La Versione di Banfi

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Rientro ad ostacoli

alessandrobanfi.substack.com

Rientro ad ostacoli

Finiscono le vacanze natalizie. Rischio dad sulla scuola. Nuove norme per tornare al lavoro. Corsa al Colle: spunta Gentiloni (ma per il governo). Il Kazakistan "cinese" inquieta il mondo

Alessandro Banfi
Jan 9, 2022
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Rientro ad ostacoli

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Rientro a scuola domani con polemiche e iniziative dei Presidenti di Regione. Il governo vuole cercare di garantire l’insegnamento in presenza ma medici, presidi e governatori spingono per il rinvio. Finite le vacanze natalizie, è Omicron a creare buchi ed assenze nelle classi. Anche con le nuove norme può scattare la Dad. Domani il premier Mario Draghi cercherà di spiegare i contenuti delle nuove misure e tornerà certamente anche sul caos scuola, in un’apposita conferenza stampa. Intanto quello con il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca non è più un confronto politico ma uno scontro di competenze, carte bollate e ricorsi al Tar. I numeri raccontano che la pandemia galoppa, anche fra i minori. La buona notizia è che tornano ad aumentare coloro che tardivamente ricorrono ora alla prima dose, probabilmente per non incappare in sanzioni. Anche il calcio di serie A vuole dare il buon esempio e riduce drasticamente l’accesso del pubblico negli stadi per le prossime due giornate di campionato.

La politica è concentrata sulla corsa al Quirinale. Si vota fra quindici giorni: la settimana che inizia domani sarà densa di vertici e incontri un po’ per tutti i partiti e le coalizioni. Anche fra i grandi elettori c’è una complicazione dovuta ad Omicron e al green pass: difficile che si arrivi al Vad, al voto a distanza, ma tutto è possibile. Molto interessante oggi l’articolo di Rino Formica per il Domani che attacca la “strana coppia” formata da Mario Draghi e Sergio Mattarella. Mentre sulla Stampa si ipotizza un nuovo patto Gentiloni: nel senso che Paolo Gentiloni potrebbe essere il premier europeista che conclude la legislatura, proseguendo il lavoro di Draghi traslocato al Colle.

Dall’estero: è in primo piano ancora il Kazakistan. L’ex Repubblica asiatica, che fu sotto il controllo sovietico, si rivela più strategica di quanto si immaginasse qualche tempo fa. Il suo sottosuolo è ricco di minerali e terre rare che sono diventati importanti nella fase della transizione ecologica che stiamo vivendo. Russia, Cina e Turchia sono coinvolte nel nuovo equilibrio di potere del Paese. Drammatiche le notizie dal Tigray, dove è stato bombardato un campo profughi di civili. Ne scrive Quirico sulla Stampa. Attesa per il discorso di papa Francesco domani al corpo diplomatico.   

Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

Trovate questa VERSIONE di nuovo nella vostra casella di posta domani mattina. L’appuntamento orario resta intorno alle 8. Alla fine della rassegna trovate tutti gli articoli citati in pdf. Vi consiglio di scaricarli se siete interessati perché restano disponibili in memoria solo 24 ore. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Titoli ancora sulla pandemia alla vigilia della riapertura delle scuole e del primo giorno con i nuovi divieti. Avvenire si concentra su chi sceglie di vaccinarsi ora: Pentiti&Obbligati. La Verità attacca: Hanno inventato i no vax vaccinati. Dall’altra parte dello schieramento Libero rivendica i diritti di chi si è vaccinato e vuole libertà d’azione: Dieci ragioni per non chiudere. Il Messaggero focalizza il mondo del lavoro: Imprese, riaperture a metà. Il Fatto mette in primo piano l’assenza dei medici di base: Cerchi il tuo medico? È andato in pensione. Il Giornale stigmatizza: Le truffe dei no vax. Sul controverso ritorno in classe dopo le vacanze natalizie si concentra il Corriere della Sera: Scuola, rientro a ostacoli. Il Quotidiano Nazionale nota: Tutti contro tutti, il disastro scuola. Il Manifesto va ancora sul gioco di parole: Banco di prova. Il Mattino risente del braccio di ferro in Campania: Caso scuola, ripartenza a metà. Mentre La Stampa ricostruisce il coro per la chiusura: Medici, presidi e sindacati: “Tenere le scuole chiuse”. La Repubblica offre numeri sui piccoli: Bambini, crescono i contagi. Il Sole 24 Ore va sul tema rincaro energetico: Gas italiano, il piano per raddoppiarlo. Mentre Domani guarda alla crisi internazionale: In Kazakistan si abbatte la tempesta perfetta del disordine mondiale.

SCUOLA, PROTESTE CONTRO LA RIAPERTURA

Proteste contro la riapertura delle scuole dopo le vacanze natalizie. Non sono solo i Presidenti di Regione a muoversi. Il punto di Valentina Santarpia per il Corriere della Sera.

«Corsa contro il tempo del ministero dell'Istruzione per impugnare l'ordinanza con cui il governatore della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha deciso di posticipare la riapertura di scuole dell'infanzia, elementari e medie al 29 gennaio. I tecnici stanno preparando la relazione che sarà presentata a Palazzo Chigi e usata per contestare davanti ai giudici amministrativi la decisione di De Luca: non servirà un Consiglio dei ministri, ma probabilmente l'Avvocatura dello Stato non ci riuscirà prima di domani, quando teoricamente anche in Campania, zona bianca, gli studenti sarebbero dovuti rientrare in classe. Ed è proprio questo il punto chiave: come ha ribadito ancora ieri il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, la decisione presa dalla Campania «è in esplicito contrasto con la norma oggi vigente in Italia, che fa divieto alle Regioni e ai sindaci» di intervenire tranne «in zona rossa e in casi estremi molto specifici». Mentre per De Luca, come si legge nell'ordinanza, le misure sulla scuola sono «strettamente indispensabili a scongiurare il tracollo del sistema sanitario regionale» perché la situazione corrisponde a «circostanze di eccezionale e straordinaria necessità». Sarà un tribunale amministrativo a stabilire se ha ragione. O forse più di uno: perché ieri anche alcuni genitori «no dad» hanno presentato ricorso al Tar Campania. Intanto sono molti i governatori preoccupati, che forse avrebbero voluto seguire la stessa strada, ma si sono frenati per non «alimentare un inutile conflitto con il governo», come dice esplicitamente il Presidente della Sicilia, Nello Musumeci. Nell'isola le scuole riapriranno tre giorni dopo le previsioni, giovedì prossimo, ma Musumeci lancia l'ennesimo appello al governo perché si decida per la didattica a distanza per le prossime settimane. Il governatore della Puglia Michele Emiliano conferma l'insofferenza generale: «Le Regioni hanno, invano, richiesto un posticipo della riapertura per avere il tempo di completare le vaccinazioni degli studenti e in particolare quelle dei più piccoli, ma il governo sul punto è stato irremovibile», scrive su Facebook, annunciando che spingerà «al massimo sui vaccini». Preoccupato pure il governatore del Veneto, Luca Zaia, che aspetta «il fondamentale parere del Cts» e teme «uno scenario che sarà un calvario». Quella della scuola, per Zaia, «rischia d'essere una falsa apertura». Gli stessi timori dei sindacati, che ieri hanno partecipato alla riunione al ministero dell'Istruzione sulle nuove regole, ma sono rimasti insoddisfatti: «La scuola è stata disarmata di fronte a questa nuova ondata», rileva Francesco Sinopoli (Cgil). Anche Pd e M5S chiedono misure per garantire il rientro in classe in presenza e sicurezza. Mentre il capo dei presidi, Antonello Giannelli, teme che domani potrebbero essere «assenti cento mila dipendenti della scuola su un milione, un 10% del totale», mentre «centinaia di studenti sono già positivi». E pone un problema di privacy sui dati sanitari dei ragazzi dopo che il ministero ha autorizzato le scuole a conoscere direttamente quali studenti sono vaccinati e quali no per capire chi mandare in dad. Il commissario all'Emergenza Francesco Paolo Figliuolo ha inviato ai dirigenti un documento per rassicurarli, garantendo più test e tracciamento. Alcune Regioni stanno già agendo in questo senso: in Sardegna distribuiti test per il 70% degli studenti. Ma molti sindaci vanno ormai in ordine sparso. Tre Comuni del Milanese terranno le scuole chiuse fino al 14. In Calabria il primo cittadino di Reggio ha deciso la chiusura fino al 15, mentre quelli di Catanzaro, Cosenza, Crotone, Corigliano-Rossano, Lamezia Terme e Rende, terranno le scuole aperte: «Inutile varare ordinanze contro la legge».

EFFETTO DELL’OBBLIGO: BOOM DELLE VACCINAZIONI

Dopo l’annuncio delle nuove misure, le prime hanno efficacia da domani, si muovono i numeri della campagna vaccinale. Aumenta il numero di chi decide per la prima dose. Giovanna Cavalli per il Corriere.

«È boom delle prime dosi di vaccino: venerdì ne sono state somministrate 65 mila, il 60% in più della media giornaliera della settimana precedente (circa 41 mila). Nella fascia di età over 50, per cui il decreto ha disposto l'obbligo vaccinale, sono state 15.239, il triplo rispetto ai 5.500 di media nei 7 giorni precedenti. Finora sono state effettuate 114.813.988 vaccinazioni. Sono 48.245.682 le persone con almeno una dose, l'89,33% della popolazione over 12, dati del ministero della Salute. «La situazione negli ospedali peggiorerà», avverte Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini medici. «I numeri sono abnormi: abbiamo più di 1 milione e 600 mila contagiati a casa. Il Covid è una malattia che spaventa: alla minima difficoltà respiratoria le persone vanno in ospedale e le strutture cominciano a non reggere. Bisogna intervenire subito, in una ondata che può essere drammatica, siamo spaventatissimi». Secondo l'Istituto superiore di Sanità, per l'undicesima settimana consecutiva in Italia c'è un aumento «rapido e generalizzato» di nuove infezioni di Covid 19. Durante le feste (20 dicembre - 2 gennaio) quasi 1 milione (934.886) di nuovi casi e 721 morti. Nella settimana 27 dicembre-2 gennaio sono stati registrati 1.098 casi ogni 100.000 abitanti. Anche i bambini si ammalano di più: da ottobre la fascia d'età fra 5 e 11 anni è quella che sta registrando il maggiore incremento di casi nella popolazione in età scolare. Ieri accertati 197.552 nuovi casi di Covid-19 su 1.220.266 tamponi molecolari e antigenici effettuati (il giorno prima 108.304 contagi su 492.172 test), con il tasso di positività che scende al 16,2% (-5,8, era 22). Diminuiscono le vittime: 184 (venerdì erano 223). Si registrano inoltre altri 339 ricoveri ordinari (14.930 totali) e ulteriori 58 in terapia intensiva (1.557 totali). Gli attualmente positivi sono 1.818.893, di cui 1.802.406 in isolamento domiciliare. La regione con il maggior numero di nuovi contagi è ancora la Lombardia (48.808). In Campania da domani sospesi tutti i ricoveri non urgenti. Secondo il fisico Giorgio Sestili, la crescita del virus è esponenziale: «Tra una settimana potremmo avere 400 mila casi al giorno, impossibile tracciarli, l'unica fotografia dell'epidemia si baserà sui ricoveri».

PILLOLE D’OTTIMISMO E DI ODIO SOCIAL

Aldo Grasso nella sua rubrica sulla prima pagina del Corriere si occupa di Guido Silvestri e del suo progetto “pillole d’ottimismo”.

«Tre giorni fa, Guido Silvestri ha scritto: «Sono su Twitter da 7 giorni e tra "no vax" e "teammorte", oltre agli attacchi personali, hanno insultato mia madre (morta nel 2018), augurato la morte dei miei figli, e minacciato di spararmi se torno in Italia». Tanto per chiarire, nel suo campo Silvestri è un'autorità assoluta: capo dipartimento di Patologia all'Università Emory di Atlanta, direttore della Divisione di Microbiologia e Immunologia allo Yerkes National Primate Research Center e molto altro ancora. Da quando è scoppiata la pandemia, con il progetto «Pillole d'ottimismo» ci invita ad affrontare il virus con nervi saldi, con una lettura corretta e responsabile dei dati, evitando ogni forma di allarmismo. Dagli Usa, cerca di darci una mano, ma il suo gesto non lo protegge dalle più maleodoranti minacce. L'ignoranza non esenta dall'esprimersi. La violenza verbale (tollerata da alcuni politici) è il lato oscuro del linguaggio, ma soprattutto di noi stessi. Molti turpiloquenti pensano che i social siano una zona franca, coperta dall'anonimato, dove è possibile dire qualsiasi cosa, insolentire chiunque, dare sfogo alla propria vigliaccheria senza pagarne il conto. Sì certo, possiamo consolarci dicendo che i social sono una fogna. Un modo elegante per evitare di dire che spesso la fogna è dentro di noi».  

Alessandro Sallusti per Libero torna a criticare chi dà spazio ai No Vax e rivendica i diritti dei vaccinati.

«Ho incontrato casualmente un medico no vax e ho capito: di lì non si passa, non c'è modo di fare ragionare neppure chi la ragione scientifica l'ha studiata sui libri. A ogni mia obiezione ha risposto come avviene nelle sette: la verità ufficiale è falsa, i numeri sfornati ogni giorno da ospedali e osservatori istituzionali sono taroccati, e alla mia domanda "a pro di chi questa gigantesca truffa?" la risposta è stata disarmante: "Di chi sta costruendo un nuovo ordine mondiale, da tempo l'avevano studiato e oggi sono riusciti a metterlo in pratica, tu e Draghi siete inconsapevoli marionette nelle loro mani". Discorso chiuso, almeno fino a quando - ma forse non servirà neppure quello - un bel mattino il mio amico cosa che ovviamente non gli auguro - si sentirà mancare l'aria nei polmoni e per respirare dovrà chiedere aiuto al "vecchio ordine mondiale" a suo dire complice dei complottisti. Lo accoglieremo volentieri nel mondo reale ma ieri ho capito che l'invito a non spaventare e provare a convincere i no vax è un inutile sforzo. Vanno abbandonati a se stessi, semmai spinti con la prospettiva di perdere lavoro e reddito, per concentrare le forze - lo ripetiamo volentieri per l'ennesima volta- sui diritti dei vaccinati. Chi vaccina i figli ha il diritto di trovare scuole aperte pronte ad accoglierli, chi si vaccina ha diritto di andare allo stadio eccetera eccetera. A noi vaccinati la malattia non deve fare paura, conosco decine persone che la stanno attraversando senza alcuna complicazione se non la seccatura di rimanere a casa per qualche giorno come del resto è sempre accaduto a chi si è preso l'influenza. Ieri il Sole 24 Ore ha pubblicato uno studio che dimostra come la situazione sarebbe assolutamente sotto controllo se tutti gli italiani fossero vaccinati. Certo, secondo il mio amico medico anche Confindustria potrebbe fare parte del complotto per costruire il "nuovo ordine mondiale" ma a me sarebbe sufficiente che il governo riportasse un po' di ordine nel mondo del lavoro e nelle nostre vite private. In altre parole che non introduca nuove restrizioni per chi dal Covid non ha nulla da temere, detto che nessuno di noi può aspirare all'immortalità».

IL CALCIO CERCA DI DARE UN ESEMPIO

Per due giornate pubblico molto ridotto alle partite di serie A. Il commento di Daniele Dallera dal Corriere.

«Il calcio, la serie A e i suoi presidenti hanno giocato la partita della bontà, hanno dato il buon esempio. Spesso divisi, litigiosi, con una forte tendenza a guardare i propri interessi, stavolta hanno votato all'unanimità un calcio da salotto, in mascherina, massimo cinquemila tifosi allo stadio per due giornate. E «vedere di nascosto l'effetto che fa...», cantava Enzo Iannacci, grande artista, ma anche appassionato (milanista) di calcio. L'autoriduzione a 5 mila spettatori per le due giornate del 16 e 23 gennaio è conseguenza del pressing del governo sulle istituzioni calcistiche, Federcalcio e Lega, dopo la cavalcata del virus e dei contagi. È vero, certe immagini, alcuni video che svelano spalti pieni di tifosi non solo sprovvisti di mascherine ma anche troppo vicini e pronti ad abbracciarsi per la festa del gol, sono un pugno allo stomaco, così si dice che sarebbe stato vissuto da responsabili del governo e componenti del famoso comitato tecnico scientifico, e un assist al virus e alle sue varianti. Ma gli studiosi e il partito degli anticalcio spieghino perché l'ascesa dei contagi si è verificata quando gli stadi erano chiusi, in vacanza per le festività natalizie: osservazioni puntuali che meriterebbero una risposta. Una esperienza che possono fare tutti: si vada a fare un giretto in uno dei tanti mercati comunali che ogni mattina per fortuna regalano una botta di vita al commercio e all'economia. I senza mascherina sono tanti, troppi, e a nessun partecipante alla spesa collettiva si chiede il super green pass. Vien voglia di scappare lontano, magari di rifugiarsi in uno stadio dove chi ci entra è vaccinato e ha il supergreen pass. Ma ben venga questa mossa di responsabilità della Lega calcio e dei presidenti che dovrebbero essere anche più attenti e non così generosi negli ingaggi a ipotetici campioni. Ora aspettiamo il vertice di mercoledì e la famosa cabina di regia: ci vogliono regole chiare, basta col balletto di Asl e Tar. Faccia un salto di qualità anche la politica, abbia maggiore rispetto per lo sport che nel 2021 ci ha spesso emozionato: dopo la felice esperienza del sottosegretariato di Valentina Vezzali, è ora di pensare a un ministero dello sport. Di un settore così vitale non ci si ricordi solo quando si vincono Europei e medaglie d'oro, vanno affrontati con responsabilità (e con adeguati ristori) anche i momenti di crisi».

QUIRINALE 1. LA GAFFE DI CASALINO “AL LAVORO”

Mondo politico ormai concentrato sul Colle, domani si apre una settimana di vertici e riunioni. Polemica nel Movimento 5 Stelle: una gaffe svela il vertice. La cronaca di Bozza e Falci per il Corriere.

«C'è il leader Giuseppe Conte che continua a rilanciare: «Al Quirinale serve una donna», senza però fare un nome. Un'altra ala dei parlamentari del M5S rilancia invece la necessità di un «Mattarella bis». E una terza, infine, dialogante sia col Pd che con pezzi di centrodestra, disposta anche ad appoggiare l'ascesa di Draghi «per arrivare a fine legislatura». È in questo clima di grande incertezza, con il Movimento ancora una volta spaccato in due-tre fazioni, che ieri Conte aveva convocato la «cabina di regia» per discutere sulla strategia per il Colle assieme ai cinque vicepresidenti, ai ministri del governo (compreso Luigi Di Maio appena guarito dal Covid) e ai due capigruppo di Camera e Senato. Si doveva trattare di un vertice segreto. Ma così non è stato. Rocco Casalino, già portavoce di Conte premier e oggi capo della comunicazione M5S, ha infatti inviato in una chat WhatsApp sbagliata la foto del leader durante la videoconferenza, scrivendo: «Sono al lavoro sul Quirinale». L'immagine, essendo un «canale» con molti destinatari, è subito rimbalzata fuori dalla chat, innescando la furia di molti parlamentari: «Per l'ennesima volta veniamo esclusi da confronti così importanti e lo scopriamo solo grazie a una gaffe», protestano. Tutto mentre per martedì sera è convocata l'assemblea degli eletti di Camera e Senato, un appuntamento che si annuncia ancora una volta incandescente. Ad ogni modo la partita del Colle resta da tripla al Totocalcio anche per il centrodestra. Con l'incognita Omicron a complicarla ancor di più. L'unica certezza, ad oggi, è l'attivismo di Silvio Berlusconi che descrivono «motivato» e «impegnatissimo» in decine di telefonate. «Il presidente sta riflettendo e ci sta pensando seriamente anche perché glielo chiedono in tanti» confida Paolo Barelli, capogruppo di Forza Italia a Montecitorio, uno di quelli che aggiorna continuamente il pallottoliere del leader azzurro. «Noi riteniamo che sia la persona giusta per la sua caratura nazionale e internazionale ma sarà solo lui a decidere come e quando proporsi». In queste ore, il Cavaliere si sta giocando un paio di carte, già rivelate dal Corriere . La prima è utile a convincere i grandi elettori spaventati dal voto anticipato. Non a caso fra i dirigenti più ascoltati dall'inquilino di Arcore rimbalza questo concetto: «Se il presidente venisse eletto al Quirinale nascerebbe comunque un esecutivo con la stessa maggioranza che lo ha portato al Colle». L'altra carta è invece indirizzata agli alleati. Berlusconi sta dicendo e facendo dire ai suoi che se Draghi venisse eletto, un minuto dopo gli azzurri uscirebbero dal governo. «Si può stare con la sinistra solo se c'è l'attuale premier. Non esiste l'ipotesi di maggioranza Ursula». E a proposito di Europa, l'ex premier si aspetta l'endorsement da parte del Ppe».

QUIRINALE 2. IL VAD DEI GRANDI ELETTORI

Torna ad affacciarsi l’ipotesi voto a distanza per i grandi elettori. Il Pd sostiene che è inaccettabile la deroga per i No vax. E da domani i parlamentari senza Super Green Pass non potranno raggiungere Roma con aerei, treni o traghetti per eleggere il capo dello Stato. Giovanna Casadio per Repubblica.

«Ricorsi alla Consulta e richieste di deroghe per esercitare la funzione costituzionale di eleggere il nuovo capo dello Stato. I parlamentari No Vax, soprattutto quelli che provengono dalle isole, dalla Sicilia e dalla Sardegna, sono sulle barricate. Senza Super Green Pass, che scaturisce dalla vaccinazione o dalla guarigione dal Covid, non possono prendere traghetti, aerei, treni. Come tutti del resto. E perciò non possono raggiungere il Parlamento da domani, quando parte delle nuove misure entrerà in vigore. Finora non ci sono eccezioni previste. Dal Nazareno, sede del Pd, fanno sapere che «fermo restando il principio di autodichia, politicamente il "metodo Djokovic" applicato ai parlamentari sarebbe intollerabile agli occhi del Paese». Omicron e il picco dei contagi piombano così in pieno sul voto per il Quirinale. Non è solo questione di numeri di positivi e quarantene, che deputati e senatori questori - a cui spetta varare le misure di sicurezza - hanno paura possano superare i 100 sui 1008 Grandi elettori chiamati dal 24 gennaio all'elezione per il Colle. È un risiko politico-costituzionale che sta esplodendo: da un lato potrebbe alterare le maggioranze, dall'altro pone interrogativi in punta di diritto. Berlusconi ad esempio, pare tema che la tela per una sua elezione al Quirinale venga distrutta proprio dal Covid a Montecitorio. Simona Suriano, ex 5Stelle, ora in "Alternativa", catanese, racconta del ricorso presentato alla Consulta: «La deroga deve valere per me, per esercitare il mio mandato, come per tutti gli isolani. Questo è un sequestro di persona! A me poi, viene compresso il diritto di rappresentare i cittadini siciliani che mi hanno eletto». Annuncia un coordinamento con altri deputati e senatori che la pensano allo stesso modo, trasversale. Comunque, Suriano partirà nelle prossime ore dalla Sicilia, così da trovarsi già a Roma, evitando restrizioni. Sulla stessa linea il leghista Guido De Martini, deputato sardo («Anche una persona malata che vuole tornare a morire in Sardegna non può farlo ») e Pino Cabras, sardo, ex grillino ora nel gruppo "Alternativa". Cabras a sua volta annuncia di essersi rivolto alla Corte costituzionale. I costituzionalisti si dividono tra chi è convinto che una soluzione vada trovata perché i parlamentari assenti forzati (contagiati, quarantenati o nell'impossibilità di viaggiare) devono essere messi nelle condizioni di esercitare la loro funzione, e chi ritiene che non possano esserci esenzioni alle regole vigenti. Nessun "lodo Djokovic", appunto. Intanto i questori di Camera e Senato - i deputati Gregorio Fontana, Francesco D'Uva, Edmondo Cirielli e i senatori Antonio De Poli, Laura Bottici, Paolo Arrigoni - si riuniscono martedì 11. Le misure studiate sono voto per fascia oraria in ordine alfabetico, i contingentamenti con circa un centinaio di Grandi elettori al massimo in aula, mantenuti gli spazi comuni ovvero il Transatlantico e il cortile che sarà, per l'occasione, parzialmente coperto, oltre appunto ai "catafalchi" anti Covid", con tendine sanificabili. Necessario il Green Pass semplice, come è già, più la mascherina Ffp2. Potrebbero essere previsti tamponi per tutti, prima di accedere a Montecitorio, anche per i vaccinati con super Green Pass, che non è ancora richiesto per recarsi nelle aule parlamentari. «Il convitato Omicron è così incombente che non si può escludere nulla, neppure che occorrano altre misure», commenta De Poli. Una in particolare agita i Grandi elettori: che si debba rinviare la seduta del 24. Nessuno lo vuole. Nessuno se la sente di archiviarla, però. Il centrista Osvaldo Napoli la fa sua: «Bisogna pensare a un rinvio, se Omicron dilaga. A quel punto andrebbe chiesto a Mattarella di restare nel suo ufficio».

QUIRINALE 3. IL (NUOVO) PATTO GENTILONI

Se mai si trovasse l’accordo per eleggere Mario Draghi al Quirinale, dovrà comprendere anche la convergenza sul nome del suo successore a Palazzo Chigi. Fra i candidati, scrivono oggi Marco Bresolin e Ilario Lombardo su La Stampa, c’è Paolo Gentiloni, attuale Commissario europeo all’Economia.

«C'è un grande convitato di pietra al tavolo delle trattative sul Quirinale che si chiama Europa. Ed è anche in funzione di questo protagonista indiscusso della vita politica italiana che, all'interno della maggioranza, e a Palazzo Chigi, chiunque azzardi un'ipotesi su chi potrebbe prendere il posto di Mario Draghi lo fa sapendo che il profilo del probabile premier dovrà rispondere a un doppio impegno con Bruxelles e con i partner europei: sugli investimenti del Next Generation Eu e sui negoziati per cambiare il Patto di Stabilità. Ecco perché sullo sfondo dei nomi fatti filtrare negli ultimi giorni dai partiti, riappare quello del commissario europeo all'Economia Paolo Gentiloni. La suggestione nasce già mesi fa, in autunno, quando si cominciava a immaginare l'epilogo quirinalizio di Draghi. Ma nelle ultime ore sta prepotentemente raccogliendo più consensi perché figlia di un preciso ragionamento. Due giorni fa La Stampa ha scritto che, nel caso in cui Draghi fosse eletto presidente della Repubblica, il futuro governo avrebbe buone chance di ritrovare un format più squisitamente politico. E il nome che spunta più di altri da queste previsioni è quello del ministro della Difesa del Pd Lorenzo Guerini. Un nome che, riferiscono due importanti fonti, del M5S e di Italia Viva, ne terrebbe nascosto un altro. Quello di Gentiloni. Sono calcoli fatti all'interno di uno scenario che è ben presente anche a Draghi. Molto probabilmente il leader della Lega Matteo Salvini lascerà la maggioranza, permettendo così agli altri partiti di compattarsi nella cosiddetta coalizione Ursula, ispirata cioè a quella che ha eletto la presidente della Commissione Ue Von der Leyen. Resta da capire cosa farà Forza Italia, ma sembra certo che dal governo non si sfileranno i centristi di Coraggio Italia e di Iv. L'idea di un esecutivo politico, con un premier politico, prende sempre più largo, nella convinzione che uno schema tecnico (con i soliti nomi dei ministri Daniele Franco, Vittorio Colao e Marta Cartabia) sarebbe molto più esposto alle intemperie dell'anno elettorale che chiuderà la legislatura. Un anno cruciale per l'Italia. I partiti lo sanno e per questo (oltre che per finire la legislatura) sono pronti anche a qualche sacrificio. Persino nel M5S dove si preparano a digerire un premier del Pd e a dimenticare l'opportunità che in apparenza sembra spalancarsi per Luigi Di Maio. L'ex capo del partito che, a oggi, nonostante l'implosione, resta quello di maggioranza relativa, sconta diverse pecche: non ultimo il gelo con il leader Giuseppe Conte. Matteo Renzi, poi, ha detto che non permetterà la nascita di un governo con premier il ministro degli Esteri. Inoltre, non è considerato ancora abbastanza attrezzato per gettarsi nell'arena dei Consigli europei, di fondamentale importanza nell'anno in cui si dovrà conquistare ogni centimetro per cambiare le rigide regole fiscali su deficit e debito. L'identikit che emerge nei colloqui dei partiti è preciso: un politico ma che abbia una caratura «più istituzionale» e «una proiezione internazionale». Ma che, in chiave interna, sia capace di far convergere su di sé i grillini. Uno è Guerini, l'altro è il nome che hanno ben presente anche gli uomini che lavorano con Draghi. Ed è già stato un "premier dell'emergenza" a conclusione di una legislatura, dopo il fallito referendum di Renzi nel 2016. La carta Gentiloni sarebbe certamente la mossa migliore per "rassicurare" le istituzioni dell'Ue e le principali cancellerie. Con l'avvicinarsi della data per l'elezione del nuovo presidente della Repubblica, in Europa sta salendo una doppia preoccupazione. Da un lato c'è il timore che la fine del governo Draghi possa portare a una fase di instabilità politica capace di frenare le principali riforme che sono ora sul tavolo Ue. Dall'altro c'è la paura che l'Italia rallenti la sua corsa verso gli obiettivi del Recovery Fund: perdendo i soldi, e mettendo a repentaglio la buona riuscita del maxi-piano europeo (che a Roma destina un quarto delle risorse). «Senza Draghi non sarà facile per l'Italia rispettare la tabella di marcia fissata con la Commissione per ottenere la prossima tranche di finanziamenti e quella successiva - confida una fonte diplomatica europea -, probabilmente Gentiloni sarebbe la personalità più adatta per cercare di non perdere questa sfida». L'attuale commissario all'Economia ha seguito la genesi del Next Generation EU e la sua implementazione nei vari Paesi, compresa l'Italia. Conosce tutte le insidie e le possibili vie d'uscita per superare gli esami di Bruxelles. Inoltre, saprebbe come districarsi nella delicata trattativa per la riforma del Patto di Stabilità, alla quale sta lavorando proprio in queste settimane. L'altro giorno, a Parigi, Emmanuel Macron ha fatto il suo endorsement per la continuità, sottolineando quanto Sergio Mattarella e Draghi siano «europeisti e amici della Francia». Caratteristiche che ben descrivono anche Gentiloni: nessuno mette in dubbio il suo profilo pro-Ue e anche il feeling con Parigi è cosa nota. Del resto, fu proprio con il suo governo che iniziò il progetto del Trattato del Quirinale, i cui lavori furono avviati da un gruppo di sei saggi di cui facevano parte Paola Severino, Franco Bassanini e Marco Piantini, che ancora oggi è uno degli uomini di fiducia di Gentiloni nonché membro del suo gabinetto. Ma il diretto interessato che ne pensa? Impossibile intercettarne gli umori. Da qualche settimana, complice anche il suo coinvolgimento nel toto-nomi per il Quirinale, Gentiloni si è inabissato. Ha iniziato a declinare richieste di interviste da parte dei media italiani, concedendosi solo a poche testate straniere. Chi è in grado di interpretare il suo pensiero sa che al Quirinale ci andrebbe «de corsa», come direbbe lui in romanesco. Ma tra un anno a Palazzo Chigi e altri due anni e mezzo a Palazzo Berlaymont cosa è meglio? «Per la sua salute sicuramente Bruxelles», scherza chi lo conosce bene, riferendosi agli inevitabili tumulti in un anno pre-elettorale. Ma è chiaro che di fronte a una chiamata da Roma non si tirerebbe indietro».

QUIRINALE 4. FORMICA ATTACCA LA STRANA COPPIA DEL COLLE

Interessante intervento dell’ex ministro socialista Rino Formica dalle colonne di Domani. Con il consueto acume, Formica si chiede se sia giusto affidare i destini di un intero Paese ad una sola “coppia”: quella di Mario Draghi e Sergio Mattarella.

«E se domani cessasse il giornalismo politico, e rimanesse solo quello sportivo, o il bollettino sanitario, quale sarebbe la reazione nel paese? Temo nessuna. Non c'è un'assemblea di partito, una discussione nelle organizzazioni sul territorio, anche nelle parti sociali. Per dare peso a ciò che scrivono, i giornali riferiscono che Goldman Sachs dice al presidente del Consiglio Mario Draghi "devi stare lì" come fosse un governo, o come il presidente francese Emmanuel Macron. Qual è l'autorità morale, politica, sociale e civile di una pur grande banca d'affari? Ma il Paese tace. Non vedo precedenti in nessuna fase della vita repubblicana italiana, anche la più tempestosa. Mettiamo da parte la domanda se Draghi abbia titolo per diventare presidente della Repubblica. Il fatto sottostante è che sul punto non c'è stata neanche una riflessione. Le parole di Draghi Nella conferenza stampa di fine anno Draghi ha posto un problema politico che non ha provocato nessuna reazione. Ha detto che gli sembrerebbe strano se la maggioranza che elegge il nuovo presidente della Repubblica fosse diversa da quella che regge il presidente del Consiglio. Non ci sono precedenti. Anzi, i precedenti hanno sempre stabilito la dissociazione fra queste due maggioranze, ed è utile che non coincidano. E invece è già penetrato il principio che non siamo retti da poteri istituzionali che hanno un loro compito funzionale diviso, intrecciato però autonomo, ma da una coppia. Il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio sono una "coppia". Una coppia strana, però: uno ha una durata a tempo definito e irrevocabile, sette anni, l'altro ha un tempo determinato dalla provvisorietà e può essere revocato. Questa situazione anomala stravolge e travolge la Costituzione. Non dirò che i poteri di garanzia avrebbero dovuto insorgere a questo stravolgimento di equilibrio istituzionale, ma certo da una armonia tra le istituzioni siamo arrivati a un inedito nesso indissolubile. Oggi nell'area dei Paesi che hanno una lunga tradizione democratica si apre la questione della democrazia, come negli Stati Uniti. Ma qui in Italia ignoriamo la questione della democrazia. Eppure la rottura tra istituzioni e popolo è un dato che incide nell'autorevolezza delle rappresentanze istituzionali ed è l'anticamera della crisi democratica. In questi sette prossimi anni potremmo trovarci di fronte a casi di bufera che toccano i nostri paesi fratelli, alleati. E se invece toccassero noi? Il nostro presidente difenderà la democrazia o si piegherà a una crisi a cui il paese potrebbe non reggere? Oggi la questione si pone in maniera sottile, con la diffusione delle paure, per l'economia, per il futuro, a cui si aggiunge anche la paura sanitaria. Vita di coppia Ci dovremmo chiedere come dobbiamo convivere in uno stato di perenne necessità ed emergenza, quindi di rischio di sospensione se non di abolizione dei rapporti democratici. E invece ci si rifugia nella strana coppia. E avendo introdotto questo principio surrettizio di vita democratica, nessuno è in condizione di dire come si può fare una coppia senza eleggere una coppia. La fuga è il rinvio. Ormai anche i più intransigenti si sono arresi: non c'è una soluzione, teniamoci quello che c'è, la coppia. Ma tra un anno il problema si riproporrà, le elezioni sono una scadenza istituzionale inderogabile. E tra un anno la situazione sarà più grave di oggi. Per questo è urgente tornare al giudizio popolare che ripristina la separazione dei poteri e consente il controllo sui singoli poteri, e cioè alle forme di organizzazione della democrazia che la Costituzione ci ha dato. Oggi siamo in piena violazione dell'ordinamento previsto dalla Costituzione. La democrazia è fondata sulla divisibilità del potere. La vita di coppia delle istituzioni non è ammessa».

GAS ITALIANO, IL PIANO DI GIORGETTI E CINGOLANI

Rincari energetici. Il Sole 24 Ore anticipa il piano del governo per estrarre 8 miliardi di metri cubi di gas in più: rinnovando i vecchi pozzi già attivi è possibile arrivare al raddoppio della produzione italiana. Jacopo Giliberto.

«Ecco il piano per passare dalle parole ai fatti. I ministri della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, hanno detto che bisognerebbe tornare a sfruttare i giacimenti italiani di metano al posto di aumentare l'import. Ecco come. Con un investimento attorno a 1-1,5 miliardi da parte delle compagnie petrolifere, semplicemente aggiornando e potenziando i giacimenti di gas già attivi, in un paio d'anni potremmo raddoppiare l'estrazione da 3,5 a 7-8 miliardi di metri cubi l'anno, più del 10% dei 70 miliardi di metri cubi che ogni anno consuma l'Italia. Non servirebbe alcun aborrito giacimento nuovo, né alcuna riapertura di quei giacimenti chiusi fra l'applauso collettivo dei comitati nimby: sarebbe invece sufficiente rimettere in sesto gli impianti attivi, ridare attivismo ai pozzi già attivi ma ormai spompati, risvegliare i giacimenti sfiatati. Le compagnie sono pronte a giocare la partita con gli investimenti ma finché le leggi impediscono e le regole frenano nessuno si azzarda a rischiare un euro. Per dissipare euro a milionate sono sufficienti poche righe di ricorso al Tar, un parere non espresso alla conferenza dei servizi, il malumore di un politico che per conquistare consensi accende paure negli elettori. Oggi si attende che venga reso noto il Pitesai approvato dalla Conferenza Stato Regioni, che costituisce il "piano regolatore" per stabilire dove non si possono sfruttare le risorse del sottosuolo (non qui) e dove invece si può (da un'altra parte ma non qui). «Alla manutenzione, l'Italia preferisce l'inaugurazione». Sono parole di Leo Longanesi (1905-1957), giornalista e scrittore romagnolo sotto la cui casa di Bagnacavallo (Ravenna) un mese e mezzo fa è stata inaugurata la trivellazione del grande giacimento di metano che si chiama appunto Longanesi, come lo scrittore sotto la cui casa c'è il gas. Fra poco la prima perforatrice arriverà allo strato profondo e il giacimento comincerà a soffiare fin alla superficie il suo contributo. L'avvio dei pozzi come il Longanesi è un caso rarissimo, ormai, perché l'Italia da anni sui suoi giacimenti non perfora, non cerca, non investe. I giacimenti non piacciono ai politici italiani, leggi e divieti la scoraggiano, eppure dalla sola manutenzione dei giacimenti oggi in attività potrebbero arrivare 4 miliardi di metri cubi in più che oggi invece importiamo a prezzo superbo da migliaia di chilometri. Al 30 novembre l'Italia nel 2021 aveva consumato 66,4 miliardi di metri cubi di metano, di cui 3,05 dai giacimenti nazionali (-19,5%). Una ripresa dell'estrazione nazionale non cambierebbe lo scenario però ridurrebbe le emissioni fuggitive di metano e terrebbe in Italia (anche nelle casse pubbliche) quei soldi che oggi diamo ad algerini, russi, libici, azeri. Inoltre, tramite accordi con le compagnie, lo Stato potrebbe destinare a prezzo concordato quel gas ai settori più esposti ai costi energetici, tanto più che i prezzi internazionali non scenderanno, con quotazioni orgogliose anche per l'inverno 2022-2023. Le stime di investimento necessario per risvegliare i pozzi sfiatati nascono da un calcolo molto dettagliato fatto in Alta Italia dalle compagnie, pozzo per pozzo: se in Emilia, Romagna e Adriatico si investissero 322 milioni, la produzione raddoppierebbe da 800 a 1.600 milioni di metri cubi. Quando fra 3 anni arriveranno anche i grandi giacimenti da 10 miliardi di metri cubi di Argo e Cassiopea nel Canale di Sicilia (Eni), il medio giacimento Longanesi in Romagna (Gas Plus) e altri giacimenti non ancora attivi o tenuti bloccati da norme nimby, divieti estetici e leggi pro-import, allora dagli 8 miliardi di metri cubi l'anno si potrebbe arrivare ben oltre i 10 miliardi di metri cubi. La metà di quanto estraeva l'Italia fra gli anni '90 e subito dopo il 2000. Ancora inaccessibili i 30-40 miliardi di metri cubi del giacimento Alto Adriatico perché si teme che estrarre metano fra il delta del Po e l'Istria possa trascinare Venezia in uno sprofondamento catastrofico. In tutto si stimano riserve per circa 92 miliardi di metri cubi che, con i ritmi di estrazione e la capacità di aspirarli dal sottosuolo, potrebbero dare un contributo di una dozzina di miliardi di metri cubi di gas l'anno per una decina di anni. In quanto tempo potrebbero essere risvegliati i giacimenti che si stanno assopendo? È un processo graduale; alcuni pozzi possono essere rinvigoriti in poche settimane, moltissimi chiederebbero fra diversi mesi e un anno, altri potrebbero riprendere vivacità in un paio d'anni. Commentano dall'Assorisorse, l'associazione confindustriale delle società minerarie, che «finché non si conosce il contenuto del Pitesai, nessuno investe; e se il documento frenerà gli investimenti, allora nessuno investirà nemmeno in futuro». (Nota finale. Leo Longanesi, sotto la cui casa si sta perforando il giacimento, scrisse anche: «Un vero giornalista: spiega benissimo quello che non sa»)».

KAZAKISTAN, TOKAYEV FA ARRESTARE IL CAPO DEI SERVIZI

In Kazakistan è stato arrestato il capo degli 007 per alto tradimento: Karim Masimov era un fedelissimo di Nazarbayev. Francesco Battistini per il Corriere.

«Essere amico di tutti non basta. E nemmeno avere in agenda i cellulari personali di Vladimir Putin e di Xi Jinping. Per salvare se stesso, il regime kazako prepara la prima gogna pubblica e il presidente Kassym Jomart Tokayev ordina l'arresto del capo dei servizi segreti Knb, Karim Masimov. Uno che aveva buone relazioni tanto a Mosca che a Pechino, un uiguro che fu il più longevo premier del regime di Nursultan Nazarbayev e sulla poltrona di capospia, sei anni fa, era stato piazzato proprio dal Leader della Nazione. «Alto tradimento», è l'accusa. Ufficialmente, Masimov deve rispondere del blackout nella sicurezza di mercoledì scorso, quando le forze speciali e la polizia kazake si sono inspiegabilmente ritirate e hanno lasciato che gl'insorti s' impadronissero della capitale finanziaria, Almaty. Il regime sospetta che non d'inefficienza si trattò. E in una telefonata a Putin, lo stesso Tokayev avrebbe rivelato i suoi dubbi: la rivolta di piazza, forse, fu un tentato golpe. Hanno già trovato i primi colpevoli: la filiera degli sbirri. Con Masimov, giovedì scorso, è stato silurato anche Asamat Abdymomunov, il fedelissimo vice di Nazarbayev nel potente Comitato di sicurezza. Anche lui deve spiegare perché nessuno abbia mosso un dito, domenica, quando i primi disordini per il rincaro del gpl sono cominciati nel lontano ovest di Zhanaozen. E nessuno sia intervenuto a bloccare i social e abbia permesso, la notte fra martedì e mercoledì, le devastazioni ad Almaty della residenza presidenziale e del municipio. Non sono purghe scontate. Perché le teste di Masimov e Abdymomunov son cadute poche ore dopo le «dimissioni» da capo del Comitato di sicurezza dello stesso Nazarbayev, oltre che dell'intero governo, e tutti questi indizi somigliano a una prova: a 68 anni, Tokayev sta tagliando il cordone ombelicale del vecchio regime? Presto per capirlo. L'eterno Nazarbayev non compare in pubblico dalla sua visita a San Pietroburgo, il 28 dicembre, ma un portavoce fa sapere che il padre padrone del Kazakistan non è fuggito all'estero e con gran convinzione, anzi, sostiene il delfino Tokayev. Tokayev, no: lui non nomina più Nursultan, e non lo fa nominare nemmeno in tv. L'arrivo dei 2.500 soldati russi, assieme ad altri 2.500 divisi fra bielorussi, tagiki, armeni e kirghizi, è la sua assicurazione sulla durata. E poco sembra importargli che l'ordine di sparare a vista sui dimostranti contraddica l'immagine un po' glam che s' era costruito in Occidente: figlio d'uno scrittore, cinque lingue fluenti a partire dal mandarino, una carriera diplomatica fra Mosca e Pechino, New York e Singapore, l'esperienza ai tavoli dei negoziati nucleari e delle mediazioni internazionali sulla Siria e sull'Ucraina, Tokayev pareva messo lì a scaldare la poltrona presidenziale già riservata alla figlia di Nazarbayev, la zarina Dariga. Ma questa rivoluzione del gpl ha aperto le crepe che s' intravvedevano nel monolitico regime kazako. E ora i pupazzi del teatrino di Nazarbayev cadono uno dopo l'altro. Un regolamento di conti, avallato da quelli che contano: i cinesi, i turchi e ovviamente i russi. I nuovi coinquilini, divisi fra Ucraina e Kazakistan, chiamati a fronteggiare contemporaneamente due crisi alle frontiere. «Una lezione della storia recente è che i russi, una volta entrati in casa tua, è molto difficile farli andare via», ironizza il segretario di Stato americano, Anthony Blinken. «Se Blinken ama così tanto le lezioni di storia - gli risponde il collega russo, Sergei Lavrov -, eccone una che mi viene in mente: quando gli americani hai la sfortuna d'averli in casa tua, ospiti non invitati, è difficile restare vivi e non essere derubati, o stuprati. Chiedete ai coreani, ai vietnamiti, ai siriani. O agl'indiani d'America». Tra qualche giorno, russi e americani s' incontreranno per parlare (anche) di Kazakistan: bell'inizio.».

Perché il Kazakistan è strategico? Nel suo sottosuolo uranio e terre rare, che sono necessarie nella nuova economia verde del pianeta. Luca Pagni per Repubblica:

«C'è un lato "nascosto" dietro i disordini di questi giorni in Kazakistan. Nel sottosuolo della più estesa tra le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale si nasconde un tesoro sotto forma di materie prime: qui si trovano tra i maggiori giacimenti di gas naturale e petrolio scoperti nel mondo negli ultimi anni. Nonché ampie riserve di oro, zinco, manganese, cromo e carbone. Ma ancora più importanti sono le sue miniere di uranio, che ne fanno di gran lunga il primo Paese produttore al mondo davanti all'Australia. Un sorpasso avvenuto 11 anni fa, quando il governo di Canberra impose restrizioni di tipo ambientale nell'attività di estrazione, limitandone così le quantità da esportare. Tanto per capire: il Kazakistan è il principale fornitore della Francia, leader nella produzione di energia nucleare, forte dei suoi 58 reattori distribuiti in 19 centrali. Secondo gli ultimi dati, il Kazakistan - la decima nazione più grande al mondo - è stato in grado di soddisfare fino al 40% della domanda di uranio, per lo più destinato al funzionamento delle centrali atomiche. Il business è totalmente in mano alla società di stato Kazatomprom: in questi giorni sta continuando a operare senza patire conseguenze dai disordini, secondo quanto riferisce il Financial Times. Anche perché le quattro miniere attive si trovano in zone isolate, lontano dalle città dove sono avvenuti gli incidenti. I timori riguardano più che altro la possibile interruzione della catena dei rifornimenti, a partire dalla chiusura delle vie di comunicazione. L'intervento russo per il ripristino dell'ordine pubblico nella capitale Nur-Sultan (fino a poco tempo chiamata Astana) serve così sia a mantenere uno Stato "cuscinetto" ai suoi confini meridionali, ma anche per garantire i rapporti economico- commerciali. Basta un dato per capire l'importanza non solo geopolitica e strategica del Kazakistan per il Cremlino: qui si estrae il 60% delle materie prime che un tempo appartenevano all'Urss. Così come ha ospitato depositi di scorie e centri di ricerche nucleari ai tempo dell'Urss. Inoltre, piazzato attorno al decimo posto nella classifica dei maggiori Paesi produttori di petrolio, il Kazakistan fa parte - proprio come la Russia - del cartello Opec+. Tra i primati kazaki nelle materie prime, non è da trascurare nemmeno la produzione di terre rare, minerali fondamentali per i settori più innovativi della transizione ecologica e digitale, dalle rinnovabili alle auto elettriche alle telecomunicazioni. Anche se oltre il 90% della produzione di terre rare è in mano, al momento, alla Cina, le miniere del Kazakistan sono tra le poche che riforniscono i colossi hi-tech ed energetici, assieme a quelle dell'Australia, e alcuni paesi africani. A questo va aggiunto il fatto che l'uranio viene utilizzato anche nell'attività di ricerca nel campo energetico: sono in corso esperimenti per l'utilizzo di barre di uranio esausto per alimentare batterie a nano-diamanti. In caso di successo, potrebbe essere garantita una autonomia di lunga durata, addirittura di diversi anni, sia agli smartphone ma soprattutto alle auto elettriche. Il che, aggiunto alle terre rare, potrebbe fare del Kazakhstan un paese centrale nella transizione energetica dei prossimi decenni».

Chi è il Presidente Kassym-Jomart Tokayev, 68 anni, detto il cinese? Il ritratto di Enrico Franceschini per Repubblica.

«Negli ambienti diplomatici, qualcuno lo chiamava "il cinese": non tanto per una questione di aspetto fisico, bensì per il curriculum. All'inizio della sua lunga carriera, Kassym-Jomart Tokayev, 68enne presidente del Kazakistan, ha studiato e appreso perfettamente il mandarino. Subito dopo, per sei anni molto formativi, ha prestato servizio presso l'ambasciata sovietica a Pechino: da lì fu testimone diretto della strage di piazza Tiananmen nel 1989 e seguì il crollo dell'Urss nel 1991. Due esperienze che devono essergli tornate alla mente in questi giorni, quando ha deciso di usare il pugno di ferro per reprimere la rivolta nel proprio Paese, ordinando alle forze di sicurezza di «sparare per uccidere» e chiedendo a Vladimir Putin di inviare l'esercito russo ad aiutare le proprie truppe a riprendere il controllo della situazione. Eppure, Tokayev conosce molto bene anche l'Occidente. Dopo la fine dell'Urss, quando era appena diventato viceministro degli Esteri del Kazakistan, è stato lui a negoziare con la Russia, sotto l'egida del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, lo smantellamento e la restituzione a Mosca delle armi atomiche sovietiche dislocate in territorio kazako, definendolo «un significativo successo per la nostra nazione, che sta compiendo i primi passi nell'arena internazionale e apre così la strada a ulteriori trattative al massimo livello con i Paesi più influenti ». In seguito, promosso ministro degli Esteri, ha continuato a svolgere un ruolo attivo nel campo della non-proliferazione nucleare, partecipando nel 1995 e 1996 ai negoziati a New York per la firma dei trattati sul bando dei test balistici. Nominato presidente del senato kazako, nel 2008 è diventato vicepresidente dell'Osce, l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione europea, l'organismo che promuove la pace e il dialogo in Europa, di cui fanno parte 57 stati. E dal 2011 al 2013 ha vissuto a Ginevra, come direttore- generale dell'ufficio dell'Onu nella città svizzera e rappresentante personale del Segretario Generale del palazzo di vetro (all'epoca il sudcoreano Ban Ki-Moon) alla conferenza sul disarmo. Sono di quel periodo le foto che lo ritraggono sorridente accanto a John Kerry, segretario di Stato americano, e a Sergej Lavrov, ministro degli Esteri russo. Ma in immagini precedenti, che risalgono al 2000, sorride anche a un giovane Putin, da poco insediatosi al Cremlino sulla poltrona di Boris Eltsin. Nato in una famiglia della nomenklatura sovietica (il padre era un veterano della Seconda guerra mondiale e uno scrittore di successo di romanzi polizieschi, la madre una docente universitaria di lingue), musulmano non molto praticante, con una laurea all'Istituto di Affari Internazionali di Mosca (la scuola da cui usciva l'élite comunista) e un dottorato in politica estera, autore di una decina di saggi sulle relazioni internazionali, divorziato, con un figlio, Tokayev è sempre stato un fedelissimo di Nursultan Nazarbayev, leader del Kazakistan dal tempo dell'Urss. Quest' ultimo, schierato dapprima con la perestrojka di Mikhail Gorbaciov, quindi con i democratici eltsiniani, si è poi rivelato uno dei più longevi autocrati dell'Asia centrale post-sovietica, rimanendo presidente per trent' anni, fino alle dimissioni nel 2019, e continuando a esercitare finora un ruolo dietro alle quinte. Designato come erede da Nazarbayev, eletto presidente con il 71 per cento dei voti in un'elezione giudicata irregolare dall'Ocse, Tokayev sembrava un continuatore della politica della "triangolazione" kazaka fra Stati Uniti, Russia e Cina. Al posto del triangolo, adesso, potrebbe sorgere una linea retta da Almaty a Mosca: con la protezione promessa a parte dell'Ucraina, Bielorussia e Kazakistan, Putin spera di realizzare il suo progetto di una mini-Urss o almeno di estendere l'influenza russa sulle ex-repubbliche dei Soviet. Non tutti i giochi sono fatti. Da un lato, la protesta di massa dimostra che i kazaki sono stanchi della corruzione e della mancanza di democrazia. Dall'altro, appare incerto l'equilibrio fra l'81enne Nazarbayev e Tokayev, che ieri ha fatto arrestare per "tradimento" il capo dei servizi segreti interni Karim Masimov, ex-primo ministro. La partita è delicata e rischiosa per il "cinese" che conosce l'Occidente. Chissà se gli sarà utile lo sport che pratica assiduamente e di cui presiede la federazione kazaka: il ping-pong. Avrà imparato anche quello a Pechino?».

TIGRAY. BOMBE SUI CIVILI NELLA GUERRA IN ETIOPIA

Domenico Quirico sulla Stampa si occupa della guerra in Etiopia e denuncia il bombardamento di un campo profughi nel Tigray.

«Sì. Abbiamo sbagliato a soffermarci soltanto sul come si sviluppava la guerra civile tra il governo centrale di Addis Abeba e i ribelli tigrini, a cercare sulla carta i fronti con le località perdute o riconquistate, a raccontare chi vinceva o arretrava. A scrivere articoli per chiarire se Lalibela e le sue meraviglie erano in piedi o distrutte. Dovevamo guardare invece dentro la guerra, mischia di tribù furiose e vendicative. Ad ogni costo. Questo era il nostro dovere. In quello che si annuncia come uno dei peggiori massacri del nostro tempo, la geopolitica passa in secondo piano. È la realtà della morte di massa, i massacri dei civili da entrambe le parti in lotta, le incitazioni omicide di un Premio nobel per la pace diventato messianista della vendetta, il primo ministro Abiy Ahmed, che dovevano monopolizzare la nostra attenzione, la morte come male umano irrimediabile, lo sprofondare di un popolo nel silenzio del suo abisso. Anche se nessuno è lì, e fin dall'inizio una spessa coltre di fumo copre il Tigray dove i fatti sono sistematicamente negati, manipolati, deformati, una quantità di episodi confermati da vittime e testimoni attendibili si possono raccontare, uno a uno, come parte di un meccanismo di deliberato annientamento. In Etiopia la distruzione è diventato qualcosa di assoluto, si presenta come mondo. Sono questi morti che sono delitto e colpa che ci riguardano perché sono ai vivi che si rivolge la loro tragedia imponendo che diventi memoria collettiva. Bisogna guardare negli occhi questo mondo della notte perché non lo copra, come vogliono i burattinai del massacro, l'inudibile, al tempo stesso silenzio e strepito. Ecco l'ultimo episodio, il bombardamento di un campo di profughi nel nord del Tigray. Sono due milioni, migranti di cui non riesce a occuparsi nessuno, perché i convogli umanitari sono bloccati o saccheggiati dai soldati etiopici o dalle bande della pulizia etnica. Cinquantasei i morti tra cui alcuni bambini, gli ultimi di una nazione mutilata, violata, dissanguata. Chissà se hanno mai saputo che chi ha ordinato di bombardarli e ucciderli è un Premio nobel. Ci sono le immagini delle vittime raccolte in una scuola della cittadina di Dedebit. Ma non raccontano quello che è accaduto prima. Non c'erano sirene per avvertire la gente nel campo dell'avvicinarsi degli aerei o dei droni venduti dalla Turchia, aiutarli a fuggire, a cercare riparo abbracciando la terra. Il bombardamento è come uno scossa improvvisa che viene dal suolo contro lo stomaco. Poi si alzano le prime grida disperate ma le urla sono lacerate da acuti sibili metallici. Le baracche, le tende del campo si squarciano come per gioco e si sollevano in aria. Zampilli di fumo salgono come funghi. Il bombardamento cessa di colpo. Qualcosa brucia. Ma come se nulla fosse stato il sole splende di nuovo glorioso e il paesaggio attorno è tranquillo e impassibile come se solo il campo fosse stato condannato da una sentenza oscura e crudele. Si raccolgono i morti. Dedebit non vi diceva niente fino a ieri quando si è macchiata di sangue. Non vi dicono niente Alamata, Korem, Mekni, Milazat, località del sud del Tigray che secondo le testimonianze raccolte dalle Nazioni Unite sono state massacrate dai raid aerei etiopici nell'ultima settimana di dicembre. L'unica cosa certa: i morti sono stati decine. E poi ci sono i massacri, la pulizia etnica, la caccia all'uomo, la radicalizzazione sanguinaria a cui si dedicano da parte di entrambi i contendenti, etiopici e i loro alleati eritrei e i tigrini. Amnesty e Human Rights hanno raccolto questa geografia punitiva, l'hanno documentata con testimoni, sopravvissuti, urlata alla coscienza internazionale. È seguito un silenzio di cancellerie e opinione pubblica che è la somma algebrica dei nostri egoismi planetari. A novembre e dicembre le milizie amahra che seguono i regolari come branchi di sciacalli per ripulire in silenzio le aree riconquistate si sono accanite contro la popolazione tigrina delle città di Adebai, Humera e Raywan. Hanno separato nuclei familiari e arrestato anziani, donne e anche minorenni. Poi hanno allontanato dalle città le donne, i bambini, gli anziani e gli ammalati. Alcuni degli sfollati sono riusciti ad arrivare nel Tigray centrale, di altri non si hanno più notizie. I testimoni hanno riferito di alunni portati via dalle scuole, di colonne di camion stipati di persone che lasciavano la città di Humera, di abitanti in fuga dalla città di Adebai attaccati con bastoni e oggetti appuntiti e di altri uccisi con armi da fuoco. Ci sono immagini satellitari di Abedai: gruppi di persone raggruppate in un centro di detenzione, macerie sulle strade, edifici in fiamme. Ancora. Tra il 28 e il 29 novembre scorso le truppe eritree che appoggiano i soldati di Addis Abeba hanno ucciso centinaia di civili inermi nella città di Axum, aprendo il fuoco nelle strade e massacrando persone casa per casa. Le immagini satellitari hanno individuato fosse comuni accanto a due chiese della città santa. Pochi giorni dopo si doveva celebrare presso santa maria di Sion una grande festa dei cristiani ortodossi. Ancora un massacro, ma questa vota i colpevoli potrebbero essere i ribelli tigrini: nella città di Mai-Kadra forse centinaia di civili, soprattutto lavoratori giornalieri, sono stati pugnalati o accoltellati a morte. Le truppe etiopiche erano passate all'offensiva e si stavano avvicinando a Mai-kadra. La Polizia speciale del Tigrè ha saldato i conti con gli amhara prima di ritirarsi. A Gawa Qanda un villaggio della zona di Wellega si sa il numero dei massacrati: 54. Miliziani dell'Esercito di Liberazione Oromo, alleati dei tigrini, dopo il ritiro delle truppe etiopiche, hanno saccheggiato il Paese, ucciso uomini, donne e bambini e distrutto quello che non potevano portare via».

MARCIA INDIETRO DELL’INDIA SULLE MISSIONARIE DI MADRE TERESA

Il governo nazionalista indù di Narendra Modi ha fatto marcia indietro riattivando i finanziamenti bloccati, nel giorno di Natale, alle Missionarie della Carità. La portavoce Sunita Kumar commenta la svolta: “Siamo felici, sanno che questi soldi sono per i poveri”. Stefano Vecchia su Avvenire.

«Il governo indiano ha fatto marcia indietro sulla decisione comunicata il giorno di Natale di negare l'autorizzazione alle Missionarie della carità di ricevere fondi dall'estero. Una iniziativa che suor Prema Pierick, superiora della congregazione fondata nel 1950 da santa Madre Teresa di Calutta, aveva confermato il 27 dicembre: «Siamo stati informati che la nostra richiesta di rinnovo in adesione alla Legge per la regolamentazione dei contributi dall'estero non è stata approvata. Da conseguenza abbiamo chiesto ai nostri centri di non prelevare da alcuno degli conti con fondi stranieri fino a quando la questione sarà risolta». Senza aiuti dall'estero - principale fonte di sostegno per le attività caritative realizzate -, le religiose avevano avuto difficoltà a garantire il funzionamento di molte delle 240 istituzioni sparse per l'India. Addirittura a Kunpur, nell'Uttar Pradesh, il loro orfanotrofio storico aveva dovuto chiudere i battenti. Venerdì, finalmente, il dietrofront del ministero dell'Interno, salutata con gioia da Sunita Kumar, portavoce delle Missionarie della Carità: «Siamo felici e lieti che il governo centrale abbia realizzato e ripristinato la nostra registrazione. Le persone che stanno donando sanno che questi fondi sono per i poveri. Hanno anche alzato la voce, chiedendo perché fosse successo». La legge indiana prevede che gli enti di beneficenza e le imprese senza scopo di lucro si registrino per ricevere denaro dall'estero, tuttavia da tempo si verificano difficoltà o incongruenze nell'applicazione. Al punto da far sorgere in diversi osservatori il sospetto che un ruolo lo giochino estremisti indù con referenti politici nel governo nazionalista di Narendra Modi. Questi ultimi hanno intensificato le campagne per contrastare le «connessioni straniere» delle istituzioni cristiane e le presunte «conversioni forzate» realizzate da parte dei missionari. Accuse che anche nei giorni scorsi avevano coinvolto varie realtà, tra cui la casa per ragazze senza famiglia delle Missionarie della carità a Ahmedabad, nel Gujerat. Sempre con il pretesto, senza alcuna prova, di «conversioni forzate», il 3 gennaio, è stato evacuato l'orfanotrofio St. Francis Sevadham Orphanage di Shyampu, nel Madhya Pradesh».

IL PAPA E LA SUORA CHE SI OCCUPA DEGLI LGBTQ

Il Papa ringrazia con una lettera la suora americana Jeannine Gramick, che da oltre mezzo secolo si occupa della comunità LGBTQ. Paolo Mastrolilli per Repubblica.

«Grazie, Sorella Jeannine, per la tua vicinanza, compassione e tenerezza». Si conclude così, con questo tono amichevole, la lettera che Francesco ha inviato a suor Gramick il 10 dicembre scorso. Dietro al testo, pubblicato venerdì dalla rivista America , c'è però un nuovo passo compiuto dal Papa verso l'inclusione della comunità omosessuale nella Chiesa, in questo caso in diretta contraddizione con l'operato del predecessore. Perché nel 1999 era stato proprio il Prefetto della Congregazione per la Dottrina e la Fede, Ratzinger, a firmare il provvedimento che vietava a Jeannine di continuare l'attività pastorale rivolta ai gay. Oltre vent' anni dopo arriva la riabilitazione, con l'abbraccio del Pontefice che fa quasi ammenda per il passato, riconoscendo «quanto ha sofferto» questa «donna valorosa». Jeannine Gramick è una suora che da oltre mezzo secolo si occupa della comunità LGBTQ. Aveva cominciato al college, quando aveva 29 anni, ed era diventata amica di un omosessuale che aveva lasciato la Chiesa cattolica per entrare in quella Episcopale. Jeannine ha raccontato al Washington Post che organizzava messe nel suo appartamento per omosessuali usciti dalla Chiesa, e «quando la liturgia era finita avevano le lacrime agli occhi, perché si sentivano di nuovo benvenuti». Gramick faceva parte delle School Sisters of Notre Dame, e nel 1977 insieme a padre Nugent aveva animato New Ways Ministry per servire la comunità LGBTQ. La loro attività e il loro libro "Building Bridges " avevano attirato l'attenzione della gerarchia, e nel 1984 l'arcivescovo di Washington Hickey li aveva informati che non potevano proseguire l'attività nella diocesi della capitale Usa. Era seguita l'indagine della Congregazione per la Dottrina e la Fede, che si era conclusa con la lettera firmata il 31 maggio 1999 dal prefetto Ratzinger e dal segretario Bertone, che a nome di Giovanni Paolo II avevano ordinato a Gramick e Nugent di interrompere il lavoro pastorale. Jeannine era passata con le Sisters of Loreto, per continuare comunque la sua opera: «Ho sempre sentito che lo Spirito Santo mi guidava», ha spiegato ad America. Ora ha ricevuto la lettera in cui il Papa scrive: «Penso ai tuoi 50 anni di ministero, che sono stati 50 anni con questo stile di Dio». Lei ha commentato che «mi sono sentita meravigliosamente. Come se stessi ricevendo una lettera da un amico». Francesco non ha cambiato la dottrina, ribadendo che la Chiesa non può benedire le unioni degli omosessuali, ma ha cercato di riaprire la porta dicendo che se cercano Dio «chi sono io per giudicare?». In teoria la dottrina non condanna i gay, ma l'atto sessuale non finalizzato alla riproduzione, che è il disegno di Dio. Ciò varrebbe anche per le coppie etero sterili. La questione però ha una valenza politica che scavalca quella dottrinale, e quindi mette il Papa in contrasto con i conservatori americani. Un altro elemento di attrito, dopo i temi della vita, l'immigrazione, la linea sociale, che sta al centro della disputa sul futuro della Chiesa tra Francesco e i suoi oppositori».

L’ETÀ È FINITA, SI CERCA UNA “GIUSTIZIA RIPARATIVA”

Le organizzazioni militari e terroristiche sono sciolte, ma i baschi restano. Come fare i conti col passato? Michela A. G. Iaccarino per Il Fatto.

«"Ongi etorri": vuol dire "benvenuto" in lingua basca. Si chiamano così anche le feste che si celebrano ogni volta che i membri dell'Eta (acronimo di Euskadi Ta Askatasuna, "Paese Basco e libertà") escono di galera e tornano a casa. Ma dei 35 detenuti che hanno varcato la soglia d'uscita dalle loro prigioni l'anno scorso, solo due hanno ricevuto canti, balli e discorsi al loro ritorno in libertà. Per i parenti delle vittime della lotta armata del gruppo indipendentista queste celebrazioni "glorificano il terrorismo" e sono stati gli stessi prigionieri a chiedere che gli eventi si svolgessero a porta chiusa: "Ci sono persone ferite dalle azioni della nostra militanza passata e capiamo che possano provare dolore". Una delle ultime "ongi etorri" si è tenuta a Bilbao ad agosto scorso, quando Agustín Almaraz è uscito di prigione dopo 25 anni in cella. La condanna di un quarto di secolo l'aveva ricevuta per quattro omicidi compiuti negli anni 90. Bisogna smettere di celebrare i ritorni dei militanti, o renderli almeno "meno visibili", perché puntualmente finiscono nelle dichiarazioni strumentali e accusatorie dell'opposizione: sono stati anche i vertici dei partiti baschi a chiederlo per la delicata questione carceraria che attanaglia esecutivi centrali e regionali sulle detenzioni dei membri dell'Eta. Dal 2020, due anni dopo lo scioglimento ufficiale dell'organizzazione, Madrid ha avviato il trasferimento di quasi duecento separatisti verso le carceri basche, mettendo fine a quella dura politica del distanziamento familiare applicata sin dagli anni 80, una direttiva definita dai parenti degli ex militanti, che scontano la loro pena in zone remote, come "pura vendetta". Quasi tutti i condannati della formazione indipendentista si trovano adesso dietro le sbarre delle carceri della regione basca, nelle strutture detentive di Basauri, Zaballa e Martutene, ma presto le porte delle loro celle potrebbero aprirsi per un progetto di reinserimento fortemente appoggiato da Iñigo Urkullu, il professore di filologia a capo del Pnv, Partido nacionalista vasco. Il leader che dichiarò prima ancora che l'organizzazione si dissolvesse che "l'Eta non sarebbe mai dovuta esistere" chiede ora la semilibertà per un reinserimento graduale nella società degli ex separatisti. Se l'amministrazione basca punta e preme per il rilascio parziale, saranno i giudici del servizio penitenziario nazionale a vagliare, uno per uno, i casi per concederla. Da tempo le celle in cui sono chiusi i militanti sono nel mirino dell'opposizione conservatrice. Per gli indignati del Pp, Partito popolare, e la formazione di destra Vox, si tratta di "un modello penitenziario a misura di Eta", accettato dal governo socialista di Pedro Sànchez in cambio dei voti necessari per la legge di bilancio e dell'appoggio politico tra gli scranni in Parlamento. Un'accusa, questa, smentita dalla stessa realtà dei fatti: ad avviare i primi trasferimenti dei baschi fu il governo del popolare José María Aznar che avviò, già durante la sua prima legislatura, il trasferimento di duecento prigionieri, giustificando l'operazione con la dichiarazione: "Se vogliamo la pace, facciamo la pace". Invece per l'Avt, Associazione vittime del terrorismo, Madrid da tempo sta stendendo un "tappeto rosso agli ideologi dell'Eta e a quei politici che difendono i terroristi". I parenti delle circa 850 persone che hanno perso la vita durante sparatorie e attentati pretendono che una delle premesse dei trasferimenti nelle regioni basche sia "il pentimento pubblico" dei detenuti. La profondità delle ferite provocate dalla lotta armata l'ha riconosciuta pubblicamente, a ottobre scorso, in una "solenne dichiarazione" in cinque punti, anche Arnaldo Otegi, che dai ranghi e dalle linee di fuoco dell'Eta, è finito, dopo un periodo di prigione per il rapimento di un uomo d'affari, a guidare Bildu, il partito da molti considerato l'erede di Batasuna, la formazione politica del braccio armato degli indipendentisti, bandita nel 2013. C'è soprattutto Otegi - che molti chiamano ormai il "Gerry Adams basco" da quando ha contribuito a sciogliere l'Eta - dietro la nuova strategia adottata verso i detenuti separatisti. I prigionieri sono la chiave per la chiusura definitiva del conflitto nazionale e senza di loro la fine della lotta armata "non sarebbe stata possibile". "L'esperienza internazionale ci mostra che è necessario trovare una soluzione alla questione dei detenuti", ha detto Otega: "È una sfida inevitabile per tutti. Vogliamo difendere il ruolo attivo, risoluto e decisivo dei prigionieri nel superare la strategia armata e il loro definitivo impegno verso strade pacifiche democratiche". Si mira a riavviare quel processo di "giustizia riparativa" a cui diede impulso José Zapatero e a cui mise poi fine Mariano Rajoy, perché, spiegano ancora i baschi, a trarre benefici, dopo oltre dieci anni dal dissolvimento dell'Eta, non sarebbero solo quanti hanno inflitto dolore, ma anche quanti lo hanno subito: "Il principio del nostro modello è il riconoscimento delle vittime e la difesa dei loro diritti, l'autocritica e la responsabilità dei colpevoli per la loro irragionevolezza politica ed etica ed infine la scoperta della giustizia riparativa"».

PAPA FRANCESCO PREPARA IL DISCORSO GEOPOLITICO

Domani papa Francesco incontra il Corpo diplomatico e c’è attesa per il discorso più “geopolitico” dell’anno in un clima di tensione internazionale. Il ruolo della Santa Sede per risolvere i conflitti. Gianni Cardinale per Avvenire.

«Papa Francesco riceve domani in udienza il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Molto atteso, come sempre, il discorso del Pontefice il più "geopolitico" dell'anno che arriva dopo un 2021 segnato dalla pandemia e in un contesto internazionale dove si moltiplicano le tensioni, ultima quella in Kazakhstan. In questo contesto le parole del Papa, in particolare le sue encicliche Laudato si' e Fratelli tutti, e l'attività diplomatica della Santa Sede, sono tenute in grande considerazione dai grandi e piccoli Paesi del globo. Ne fa fede anche il continuo affluire nel Palazzo Apostolico di capi di Stato e di governo da ogni continente. Significativa e apprezzata è in particolare l'azione vaticana nel campo del multilaterale, ritenuta imprescindibile per una soluzione equa dei conflitti. Nel campo delle relazioni bilaterali la Santa Sede intrattiene ormai pieni rapporti diplomatici con quasi tutti gli Stati dell'orbe. Nel 1900 questi Paesi erano appena una ventina, 49 nel giugno 1963, mentre nell'agosto 1978 ammontavano già a 89 e nel 2005 erano 174. Con Benedetto XVI so- no arrivati a 180 e con papa Francesco sono diventati 183 (più Unione Europea e Ordine di Malta). Gli ultimi Stati ad allacciare pieni rapporti con Oltretevere sono stati il neonato Sud Sudan (2013), la Mauritania (2016) e Myanmar (2017). Nel 2016 poi le "relazioni speciali" intrattenute con lo Stato di Palestina - definito così ufficialmente dalla Santa Sede successivamente alla risoluzione Onu 67/19 del novembre 2012 che gli ha concesso lo status di osservatore permanente - sono diventati rapporti diplomatici a pieno titolo dopo l'entrata in vigore dell'Accordo globale firmato nel giugno 2015. Tra i Paesi con cui la Santa Sede ha rapporti diplomatici c'è anche la Cina-Taiwan dove però dal 1979 non risiede più un nunzio, ma un semplice "incaricato d'affari ad interim". Nei colloqui in corso con la Cina che hanno portato allo storico Accordo provvisorio e parziale sulle nomine episcopali del settembre 2018, rinnovato per un ulteriore biennio nell'ottobre 2020, non sembra sia stata ancora affrontata la questione dei rapporti diplomatici. Anche se alla Santa Sede non dispiacerebbe poter aprire un ufficio informale a Pechino. Nel frattempo una rappresentanza risiede stabilmente nella cosiddetta "missione di studio" a Hong Kong, che figura formalmente collegata alla nunziatura delle Filippine (nell'Annuario Pontificio viene comunque indicato, in nota, il recapito reale di questa "missione"). La Santa Sede non intrattiene ancora relazioni con dodici Stati, perlopiù asiatici e in buona parte a maggioranza islamica. In otto di questi Paesi non è presente nessun inviato vaticano (Afghanistan, Arabia Saudita, Bhutan, Cina popo-lare, Corea del Nord, Maldive, Oman, Tuvalu). Mentre sono in carica dei delegati apostolici (rappresentanti pontifici presso le comunità cattoliche locali ma non presso i governi) in altri quattro Paesi: Comore, Somalia, Brunei e Laos. Un caso particolare è quello del Vietnam, dove dal 2011 viene nominato un rappresentante vaticano non residenziale, in attesa di installare una nunziatura stabile ad Hanoi. Per quanto riguarda il Kosovo, il cui riconoscimento avverrà quando il suo status internazionale sarà meno controverso, la Santa Sede si è per ora limitata a nominare un delegato apostolico nella persona del nunzio in Slovenia. Negli ultimi anni poi si sono moltiplicate le nomine di "incaricati d'affari" stabilmente residenti in Paesi che non ospitano nunzi. In Africa e Medio Oriente, ma non solo. Ad esempio a Timor Est, in Ciad, Gabon, Malawi, Sud Sudan, e poi a Cipro e negli Emirati arabi uniti. In Giordania è prevista la nomina di un nunzio residente (prima la sede era legata a quella di Baghdad). Attualmente sono una novantina le cancellerie di ambasciate con sede a Roma. I Paesi rimanenti sono rappresentati in genere da diplomatici residenti in altre capitali europee. Con papa Francesco sono diventati residenti gli ambasciatori "non residenti" di Armenia, Belize, Ghana, Palestina, Malaysia e Sud Africa. L'Azerbaigian presto si aggiungerà a questo elenco».

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