La Versione di Banfi

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Salvini ha un figlio immune

alessandrobanfi.substack.com

Salvini ha un figlio immune

Il leader della Lega contrario al vaccino e anche al tampone per il figlio 18enne. Ottima premessa per il decreto sul green pass. Oggi incontro Conte e Draghi, difficile trovino un accordo

Alessandro Banfi
Jul 19, 2021
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Salvini ha un figlio immune

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Come sarà il prossimo decreto sul Green pass, più severo o più morbido? Non ci sono molti margini di discussione visto che presto in tutti i Paesi europei la norma sarà la stessa: se vuoi circolare o consumare devi essere o vaccinato o guarito o devi aver fatto un tampone recente. Ma soprattutto visto il diffondersi della pandemia. Gli ultimi dati sono inequivocabili: il contagio galoppa e anche fra i più giovani . Benché nella maggioranza dei casi la diffusione sia asintomatica. A Palermo c’è un neonato intubato in rianimazione. La campagna vaccinale prosegue spedita: ieri, domenica, sono state fatte 440 mila 240 iniezioni. Restano i nodi dell’infodemia e il pericoloso flirt dei leader della Destra, Salvini e Meloni, con il mondo No Vax. Salvini dice che suo figlio diciottenne non va vaccinato. E neanche “tamponato”. Sempre immune, per definizione.

Grande tensione alla vigilia dell’incontro Conte-Draghi, che ci sarà stamattina a Palazzo Chigi. Letta ieri, quasi in extremis, ha invocato una nuova mediazione sulla giustizia. Facendo irritare il presidente del Consiglio, che non vuole affatto cambiare, rispetto all’accordo stipulato nel Consiglio dei Ministri. La ministra Cartabia, chiamata in causa, si sfila. Per lei la mediazione è finita con gli emendamenti approvati. Certo Conte arriva all’incontro, “carico a pallettoni” (quelli di Travaglio e Bonafede soprattutto). Difficile dire come finirà.

Intanto sul Ddl Zan sta accadendo l’esatto contrario: in questo caso è Renzi che propone dei cambiamenti per l’approvazione ma Letta dice che Italia Viva non è “seria” e la proposta di mediazione non va accettata. Domani si torna in Aula. Bella intervista di Repubblica a Mario Tronti per i suoi 90 anni.

Dall’estero ancora in primo piano la Germania sconvolta dal maltempo con la Merkel che va sui luoghi del disastro. Il Papa è tornato in Vaticano e nel suo primo Angelus da convalescente consiglia di spengere i telefonini in vacanza. Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Giornali ancora molto centrati su green pass e nuove misure del Governo in cantiere. Il Corriere della Sera: «Così si ferma la variante D». Per La Repubblica parte la: Caccia ai non vaccinati. Sono oltre 17 milioni. Il Messaggero avverte: Contagi triplicati nel Lazio. «Pass per turismo e svago».  Mentre Il Giornale vede: Movida a rischio coprifuoco. Il Quotidiano Nazionale: Il super Green Pass spacca il governo. Il Mattino: «Green Pass vero o si richiude». Mentre per La Verità di Belpietro ci sarebbe già: Retromarcia sul Green Pass. Giorgetti: così è pericoloso. Del vertice a Palazzo Chigi si occupano Il Fatto: Conte va da Draghi: soluzioni per salvare 150 mila processi. E La Stampa: Giustizia, scontro finale sulla nuova legge. Di ecologia scrivono Libero: «Frenare il piano verde, o l’Italia salta in aria» e il Domani: Greta Thunberg è nata a Genova. Mentre Il Sole 24 Ore del lunedì presenta schematicamente le nuove imposte: Irpef, forfait e Iva: riforma alla prova in 20 punti chiave.

GREEN PASS, COME SARÀ IN ITALIA

Il Comitato tecnico scientifico sta mettendo a punto la sua relazione per il Governo. Nei prossimi giorni ci sarà il Decreto su green pass e colori. Ecco la cronaca di Sarzanini e Guerzoni per il Corriere.

«Rilasciare il green pass soltanto dopo il completamento del ciclo vaccinale e potenziare la campagna - soprattutto per gli over 60 - anche identificando attraverso il sistema sanitario nazionale chi non ha ancora ricevuto l'immunizzazione. Sono questi i punti strategici del documento che il Comitato tecnico-scientifico consegnerà al governo nelle prossime ore, in vista dell'approvazione del decreto che renderà obbligatoria la certificazione verde per accedere in tutti i luoghi a rischio assembramento. Il verbale messo a punto dopo la riunione di venerdì scorso, che ha esaminato il monitoraggio settimanale, contiene «l'allerta per l'evidente incremento dei casi dovuti alla variante Delta, connotata da maggior contagiosità e capacità d'indurre manifestazioni anche gravi o fatali in soggetti non vaccinati o che hanno ricevuto una sola dose di vaccino» e suggerisce tutte le possibili soluzioni proprio per fermare la risalita della curva epidemiologica. Inserendo tra le priorità «il tracciamento di tutti i casi e il loro sequenziamento» proprio per isolare i positivi e rintracciare i contatti. Un allarme confermato dal bollettino di ieri che registra 3.127 nuovi casi, 3 decessi e un tasso di positività all'1,9%, con un aumento percentuale di 0,6 rispetto al giorno precedente. La cabina di regia del governo che si riunirà entro mercoledì servirà a stilare la lista dei luoghi dove il green pass diventerà obbligatorio. E sembra ormai scontato che oltre a stadi, palestre, eventi, concerti, luoghi dello spettacolo, treni, aerei e navi, l'elenco includerà anche le discoteche con capienza al 50% e i ristoranti al chiuso. Il Cts ha ribadito l'indicazione del 2 luglio: «La certificazione verde va rilasciata solo dopo il quattordicesimo giorno dal completamento del ciclo vaccinale, un test diagnostico o la guarigione infrasemestrale». Gli scienziati prendono a modello quanto accaduto in Spagna, dove la variante si è manifestata «con alcune settimane di anticipo rispetto all'Italia» e ha causato «una significativa ripresa dei ricoveri in terapia intensiva», che il 15 luglio faceva contare ben 798 posti letto occupati. Sottolineano che «la variante Delta - destinata, a breve tempo, a divenire dominante in Italia - è in grado di indurre una sintomatologia grave, con significativi indici di ospedalizzazione e anche di letalità, nei soggetti che hanno più di 60 anni non vaccinati ed anche, sia pure in misura in parte minore, in quelli che hanno ricevuto una sola dose di vaccino». E per questo evidenziano come nell'ultimo mese il numero di over 60 non vaccinati è diminuito di appena 300 mila, passando da 2 milioni e 800 mila persone a 2 milioni e 500 mila persone. Vaccinare il maggior numero di cittadini diventa dunque prioritario e indispensabile e farlo per chi ha più di 60 anni e per chi mostra fragilità. (…)Il governo accoglierà la richiesta delle Regioni e modificherà i parametri per le fasce di rischio in modo da tenere in maggior conto il numero di ricoverati in area medica e terapia intensiva. E dunque ci si muoverà su un doppio binario: lasciare il più possibile l'Italia in bianco, ma tenere sotto controllo il virus con l'obbligo di green pass in tutti i luoghi dove si entra in contatto con estranei. I nuovi indicatori saranno inseriti in un decreto che prevederà sanzioni per chi entra senza certificazione dove è previsto e che prorogherà lo stato di emergenza di almeno tre mesi».

Matteo Bassetti, infettivologo del San Martino di Genova, crede nell’efficacia del green pass. Ecco che cosa dice al Quotidiano Nazionale.

«Basta parlare all'infinito di restrizioni, dobbiamo convivere con questa malattia e pertanto, invece di terrorizzare la gente pensando a un ritorno delle zone gialle in conseguenza dell'aumento dei contagi, togliamo piuttosto le ultime limitazioni a chi ha il Green pass - è la ricetta di Matteo Bassetti, direttore dell'Infettivologia del Policlinico San Martino di Genova, per gestire questa fase ormai cronica della pandemia -. Diamo ai vaccinati, ai guariti e a chi ha un tampone negativo la possibilità di partecipare ai grandi eventi all'aperto, archiviando così i limiti di capienza; di togliere del tutto la mascherina, salvo in alcune circostanze come nei trasporti pubblici affollati; di andare in discoteca e, in prospettiva per l'autunno, di accedere ai ristoranti al chiuso». Professore, gli inglesi indicano la via per tornare alla vita normale? «Il ritorno alla quotidianità antecedente al Covid in verità si avrà solo quando avremo il 100% degli italiani over 12 vaccinati o almeno i 2/3 di loro. Adesso siamo ancora attorno al 60% di cittadini con almeno la prima somministrazione. Io capisco e condivido la scelta di Londra, che ci fa comprendere come non dobbiamo più fissarci sull'incremento dei positivi quanto piuttosto tenere d'occhio l'eventuale aumento dei ricoveri e dei decessi che da quelle parti, come da noi poi, non si sta verificando. Tuttavia al momento, nell'ottica di un progressivo ritorno alla normalità, dobbiamo basarci sul Green pass». Per i vaccinati possiamo già togliere le ultime restrizioni? «Assolutamente sì. Considerando quelli con una prima dose e chi ha sviluppato gli anticorpi, perché guarito dal Covid-19, arriviamo al 67%. Siamo oltre i 2/3 degli over 12». La carta verde come premio, insomma. «In un certo senso sì, ma il via alle restrizioni per i detentori del Green pass in questa fase è funzionale soprattutto, da un lato, a rilanciare una campagna d'immunizzazione che è ferma, facciamo solo seconde dosi ormai, dall'altro, a riportare alle capienze abituali cinema, teatri e stadi». Non ravvisa il pericolo di favorire i contagi, togliendo del tutto le limitazioni anche a chi ha ricevuto solo la prima iniezione? «Una parziale immunizzazione protegge già all'80% dal rischio di ospedalizzazione. E in più la carica virale è davvero bassa. Se anche avremo più persone col raffreddore o poco più, come abbiamo avuto in passato con l'influenza, non è che dobbiamo chiudere il Paese». In caso di focolai, anche chi è vaccinato deve andare in quarantena. Che cosa ne pensa? «È un'assurdità, gli statunitensi almeno da quattro mesi hanno abolito l'isolamento per chi è protetto dal virus». A proposito di vaccinazioni, dopo gli operatori sanitari, è tempo di obbligare anche i docenti del mondo della scuola? «Se non ora quando, mi verrebbe da dire. Siamo a luglio e, sempre che non vogliamo rimettere in Dad gli studenti a settembre, così da garantirgli un altro anno all'insegna del mancato insegnamento, bisogna prevedere adesso una legge che prescriva il dovere d'immunizzarsi in capo agli insegnanti. E non solo». A chi sta pensando? «Agli studenti dai 12 anni in sù, la profilassi funziona. Non perdiamo altro tempo, se non vogliamo ripetere la situazione dello scorso anno con l'aggravante che adesso le armi per difenderci dall'infezione ci sono». 

Nella Versione della Sera di ieri pomeriggio, avevamo scritto dei dodici super influencer No Vax di cui parlava Il Guardian. Oggi ne scrive Repubblica.  

«Una "sporca dozzina" di "influencer" è responsabile del 65 per cento della disinformazione sui vaccini in lingua inglese condivisa sui social. Lo dice il dossier pubblicato a marzo dal Center for Countering Digital Hate, drammaticamente tornato attuale nell'America dove la campagna vaccinale ormai stenta - le dosi non mancano, ma si è riusciti a immunizzare totalmente solo il 49 per cento della popolazione - e la variante Delta fa schizzare del 400 per cento i positivi negli Stati più scettici. E infatti si torna a puntare il dito sui propagatori di fake news. I 12, certo. Insieme ai social che non li silenziano: permettendogli di raggiungere, sfruttando i labirinti della rete, ben 58 milioni di utenti. Complice pure un giro d'affari che vale un miliardo l'anno: fra quanto le piattaforme guadagnano grazie a chi vuol farsi pubblicità fra quel pubblico e quanto spendono gli stessi No Vax per avere più visibilità. Tanto che Joe Biden li ha accusati di complicità: «La disinformazione da voi diffusa uccide». Concetto ribadito pure dal virologo Anthony Fauci: «Se anni fa fossero circolate le false informazioni di oggi, avremmo ancora vaiolo e poliomielite ». Il volto più noto dei dodici è Robert F. Kennedy Jr, nipote dell'ex presidente Jfk, assassinato nel 1963. Il cognome gli ha prima permesso d'imporsi come autorevole ambientalista, poi di pubblicare con successo il libro Thimerosal: Let the Science Speak dove espone la tesi ampiamente contestata dagli studiosi secondo cui nei vaccini c'è un composto mercuriale, il thimerosal, capace di alterare lo sviluppo neurologico dei minori provocando l'autismo. Attivissimo, col Covid ha estremizzato le sue posizioni, diffondendo assurdità su 5G e Bill Gates. C'è poi il guru della medicina alternativa Joseph Mercola, autore di bestseller venduti anche in Italia, a capo di un giro d'affari da 100 milioni di dollari basato sulla vendita di integratori alimentari spacciati ora pure come cura anti-Covid. La Food and Drug Administration gli ha intimato d'interromperne la pubblicità: ma lui non si ferma, anzi, è il più generoso donatore delle organizzazioni No Vax. Come pure i Bollinger, Ty e la moglie Charlene: ex istruttori di body building, hanno messo in piedi un impero vendendo preparati anti- cancro, spacciati come alternativa alla chemioterapia. E ora sostengono di avere pure una cura per il Covid. Impegnati politicamente, finanziano Donald Trump e i cospirazionisti di QAnon. Molti dei No Vax più influenti sono osteopati e naturopati: a partire dalla veterana Sherri Tenpenny, nemica dei vaccini fin dal 1986. Rashid Butter è invece un sostenitore della "terapia chelante", a base di composti capaci di legarsi a metalli pesanti, spacciata come cura universale. Erin Elizabeth (fra le poche bannate da Facebook) ha sparso il falso mito dell'infertilità provocata dal siero. Sayer Ji è il fondatore di un portale di medicina alternativa. Christiane Nortrup sostiene che fare pilates permette di non ammalarsi. Ben Tapper è un chiropratico. E Judy Mikovits è la screditata autrice di uno studio sulla fatica cronica, protagonista del video virale Pandemic, dove sostiene la tesi del virus scatenato per profitto. A prendere di mira la comunità afroamericana ci pensa invece Rizza Islam, esponente di quella Nation of Islam di cui fecero brevemente parte pure Malcom X e Mohammed Alì, oggi considerata "organizzazione di odio" per i pregiudizi razziali teorizzati. Secondo Rizza (e un altro influencer Kevin Jenkins) il vaccino diffonde l'autismo fra i neri. Ciarlatani, avventurieri, imprenditori dell'ignoranza, affamati di denaro. Eccola la "sporca dozzina" che si cela dietro le paure di molti».

Massimiliano Panarari sulla Stampa sottolinea l’attrazione della nostra Destra proprio per i No Vax. Un flirt pericoloso che ha spinto Giorgia Meloni a cancellare un suo post a favore della scientificità dei vaccini.

«Uno spettro si aggira per l'Italia. Sarebbe, a detta di Matteo Salvini, quello della «siringa» o del «tampone», che non vuole vedere «all'inseguimento» del figlio diciottenne. E infatti lui, uno dei politici più inclini a documentare comunicativamente ogni momento dell'esistenza a fini di campagna elettorale, non ha ancora fatto sapere la data della sua inoculazione, finendo più volte in contraddizione. Giorgia Meloni ha fatto ricorso all'incredibile argomentazione propagandistica del «liberalismo no vax» quale sedicente rispetto dei diritti umani. E, per restare dalle parti di Fratelli d'Italia, il suo capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida (il quale, pure, ha ricevuto la dose di Johnson, e aveva contratto in passato il Covid-19) si è pronunciato contro la vaccinazione degli under 40. E se ritorniamo nei prati (un tempo di Pontida) della Lega ecco Claudio Borghi apparire come il prototipo della sostituzione dell'issue no euro con quella no vax (anche se la prima non è affatto scomparsa). Il fuoco di fila di queste giornate conferma il fascino indiscreto dell'antivaccinismo a destra. E, dopo i conflitti della settimana passata (dalla Rai ai veti reciproci per le amministrative), evidenzia come la durissima competizione tra Meloni e Salvini si sia estesa anche a questo terreno di consenso. Va detto, a proposito delle paure evocate da Salvini, che il vero fantasma - questo, invece, molto concreto - è quello dell'arcipelago no-vax, che costituisce un grosso problema per la salute pubblica e un ostacolo serio sul piano della stabilizzazione della situazione sanitaria, come testimoniano i dati sulla ripresa dei contagi».

OGGI IL FACCIA A FACCIA CONTE-DRAGHI

Riflettori puntati sull’incontro di stamattina fra Mario Draghi e il suo predecessore Giuseppe Conte. Come prima di un match di pugilato, vediamo che cosa dicono dai due “corner”. Dal quello filo governativo: Francesco Verderami per il Corriere della Sera prevede che Draghi terrà duro ed è anzi molto irritato per l’appello di Enrico Letta in favore di una nuova mediazione della Cartabia.

«Draghi nelle trattative cerca di ridurre un passo alla volta le distanze dall'interlocutore, anche quello più lontano, se del caso sfruttando una battuta. Conte nei colloqui invece è avvolgente e convenevole, spesso prolisso, così da prendere anche per stanchezza chi gli sta davanti. Insomma oggi la forma sarà salva, ma nella sostanza il faccia a faccia tra il premier e l'ex premier si preannuncia un muro contro muretto. D'altronde lo stesso leader del M5S riconosce una certa disparità nei rapporti di forza politici, se è vero che alla vigilia ha definito il faccia a faccia come una sorta di duello «tra Davide e Golia». Da una parte Conte, deciso a rappresentare con parole «schiette» l'agenda del Movimento che non vuol vedere cancellate le sue riforme. Dall'altra Draghi, che considera un atto dovuto ricevere il capo di un partito della sua maggioranza e già immagina il tenore revanscista del discorso. Sbrigate le formalità, arriverà il momento di decidere le regole d'ingaggio. E i due sulla giustizia hanno già deciso. Nel senso che l'ex premier giudica il testo della Cartabia più o meno un colpo di spugna, visto che «centocinquantamila processi rischiano di svanire nel nulla». Mentre il premier la pensa esattamente al contrario, ma si limiterà a prendere atto di quanto ascoltato perché ritiene che il modo migliore per portare a casa il provvedimento sia restare fermi: ha dalla sua il deliberato del Consiglio, dove i ministri del M5S hanno votato l'impianto proposto dalla Guardasigilli. E chissà se farà notare all'ospite che, criticando la riforma, di fatto sta sfiduciando i suoi rappresentanti al governo. È certo che Draghi non accetterà di mediare ancora sul testo e sulla tempistica parlamentare per la sua approvazione. Mira a far votare la riforma dalla Camera entro agosto e dal Senato alla ripresa, dopo le ferie. Ed è spiacevolmente sorpreso per il fatto che il leader del Pd abbia disatteso la linea concordata nel recente colloquio a Palazzo Chigi. Il Nazareno avrà pure la necessità di non vedere lacerato ciò che resta del rapporto con Conte e il M5S, ma chiedere alla Cartabia di cercare un nuovo compromesso è ritenuto un percorso improponibile. Perché la stessa Guardasigilli considera la riforma il frutto di una mediazione. Il premier dà per acquisito il punto di equilibrio e non intende cercare un nuovo baricentro, altrimenti salterebbe il disarmo bilaterale concordato con gli altri partiti, pronti a rispondere con i loro emendamenti agli emendamenti dei grillini. In quel caso «più che la ricerca di una mediazione - avvisa il centrista Lupi - sarebbe un Vietnam». Per evitarlo Draghi già medita di ricorrere alla fiducia, perché a suo dire questo è «il momento delicato delle decisioni», e ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità. Salvini gli ha assicurato che la Lega sarà «granitica». Renzi gli ha fatto sapere cosa farà «se Conte farà scherzi». E da un pezzo del Pd ha ricevuto garanzie che al dunque i dem si allineeranno alle scelte di governo, anche perché nel partito ieri montava il malcontento per atteggiamenti che «fatichiamo a capire». Dinnanzi a questo muro, il muretto sarebbe destinato a cedere, se Conte arrivasse davvero allo show down con il suo successore a Palazzo Chigi. L'ex premier sa di avere (quasi) tutti contro, compresi molti di quelli che nel Movimento hanno salutato l'avvento della sua guida. Andreottianamente pensa ciò che deve pensare di Grillo e pure di Di Maio, eppure nelle ore di vigilia aveva voglia di scherzare con quanti al telefono gli chiedevano come si sarebbe mosso: «Vedrete... E comunque dovreste essere contenti. Senza di me non avreste un minimo di divertimento. Solo calma piatta». Letta scommette che oggi tra Conte e Draghi «si troverà una soluzione positiva», ma ieri i due restavano su posizioni contrapposte. Con il primo che non accetta nemmeno la tempistica di approvazione della riforma, e il secondo che non vuole cambiare la sua agenda, anzi preannuncia che agosto sarà un mese impegnativo perché ci sono molti dossier da chiudere. È il momento di «Davide e Golia». Ma se si arrivasse allo scontro, Conte sa che l'epilogo non sarebbe lo stesso dell'episodio biblico».

Dal corner del Fatto, ecco invece un profluvio di opinioni e numeri per preparare il match dall’altra parte. Obiettivo: minare la riforma Cartabia, a tutti i costi.

«Alle 11, a palazzo Chigi, più che da leader di partito ha intenzione di presentarsi come giurista. Per convincere "dal punto di vista tecnico" e non "identitario" che la riforma Cartabia, così com' è, non regge. Nel faccia a faccia con Mario Draghi in programma per questa mattina, insomma, Giuseppe Conte insisterà soprattutto sulla questione dell 'improcedibilità - le nuove norme prevedono che, se entro due anni l'appello non si chiude, il processo salta, ndr - che poi è l'aspetto su cui si stanno concentrando le principali critiche dei magistrati italiani. A cominciare da quelle del loro presidente, Giuseppe Santalucia, che in audizione alla Camera, tre giorni fa è arrivato a definire la nuova prescrizione uno "strumento eliminatorio dei processi", al punto che - secondo i calcoli dell 'Anm - la riforma farebbe andare al macero 150 mila procedimenti in corso. Sono state proprio le audizioni dei magistrati ad aver convinto anche il Pd a far arrivare a Draghi tutte le perplessità che la riforma lascia senza risposta. Non è un caso che ieri, il segretario dem Enrico Letta, su Repubblica abbia aperto a degli "aggiustamenti" e abbia sottolineato come sia un"dovere" del Parlamento intervenire per migliorare il pacchetto di misure votato dal governo. L'irritazione per i tempi strettissimi con cui la Camera è chiamata ad esaminare il provvedimento (che dovrebbe andare in Aula già questa settimana) è ormai diffusa e i 5 Stelle, a questo punto, sperano di poter fare asse con Pd e Leu per riportare Draghi a più miti consigli: "Si troveranno le giuste soluzioni", ha ribadito ieri sera Letta alla festa dell'Unità di Roma. Non sarà esattamente una passeggiata, visto che il premier, sul tema, è piuttosto intransigente. "Prendere o lasciare", aveva già detto ai ministri grillini che ventilavano l'astensione in Cdm, salvo poi decidersi a votare sì dopo i "consigli" di Beppe Grillo. Ma ora Conte ha deciso di ufficializzare proprio sulla questione della giustizia la fine della "diarchia" interna al Movimento. Lui la riforma così non la vota, ripete ai suoi. E conta di far leva sui risvolti tecnici della faccenda, ovvero sui suoi trascorsi professionali, per rompere le rigidità del premier: "Io sono consapevole che siamo in ''una nuova maggioranza e che non possiamo essere ideologici e arroccarci sulla difesa della legge Bonafede - ragiona l'avvocato -. Ma l'importante è che si trovi un modo, e si può trovare, per evitare che i processi vadano in fumo". Porterà le sue proposte, Conte. E se Draghi dovesse tirare dritto e magari decidere di mettere la fiducia sul provvedimento, sarà lui a prendersi la responsabilità di questo gesto, è il senso delle riflessioni che l'ex premier sta facendo in queste ore. Conte ripete ai suoi - a cominciare dai ministri - che non ha intenzione di far cadere il governo, anche perché gli serve tempo per ricostruire il Movimento provato dalle lunghissime fibrillazioni interne. Ma vuole (e deve) ottenere qualcosa dal confronto con Draghi. Altrimenti, interpellerà i gruppi parlamentari e la base del Movimento. Cioè gli iscritti, che cinque mesi fa votarono in maggioranza Sì all'ingresso nel governo, ponendo tre condizioni "imprescindibili": il "Superministero della Transizione ecologica", la difesa del reddito di cittadinanza e l'indisponibilità a cambiare la riforma della prescrizione così com' era stata concordata dai giallorosa (quella nata dall'"accordo precedentemente raggiunto con Pd e LeU, oltre il quale il M5S non è disposto ad andare"). A Draghi, stamattina, Conte proverà a spiegare che - col senno di poi - la corda si è già tirata parecchio».

Filippo Ceccarelli per La Repubblica prova a tracciare un ritratto parallelo dei due:

«È faticoso e insieme facilissimo mettere a confronto Giuseppe Conte e Mario Draghi che oggi si vedono. È faticoso perché davvero non hanno nulla in comune, né l'età, né gli studi, né il carattere, tanto meno le modalità con cui sono approdati a Palazzo Chigi. Talmente diverso è il peso specifico dei due che anche solo paragonarli significa fare un torto a Draghi e ridicolizzare oltre il dovuto l'altro, Conte. Quest' ultimo ieri ha fatto il suo bel video di taglio estivo, in camicia bianca e sfondo libreria, ciuffo mobile e accentuata gesticolazione, retorica in crescendo, dal "vento" che spira ancora sui cinque stelle a una impressionante auto-apologia di se stesso. Ma già al minuto 5 - oltre nove è durata la concione - veniva da chiedersi cosa diavolo potrebbe mai pensare Draghi della Carta dei Valori e dei Principi o dello Statuto negoziato con l'Elevato Garante, dei forum tematici e perfino del neo-istituendo Comitato Nazionale Progetti da mettere al lavoro quando già i supertecnici di SuperMario, affiancati da altrettanto superesperti di qualche agenzia internazionale, avranno ben cominciato a darci sotto con il Pnrr. Conte, d'altra parte, appariva molto soddisfatto anche della imminente Scuola di formazione ad "aggiornamento permanente". Però anche in questo caso il dubbio era che cosa detta scuola potrà mai insegnare ai post-grillini a proposito dei poteri forti e delle ragioni per cui almeno tre o quattro volte, negli ultimi trent' anni, il sistema politico italiano ha avuto bisogno di essere raddrizzato da qualche governo tecnico - altro che le riforme da cancellare o meno! E insomma, non c'è confronto e al tempo stesso ce n'è troppo. Conte parla, parla, parla; Draghi più sta zitto e più è contento. Conte è creatura politica notturna, come molti altri più che disponibile al rinvio, al ritardo, alle soluzioni dell'ultimissima ora; Draghi, il contrario esatto. Sempre come stile di governo, Conte tende a favorire la proliferazione di istanze di secondo grado dai poteri vaghi, comitati, commissioni, gruppi di lavoro che funzionano come camere di compensazione e dispositivi per guadagnare tempo; Draghi non delega né guadagna tempo, piuttosto accentra, sceglie di persona le persone o le fa scegliere da agenzie di cacciatori di teste con base in Svizzera. Il gioco può estendersi su tanti altri piani. Conte è arrivato non si è ancora capito bene da dove e perché; il fatto che poteva fare molto peggio di come ha governato suona senz' altro a suo merito, ma è anche lui un sintomo di un'anomalia. A questa stessa anomalia Draghi rappresenta la risposta alta, perché a suo modo viene da lontano e tutti lo conoscono, ma forse più all'estero che qui in Italia. Conte ha dietro di sé Casalino, figura chiave oggi un po', seppur studiatamente sotto tono; Draghi è molto probabile che fino a qualche tempo fa non sapesse nemmeno chi fosse, 'sto Casalino, e forse ancora oggi ignora il fenomeno social delle "Bimbe di Conte" con i loro gadget in vendita sulla rete. I riferimenti dell'attuale presidente del Consiglio hanno semmai a che fare con le esperienze nelle università americane, la Banca d'Italia, il mondo del Tesoro, i centri della finanza e quindi con le fredde necessità dei numeri e dei programmi. Infine il potere: Conte ci ha preso gusto, e lo si vede, altroché; mentre Draghi forse pure, ma certo non vuole, non può e non deve darlo a vedere. Conte in definitiva è molto italiano, nel senso che intendeva Montanelli ammiccando: «Fra noi italiani ci conosciamo». Senza essere anti-italiano, Draghi è invece molto internazionale. Di qui all'incompatibilità assoluta ce ne corre, ma poi nemmeno troppo».

DDL ZAN, LETTA DICE NO A RENZI

Proprio mentre invoca la mediazione sulla giustizia, Letta la esclude per le modifiche al Ddl Zan. Ieri era stato Matteo Renzi a rilanciarle. Oggi Fabio Martini su La Stampa fa capire che c’è un secco no.

«Sul far della sera Enrico Letta lascia il "Cremlino", il caseggiato al quartiere Testaccio dove abita e dove hanno abitato fior di intellettuali e dirigenti comunisti, si dirige verso la Festa dell'Unità di Roma e le sue parole anticipano il Pd con l'elmetto dei prossimi mesi. Il "lodo" Renzi sul ddl Zan? «Ma davvero dobbiamo fidarci di Salvini? Noi ci fidiamo di chi ha una faccia sola». Troppo rigido il Pd? «Se non lo fossimo stati, non saremmo arrivati sin qui: all'approvazione alla Camera di un testo che sarà pure perfettibile ma la legge perfetta non esiste». Quindi niente mediazioni neanche al minimo? «Discutiamo con chi è serio». Di fatto Letta soffoca sul nascere il "lodo Renzi", la proposta che l'ex presidente del Consiglio ha lanciato in un'intervista a La Stampa: sul ddl Zan concordiamo tre modifiche e le blindiamo attraverso un cronoprogramma Senato-Camera che consenta di approvare il testo «il prima possibile». Certo, Letta non ci sta perché non si fida di Renzi e di Salvini. Ma soprattutto - ecco la novità di "sistema" - il leader dem in qualche modo scommette sulla rottura: ha programmato, in vista delle decisive elezioni amministrative di ottobre, un Pd di lotta e in questo contesto il "ddl Zan", il disegno di legge anti-discriminazioni, è diventato l'icona, la battaglia-simbolo del "nuovo" Pd. Di un Pd intransigente sui valori, che punta a recuperare il voto dei giovani e delle donne - e dunque il "lodo" proposto da Matteo Renzi per provare ad uscire dal muro contro muro, va demolito prima che faccia proseliti. O produca fumo negli occhi, almeno secondo la lettura del Pd. Il diffidente Letta è convinto - ma non lo può dire - che Renzi abbia un patto strategico con Salvini e che tra gli "scalpi" ci sia anche il ddl Zan. Risultato: il muro contro muro produrrà questa settimana un inevitabile rinvio a settembre del disegno di legge. E a quel punto - ecco quel che i due fronti non ammettono pubblicamente - il ddl Zan entrerà a vele spiegate nella importante tornata elettorale di autunno, quando si voterà a Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli. Con Letta e Salvini che diventeranno gli alfieri di due schieramenti: il Pd sarà profeta della legge anti-discriminazioni, la Lega di una legge «fatta bene». Con Renzi che incolperà il Pd di aver fatto saltare tutto pur di non cercare la mediazione. Certo, la partita del disegno di legge contro omofobia e transfobia vedrà consumarsi un passaggio dirimente martedì, quando saranno depositati gli emendamenti di tutti i gruppi parlamentari. In particolare sui tre punti caldi - identità di genere, tutela della libertà di tutte le opinioni, Giornata nazionale contro tutti gli odi a sfondo sessuale - il tenore degli emendamenti consentirà di misurarne la duttilità e dunque la volontà di approdare ad un accordo da parte della Lega e di Italia Viva, che si propone mediatrice tra gli opposti. Se le proposte di modifica saranno tutte spigolose ed esplicitamente "chiuse" alla mediazione, si aprirà la strada allo stallo, perché l'alto numero di emendamenti leghisti di fatto imporrà il rinvio del ddl Zan a settembre. Ma davanti ad un articolato più flessibile, tutto potrebbe riaprirsi. Per ora nessuno ci crede. Per una ragione che va oltre le apparenze. Enrico Letta sta cominciando a trovare segnali incoraggianti per la sua linea intransigente, quella che posiziona i Dem secondo uno schema bideniano: «riformisti nei metodi e radicali nei contenuti». E dunque a "tutta" su Zan, tassa sulle grandi eredità. Certo, si tratta di sondaggi - oramai il nuovo mantra per politici e media - ma in questo caso si tratta di sondaggi ben fatti, perché riflettono orientamenti testati nel corso dei mesi e che finiscono per esprimere trend. Secondo l'istituto che lavora per il Pd, nel mese di giugno i Dem si attestano al secondo posto (dietro la Lega) ma soprattutto riguadagnano, con una certa evidenza, consensi tra giovani e donne. Certo, si tratta di piccoli numeri, segnali che hanno bisogno di tempo, per potersi trasformare in tendenze e percentuali. Ma per Letta la scommessa è tracciata. Secondo un'analisi confrontata con interlocutori non solo italiani e non solo politici: nelle società post-pandemia si imporranno risposte precise e alla sinistra si richiederà coerenza con i propri valori».

TRONTI, UN FILOSOFO IN MONASTERO

A proposito di che cosa debba essere la sinistra e su che cosa mobilitare i suoi elettori, Concetto Vecchio intervista per Repubblica Mario Tronti per i suoi 90 anni. È l’occasione di un bilancio non banale.

«Mario Tronti, dove si trova adesso?«Sono in ritiro spirituale, nel monastero di Poppi, nel Casentino, retto dalle monache camaldolesi. Mercoledì compio 90 anni e questo passaggio bisogna farlo bene, sentirlo interiormente». Che si fa in un eremo? «La giornata è scandita dalle liturgie. Alle 7,30 ci sono le lodi nella cappella, alle 12,30 l’ora media, alle 18,30 i vespri. Per il resto scrivo, lavoro. Sto leggendo La morte di Virgilio di Hermann Broch». Sente il bisogno di solitudine? «L'eremo e la metropoli sono due polarità molto conflittuali, la solitudine da una parte, la massa dall'altra: bisogna saperli abitare tutti e due». E' credente? «Né credente, né non credente. Nemmeno praticante. Ma da uomo di battaglia, di conflitto, ho bisogno ogni tanto di contemplazione. La mia massima: essere in pace con sé stessi e in guerra col mondo». Non è una contraddizione per un comunista finire in un eremo? «No, anche il comunismo è una fede che ha una matrice comune con il cristianesimo. La dimensione del credere è indispensabile. E' stato un errore tragico dei Paesi socialisti reprimerla». Novant'anni pesano? «Sono un traguardo. Come disse Jünger a Schmitt: "La vecchiaia è finita, adesso comincia l'età dei patriarchi». In che famiglia è cresciuto? «Mamma e papà lavoravano ai mercati generali di Roma. Li sentivo uscire di casa alle quattro del mattino, col buio, in certe albe gelide, mentre io me ne stavo nel letto caldo. La vita che vedevo fare ai miei mi procurò una prima rivolta». Dove abitavate? «All'Ostiense, tra la Garbatella e Testaccio, una periferia urbana molto civile, solidale. Papà era un mangiapreti. Da vecchio comunista non volle mai essere proprietario di una casa. Mamma al contrario cattolicissima: ma poi era lei a comprargli L'Unità in edicola. Questo contrasto tra loro io poi l'ho ereditato». Non era scontato che lei diventasse un filosofo. «A casa mia non c'erano libri. In quinta elementare il maestro prese da parte mia madre e le disse: "Lo faccia studiare". C'era il fascismo, e mio padre, pur di non mandarmi in una scuola pubblica, mi fece fare le medie al Pio IX sull'Aventino, dai preti». Che ricordi ha della guerra? «Traumatici. Il nostro palazzo venne colpito da un bombardamento, nel luglio del 1943. Per fortuna eravamo sfollati in Umbria. Per anni fui perseguitato dall'urlo delle sirene, dal rombo degli aeroplani». Perché scelse di studiare filosofia? «Fu il mio professore d'italiano a consigliarmelo. Lo annunciai ai miei. Mi guardarono interrogativi: "Tu sai quello che devi fare", mi disse mia madre. Mi laureai con una tesi sul giovane Marx, relatore Ugo Spirito». Com'era militare nel Pci nel Dopoguerra? «Ero segretario della sezione universitaria, quando ci furono i fatti di Ungheria. Facemmo una lettera di solidarietà con gli insorti, firmata da centouno intellettuali, tra cui Natalino Sapegno, Alberto Asor Rosa, Renzo De Felice, Lucio Colletti. La portammo all'Unità, chiedendo che fosse pubblicata. Ci ricevette Maurizio Ferrara, il padre di Giuliano: "Cari compagni, voi avete sbagliato partito". La lettera non uscì». Ha vissuto l'epopea della ricostruzione. «Sì, ma la mia generazione, nata negli anni Trenta, si è affacciata alla vita adulta quando tutto era stato fatto: la Resistenza, la nascita della Repubblica, le grandi ideologie si erano formate. Non rimaneva più granché da fare. Mi è sempre rimasta una nostalgia acuta per una storia che non ho vissuto». Avrebbe voluto nascere prima? «Sì, viviamo in un tempo di passioni spente, dentro una quotidianità deludente, che si ripete, con un ceto politico di basso livello, di nessun pensiero. E quindi mi prende malinconia, del resto ho appeso alla parete del mio studio la Melencolia di Albrecht Dürer. Forse avrei dovuto fare più politica e meno pensiero. E' la mia spina nella carne». Come si definirebbe politicamente? «Un rivoluzionario conservatore. Una formula che usò anche Enrico Berlinguer». E che vuol dire? «La rivoluzione non è contro la tradizione, è essa stessa tradizione. Ho sempre combattuto lo storicismo, l'idea che la storia deve andare sempre avanti. Non è così. Dagli anni Ottanta la storia è andata indietro. Abbiamo vissuto un’età di restaurazione. Mi è cara la frase di Togliatti, secondo cui "noi veniamo da lontano e andiamo molto lontano». Oggi non è più così? «Oggi i progressisti vengono da vicino e vanno molto vicino». Da dove dovrebbe ripartire la sinistra? «Dal lavoro. Il mondo del lavoro c'è ancora e chiede soltanto di essere organizzato e orientato. Ma per farlo serve una grande soggettività politica che non scorgo. E infatti gli operai votano per la Lega, e i sottoproletari per la destra. E alla sinistra sono rimasti i voti dei benpensanti, dei benestanti». La sinistra pensa troppo ai diritti e poco alla questione sociale? «Si può dire anche così. Vorrei una sinistra che partisse dai diritti sociali e arrivasse ai diritti individuali, viceversa ci non arriverai mai. La sinistra ha smesso di parlare alla sua parte di società, agli esclusi». Lei vive in un caseggiato popolare al Laurentino 38. «E' un palazzo enorme, di 54 appartamenti. E mi ci trovo benissimo. Mentre mi trovo a disagio in una sala di concerti. Amo profondamente la musica, scrivo sempre con la musica classica in sottofondo, ma quando vado a teatro sento che siamo dei privilegiati». Renato Zero è suo nipote? «E' il figlio di mia cugina. Sua nonna, Renata, era la sorella di mio padre. Gli piacciono gli gnocchi col sugo di castrato che cucina mia moglie. E' un commensale affascinante e ha una vena anarchica che a me manca. Per lui io sono lo zio comunista». Lei è passato alla storia per un libro che nel Sessantotto fece epoca. «Operai e capitale. Uscì per Einaudi nel 1966 ed ebbe un grande successo. Norberto Bobbio lo bocciò, salvo pentirsene. Fornì la base ideologica a due movimenti ai quali io non ho mai appartenuto, Potere operaio e Lotta continua». E perché? «Perché io non sono mai entrato in un gruppo minoritario. Si sta sempre con la forza maggiore del movimento operaio, e quella forza era il Pci. Toni Negri, con cui fondammo la rivista Classe operaia, insieme a Massimo Cacciari e Alberto Asor Rosa, mi rinfacciò di avere abbandonato la causa. Non è vero. Sono sempre stato me stesso, fedele agli ideali di allora». Roma è peggiorata? «Sì, ma è una città che non potrei mai lasciare. Mi piace la plebe romana, parlo volentieri il romanesco. E ho sempre i sonetti del Belli sul comodino. Adoro i tramonti nelle sere d'estate, i vicoli di Trastevere, le piazze di Testaccio, le villette della Garbatella». E' felice di com'è andata la sua vita privata? «Ho una buona famiglia. Due figli e due nipoti. Ho condotto una vita molto regolare. Con mia moglie ci siamo sposati nel 1968». Cosa ha capito della vita? «Non è una passeggiata al chiaro di luna. (Ride). E' un percorso a ostacoli, che bisogna superare con molta forza, molta decisione. Sono felice di non avere sofferto né di depressioni né di nevrosi. Ma ho sempre avuto una visione tragica della storia umana». Per vivere bene bisogna avere il senso del tragico? «Sì, ne sono convinto, ma senza farsene travolgere. Ci sono contraddizioni nelle nostre vite che non si possono superare. Tra tesi e antitesi non c' è sintesi. E' così, e bisogna accettarlo». La morte la spaventa? «No, l'attendo con serenità. Ho vissuto abbastanza. Spero tuttavia che sia un passaggio facile. Per dirla con Montaigne confido che la fine mi colga mentre sto coltivando le mie rape nell'orto». 

LA MERKEL SUL LUOGO DELLA CATASTROFE

Cronache estere ancora dominate dal bilancio della catastrofica ondata di maltempo in Germania. Paolo Valentino sul Corriere della Sera.

«È il giorno di Angela Merkel. Tocca alla cancelliera portare conforto e annunciare aiuti d'emergenza immediati alle popolazioni renane colpite dalla più grave catastrofe naturale degli ultimi 60 anni in Germania. Lo fa con la sobrietà e i toni dimessi che sono la sua cifra, il giorno dopo la clamorosa gaffe di Armin Laschet, l'uomo che ambisce a succederle, colto in una risata irrefrenabile, proprio mentre il presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier, a pochi metri da lui, esprimeva tristezza e dolore davanti alle telecamere. Ieri Laschet si è di nuovo scusato per il suo atteggiamento, che ha definito «inappropriato», ma bisognerà aspettare qualche giorno per capire quale impatto l'infortunio avrà sulla campagna elettorale del candidato della Cdu-Csu. «Sono venuta per farmi un quadro concreto di questa situazione sinistra e surreale», ha detto la cancelliera arrivando a Schuld, nel Palatinato, il piccolo villaggio diventato simbolo della catastrofe. «La lingua tedesca non ha parole sufficienti per descrivere la devastazione che si è consumata in questa bellissima regione», ha aggiunto Merkel, che già per mercoledì ha promesso un programma federale, articolato in tre fasi: aiuti immediati alle famiglie e all'economia, interventi di medio periodo e piano di ricostruzione delle infrastrutture distrutte, strade, ponti, dighe e case. Secondo il ministro delle Finanze Olaf Scholz, il primo pacchetto sarà intorno ai trecento milioni di euro. Ma per il programma di ricostruzione, sulla base delle prime valutazioni, Scholz ha già anticipato che gli investimenti dovranno essere «nell'ordine di miliardi di euro». Il ministro dell'Economia, Peter Altmaier, ha proposto di offrire un aiuto immediato di 10 mila euro alle imprese renane danneggiate dal disastro. La cancelliera, che era accompagnata dalla premier del Land, la socialdemocratica Malu Dreyer, ha parlato anche dei cambiamenti climatici, considerati all'origine di eventi meteorologici sempre più estremi e distruttivi: «Le operazioni di soccorso hanno la priorità - ha detto Merkel -, ma vediamo con quale violenza può agire la natura. La Germania è un Paese forte e ci riprenderemo in breve. Ma dobbiamo diventare più rapidi e decisi degli ultimi anni nella lotta contro il riscaldamento del clima. Occorre una politica che tenga più conto di questo fattore». Il bilancio di morte della tragedia continua a crescere. Mentre proseguono le operazioni di ricerca degli oltre 1000 dispersi, le vittime nel Palatinato e nel Nord Reno-Vestfalia hanno già superato quota 157, 188 in tutta Europa». 

ALCUNI PAESI SPIANO OPPOSITORI E GIORNALISTI

Un software ideato in Israele oggi sarebbe usato da molti governi, compreso quello ungherese, che è in Europa, per spiare giornalisti e oppositori. Stefano Montefiori per il Corriere.

«Alcuni Paesi usano il software Pegasus prodotto dalla società israeliana NSO Group nell'ambito della lotta contro il terrorismo. E questo lo si sapeva. Talvolta il ricorso a Pegasus avviene al di fuori di questo contesto, e anche questo era conosciuto. Le novità - secondo quanto sostengono Le Monde e altri 15 giornali legati alle ong Forbidden Stories e Amnesty International - sono essenzialmente due: 1) a usare in modo illegittimo il software Pegasus sono anche democrazie come Messico, India e l'Ungheria di Viktor Orbán; 2) queste violazioni non sono occasionali e sporadiche ma sistematiche e su larga scala. Potrebbe essere il caso di spionaggio digitale più grave dal 2013, quando Edward Snowden rivelò le pratiche illecite e globali dell'agenzia governativa americana Nsa. Stavolta le rivelazioni riguardano i governi di Messico, India, Marocco, Indonesia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kazakistan, Azerbaigian, Togo, Ruanda e Ungheria, che avrebbero messo sotto controllo 50 mila numeri telefonici tra i quali quelli di circa 180 giornalisti (appartenenti per esempio a Financial Times, CNN, New York Times, Economist, Associated Press e Reuters ), oltre alle comunicazioni di avvocati militanti per i diritti umani, diplomatici, medici, campioni dello sport, e uomini politici tra i quali ministri e 13 capi di Stato o di governo (dei quali tre europei). Tra i Paesi più attivi c'è il Messico, che ha usato il sistema Pegasus per controllare 15 mila numeri di telefoni tra i quali quello di Cecilio Pineda, giornalista assassinato nel 2017. L'India ha spiato una trentina di giornalisti che indagavano su gruppi industriali vicini al premier Narendra Modi e su un'ipotesi di corruzione che riguarda la vendita all'India degli aerei militari francesi Rafale. L'Arabia Saudita ha fatto ricorso a Pegasus per spiare i famigliari del giornalista Jamal Khashoggi fatto a pezzi nel consolato di Istanbul il 2 ottobre 2018, e Le Monde ipotizza che tra le ragioni all'origine dello spettacolare avvicinamento diplomatico tra Israele da una parte e Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti dall'altra ci sia anche la messa a disposizione da parte di Gerusalemme del software Pegasus. Lo spionaggio illecito ai danni di propri concittadini riguarda anche un Paese membro dell'Unione europea, l'Ungheria: grazie a Pegasus il governo di Orbán ha messo sotto controllo i numeri di dieci avvocati impegnati nella difesa dei diritti umani, le comunicazioni di Zoltan Varga che è a capo di un gruppo di media ostili all'esecutivo e due giornalisti di Direkt36 , una testata investigativa online di Budapest. La Francia non ricorre a Pegasus ma molti cittadini francesi ne fanno le spese perché spiati dal Marocco: dal fondatore del giornale online Mediapart , Edwy Plenel, che in passato ha sostenuto il processo di democratizzazione nel Paese nordafricano, a colleghi delle reti France 2, France 24, RFI, e all'opinionista anti-islam e possibile candidato di estrema destra alle presidenziali francesi del 2022, Eric Zemmour. NSO Group parla di «false accuse», «teorie non provate», «informazioni prive di qualsiasi base fattuale», e assicura di continuare a indagare sulle «denunce credibili» di uso illecito del suo software, «come abbiamo già fatto in passato». Gli autori dell'inchiesta promettono nuove rivelazioni distribuite lungo tutta la settimana».

IL PAPA: PER RIPOSARE SPENGERE I TELEFONINI

A proposito di telefonini, nel primo Angelus dopo la degenza in ospedale, il Papa ha parlato del riposo in vacanza e ha suggerito di spengere i cellulari.

«Nel primo Angelus della domenica in piazza San Pietro dopo l'intervento al colon subito due settimane fa al Policlinico Gemelli, Papa Francesco si mostra allegro e parla dell'importanza del riposo, non solo quello «fisico», ma anche «del cuore». «Abbiamo bisogno di una ecologia del cuore, che si compone di riposo, contemplazione e compassione. Approfittiamo del tempo estivo per questo», dice. Pur non menzionando direttamente la propria convalescenza, il Pontefice sottolinea la necessità di prendersi una pausa, raccomandando «contemplazione e compassione» e sottolineando l'importanza di approfittare delle vacanze soprattutto per abbandonare la frenesia. E lasciare i cellulari. «Non basta staccare la spina - esorta chi lo ascolta - occorre riposare davvero. E per farlo, bisogna ritornare al cuore delle cose: fermarsi, stare in silenzio, pregare, per non passare dalle corse del lavoro a quelle delle ferie. Gesù non si sottraeva ai bisogni della folla, ma ogni giorno, prima di ogni cosa, si ritirava in preghiera, in silenzio, nell'intimità con il Padre». Bergoglio invita i fedeli a riposarsi un po' e «a guardarsi dall'efficientismo». «Fermiamo la corsa frenetica che detta le nostre agende - dice Papa Francesco dalla sua finestra - impariamo a sostare, a spegnere il telefonino per guardare negli occhi le persone, a coltivare il silenzio, a contemplare la natura, a rigenerarci nel dialogo con Dio». Parlando invece dei temi di attualità, il Pontefice accenna alla situazione di Cuba mostrando la sua vicinanza al popolo «in questi momenti difficili»: «Prego il Signore che lo aiuti a costruire in pace, dialogo e solidarietà una società giusta e fraterna. Esorto tutti i cubani ad affidarsi alla materna protezione della Vergine Maria della Carità del Cobre. Ella li accompagnerà in questo cammino». Vicinanza anche per chi è colpito dal maltempo, soprattutto in Germania, Belgio e Olanda dove le alluvioni sono state «catastrofiche». E un appello, unito a quello dei vescovi, perché in Sudafrica - «dove episodi di violenza hanno aggravato la situazione di tanti nostri fratelli, già colpiti da difficoltà economiche e sanitarie a causa della pandemia» - si impongano pace e concordia».

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Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana  https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

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