato in una lunga intervista che Marianna vive con lui nel suo ufficio e trascorre con lui «tutto il tempo, 24 ore su 24, 7 giorni su 7» così come confermato dalla donna che aveva dichiarato di «non aver pensato neanche per un secondo ad allontanarsi» da Kiev e dal marito».
IL NIGER ABOLISCE LA LEGGE CONTRO I TRAFFICANTI DI ESSERI UMANI
La giunta militare del Niger abolisce la legge contro il traffico di esseri umani. Obiettivo: lasciare passare i migranti dai Paesi dell’Africa occidentale verso la Libia e l’Algeria. Alessandra Ziniti per Repubblica.
«La giunta golpista del Niger abolisce la legge contro il traffico di esseri umani che negli ultimi otto anni aveva frenato in maniera consistente il passaggio di migranti dai Paesi dell’Africa occidentale verso la Libia e l’Algeria; e l’Europa adesso teme che i flussi verso le nostre coste possano avere un nuovo forte impulso già nelle prossime settimane. «Sono molto preoccupata. C’è un alto rischio che ci sia una nuova ondata di persone che fuggono nel deserto, fino alla Libia e da lì all’Europa», ammette la commissaria Ue agli Affari Interni Ylva Johansson proprio nel giorno in cui a Bruxelles la presidente della Commissione Ursula von der Leyen lancia un appello ai Paesi terzi per aderire a un’alleanza globale contro il traffico di migranti, con un quadro europeo rafforzato per la definizione del reato di tratta e delle pene relative. La decisione della giunta militare del generale Abdourahamane Tchiani mina alla base il pilone portante su cui l’Unione Europea sta provando a costruire la sua politica di esternalizzazione del controllo delle frontiere. In un colpo solo abroga la legge varata nel 2015 dall’allora presidente Mahamadou Issoufou, finanziata con un fondo fiduciario d’urgenza della Ue per l’Africa, e dispone l’amnistia per tutti i trafficanti già condannati e rinchiusi nelle carceri del Niger, porta di transito di centinaia di migliaia di persone verso la Libia e l’Algeria. C’è un numero che spiega bene quelli che potrebbero essere gli effetti sui flussi migratori verso l’Europa: dal 2016 ad oggi più di quattro milioni di persone, provenienti dall’Africa occidentale, hanno attraversato il Niger, e solo nel 2023 ( secondo le ultime stime dell’Oim), oltre 50.000 migranti sono entrati nel Paese. Da moltissimi anni il Niger è una tappa obbligata per chi parte dall’Africa occidentale nel tentativo di raggiungere le coste africane con i suoi 5.500 chilometri confinanti con sei Paesi, e ospita diversi campi profughi, alcuni gestiti da Unhcr, dove vivono migliaia di persone respinte da Libia e Algeria. Da luglio, quando i militari sono andati al governo, la situazione si è assai complicata per richiedenti asilo e rifugiati, e il lavoro delle Nazioni Unite ha cominciato a essere ostacolato anche nell’erogazione dei servizi essenziali rendendo le condizioni di vita sempre più precarie. Una situazione che ora, con l’abrogazione della legge che prevedeva pene severe per il traffico di esseri umani, potrebbe spingere verso Libia e Algeria, e dunque mettere nelle mani delle organizzazioni criminali che lì fanno base, centinaia di migliaia di nuovi migranti pronti a partire per l’Europa. Anche se Flavio Di Giacomo, portavoce Oim, osserva: «È vero che nel 2015 quella legge ha avuto un impatto e ora molti potrebbero provare a raggiungere la Libia, dove le condizioni sono tali che li spinge a partire, ma l’Europa ha una visione eurocentrica. Non è vero che tutti i migranti vogliono venire in Europa, l’85 % dei flussi resta in Africa. Quest’anno sono arrivate in Europa via mare 240.000 persone da un’area dove ne abitano 450 milioni».
A TUNISI I MIGRANTI CHIEDONO IL DIRITTO D’ASILO
I profughi dal sud del Sahara manifestano pe raggiungere l’Europa, senza doversi affidare agli scafisti. Reportage dalla Tunisia di Alessandro Farruggia per il Quotidiano Nazionale.
«I “sans papiers“ tunisini, i migranti subsahariani senza documenti che chiedono di veder riconosciuto il proprio diritto d’asilo li trovi non nelle viuzze tortuose della Medina o in qualche quartiere periferico, ma in uno dei quartieri più esclusivi della capitale, un quartiere che si affaccia su uno dei grandi laghi di Tunisi e che fu donato dall’Arabia Saudita come simbolo di amicizia (e in cambio ottenne, era il minimo..., che non vi si vendesse alcol). Un quartiere costellato di palazzi per uffici, ma anche di negozi eleganti, caffè, ristoranti. Non è Dubai, ma per Tunisi è una location prestigiosa. E i migranti subsahariani li trovi qui, ammassati in un palazzo mai completato che si affaccia sulla strada principale e su uno dei due piccoli parchi del quartiere. La spiegazione dell’apparente contraddizione è semplice. In una nazione che non ha una legge sul diritto d’asilo per provare a vederlo riconosciuto si può solo tentare con organizzazione internazionale come Oim o Unhcr e i migranti sono a Lac 1 proprio per questo, perché qui ci sono le sedi delle due organizzazioni. Ci sono dal 2022, con alterne vicende e ben pochi risultati portati a casa, nonostante le parole. La tensione e l’insoddisfazione sono cresciute in questa gente dimenticata fino a che l’11 aprile la tensione sfociò in scontri con la polizia, qualche auto bruciata, fermi, arresti e in uno sgombero generale. Ma, come la marea, sono tornati a piccoli gruppi, nello stesso posto, e adesso sono ben oltre mille. Campeggiano nel parco, sotto tende improvvise. Vivono nel palazzo, in buona parte uno scheletro di palazzo. Senza elettricità e acqua corrente. «A maggio – dice Mohammed, 22 anni, maliano, ex studente – l’Unhcr ha riaperto gli elenchi per i richiedenti asilo che consentono di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, che ti consente di avere una tessera che ti qualifica come tale e da un contributo di 100 euro per quattro mesi. Ho fatto domanda, mi hanno preso. Ma questa ovviamente non è la soluzione, è solo un cerotto. Noi siamo tutti provenienti da zone di guerra o perseguitati politici, vogliamo avere lo status di rifugiati in Europa. Ne abbiamo diritto. Questo dicono le regole internazionali, ma l’Europa volta la testa dall’altra parte. Ci danno qualche spicciolo e basta, ci arrangiassimo». «Ho passato due anni in Libia – dice Moussa, 25 anni, nigerino – sfruttato come un cane, fatto lavorare a giornata e pagato una miseria. i caporali ci facevano attendere agli angoli delle strade, prendevano qualcuno di noi e ci portavano nei cantieri. Molti cercavano di fare così un po’ di soldi per salire su un barcone, io mi sono fidato di chi mi diceva che dalla Tunisia si potevano avere le carte per entrare legalmente in Europa. Mi sono sbagliato, il barcone è l’unico modo». Un vicino che dice di essere del Benin annuisce. E da tempo gli squali girano. Gli harka, i passeur tunisini, mandano in giro i loro procacciatori d’affari per traghettare gli ultimi migranti in un business che sta ritornando con forza verso la Libia, dove i clan hanno chiuso il rubinetto per sfruttare loro, come prima, il flusso di disperati che viene da sud. In Tunisia le partenze, da ottobre, sono in netto calo, e i passeur raschiano ormai il fondo del barile che li ha fatti ricchi. «Ci fanno offerte di passaggi per l’Italia a soli 2mila dinari, a volte anche meno – racconta Mosslem, 37 anni, ex militare eritreo –, ma un mio amico è partito e non ne so più nulla. Eravamo d’accordo che una volta che fosse stato in Italia, mi avrebbe chiamato a questo cellulare, ma non lo ha fatto. È morto nella traversata? I trafficanti lo hanno truffato e gli han rubato tutto? Non lo so, ma non mi fido delle offerte che girano e dico solo una cosa: a pagare siamo sempre noi africani, sfruttati anche in Tunisia. Non ho più speranze, né un piano, e ho quasi finito i soldi. Ho solo occhi per piangere».
GERMANIA, “SCHOLZ IDRAULICO DEL POTERE”
Il cancelliere tedesco Olaf Scholz è in grave crisi. Deriso in Parlamento dalla Cdu e in caduta libera nei sondaggi. Motivo? La crisi di bilancio lo costringere a togliere «il freno del debito». Mara Gergolet per il Corriere della Sera.
«Se la Germania si aspettava una parola, se non un’idea, da Olaf Scholz, si ricorderà piuttosto la battuta del suo avversario. «Signor cancelliere», ha detto il leader dell’opposizione Friedrich Merz, «lei non ha risposte e non ha una visione per andare avanti». Di più, lei non fa onore al partito che ha saputo governare con Willy Brandt, Helmut Schmidt e perfino con Gerhard Schröder. «Lei è un idraulico del potere: semplicemente, le scarpe di cancelliere nelle quali è entrato le sono di due numeri troppo grandi». Olaf Scholz ha parlato, finalmente, in Parlamento della grave crisi di bilancio, innescata da una sentenza della Corte costituzionale, che ha paralizzato la Germania. Ma più che al Bundestag, ieri sembrava di assistere a una seduta della House of Commons a Londra. Il cancelliere interrotto dalle risate, mentre impassibile spiegava che — se ha forzato la spesa, «come altri governi prima» — è perché «ci troviamo di fronte a sfide che la nostra Repubblica non ha mai dovuto affrontare». Poi ha spiegato ciò che già tutti avevano capito: che Berlino leverà, retrospettivamente, il «freno del debito» (la Schuldenbremse ) per il 2023, e che per il 2024 si vedrà. In ogni caso, ha ammesso, «questa sentenza crea una nuova realtà, per tutti i governi attuali e futuri». Troppo poco, per i tanti critici. Ma sono i giorni in cui la reputazione di Olaf Scholz è andata in frantumi. Mano a mano che si capisce la portata storica della sentenza dei giudici costituzionali, è il cancelliere che diventa il grande imputato. È stato lui, non il ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner o il verde Robert Habeck, a proporre questa soluzione. Ne aveva l’autorità, da ex ministro delle Finanze di Angela Merkel. E allora, questa fu l’idea: bilancio che rispetta alla lettera l’obbligo di non avere deficit oltre lo 0,35% del Pil e fondi speciali (60 miliardi per il clima e 200, ossia il Pil del Belgio, per stabilizzare i costi dell’energia) fuori dai libri regolari. Trucchetti contabili, così li ha definiti la Corte costituzionale, adombrando perfino il paragone con la Grecia. In un impietoso articolo dello Spiegel , firmato da 9 giornalisti, si dice che proprio su questo patto sia nato il governo. E descrive il «sistema Scholz», incentrato su un cerchio magico quasi impermeabile all’esterno, dove riveste un ruolo chiave il tuttofare Wolfgang Schmidt. Mentre il cancelliere pare mansueto in pubblico, viene descritto come molto consapevole, quasi arrogante in privato. Il titolo dell’articolo è La caduta del «Besserwisser» , un’altra delle intraducibili parole tedesche, «il signor so tutto io», l’uomo che la sa più lunga. E Besserwisser è l’epiteto che in tre giorni si è già attaccato a Scholz. Ieri l’ha citato anche Merz: «Lei sapeva meglio di tutti», ha detto, invece ha combinato il disastro. Cosa rimane a un cancelliere, il cui peculiare tratto — a parte la mitezza — era la competenza? Ben poco. Scholz, già poco popolare, è crollato nei sondaggi. Il 51% dei tedeschi lo ritiene un cattivo leader: mai nessun precedessore aveva gradimenti così bassi. E ben tre partiti ieri, gli estremisti di destra e di sinistra, ma anche la Csu bavarese di Söder, hanno chiesto elezioni anticipate. Scholz arranca, in un passaggio ha chiesto ai cristiano-democratici un’iniziativa comune. Ma Merz ha già fatto sapere come la pensa: se il governo crede per il 2024 di levare un’altra volta il «freno del debito», la Cdu andrà dritta alla Corte costituzionale. E se i numeri dell’economia tedesca sono così deboli — finita l’era del gas russo a basso prezzo, mentre l’export in Cina arranca — è quasi inevitabile che la manovra tedesca per l’anno prossimo passerà, se non per la recessione, almeno attraverso una crescita minima, sotto l’1,3% annunciato. Una pessima notizia per tutta l’eurozona, Italia compresa. Poi, certo, la Germania si dovrà chiedere, di fronte a simili difficoltà che resteranno per anni, se e come modificare il «freno al debito». Un compito improbo, in un Paese dove due terzi dei cittadini lo sostiene, convinto che il successo tedesco affondi proprio in questa «superiorità morale» dei bilanci in pareggio. Ma non sarà il governo Scholz, che non ha numeri né alleati per cambiare la Costituzione, a tentare l’impresa».
IL PARTENONE DIVIDE GRECIA E INGHILTERRA
Il Primo Ministro greco Kyriakos Mitsotakis chiede in tv la restituzione dei frammenti «rubati» ed esposti al British Museum. E scatena l’ira del premier inglese Rishi Sunak, che risponde: «È qui che devono restare». Erica Orsini per il Giornale.
«La disputa sul Partenone incrina i rapporti tra Regno Unito e Grecia. Nuovo incidente diplomatico ieri tra Londra e Atene dopo l’intervista domenicale rilasciata dal Primo Ministro greco Kyriakos Mitsotakis alla BBC. Nel corso della trasmissione il Premier aveva chiesto che i frammenti del Partenone esposti al British Museum fossero restituiti alla Grecia dopo essere stati «praticamente rubati» dagli Inglesi. «Tenerli a Londra è come tagliare a metà la Monna Lisa» aveva dichiarato Mitsotakis invitando il British Museum ad avviare una collaborazione in modo che la gente potesse ammirarli nella loro madrepatria. Apriti cielo. Benché non sia certo la prima volta che il governo greco chiede la loro restituzione a quello inglese, stavolta il Premier britannico Rishi Sunak non l’ha presa bene ed ha annullato l’incontro ufficiale fissato per ieri con il collega greco. Downing Street aveva ricevuto formali garanzie che la controparte non avrebbe nuovamente affrontato pubblicamente il problema durante la visita, assicurazione ieri smentita dai greci. Sulle sculture portate nel Regno Unito dal diplomatico inglese Lord Elgin all’inizio del 19esimo secolo, che sono ospitate al British Museum fin dal 1832 - a parte una prestata nel 2014 ad un museo russo - si apre una pesante frattura politica che rischia di compromettere le relazioni tra Atene e Londra. Sulla questione i due governi hanno posizioni diverse su cui discutono da anni, ma l’incontro di questa settimana doveva vertere su altri temi. Il ministro greco Adonis Georgiadis ha definito l’incidente come «una brutta giornata per i rapporti tra i due Paesi» dopo che Mitsotakis aveva declinato l’invito da parte del governo d’incontrare il vice Primo Ministro Oliver Dowden al posto di Sunak. I britannici si sono detti rammaricati, ma non hanno voluto rilasciare ulteriori commenti anche dopo che sempre Georgiadis ha definito la mossa di Sunak «un errore». «Pur confermando il rispetto per il popolo britannico e l’amicizia tra i due Paesi - ha dichiarato il politico quello che il nostro Primo Ministro ha sostenuto nell’intervista non è solo la sua opinione ma quella di 11 milioni di greci». Sull’altro fronte, il Premier Sunak ha sempre difeso il diritto delle sculture di rimanere a Londra. «La nostra posizione è chiara - ha fatto sapere alla BBC un membro del partito - queste opere sono parte della collezione permanente del British Museum e qui devono restare». Non dello stesso parere Lord Vaizey che presiede la commissione consultiva del Parthenon Project e che ha definito «strana» la cancellazione dell’incontro tra Sunak e Mitsotakis. «Il problema è che qualsiasi sondaggio racconta che l’opinione pubblica britannica ritiene che le sculture vadano restituite» ha detto. «Litigare con un alleato della Nato a causa di un programma tv mostra quanto sia debole Rishi Sunak» ha commentato il portavoce del Labour. Ieri il Premier greco, decisamente infastidito, ha fatto ritorno in patria mentre un suo portavoce ha fatto sapere che il governo non intende inasprire la disputa «con un Paese con cui si hanno buoni rapporti». La frittata però è fatta».
L’EREDITÀ DI PAPA RATZINGER
Il Foglio pubblica oggi in anteprima l’intervento che Roberto Regoli, direttore del Dipartimento di Storia della Chiesa presso la Pontificia Università Gregoriana, terrà oggi come introduzione ai lavori del convegno “Benedict XVI’s Legacy: Unfinished Debates on Faith, Culture and Politics”.
«Va posta sin dall’inizio una domanda chiara e diretta: il pontificato di Benedetto XVI è stato un successo o un fallimento? E’ impossibile dare una risposta breve e semplice. Si può risalire a un evento che ha avuto luogo circa mille anni fa. Come concluse il suo pontificato Gregorio VII (1073-85), un Papa zelante e riformatore che affrontò grandi crisi nella Chiesa? In esilio a Salerno. Morì fuori Roma. Tutto sembrava un fallimento. Eppure è stato il pontificato più importante di tutto il secondo millennio della cristianità. Ha dato un volto al cristianesimo successivo e ha lasciato un’impronta permanente nell’esercizio del governo della Chiesa. Benedetto XVI non era in esilio, ma era nascosto al mondo. Con questo sguardo possiamo pensare all’eredità di Benedetto XVI come a qualcosa che si capirà solo a lungo termine. Il suo pontificato sembra un fiume sotterraneo: sappiamo da dove nasce, ma non sappiamo con certezza dove andrà a finire. Come valutare il pontificato di Benedetto XVI? Quando è stato eletto nel 2005, poteva sembrare che Ratzinger sarebbe stato un pontefice di transizione, soprattutto a causa della sua età avanzata e del fatto che non sembrava che si sarebbe discostato dall’approccio magisteriale generale del suo predecessore, Giovanni Paolo II. Tuttavia, la realtà, al momento della sua rinuncia nel 2013, non era conforme a queste aspettative iniziali. Il suo pontificato è stato molto più significativo nella storia del cattolicesimo. Non è stato il pontificato della “restaurazione” che molti temevano e altri speravano. Più che altro, è stato un pontificato di consolidamento: un pontificato che avrebbe anche alzato la posta in gioco e corso dei rischi. Benedetto XVI ha saputo affrontare con originalità e determinazione il problema degli abusi, in particolare quelli sessuali su minori da parte di chierici. E’ possibile comprendere il pontificato solo nell’ottica della riforma ecclesiale, e in particolare della riforma papale. Non è un caso che il Papa abbia coordinato una simultanea e sistematica riforma sul fronte liturgico e teologico attraverso iniziative “ecumeniche” ( in primis con i lefebvriani e gli anglicani), nonché sul fronte canonico (modificando il Codice del 1983 con la creazione degli “ordinariati personali”). Come valutare il pontificato benedettino? Appare rivelatrice la risposta che Benedetto XVI ha dato al giornalista Peter Seewald quando gli è stato chiesto: “Lei è la fine del vecchio o l’inizio del nuovo?”. Il Papa ha risposto: “Entrambi”. Sia la domanda che la risposta erano brevi e azzeccate. Il suo pontificato rifugge da ogni rigida categoria. Uno degli elementi caratteristici del pontificato di Benedetto XVI è stato quello dell’apertura intellettuale e dell’incontro con esponenti di altre tradizioni culturali e religiose. Questo atteggiamento ha permesso vari riposizionamenti culturali dei partner del dialogo, che hanno risposto anche alla frequente preoccupazione che una civiltà non possa sopravvivere senza una grande religione che la sostenga e la animi. Ma la motivazione del Papa per il dialogo è stata molto più profonda, perché consisteva soprattutto in una preoccupazione pastorale. Il Papato di Ratzinger ha centrato il confronto con il mondo intorno ai temi antropologici, a difesa della persona, rivendicando per la Chiesa propri spazi nel campo della politica e della bioetica. Il pontificato di Benedetto XVI non giunge a mediazioni con le società occidentali che prescindono dalla verità di Dio, per le quali prospetta solo un orizzonte di desolazione, ma, allo stesso tempo, sa riconoscere presenti nella modernità “valori morali che vengono proprio anche dal Cristianesimo”. L’interpretazione dell’ambito politico da parte di Benedetto XVI è primariamente di ordine teologico e si inserisce nel più ampio dibattito internazionale, nato dopo l’11 settembre 2001, sul ruolo pubblico della religione. Per il pontefice in qualche modo il cristianesimo non conosce nessuna “teologia politica”, ma “soltanto un ethos politico” per cui “la civitas Dei non può mai diventare una realtà statale empirica”, come lo Stato può essere soltanto una civitas terrena. Benedetto XVI vuole svincolare il cristianesimo dal rischio di una teologizzazione della politica, come pure di una politicizzazione della teologia. Questa impostazione generale suscita molte reazioni nel mondo intellettuale, tanto da avviare più dialoghi. Si pensi al dialogo tra Benedetto XVI ed il filosofo italiano Marcello Pera. Si pensi pure all’inaspettato incontro intellettuale con il filosofo marxista Jürgen Habermas, all’eco del discorso papale in Francia agli intellettuali al College des Bernardins o agli intellettuali marxisti italiani in dialogo con la teologia di Ratzinger. Il pontificato di Benedetto XVI ha esposto la Chiesa su più fronti, culturali, politici ed etici. Senza eccessive preoccupazioni di ricerca del consenso, il Papa ha avviato processi di confronto, che hanno toccato l’identità ultima dell’uomo, destando adesioni e contrapposizioni. L’uscita di scena anticipata da parte del Papa, tuttavia, sembra aver arrestato il naturale sviluppo di quei nuovi percorsi. A fronte di tutto ciò, torna la domanda iniziale: come valutare questo pontificato? Solo tramite una sua onesta valutazione si può giungere a una corretta considerazione del lascito di Ratzinger, tanto da poterlo valorizzazione, non a livello conservativo e museale, bensì in maniera viva e dinamica. Non si tratta tanto di ripetere le sue argomentazioni, riprendere i temi a lui cari o il suo metodo, quanto e soprattutto a livello teologico e sapienziale di inserirsi nello sguardo con cui Ratzinger si è inserito nello sguardo di Cristo. In ultimo, “è il riconoscere che la traditio della fede è appunto questione di sguardi, che sanno di storia e che la fanno”. C’è un bilancio del pontificato compiuto dallo stesso Benedetto XVI, dato ai fedeli il 27 febbraio 2013, cioè il giorno prima della sede vacante. E’ una lettura chiaramente teologica, ma affascinante per capire la mente del Papa. E’ una citazione lunga, ma vale la pena riprodurla integralmente: “E’ stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è Sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”. L’eredità di Benedetto XVI è questa fede semplice e piena; è la visione di una Chiesa bella che è opera di Dio e non dell’uomo. L’eredità è la fiducia radicale in Dio. Un aspetto di non poca importanza in un’epoca stanca e autodistruttiva che esalta l’uomo ma alla fine lo umilia continuamente. Benedetto XVI ha scelto la fiducia in Dio e nell’uomo. Ha scelto l’armonia tra fede e ragione. Questa è la sua eredità».
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