La Versione di Banfi

Share this post

Salvini prova a forzare

alessandrobanfi.substack.com

Salvini prova a forzare

Stamattina il centro destra vota Casellati (o Nordio). Letta teme che Conte regali sottobanco qualche voto e chiede l'astensione. Cresce il Mattarella bis. Crisi Ucraina, spuntano Cina e Turchia

Alessandro Banfi
Jan 28, 2022
Share this post

Salvini prova a forzare

alessandrobanfi.substack.com

È una di quelle giornate in cui i giornali rischiano di essere già superati dagli eventi della notte. Stamattina il centro destra voterà un suo candidato per il Quirinale, anche se non ci sono certezze sul nome: se sarà il presidente del Senato Elisabetta Casellati (come titolano Corriere e Giornale) o l’ex giudice Carlo Nordio. La decisione è di ieri sera tardi, dopo un’altra giornata surreale di votazioni andate a vuoto, nonostante che il quorum si sia abbassato a 505. Il centrodestra compatto s’è astenuto, 261 le schede bianche, i voti per Mattarella sono saliti a 166. Draghi ha telefonato a Berlusconi, ricoverato al San Raffaele. Poi Antonio Tajani è stato ricevuto a palazzo Chigi. Ma l’asse trasversale anti-Draghi incardinato su Matteo Salvini e su Giuseppe Conte per ora regge e impedisce la scelta del premier.  

Sale, anche sui giornali, lo scontento della gente. Nei voti a Montecitorio il disagio per la situazione di stallo si materializza nel continuo aumento dei suffragi per Sergio Mattarella: la tentazione del bis (per ora avversato e impedito da Meloni e Salvini) è fortissima. È una delle poche cose che unisce in questo frangente il Paese al palazzo. Ci vorrebbe un sussulto di coscienza e autonomia dei grandi elettori. Fate presto, titola il Quotidiano Nazionale e non sbaglia. A chi dice che per Leone ci vollero 23 votazioni, per Pertini 16 e idem per Scalfaro, va ricordato che il tempo della comunicazione e della politica sono radicalmente cambiati da allora. Ha ragione Carlo Galli su Repubblica: altre poche votazioni e la politica sarà morta e sepolta in questo Paese.

Ieri c’è stato un vergognoso oltraggio dei no vax nel Giorno della Memoria: da Sesto Fiorentino a Perugia, sono state inscenate azioni per paragonare lo sterminio del popolo ebraico alle norme anti Covid. A Perugia alcune divise dei deportati nei campi di concentramento sono state stese per terra con la scritta «no Green pass» sulla stella di David. Papa Francesco ha ricevuto ieri a Santa Marta la scrittrice Edith Bruck: nel loro abbraccio un momento semplice ma molto toccante di memoria.

Dall’estero domina la crisi sull’Ucraina. Due novità importanti: la Cina (chiamata da Washington) e la Turchia (nella Nato ma in buoni rapporti con Putin) potrebbero rivestire il ruolo di Paesi mediatori internazionali. Grande tensione invece fra Usa ed Europa: gli americani, ed è l’altra grande notizia di oggi, minacciano esplicitamente di impedire il gasdotto come eventuale ritorsione nei confronti di Mosca. Polemiche anche per l’invio di truppe della Ue. Devono partire 50 militari europei con funzioni di addestramento dell'esercito ucraino. Frenano Italia e Germania mentre la Francia non si è ancora schierata. Oggi Macron dovrebbe parlare con Putin.

È disponibile il secondo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo secondo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Serena Andreotti, figlia di Giulio.

Ne è scaturito un racconto a tutto tondo dell’uomo politico e della persona che ha attraversato grandi crisi e altrettanti successi. Giulio Andreotti è stato un grandissimo servitore dello Stato, sul cui giudizio pesa un finale denigratorio che è poi stato smentito dalle sentenze finali dei processi contro di lui. Il bacio di Totò Riina è stata una delle più grandi fake news politico-giudiziarie della storia italiana che ha alimentato una rivolta contro la politica. La figlia Serena ne ripercorre le vicende con grande precisione e trasporto. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco il link per il secondo episodio.

https://www.spreaker.com/user/15800968/serena-andreotti

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera annuncia la svolta di questa mattina: Centrodestra, la carta Casellati. Per La Repubblica prevale lo stallo: Il Colle dei veti incrociati. E anche La Stampa non vede una via d’uscita: Quirinale, tutti contro tutti. Per l’Avvenire: Si gira a vuoto. Per il Domani è un grande gioco dell’oca: Ritorno al punto di partenza con la tentazione del Mattarella bis. Il Fatto attacca il leader della Lega: Salvini torna al Papeete. Per il Giornale è: Frittata Quirinale. Il Quotidiano Nazionale si mette dalla parte della gente: Fate presto, il Paese ha altri problemi. Il Manifesto sottolinea l’avvitamento delle forze politiche: Torcicolle. Il Mattino valorizza la proposta del centro destra: Colle, mossa Casellati. Il Messaggero vede ancora margini di dialogo: Colle, trattativa a oltranza. Libero mette insieme l’emergenza Covid per notare: Arriva prima la pillola del nuovo presidente. Il Sole 24 Ore spiega le promesse del governo sui rincari: Franco, nuove misure sul caro energia. Mentre La Verità resta sul suo cavallo di battaglia e oggi dice: A medici e infermieri guariti è proibito tornare al lavoro.

QUIRINALE, IL CENTRO DESTRA OGGI VOTA UN NOME

Il centrodestra ha deciso di forzare la mano e oggi vota un nome. Dopo la quarta fumata nera in cui la coalizione si è contata con l'astensione, oggi Salvini porta in aula un candidato di bandiera. Emanuele Lauria per Repubblica.

«Quattro fumate nere. Il falò di Montecitorio brucia schede e nomi di possibili presidenti della Repubblica - ultimo quello della diplomatica Elisabetta Belloni - e il centrodestra decide di tentare di dare una spallata: oggi, alla quinta votazione, proporrà all'aula un proprio candidato. Probabilmente la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati o, in alternativa, il magistrato Carlo Nordio. Il documento partorito poco dopo le 23 dice che la coalizione indicherà «uno dei nomi di alto livello proposto nei giorni scorsi». Viene dato mandato a Matteo Salvini, «previa ogni opportuna interlocuzione», di definirlo entro una nuova riunione prevista per la prima mattinata di oggi. Alla fine di una nuova, frenetica, giornata è intanto tornata sulla ribalta la figura di Franco Frattini ed è spuntato un nuovo papabile, l'ambasciatore Giampiero Massolo. Sono i profili, assieme a quello di Sabino Cassese, che Matteo Salvini scrive nella sua personale lista che però non sottopone al tavolo con gli alleati. Anche perché non c'è piena condivisione su quelle soluzioni: Antonio Tajani, vicepresidente di Forza Italia, e i leader dei piccoli partiti moderati (Giovanni Toti per Coraggio Italia e Lorenzo Cesa per l'Udc) sono pronti a chiedere di allungare la lista con il nome di Pier Ferdinando Casini, che era finito nel freezer per le resistenze dei sovranisti. Toti e Cesa, in caso di rifiuto delle loro istanze, minacciano l'uscita dalla coalizione. La partita per il Quirinale non decolla, Salvini si carica sulle spalla l'onere di coordinare le operazioni e promette una soluzione entro oggi: «Confido che sia la giornata buona ». Con un proposito decisamente ambizioso: «Il mio obiettivo è tenere unito il centrodestra ma anche la maggioranza di governo», sibila. Fino a tarda ora, anche ieri, non è sembrato riuscirci: dentro la coalizione Fratelli d'Italia guarda con diffidenza al tentativo del leader della Lega di cercare un accordo a tutto campo. E, fuori dallo schieramento, il rilancio serale della candidatura di Frattini manda su tutte le furie Enrico Letta («Basta improvvisazoni»), spacca i 5S, e rompe il sodalizio che si era creato fra Salvini e Matteo Renzi: «Siamo al teatrino, allo show di qualche aspirante leader. Credo che bisogna farsi sentire e dire basta». E sì che Salvini e Renzi, mercoledì pomeriggio, avevano posto le basi insieme per un accordo sulla candidatura di Casini: l'ex premier si era detto sicuro dei voti del Pd, i centristi erano compatti. Berlusconi, così si apprende dall'ospedale San Raffaele, aveva dato il suo placet. E il capo del Carroccio era sembrato d'un tratto possibilista. Ma si è però preso un po' di tempo e poi ha interrotto le comunicazioni. Dialogo finito. Forse anche per la contrarietà di Giorgia Meloni, che nella prima mattinata di ieri si è presentata a un incontro con gli altri esponenti della coalizione chiedendo di andare in aula con un nome di centrodestra (Casini è stato eletto con il Pd), da far votare al centrodestra medesimo. Salvini e Forza Italia hanno frenato, il primo per poter continuare la trattativa con i giallorossi, gli azzurri forse per paura di defezioni interne. Alla fine è prevalsa la soluzione dell'astensione, da far dichiarare a ogni grande elettore in aula, senza neppure ritirare la scheda. Un modo per contarsi, ma anche per controllarsi a vicenda. «Abbiamo accolto questa proposta per il bene della coalizione», dice il vicepresidente del Senato Ignazio La Russa. Che insiste sulla necessità di consumare un passaggio in aula con un candidato di bandiera. Ma Salvini inizialmente non si fida, teme una trappola, ha paura di dover pagare in prima persona un insuccesso nella votazione. In ogni caso nel pomeriggio i vertici di Fi acquisiscono la disponibilità di Casellati a correre oggi sotto le insegne del centrodestra. Nel frattempo, non va male la prova dell'astensione: 441 non-voti su 453 elettori del cartello. A quel punto Salvini prova a cercare altri profili con cui «sedurre» il centrosinistra. Incontra «docenti universitari e avvocati », dice. Si muove in assoluta solitudine, fidando in una successiva condivisione delle sue proposte. Fino al vertice di centrodestra serale, in cui gli alleati lo spingono comunque a forzare i tempi. Stamattina, per la prima volta, il centrodestra si sottoporrà alla prova dell'aula. Con un candidatura di bandiera che serve anche per opporsi a una possibile convergenza del centrosinistra sul nome di Sergio Mattarella».

Antonio Polito sul Corriere analizza il “casting dei candidati” e il ruolo di Salvini “citofonatore”.

«Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare», dice il replicante in Blade Runner. Qualcosa di simile ci racconta un insider sulla genesi della candidatura di Elisabetta Belloni, che per qualche ora ieri è sembrata decollare, e che è emblematica del metodo da casting che hanno adottato i partiti. Si tratta di una «civil servant» tra le più unanimemente rispettate nel Palazzo. Davvero un «alto profilo». Perfetta, si dice, per la carica di segretario generale al Quirinale se ci va Draghi. Ma l'idea di eleggere il capo dei servizi segreti a capo dello Stato è un frutto della faida dei Cinque Stelle. Nel senso che Giuseppe Conte, che pure protestò vibratamente con Draghi quando questi, tra le sue prime mosse, nominò la Belloni al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza al posto di Gennaro Vecchione, fidatissimo di Conte, ha lanciato il suo nome proprio per mettere in imbarazzo Di Maio, che invece tifa per Draghi, ma che da ministro degli Esteri ha lavorato con l'allora segretaria generale della Farnesina e avrebbe difficoltà a negarle il voto suo e dei suoi. Giorgia Meloni, donna cui l'astuzia non fa difetto, si è infilata in questa contraddizione pentastellata e ha detto a Salvini: proviamo con la Belloni uno sfondamento nell'altro campo. Ci sono stati però troppi altolà. Dopo un'esitazione iniziale di Letta, quasi tutto il Pd si è ribellato, soprattutto Franceschini, Orlando, Guerini (Delrio ha detto che i presi-denti della Repubblica non si fanno «in vitro»); così Forza Italia, che sta riprendendosi dal lungo letargo succeduto allo choc del ritiro di Berlusconi; poi Renzi e tutti i centristi. Fanno notare che il trasloco del capo dei servizi al Quirinale non è fattibile in un Paese dell'Occidente, e sarebbe la prova di una politica ormai alla frutta: che respinge Draghi perché «tecnico» e poi è costretta a una soluzione molto più «tecnica». Ma Salvini è tentato da ogni ipotesi che tenga legata a sé la Meloni, cosa di cui ha bisogno come l'acqua visto l'andazzo nel centrodestra. Forza Italia gli ha dato un'ultima chance, dopo di che si muoverà in proprio, e la componente centrista è all'ultimatum: hai mollato Casini per non perdere la Meloni, adesso o accetti Draghi o accetti il Mattarella bis. Come finirà? Il nostro eroe Matteo II, già ironicamente soprannominato «il citofonatore» a causa dei numerosi interlocutori cui offre la Presidenza (la new entry di ieri sera è Frattini), finirà per schiantarsi o tornerà alla casella di partenza (Draghi)? I sostenitori del premier notano comunque che, una volta caduta la candidatura Casini, tutte le altre ipotesi di cui si parla non potrebbero essere interpretate come una bocciatura del premier. E se poi fosse davvero il bis di Mattarella, beh, Draghi e il suo governo dormirebbero tra due guanciali».

DRAGHI TELEFONA A BERLUSCONI

Alla fine il premier si è messo in contatto col Cav. Ma pare che la telefonata fra i due non abbia fatto cambiare idea ai dirigenti di Forza Italia, che non vogliono Draghi al Quirinale. Tommaso Ciriaco per Repubblica:

«Si muove a fatica. Alla prese con fastidi di salute, scorato nello spirito. Ma Silvio Berlusconi, a metà giornata, accetta la telefonata di Mario Draghi. Il premier lo cercava da giorni. Il contatto serve a scongelare un rapporto antico, ma che si è complicato. Il Cavaliere imputa all'ex banchiere di essersi dimenticato per un anno di lui, fatta eccezione degli auguri di Natale. Il gesto, però, serve a distendere il legame, o almeno così filtra senza troppa fatica dalla galassia del premier. Dimostrando quello che ormai è chiaro a tutti: se Draghi ha una speranza di andare al Colle, è convincendo il leader azzurro a sostenerlo. Più brutalmente: è ad Arcore il jolly utile a completare "l'accerchiamento" di Matteo Salvini, già in atto nel centrodestra. Se c'è un dato positivo, nell'ottica del premier, è proprio la conseguenza della telefonata: Antonio Tajani viene spedito faccia a faccia con il capo dell'esecutivo. A fine incontro trapela l'ennesimo "no" di Forza Italia a un trasloco del premier al Quirinale. E però dal mondo di Draghi raccontano un altro film: il confronto è ripreso, se la porta fosse stata sbarrata Tajani non sarebbe neanche venuto a parlare La trattativa sarebbe avviata. Se sugli scenari di un prossimo governo o sul sogno di uno scranno da senatore a vita per il leader, è oggetto di speculazioni dentro FI. Resta la necessità di conquistare Berlusconi alla causa. Lo schema è quasi banale: se il Cavaliere si aggiunge a Fratelli d'Italia e assicura il voto a Draghi, Salvini non potrà che lanciare il nome dell'attuale presidente del Consiglio. E d'altra parte il bivio del leghista è lì, di fronte agli occhi di tutti, un potenziale Papeete bis consumato inseguendo una candidatura di centrodestra che al momento non ha chance di successo. Ecco il varco nel quale vogliono inserirsi gli ambasciatori di Draghi. In effetti, Salvini sembra in difficoltà anche nel partito. Due giorni fa, dopo aver chiuso una bozza d'accordo su Pier Ferdinando Casini, ha staccato il cellulare, rendendosi irrintracciabile a Pd e 5S. I colonnelli della Lega, invece, vogliono Draghi. Lo chiede Luca Zaia, l'artefice dello stop alla candidatura di Casini. Stessa linea del governatore friulano Max Fedriga e di Giancarlo Giorgetti. La sponda azzurra, per questo, diventa fondamentale. Anche perché chi spinge per Draghi conosce i delicati equilibri interni a Forza Italia: Tajani ha molto investito nell'asse con Salvini, ma una parte dei gruppi parlamentari sono disposti a sostenere il premier. Senza dimenticare la sponda di Luigi Di Maio: il ministro pare abbia parlato anche ieri con l'ex banchiere, assicurandogli di avere in mano almeno 80 Grandi elettori 5S. Draghi, secondo diverse fonti, ha incontrato anche gli altri leader di maggioranza, quando tra le 13 e le 17 si è allontanato da Chigi. Lo schema politico che ha in mente Draghi dovrà resistere oggi alla prova dei fatti. Servirà che il centrodestra rinunci a contarsi su un nome di parte. Così, il Pd farà appello alla «responsabilità nazionale». Servirà che i due poli scelgano scheda bianca per allungare la trattativa. L'effetto, però, sarà quello di far crescere ad oltre 300 i voti per il bis di Mattarella. L'alternativa è lì, curva a destra e dritti al Papeete».

UNA COALIZIONE DIVISA SU TUTTO

Mattia Feltri sulla Stampa nota come il centro destra sia nella sostanza molto diviso fra diverse linee di comportamento.

«Ieri sera, quando s' era fatta una certa ora, ho chiamato uno di quelli che la sanno lunga e gli ho chiesto quale fossero le determinazioni del centrodestra a proposito di Mario Draghi. È una situazione un po' complessa, mi ha detto. Insospettabile, gli ho risposto. Insomma, nottetempo le cose saranno cambiate, ma intanto stanno così: Giorgia Meloni sarebbe anche disposta a sostenere Draghi, purché subito dopo si vada a votare; Matteo Salvini sarebbe anche disposto a sostenere Draghi, purché non si vada a votare; Antonio Tajani sarebbe anche disposto a sostenere Draghi, però forse no, boh, chissà. Insomma, il solito centrodestra compatto. Sono quattro anni, dall'inizio della legislatura, che il centrodestra è compatto. Prima Salvini è andato al governo con Luigi Di Maio e Meloni e Berlusconi se ne sono rimasti compattamente all'opposizione. Poi è caduto il governo e il trio è rimasto compattamente fuori dal nuovo governo. Infine è arrivato Draghi, Meloni si è rimessa all'opposizione e Berlusconi e Salvini sono passati compattamente in maggioranza. Non è meraviglioso? Berlusconi è stato all'opposizione di Salvini, all'opposizione con Salvini e con Salvini al governo. Non credo esistano altre combinazioni, altrimenti le avrebbero sperimentate. Si può dire che il centrodestra è compatto nell'idea che ognuno si fa i fatti propri, e talvolta possono coincidere coi fatti degli alleati e altre volte divergere. Per fortuna è molto compatto anche il centrosinistra: mezzo Pd è disposto a sostenere Draghi e mezzo Pd no, invece mezzo Movimento è disposto a sostenere Draghi e mezzo Movimento no. Però dai, è tutto sotto controllo».

CRESCE LA TENTAZIONE DEL MATTARELLA BIS

Nel voto segreto, anche in polemica coi leader, cresce ad ogni votazione il consenso per Sergio Mattarella. Ieri 166 voti. Ma finora il no di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini hanno impedito il reincarico. Ugo Magri per La Stampa.

«Al primo scrutinio erano soltanto in 16 e facevano la figura (un po' patetica) degli ultimi giapponesi nella giungla di Montecitorio, quelli che non sanno rassegnarsi alla fine del settennato, anzi pretendono di incatenare Sergio Mattarella sul Colle vietandogli di fare il nonno come in fondo ne avrebbe diritto. Poi però, alla seconda votazione, le file dei «resistenti» si sono ingrossate raggiungendo quota 39. Al terzo tentativo, per effetto del passaparola, i fautori del «bis» si sono ritrovati addirittura in 125. E ieri, dopo il quarto giorno consecutivo di contatti inconcludenti tra i partiti, i «giapponesi» sono diventati un piccolo esercito: ben 166 che sarebbero perfino di più se l'intero centrodestra non si fosse astenuto, e oggi lo saranno di sicuro se questo stallo dovesse continuare. Non si possono trattenere 1009 grandi elettori per giornate intere nell'acquario della Camera in un clima da eterna vigilia, di estenuante surplace, nell'attesa di un accordo che slitta di ora in ora, senza attendersi qualche reazione. La gente finisce per ribellarsi ed è precisamente quello che sta succedendo. Il voto per Mattarella segnala anzitutto che la frustrazione supera i livelli di guardia. Se non vogliono farsi travolgere, i leader debbono darsi una mossa. Ma c'è dell'altro. Agli occhi dei «peones» che lo votano, contravvenendo agli ordini di scuderia, il presidente uscente è la stabilità politica fatta persona, l'unica figura in grado di coprire le spalle a Mario Draghi e di garantire che la legislatura arrivi alla sua conclusione. Qualcuno ci spera per motivi poco commendevoli: garantirsi un altro anno di indennità parlamentare e, a settembre, conquistare il diritto alla pensione. Altri invece sono sinceramente persuasi che questo Parlamento abbia ancora parecchio da dire, per cui sarebbe un delitto mandarlo a casa con un anno di anticipo, mettendo in pericolo le riforme da cui dipendono i miliardi del Recovery Fund. Quali che siano le motivazioni, nobili o meno elevate, una cosa è certa: dietro quei 166 voti a Mattarella non si vede una regia politica; in particolare non c'è quella del diretto interessato. Il presidente si trova a Roma, è tuttora al Quirinale, però come se già se ne fosse allontanato. In totale silenzio stampa per evitare qualunque tipo di interferenza nelle trattative in corso. Ieri sera, per sottrarsi al martellamento dei cronisti che volevano sapere se Mattarella aveva cambiato idea, o quantomeno ci sia possibilità che la cambi in futuro davanti a una valanga di schede con su scritto il suo nome, dal Colle hanno ritenuto informalmente di precisare quanto già si sapeva: che il capo dello Stato durante le elezioni del suo successore «non ha nulla da dire, niente da commentare o da far trapelare», per cui inutile insistere con le domande. Né Mattarella ha avuto incontri, promosso colloqui, avviato contatti riservati come altri personaggi, che invece si stanno dando molto da fare. Più una postilla enigmatica, nello stile tipico della casa: il presidente eviterà di confermare e perfino di smentire qualunque cosa dicano i media sul suo conto, sciocchezze comprese, dal momento che le smentite suonano molto spesso come conferma. Insomma, per chi ancora non l'avesse chiaro, Mattarella vuol mantenersi perfettamente estraneo a tutto quanto potrà capitare, senza che qualche candidato alla sua poltrona possa fargliene carico. Per adesso lo soccorre il niet che Giorgia Meloni ha pronunciato nei suoi confronti e che Matteo Salvini - come spesso gli accade - non ha trovato la forza di contraddire. Senza un appello corale dei partiti, mancherebbero le condizioni minime indispensabili per convincere Mattarella a ripensarci. Però la sequenza delle candidature a perdere, dei tentativi a vuoto, delle rose prematuramente sfiorite, porta a ritenere che il frenetico immobilismo del centrodestra sia arrivato al dunque. I muscoli non stanno portando da nessuna parte (a Berlusconi il merito di averlo capito). E non occorre troppa fantasia per indovinare che, perdurando l'impasse, senza colpi d'ala nelle prossime ore, il copione del Romanzo Quirinale preveda due sole possibili conclusioni, entrambe già note. La prima, che il presidente della Repubblica lo faccia Draghi; oppure, nel caso in cui Super Mario dovesse fallire, che l'onere di restare al suo posto ricada sull'inquilino attuale. Certamente è ciò che il presidente meno si augura perché ha già dato; perché un bis non aggiungerebbe nulla all'immagine che gli italiani si sono fatti di lui e magari la sgualcirebbe (come è capitato a Giorgio Napolitano); perché una riconferma non cercata e tantomeno voluta certificherebbe che in Italia la democrazia è al collasso. Ma nemmeno Mattarella può impedire alla politica di fare il suo corso. Tra l'altro c'è una data che pericolosamente si avvicina come una specie di ghigliottina. Tra cinque giorni il presidente non sarà più tale perché gli scadrà il mandato; a quel punto non si sa nemmeno chi dovrebbe controfirmare gli eventuali decreti del governo in tema di pandemia, se Mattarella in regime di «prorogatio» o Elisabetta Casellati in veste di «supplente»: perché nulla specifica la Costituzione al riguardo e grande è il disordine sotto il cielo».

LETTA CHIEDE L’ASTENSIONE AL CENTRO SINISTRA

Enrico Letta è molto irritato del comportamento di Matteo Salvini. E medita di impedire giochetti nell’urna a favore del centro destra, chiedendo stamattina ai suoi e ai 5 Stelle di astenersi. Maria Teresa Meli per il Corriere.

«Enrico Letta guarda le agenzie sul computer al gruppo Pd della Camera, legge che il leader della Lega ha intenzione di proporre una rosa con dentro anche Franco Frattini e non ci vuole credere. Era convinto che alla fine Salvini convergesse su Draghi. Che è la sua prima scelta. «Basta con queste provocazioni. Con le continue giravolte questo ci vuole portare sulle montagne russe e così cerca di confondere le acque e nascondere le divergenze del centrodestra e quelle nella Lega», esplode il segretario. Che annuncia ai suoi anche il «no» del Pd anche a tutti gli altri candidati che escono dal vertice del centrodestra: «Tutte le proposte che vengono da una parte, senza condivisione, per noi sono inaccettabili». Dunque, il centrodestra andrà oggi al voto con un suo candidato e il segretario del Pd che riunisce stamattina i suoi grandi elettori medita una nuova strategia: il centrosinistra potrebbe non ritirare la scheda. Comunque, il nome di Frattini innervosisce non poco Letta: è quello su cui Conte aveva aperto nel suo incontro con Salvini qualche giorno fa. Lo stesso nome che aveva fatto miracolosamente riunire Letta e Renzi, contrari a un candidato filo-Putin. Uno schiaffo al centrosinistra. Conte si limita a dire che non ha incontrato Frattini ma non sbarra il passo a questa candidatura. Anzi i suoi dicono: «Ci stiamo lavorando su». Lo boccia Luigi Di Maio. I sospetti del Pd sull'alleato si intensificano: «A che gioco sta giocando?». Letta cerca di calmare gli animi: «Anche se Conte dicesse di sì a Frattini i numeri non ci sarebbero». Già. Non è una candidatura senza speranza a impensierire Letta, ma l'atteggiamento di Salvini: «In questo Parlamento non c'è una maggioranza. Solo chi ha una percezione diversa della realtà può pensarlo». Dopo Conte anche Salvini compie il miracolo di far riavvicinare Letta e Renzi. Dice il segretario del Pd: «Ha ragione Matteo, la ricerca del presidente sta diventando grazie a Salvini un casting indegno di una classe dirigente». Sì, perché il leader di Iv in serata stigmatizza «l'indecoroso show di chi ha scambiato l'elezione del presidente per le audizioni di X Factor». La «prova muscolare di Salvini» non approderà da nessuna parte, secondo il leader dem. Letta non si capacita del fatto che il centrodestra non si sia reso conto «che bisogna sedersi tutti attorno a un tavolo». Poi, sempre rivolto ai suoi, il segretario del Pd osserva: «Anche i centristi del centrodestra si sono dimostrati sorpresi dall'atteggiamento della Lega». E al Pd giunge voce che anche l'incontro tra Antonio Tajani e Draghi non sia andato male. Nella rosa che informalmente il centrosinistra ha consegnato al centrodestra c'erano questi nomi: Draghi, Amato, Casini ed Elisabetta Belloni. Il primo della lista è il premier, per Letta, che però sa che Conte non lo vuole assolutamente. Ma il segretario democratico ritiene che alla fine il centrodestra convergerà su quel nome, su cui ci sono anche Renzi e Meloni. E poi c'è il nome di Casini, su cui lavora un pezzo del Partito democratico. Dario Franceschini, per esempio, che, per convincere i riottosi, ripete a tutti: «Il meglio è nemico del bene». Dove il «meglio», manco a dirlo, è il presidente del Consiglio. «Piuttosto che Draghi sarebbe auspicabile un Mattarella bis», fa sapere la parte del Partito democratico che non vuole il premier al Quirinale e che medita addirittura di preparare un appello al presidente perché ci ripensi e conceda il bis».

MA IL PALAZZO È SEMPRE PIÙ LONTANO DALLA GENTE

Interessante commento di Carlo Galli per Repubblica: le votazioni a Montecitorio stanno ancor più allontanando la gente dal Palazzo. Nell’ansia di riconquistare prestigio, la politica sta facendo peggio.

«L'elezione del presidente della Repubblica, ai suoi inizi, era seguita da molti con partecipazione e curiosità. Una Repubblica sceglie il proprio capo, e non se lo trova già preconfezionato per via dinastica come nei regimi monarchici; il che consente di valutare, di soppesare, di partecipare almeno emotivamente. Spesso si sono sentite nei primi giorni frasi come "io voglio Tizio", "io voto Caio". Benché espressioni improprie, che parevano aspirazioni a una elezione diretta del Capo dello Stato, sembrava un'inversione del trend anti-politico che ha dominato gli ultimi anni. È stata una breve fiammata. Già predomina il fastidio per bizantinismi, per tatticismi incomprensibili se non agli analisti di professione. Un fastidio che sta evolvendo verso l'indifferenza, l'estraneità. Il germe dell'antipolitica, del qualunquismo, non è stato eradicato; serpeggia nelle menti e nella società, ed è forse in via di riemersione. Questa elezione presidenziale può essere un'occasione perduta: per i cittadini che forse erano orientati a riconciliarsi con la politica; e per la politica, che avrebbe avuto la possibilità di manifestare la propria efficienza. Nessuno nega la difficoltà del momento. Questa elezione non è come le altre. Non è in gioco solo il Quirinale ma anche palazzo Chigi: e non solo la figura del presidente del Consiglio ma anche la maggioranza partitica che gli dà vita; inoltre, è a rischio la stessa prosecuzione della legislatura - e non è alle viste la pur indispensabile nuova legge elettorale -. Tutti i nodi della politica - trascurati anche a causa della pandemia - sono venuti, insieme, al pettine. In questa condizione la prudenza, in linea di principio, è comprensibile - anche se la scadenza elettorale non si può certamente dire inaspettata -. Né, d'altra parte, le lungaggini delle votazioni sono una novità: anche quando la politica era forte, e fortissimi erano i partiti, sono state a volte necessarie più di venti votazioni per venire a capo dell'aspra contesa interna ai vari partiti (soprattutto la Dc). Ma non la prudenza quanto la chiusura nel proprio particolare è oggi la guida delle forze politiche, una chiusura tanto più tenace e cieca quanto più queste sono deboli, esauste, e abitano un parlamento balcanizzato, frammentato, incapace di esprimere un governo se non quello in carica, di quasi unità nazionale, presieduto da un non-politico. Il punto è che il partito di maggioranza relativa è inerte, ingovernabile, e interessato prevalentemente alla prosecuzione della legislatura. Che le destre, dopo essersi colpevolmente immolate all'incredibile candidatura di Berlusconi, ora non stanno marciando unite (Salvini vuole un ministero, Meloni le elezioni, Berlusconi il Quirinale per interposta persona). Che il Pd non ha le idee chiare, non è unanime su Draghi e, sulla difensiva, deve minacciare la crisi di governo se il presidente venisse eletto tra i nomi avanzati dalla destra. Senza evocare soluzioni traumatiche come quella che nel 1992 sbloccò le votazioni portando Scalfaro al Quirinale in risposta alla strage di Capaci, lo stallo potrebbe essere superato da un nome super partes. Ma non sarà facile trovarlo, anche perché il candidato deve poter esibire caratura internazionale - il custode della Costituzione è anche garante dell'Italia davanti a importanti istanze sovranazionali - e, in più, un'autentica capacità politica. È infatti l'arbitro di una partita in cui ai giocatori devono spesso essere ricordate le regole del gioco (democratiche, non oligarchiche) e le sue finalità (pubbliche, non particolaristiche). E quindi del gioco deve essere buon conoscitore, il che di solito significa che deve averlo giocato. In ogni caso, se non verrà dai partiti un soprassalto di responsabilità, se non esprimeranno una capacità politica, quel gioco - non solo l'individuazione del prossimo inquilino del Quirinale ma l'intera dimensione politica - interesserà sempre meno i cittadini, che, non potendone essere i protagonisti, nemmeno indirettamente, e comprendendo sempre meno le mosse dei giocatori, probabilmente si rifiuteranno, esasperati, di ridursi a spettatori di un'attività inutile. E sarà una nuova stagione di anti-politica, benché la prima non abbia prodotto nulla di buono».

“DRAGHI AL COLLE È LA SOLUZIONE ALLO STALLO”

Giuliano Ferrara sulla prima pagina del Foglio torna a indicare l’elezione del premier come la soluzione allo stallo dei grandi elettori.

«Che se ne rendano conto o no, alcuni capi elettorali in Parlamento stanno incorrendo nel paradosso dei paradossi. Questo. Finché reggeva la strana pretesa di candidare un nome del centrodestra, avanzando l'argomento della "prima volta da anni" e di una "maggioranza relativa con onori e oneri di candidatura", vabbè. Sono argomenti fallaci e prepolitici, forieri di quello che Minuz ha chiamato con formula perfetta lo "stallo alla messicana", ma a loro modo lineari. Dal momento in cui si passa, come è avvenuto, al metodo della scelta paritaria, di conclave come si è detto, di un nome super partes, ecco che emerge un potenziale veto all'elezione di Draghi, da nessuno (e non a caso) rivendicato per tale. Qui l'argomento fallace è semmai che Draghi deve continuare a guidare l'esecutivo, è troppo importante per fare il capo dello stato. Bah. Paradosso dei paradossi, appunto, è credere che uno possa subire un veto, essendo il campione della maggioranza di unità che sceglie il successore di Mattarella, e poi restarsene lì, a Palazzo Chigi, impallinato senza alcuna plausibile ragione politica. Casini è un bravo tipo ma trasversalismo e quarant' anni di mestiere non bastano: bisogna aver dato qualcosa di molto serio alla politica e mostrare al di là del trasversalismo parlamentare una visione. Due cose che Draghi ha acquisito, Casini no. Cassese, Amato e Belloni hanno dato qualcosa di serio alla cultura e alle istituzioni, nel terzo caso anche all'alta amministrazione pubblica, ma come candidati oggi sono espressione di un veto felpato, draghi- compatibile entro limiti molto stretti, ma pur sempre di un veto. Come si vede chiaramente, siamo ancora a giochi e giochini, legittimi, prodotto di insofferenze del non detto, perfino comprensibili, rispettabili opzioni alternative, come sempre quando si tratti di scelte difficili, ma pur sempre a sfondo ludico-politico, e più ludico che politico. Rientrano dunque, i nomi circolanti, nel "gioco della surroga": chiunque, anche un tipo ideale che si avvicina al modello Draghi, epperò non Draghi. Un veto dissimulato, non benissimo. L'elezione di Draghi coincide dunque con la rimozione di un veto complicato da giustificare, in particolare se motivato con la stringente necessità di avere comunque Draghi al vertice del potere, "per divorarti meglio figlio mio" come reca la favola di Cappuccetto Rosso. Non sembra che l'attuale capo del governo, che non è affatto una scelta di sistema, piuttosto una scelta di visione e di garanzia, sia un tipo alla Cappuccetto Rosso, voglioso di andare in bocca al lupo travestito da nonna. Dallo stallo alla messicana non si esce decentemente con la logica del "troviamone un'altra". Se ne esce prendendo atto, senza vincitori né vinti, e con vantaggio comune e del Paese, che il ciclo inaugurato con il governo Draghi, preparato nei fatti dalla formula imperfetta e azzardata ma produttiva del Bisconte, può ragionevolmente continuare, con una graduale e significativa ripresa in mano della politica da parte dei partiti senza maggioranza spendibile in queste Camere, verso le prossime politiche, con una formula di garanzia che non è una "trovata" e non prevede veti. Il resto è goliardia sfascista».

PANDEMIA. SOLO ZONE ROSSE?

Il punto sulla pandemia. Basta zona gialla e arancione, l’ipotesi è di lasciare solo quella rossa nel sistema dei colori. L’allarme sulle donne incinte: una su due non è immunizzata. Adriana Logroscino per il Corriere

«Il calo dei positivi si riflette ora anche sul numero di ricoverati in rianimazione e negli altri reparti normali. Ancora tante le vittime, ieri altre 389. Le molte richieste di rivedere le regole, in conseguenza dei numeri e delle vaccinazioni, restano per ora ferme: fino a quando non si risolverà il rebus del Quirinale non si riunirà il Consiglio dei ministri per decidere. Andrea Costa, sottosegretario alla Salute, tuttavia anticipa l'orientamento e, riguardo alla scuola, i contenuti di una circolare. Il sistema delle fasce di colore, che le Regioni ritengono sia da superare, visto che per ogni attività è ormai richiesto il green pass rafforzato, sarà snellito. Via le zone gialle e arancioni, resteranno le zone rosse che scatteranno quando l'incidenza supererà i 150 casi per 100 mila abitanti, in terapia intensiva i letti occupati saranno al 30% e negli altri reparti al 40%. Il bollettino quotidiano resterà com' è, ma probabilmente saranno distinti, tra i ricoverati, quelli che hanno sintomi da Covid e quelli incidentalmente positivi. La curva ha imboccato la discesa ormai da una settimana. Anche i dati di ieri lo confermano. Sono 155.697 i nuovi positivi, quasi dodicimila in meno del giorno prima, e il tasso di positività resta stabile al 15%. Il numero più alto di casi è stato rilevato in Lombardia: 25 mila. Gli attualmente contagiati scendono a 2,7 milioni. Segno meno anche per i ricoveri. Dagli ospedali però arriva un altro allarme. Una donna incinta su due non è vaccinata. La Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso) ha monitorato i parti in 12 ospedali sentinella: nei 404 parti eseguiti nella settimana tra il 18-25 gennaio, 65, cioè uno su sei, sono avvenuti in area Covid perché le mamme erano positive. Il 60% delle 65 pazienti non era vaccinato e il 5% aveva sviluppato sintomi respiratori. Un solo neonato, figlio di una non vaccinata ha contratto l'infezione. «La presenza di pazienti incinte positive - spiega Giovanni Migliore, presidente della Fiaso - pone un problema anche gestionale. È gravoso per gli ospedali, da due anni in prima linea, raddoppiare i percorsi per separare le positive. Le donne incinte che ancora non hanno aderito alla campagna si vaccinino». Stesso appello del presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia Nicola Colacurci: «La gravidanza rende la donna fragile e più esposta alle infezioni. Vaccinarsi durante la gestazione non è pericoloso, è consigliato». Se la curva della quarta ondata scende, le richieste di intervento per rivedere il sistema delle restrizioni riprende quota. Oltre alle fasce di colore, c'è grande attesa per le regole della quarantena per gli studenti. La soluzione sembra vicina. «Oggi o domani - ha detto Costa intervenendo a una trasmissione radio - una circolare chiarirà che nei casi di positività che fanno scattare la dad, i ragazzi si intendono in auto-sorveglianza e non più in quarantena. E che per il rientro in classe, dopo la guarigione, non occorrerà più il certificato medico ma solo l'esito del tampone». Una risposta alle proteste per la «pandemia burocratica» avanzata ieri anche dall'assessora alla Scuola del Comune di Roma, Claudia Pratelli. «C'è una difficoltà interpretativa delle misure introdotte il 7 gennaio - scrive rivolgendosi al ministro per l'Istruzione Patrizio Bianchi - che sta generando confusione e disagi alle scuole e alle famiglie». Anche il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri parla di «una fase di transizione verso nuove regole». Il nuovo decreto dovrebbe includere anche una proroga dell'obbligo di mascherine all'aperto e disporre la durata illimitata del green pass per chi ha ricevuto tre dosi di vaccino».

Arriva la pillola pillola anti-covid «ma non sostituisce il vaccino». Si chiama paxlovid. L’ok è dell'Agenzia europea del farmaco. Graziella Melina per il Messaggero.

«Se il paxlovid, il nuovo farmaco anticovid approvato ieri dall'Ente Regolatorio europeo (Ema), riuscirà ad alleggerire la pressione sugli ospedali, ancora è presto per dirlo. Di sicuro sull'antivirale prodotto da Pfizer, che presto arriverà in Italia e si affiancherà al molnupiravir per la cura del covid, le aspettative sono alte. A cominciare dalla commissaria Ue alla Salute Stella Kyriakides, secondo la quale il nuovo farmaco ha «il potenziale per fare davvero la differenza per le persone ad alto rischio di progressione di malattia verso il covid grave». L'antivirale della Pfizer non è destinato a tutti, però. L'Ema ne raccomanda la prescrizione solo agli adulti che non necessitano di ossigeno supplementare e che abbiano un profilo di alto rischio. «Il nuovo farmaco è molto atteso perché in sostanza il molnupiravir ha un'efficacia non particolarmente elevata - spiega Francesco Menichetti, ordinario di malattie infettive dell'università di Pisa, e presidente di Gisa (gruppo italiano Stewardship antimicrobica) - Il paxlovid invece ha evidenze più solide e, se manterrà le promesse, avremo una vera terapia domiciliare che possa essere considerata al livello degli anticorpi monoclonali, valida anche contro le varianti». Secondo i dati presi in considerazione da Ema, paxlovid è in grado di ridurre significativamente i ricoveri e i decessi nei pazienti che hanno almeno una condizione sottostante che li mette a rischio di covid grave. La maggior parte dei soggetti che hanno partecipato alla sperimentazione era infettata con la variante delta. LE RICERCHE Sulla base di studi di laboratorio, i ricercatori però mettono in evidenza la capacità del nuovo farmaco di essere attivo anche contro omicron. Per avere risultati più certi occorrerà osservare l'efficacia su un più vasto numero di soggetti. Il profilo di chi ne potrebbe trarre vantaggio è ben definito. «Questa nuova pillola anticovid - rimarca Menichetti - si pone come prima scelta dei malati a rischio più elevato, quindi quelli con il profilo più complesso, che siano avanti con gli anni, con immunocompromissioni o con patologie di base molteplici. Può essere dato a pazienti con protezione vaccinale assente o insufficiente che corrono pertanto maggiori rischi in caso di malattia». Per proteggersi dall'infezione resta comunque prioritaria la profilassi. «Gli antivirali - ribadisce Massimo Andreoni, direttore di Malattie infettive del Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali) - servono a prevenire l'evoluzione della malattia. Ma l'azione principale che dobbiamo svolgere per evitare l'infezione è la vaccinazione. I farmaci, invece, sono un'ulteriore opzione laddove l'infezione sia intervenuta, perché permettono di ridurre il rischio di progressione del covid e quindi riducono la pressione sugli ospedali». Ma è necessario intervenire senza indugi. «Il paxlovid - aggiunge Andreoni - si è dimostrato molto efficace se viene dato nei primi 5 giorni dall'inizio della malattia e ha un meccanismo di azione diverso rispetto alla terapia anticovid che utilizziamo ora. Ricordiamo che il virus può sviluppare resistenza contro un farmaco, quindi averne più di uno certamente ci agevola nel trattamento del paziente». GLI OSTACOLI A frenare l'ottimismo, c'è però lo scoglio burocratico. Come per i monoclonali, infatti, non sempre sarà facile potere accedere al nuovo farmaco della Pfizer. «Certamente - ammette Andreoni - l'utilizzo di questi trattamenti richiede una grande organizzazione a livello territoriale, perché sono i medici di medicina generale che devono individuare i soggetti da trattare». Se viene confermata la possibilità di accesso alla cura, il paziente si dovrà recare in ospedale per poter ricevere il flaconcino con le compresse. Quindi potrà poi assumere la pillola a casa, così come gli verrà indicato dallo specialista. «Nei giorni successivi - spiega Andreoni - la struttura che ha dispensato il farmaco segue il paziente telefonicamente per avere conferme sul suo stato di salute. Ma potrebbe essere utile in realtà che a seguire il decorso domiciliare sia però il medico di famiglia e non il centro di riferimento. È fondamentale, poi, che tutte le regioni si attrezzino per cercare di migliorare al massimo la prescrizione a più pazienti possibile, come hanno fatto Veneto e Lazio, all'avanguardia nella somministrazione di queste terapie».

I NO VAX PROFANANO LA GIORNATA DELLA MEMORIA

Ieri Giornata della Memoria profanata da alcune manifestazioni dei No Vax. Il Papa ha ricevuto a Santa Marta la scrittrice Edith Bruck. La cronaca del Corriere.

«Mai deve essere abbassata la guardia, come attestano recenti episodi di cronaca», ammonisce Sergio Mattarella, riferendosi evidentemente al bimbo di Livorno insultato e picchiato domenica scorsa da due ragazzine in quanto «ebreo». Il 27 gennaio 1945 l'Armata Rossa raggiunse il campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau liberando i pochi prigionieri ancora in vita. Ieri era il 77esimo anniversario. «Quando le truppe russe entrarono nel campo di Auschwitz, si spalancarono di fronte ai loro occhi le porte dell'Inferno - ha scritto il presidente della Repubblica nel giorno della ricorrenza -. Nel cuore dell'Europa si era aperta una voragine che aveva inghiottito secoli di civiltà...». Il Capo dello Stato ha rivolto il suo messaggio agli studenti italiani: «Il Giorno della Memoria non ci impone solamente di ricordare i milioni di morti innocenti, tra cui molti italiani. Ci invita anche a prevenire e combattere ogni germe di razzismo, antisemitismo, discriminazione. A partire dai banchi di scuola. Perché l'informazione e l'educazione rivestono un ruolo fondamentale nel promuovere una società giusta e solidale». Anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, condannando «l'orrore dell'antisemitismo» ha sottolineato che «ricordare è impegno per il presente, fondazione per il futuro». Papa Francesco ha ricevuto a Santa Marta Edith Bruck, la scrittrice ungherese deportata da bambina ad Auschwitz, testimone vivente della Shoah, parlando insieme dell'importanza di «favorire nelle nuove generazioni la consapevolezza dell'orrore di questa pagina nera della storia e costruire un futuro dove la dignità umana non sia più calpestata». Per non dimenticare, tante le celebrazioni in Italia e all'estero. A Roma i presidenti di Senato e Camera, Elisabetta Casellati e Roberto Fico, hanno deposto una corona di fiori al Museo della Shoah. Alla cerimonia era presente la senatrice a vita Liliana Segre, nel 1944 prigioniera ad Auschwitz col numero 75190 tatuato sulla pelle: «Non può essere una giornata sola, tutti i giorni sono giorni della memoria per chi quella strada l'ha percorsa. Una gamba davanti all'altra nella marcia della morte. Nessuno è mai preparato al peggio, men che meno allo sterminio sistematico del genere umano». Nel mondo tanta commozione: «Ci uniamo alle altre nazioni - ha detto il presidente Usa Joe Biden - nel farci testimoni per le future generazioni così da rendere reale la sacra promessa: Mai più! ». A Berlino, il presidente del Parlamento israeliano, Mickey Levy, e il capo dello Stato tedesco Frank-Walter Steinmeier hanno deposto corone di fiori al Memoriale dell'Olocausto. Eppure una giornata così intensa è stata macchiata dalle iniziative di alcuni no vax. In più parti di Italia, da Sesto Fiorentino a Perugia, sono state inscenate azioni per paragonare lo sterminio del popolo ebraico alle norme anti Covid. A Perugia alcune divise dei deportati nei campi di concentramento sono state stese per terra con la scritta «no Green pass» sulla stella di David. Provocazioni giudicate «inaccettabili» dal ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese. Dello stesso tenore un post su Instagram del deputato M5S, Gabriele Lorenzoni, a cui ha risposto in maniera durissima il collega dem Emanuele Fiano: «Cancelli quel post. È un'offesa a milioni di morti, assassinati per la sola colpa di essere nati».».

UCRAINA 1, GLI USA VOGLIONO FERMARE IL GASDOTTO CON I RUSSI

Da Washington si alzano i toni, oltre alla spedizione di armi e munizioni, è il momento degli avvertimenti anche all’Europa: gli Usa minacciano di impedire il gasdotto Russia-Germania come ritorsione per l’invasione dell’Ucraina. Giuseppe Sarcina per il Corriere.

«La prima reazione del governo russo è negativa. La lettera inviata dal Dipartimento di Stato americano «non contiene risposte positive alla questione principale», dice il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Il Cremlino pretende un impegno scritto dagli Stati Uniti e dalla Nato: l'Ucraina non sarà mai ammessa nell'Alleanza Atlantica. Il documento spedito a Vladimir Putin conferma la posizione degli Usa: «la Nato è un'organizzazione con le porte aperte. La Russia non può decidere chi ne debba far parte e chi no». Se le cose stanno così, commenta Dmitrj Peskov, portavoce di Putin, «c'è poco spazio per l'ottimismo», aggiungendo, però: «ci sono sempre possibilità per continuare il dialogo; è nel nostro interesse e in quello degli americani». Servirebbe, dunque, un cambio di prospettiva. Per ora Stati Uniti ed alleati europei lavorano sulle sanzioni. Ieri Ned Price, portavoce del ministro degli Esteri Antony Blinken, ha dichiarato in un'intervista: «Voglio essere molto chiaro. Se la Russia invade in un modo o in un altro l'Ucraina, il gasdotto Nord Stream 2 non andrà avanti». Le tubature che collegano direttamente Russia e Germania, per altro non ancora in funzione, sarebbero, dunque, il primo obiettivo delle ritorsioni occidentali. Anche se da Berlino, Annalena Baerbok, titolare degli Esteri, ha voluto precisare: «l'abbandono del progetto Nord Stream 2 è una delle opzioni sul tavolo». In realtà a Washington si teme che le forniture del gas possano dividere il fronte europeo. La vice ministra degli Esteri, Wendy Sherman, ha fatto trapelare queste preoccupazioni in un dibattito online organizzato ieri dalla Fondazione Victor Pinchuk di Kiev. Biden vuole colpire l'export di idrocarburi, se anche «una sola unità militare di Mosca» dovesse sconfinare. Sherman, però, osserva che «siamo di fronte a un'interdipendenza tra Europa e Russia». Come dire: le sanzioni andranno calibrate con attenzione. In parallelo i contatti tra le capitali coinvolte nella crisi continuano frenetici. Ieri Biden ha telefonato al leader ucraino, Volodymyr Zelensky. Oggi il presidente francese Emmanuel Macron dovrebbe parlare al telefono con Putin. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz verrà, invece, a Washington per il primo vertice con Biden, il 7 febbraio. Naturalmente si aspetta la mossa di Putin, che per ora «studia» il dossier. Lo stesso Price, il portavoce del Dipartimento di Stato, ha fatto appello a Pechino perché usi la sua influenza su Mosca: «se ci sarà un conflitto in Ucraina non sarà un bene neppure per la Cina».

UCRAINA 2, CINA E TURCHIA SI PROPONGONO COME MEDIATORI

Nella crisi ucraina, il turco Erdogan vuol mediare con Putin, il cinese Xi vuole saggiare la tattica di Washington pensando alla questione di Taiwan. Il presidente usa Biden ammette la Turchia (che è nella Nato) e la Cina come "arbitri". Giampiero Gramaglia per Il Fatto:

«Nella crisi ucraina, i cui tempi si allungano e le cui tensioni si stemperano un po', Cina e Turchia si propongono come mediatori: teoricamente, hanno il vizio d'origine di essere di parte, con Pechino più vicina a Mosca che all'Occidente e Ankara dentro la Nato; ma pragmatismo cinese e disinvoltura turca consentono di superare l'ostacolo. I presidenti cinese Xi Jinping e turco Recep Tayyip Erdogan vedono un tornaconto nell'offrirsi come arbitri. Xi, che si muove con maggiore discrezione, può saggiare la fermezza degli Stati Uniti e dei loro alleati e l'effettivo decisionismo di Joe Biden, in funzione della questione Taiwan, oltre che dei futuri negoziati commerciali. Erdogan, con la consueta spregiudicatezza, fa senza imbarazzi il doppio gioco: sta nella Nato e vende droni a Kiev, irritando Mosca e traendo profitto dal rispetto delle direttive atlantiche, ma compra sistemi antiaerei russi, ignorando le riserve di Washington; e ha già esperienza di balletti con Putin - ora contro, ora a braccetto - in Siria e in Libia. Del resto, nella crisi ucraina, e nell'amplificazione della minaccia da parte occidentale, che crea problemi persino a Kiev, ci sono anche da parte Usa, elementi di politica interna: Biden vi vede un'occasione per recuperare frazioni della credibilità perduta con la rotta afghana e pure un modo per mostrarsi fermo con Putin - e in proiezione con Xi - e per potersi poi fregiare della salvaguardia della pace. L'invio di una risposta scritta di Usa e Nato alla richiesta della Russia di garanzie di sicurezza è, indipendentemente dai contenuti, che ancora non sono noti, un atto negoziale e un gesto che fa proseguire la trattativa. Antony Blinken e Serghei Lavrov progettano un nuovo contatto, anche se Mosca mette le mani avanti, dicendo che non c'è a priori "margine di ottimismo" verso un'intesa: Usa e Nato non intendono impegnarsi a tenere l'Ucraina fuori dall'Alleanza. Per alcuni, la tregua negoziale è solo funzionale agli interessi contingenti russi e cinesi. Il generale Ben Hodges, comandante delle Forze Usa in Europa dal 2014 al 2018, oggi analista del Center for European Policy Analysis, ipotizza che Putin si faccia scrupolo di non compromettere le Olimpiadi di Xi - i Giochi invernali in programma a Pechino dal 4 al 20 febbraio - e rimandi l'azione a fine febbraio. Probabilmente, è una leggenda metropolitana. Ma è un fatto che la Cina spalleggia la Russia, di cui definisce "ragionevoli" le preoccupazioni di sicurezza; il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ne ha parlato con Blinken. Dalla sua cattedra di relazioni internazionali, Pechino invita "tutte le parti" a spogliarsi della mentalità da Guerra fredda e a negoziare un meccanismo di sicurezza europeo "equilibrato, efficace e sostenibile"; e ritiene che "per risolvere" la crisi ucraina sia necessario "tornare ancora agli accordi di Minsk" del 2015, approvati dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu. A Blinken, Wang dice che la sicurezza d'un Paese "non può andare a scapito di quella di altri" e che "non si può garantire la sicurezza regionale rafforzando o addirittura espandendo blocchi militari". Pechino chiede a Biden e a Putin "di mantenere la calma e di astenersi dallo stimolare la tensione". Fronte turco, Putin ha ieri accettato l'invito di Erdogan a recarsi ad Ankara, anche se la visita - nota il Cremlino - avverrà "quando glielo permetteranno gli impegni e la situazione della pandemia" e comunque dopo l'inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino - Putin ci sarà -. Erdogan ha in agenda di recarsi in Ucraina all'inizio di febbraio e di incontrarvi il presidente Volodymyr Zelensky. Il capo di Stato turco intende espressamente mediare tra Mosca e Kiev. In un'intervista televisiva, dice che "la Turchia vuole che le tensioni tra Russia e Ucraina si risolvano prima che di trasformarsi in una crisi". Erdogan cura i rapporti sia con Zelensky che con Putin sebbene la Russia non gradisca la vendita all'Ucraina di droni turchi utilizzati nella regione del Donbass; e nel contempo resta pienamente "atlantico", assicurando "il rispetto degli impegni come alleato Nato." "Il nostro desiderio - dice - è trovare una soluzione allo stallo ucraino attraverso dialogo e diplomazia: continuiamo a credere che sia possibile". A tale scopo, "è essenziale che la Nato mantenga una posizione comune". Per il leader turco, alcune delle pretese di Mosca rispetto a Kiev sono "inaccettabili", altre sono magari comprensibili. Condizione per parlarne è che la Russia non conduca alcun "attacco militare" o "occupazione" dell'Ucraina: "Non sarebbe saggio"».

È un caso l’invio delle truppe Ue per addestrare l’esercito ucraino. Devono partire 50 militari europei con funzioni di addestramento dell'esercito ucraino. Frenano Italia e Germania mentre la Francia non si è ancora schierata. Macron chiamerà Putin questa mattina. Il punto di Marco Bresolin inviato a Bruxelles per La Stampa.

«Una missione militare targata Ue per addestrare l'esercito ucraino. L'ipotesi - che nasce da una richiesta di Kiev - è sul tavolo da tempo, ma negli ultimi giorni l'Alto Rappresentante Josep Borrell ha messo pressione ai governi affinché decidano al più presto. Il problema è che i 27 sono divisi tra chi vuole mandare una pattuglia di istruttori sul campo (soprattutto i Paesi dell'Est e i Baltici) e chi invece frena perché ritiene sia meglio limitarsi a un'assistenza più "light", principalmente di tipo economico. Di quest' ultimo gruppo fanno parte la Germania e l'Italia, convinte che il rapporto rischi-benefici sia decisamente svantaggioso. Al momento entrambe le ipotesi sono in campo e per il via libera serve l'unanimità. Lunedì se n'è parlato al vertice Ue dei ministri degli Esteri, ma il confronto non è servito a sciogliere i nodi (l'Italia, rappresentata dall'ambasciatore Pietro Benassi, era l'unico Paese senza esponenti di governo al tavolo). Borrell vuole una decisione al prossimo Consiglio Affari Esteri (21 febbraio), per questo la discussione tornerà nell'agenda del Comitato politico e di sicurezza già la prossima settimana. A Bruxelles se ne parla da settembre, dopo che il ministero degli Esteri e della Difesa di Kiev avevano avanzato la richiesta. L'ipotesi prevede la creazione di una "EU Military Advisory and Training Mission", una missione di addestramento simile a quelle attivate in Mali e in Somalia. Si tratterebbe di un progetto piuttosto snello, con 30-50 addestratori incaricati di formare gli ufficiali dell'esercito ucraino. Dunque molti meno di quelli mandati da Usa (200 uomini), Canada (200 che diventeranno 400) e Regno Unito (100), ma dall'elevato valore simbolico. Borrell, che all'inizio era parso piuttosto cauto, alla luce dei recenti sviluppi sta spingendo per questa ipotesi perché darebbe maggiore «visibilità» all'impegno Ue sul campo e dunque la legittimerebbe ai tavoli decisionali. Polonia, Romania, Svezia e i tre Paesi Baltici sono tra i più convinti sostenitori della missione. Ma dalla parte opposta del tavolo ci sono i dubbi di Italia, Germania, Spagna, Austria, Grecia e Cipro. Il rischio, sostengono, è che la mossa possa essere interpretata come «una provocazione non necessaria». L'Italia aveva già espresso i suoi dubbi sin da ottobre, sottolineando i potenziali rischi e gli scarsi benefici. La nostra diplomazia, in linea con quella tedesca, ritiene che al momento non sia questa la priorità assoluta. E che lo stesso risultato potrebbe essere ottenuto attraverso un'assistenza di tipo finanziario, senza l'invio di militari. Inoltre l'attivazione di una missione militare richiederebbe l'istituzione di un quartier generale, con una struttura di comando, e dunque non sarebbe pronta prima dell'estate. Il piano alternativo prevede di utilizzare la "European Peace Facility", lo strumento europeo per la Pace che ha una dotazione complessiva di 5 miliardi di euro. Una strada considerata più rapida e più sicura. Fonti diplomatiche Ue definiscono il dibattito in corso come una questione di lana caprina perché tra le due soluzioni non ci sarebbero grandi differenze, «ciò che conta è il segnale che vogliamo dare». La Francia, presidente di turno dell'Ue, al momento non si è ancora schierata. Ma i Paesi dell'Est stanno tirando per la giacchetta Emmanuel Macron. «Sulla missione è in corso una riflessione» spiega Nathalie Loiseau, presidente della sottocommissione Sicurezza e Difesa del Parlamento Ue. Da domenica sarà a Kiev con una delegazione di eurodeputati. Secondo l'ex ministro francese «nessuno, a parte Putin, vuole avvelenare la situazione, ma per far avanzare la diplomazia bisogna essere credibili anche nel campo della dissuasione».

LA TUNISIA DEL NUOVO AUTOCRATE SAIED

Domenico Quirico sulla Stampa traccia un bilancio della Tunisia, che ha cancellato la primavera araba con l’autocrate Kais Saied. Ma la Sapienza di Roma gli ha dato un dottorato.

«Per dieci anni le cancellerie occidentali si sono affaticate a cancellare, dietro neppur troppo spesse dissimulazioni retoriche, quelle che un tempo chiamavamo le Primavere arabe. Operazione riuscita, con maggiori o minori affaticamenti, ovunque: in Egitto con l'avvento di un Mubarak meno bolso e più spietato di quello vecchio, in Libia con la spartizione di fatto del Paese in zone di influenza affidate momentaneamente a lillipuziani proconsoli in attesa di trovare una reincarnazione efficiente dell'indimenticabile Colonnello. In Siria si è provveduto con la opportuna permanenza al potere di Bashar Assad che offre ampie garanzie. Mancava all'appello termidoriano proprio la piccola Tunisia dove tutto era iniziato. Insomma bisognava trovare dopo dieci anni di penoso cabotaggio democratico infarcito di paralisi politica, stagnazione economica e sociale, corruzione, tentazioni jihadiste, un altro Ben Ali che facesse da esorcista e ristabilisse la nostra omertà di combriccole utilitarie: ovvero ordine, buoni affari, garanzie contro islamisti e soprattutto contro i migranti. Sì, a noi che siamo i messia dei diritti umani nel Terzo mondo piacciono i dittatori ma li vogliamo circoscritti e maneggevoli. La via del potere personale Ebbene ora l'uomo c'è: Kais Saied, presidente allergico a qualsiasi ostacolo che si frapponga alla sua volontà, ovviamente emanazione diretta e incontestabile del volere del Popolo. L'autocrate è in smania di autoaffermazione, marcia a passo da bersagliere sulla via del potere personale e della dittatura solitaria. Evviva! Dunque tutto è tornato in ordine sulle rive del Mare Nostrum, abbiamo adeguato le opinioni ipercelesti di democrazia ai costumi sotterranei di tirannide. Per dare corpo a questa ennesima, e neppure originalissima, reincarnazione di caudillismo musulmano, vecchio scheletro a cui si da nuova polpa, Saied ha proceduto alla chiusura del parlamento a tempo indeterminato, alla revoca della immunità ai deputati molti dei quali sono finiti sotto processo, e crocifigge tutti coloro che lo criticano alle qualifiche di "traditori", "ladri", "corrotti" al soldo di poteri occulti. Promettendo ovviamente di non toccare libertà e diritti via via che li getta nella polvere, annuncia di voler trasformare in un vuoto secco, dissacrato e profano la faticosa Costituzione del 2014 costruita attorno a un equilibrio dei poteri che bloccasse appunto i tentativi possibili di un ritorno autoritario. Ne annuncia infatti una sostanziale revisione. Vediamola dal vivo. La "revisione" Al posto del detestato Parlamento ci saranno fumosi alambicchi consultivi, «consigli locali» a metà tra i soviet e le ubbie del primo Gheddafi, che verranno sottoposti chissà quando a "referendum". Operazione che già in se stessa appare come golpista perché dovrebbe esser votata dal Parlamento che non esiste più e sotto il controllo di una corte costituzionale che non è mai stata costituita. Su quella Costituzione, peraltro frutto misto, precario, incerto tra varie astrazioni sono stati spalmati da questa parte del Mediterraneo chilometri di ipocrita inchiostro elogiativo («Vedete, pessimisti e miscredenti, nei Paesi arabi la democrazia è possibile»). Ai meritevoli di quella impresa sono stati distribuiti encomi e riverite patacche. L'incarico alla Sapienza Questa vicenda che ora si racconta si svolge a Roma e può sembrar minore, una sciaguratissima gaffe, ma scopre bene molte bugie d'occidente. Dunque: tra queste patacche, nel giugno dello scorso anno, si iscrive anche un dottorato di ricerca in diritto romano assegnato in palandre accademiche dalla università romana La Sapienza proprio al super presidente, Kais Saied, per il «contributo decisivo dato allo sviluppo del dialogo tra ordinamenti giuridici fondato sul rispetto reciproco e la valorizzazione dei diritti umani». Il 25 luglio il delittuoso Democratico realizzava il golpe assumendo i pieni poteri «per salvare la nazione». A chiudere il parlamento spedì un carro armato facendo appendere la scritta «sospeso» come un negozio che vendeva merce avariata. Si constata, per attenuare: ma la università romana non poteva prevedere con un mese di anticipo la mossa golpista! Ai professori forse smarriti tra le delizie delle "res mancipi" e della "iurisdictio"' non dovevano sfuggire le reiterate fatwe di Saied contro la fastidiosa sopravvivenza di partiti, parlamento, società civile che definiva «vecchie schiavitù di cui bisogna liberarsi», gli ispiravano fobìe e la sgangherata idea che «la democrazia sia la corrispondenza tra capo e il suo popolo che non sbaglia mai. In fondo la democrazia rappresentativa è in fallimento anche in occidente». Come dargli torto! Sono sfuggite ai giureconsulti romani anche altre ideuzze del presidente: favorevole alla pena di morte ad esempio o contro la depenalizzazione della omosessualità. Vabbè, si può sorvolare su questi brutti segni premonitori, su questi imprudenti miscugli tra sacro e profano. Lo scandalo semmai è che da quel 25 luglio nessuno ha preso la unica decisione che consentirebbe di salvare il pudore politico e accademico, ovvero di sospendere o revocare il dottorato. Altrimenti il termine giuridico da utilizzare diventa quello di correità. Non è una scusa che una folta parte dei tunisini, come avviene a tutte le latitudini alle apparizioni dell'uomo della provvidenza che promette di far piazza pulita dei ladri (che certo non mancavano nella balbuziente democrazia del decennio) e degli affamatori del popolo, all'inizio applaudisse infervorata i sermoni di Saied. Tra loro, a guardar bene, anche i nostalgici di Ben Ali che intravedevano insperate occasioni di "revanche" affaristica. Nel frattempo però migliaia di tunisini rinsaviti sono tornati in piazza per protestare contro il presidente, richiamati oltre che dal partito islamista Ennahda anche dalle formazioni centriste e di sinistra riunite in un "collettivo contro il colpo di Stato". Non è evidentemente quello il popolo a cui Saied riconosce la P maiuscola: manifestazione vietate «per covid», i gendarmi che fiutano l'aria e si sfrenano nei vecchi buoni metodi del tempo di Ben Ali, intimidazioni, manganellate, feriti, arresti, un sostenitore del partito islamista morto, un giornalista del francese «Liberation» picchiato. Salviamo le apparenze Nel frattempo però i vezzeggiamenti da parte delle cancellerie verso il raiss di Cartagine si sono moltiplicati, con qualche pudibondo invito a non esagerare nel nuovo corso. Insomma: salviamo le apparenze. In questo incensamento ci siamo distinti, con la visita del ministro degli esteri al palazzo di Cartagine, ministro incantato dalla splendida ed esemplare collaborazione tra i due Paesi. E poi ci sorprendiamo che nel Nord Africa al Qaida avanzi arruolando legioni di disgustati dell'Occidente. Nonostante la boria da caid messianico e il raffinato arabo letterario che utilizza al posto del vernacolare "derja" tunisino (ma il popolo?) il Presidente è un personaggio in fondo banale, un travet senza fascino di questa epoca di illiberalismi populisti di gran moda su tutte le sponde, quando la proliferazione di larvate tirannidi sembra in grado di avvantaggiarsi sulle forze democratiche colpevolmente in declino o complici per interesse. Le Terze vie miracoliste Questo avviene più lentamente in Paesi di antica tradizione liberale, in modo rapido in quelli più fragili e recenti come la Tunisia. Le "rivoluzioni legali", "il popolo che diventa sovrano", che "ha sempre ragione'', le Terze Vie miracoliste: quante volte purtroppo abbiamo sentito in un mondo di falsari queste bugie balbuzienti? In una rivoluzione dei gelsomini precocemente appassita nell'affarismo e nella corruzione inefficiente, irrompe il solito prepotente che proclama di esser l'unico capace di impedire che il popolo diventi ozioso, avido e lassista, ma che vuole semplicemente governare sul Paese da padrone, come se fosse a casa sua. Che si può fare in questa epoca incerta, tribolata, senza principi di inoppugnabile certezza? Come minimo non dar loro un dottorato e la mano».

PEDOFILIA, I VESCOVI TEDESCHI CHIEDONO SCUSA ALLE VITTIME

Scandalo abusi in Germania. Arrivano le scuse del cardinal Marx: «Abbiamo trascurato il dolore delle vittime». Per il porporato vi è ancora chi «non ha compreso la sfida a cui stiamo andando incontro». La cronaca di Avvenire.

«Chi ancora si oppone a una necessaria riforma della Chiesa non ha compreso la sfida a cui stiamo andando incontro». Con queste parole, sottolineate dalla maggior parte dei media tedeschi, il cardinale Rheinard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, non chiude la controversa vicenda degli abusi nella Chiesa cattolica tedesca ma probabilmente apre una nuova fase di «confronto e ricostruzione», ha aggiunto il porporato ieri nella conferenza stampa all'Accademia Cattolica di Monaco convocata per commentare il rapporto sugli abusi nella sua Chiesa locale uscito la scorsa settimana. «La più grande colpa - ha affermato - è aver trascurato le persone colpite. Questo è imperdonabile. Non avevamo alcun reale interesse per la loro sofferenza. Ho una responsabilità morale per questo come arcivescovo facente funzione». Poi si è rivolto a coloro che hanno subito gli abusi: «Chiedo ancora una volta scusa a nome dell'arcidiocesi. Sono scuse rivolte alle ma anche ai fedeli che ora dubitano della Chiesa ». Inoltre ha rivolto il suo pensiero «alle comunità parrocchiali nelle quali sono stati impiegati i responsabili» degli abusi. «Non abbiamo avuto nei confronti di queste parrocchie sufficiente attenzione, coinvolgendole», ha osservato. Marx ha anche parlato di «cause sistemiche alla base degli scandali che ormai non si possono più negare». Tra il 1945 e il 2019 i legali dello studio Westpfahl Spilker Wastl, dietro mandato della stessa arcidiocesi di Monaco, hanno accertato e documentato in un'inchiesta di 1.900 pagine che sono stati almeno 497 i minori vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti e rappresentanti dell'arcidiocesi. Le vittime sono per lo più di sesso maschile, il 60% tra gli 8 e i 14 anni. Coinvolte 235 persone: 173 preti, 9 diaconi, 5 referenti pastorali e 48 addetti dell'ambito scolastico. Un dossier che, secondo il porporato, rappresenta «una profonda cesura per l'arcidiocesi e una cesura anche al di là di questa». Allo stesso Marx, presidente emerito della Conferenza episcopale tedesca, vengono attribuiti errori di comportamenti relativamente a due casi nel 2008. «In almeno un caso mi rimprovero di non essere intervenuto attivamente», ha riferito ieri. Marx aveva presentato lo scorso maggio le dimissioni a papa Francesco. «Ma il Pontefice ha deciso in un altro modo, chiedendomi di continuare responsabilmente il servizio», ha chiarito davanti alla stampa. Cosa che «sono pronto a fare» anche in vista «dei prossimi passi che bisogna compiere per un'elaborazione più affidabile, per una maggiore attenzione verso le vittime e per una riforma della Chiesa», ha proseguito. Il porporato aveva diffuso parte della lettera inviata a Francesco in cui citava, tra le ragioni della scelta, «la catastrofe degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti». Ieri il cardinale ha spiegato che «se sarà ritenuto utile o necessario in ogni momento sono pronto a rimettere il mandato». L'intervento del cardinale arriva anche dopo il chiarimento del Papa emerito, Benedetto XVI, riguardo alla conoscenza dei fatti risalenti al 1980 quando Joseph Ratzinger guidava l'arcidiocesi di Monaco e Frisinga. L'indagine ha chiamato in causa Ratzinger per presunti errori in quattro casi, da lui sempre negati. Rispondendo a una domanda sulle dichiarazioni del Papa emerito, Marx ha affermato: «Accetto che lui interpreti i fatti diversamente su questo punto, che se ne dispiaccia. Penso che lui si esprimerà di nuovo su tutta la questione. Questa sarebbe una cosa positiva e io la vedrei positivamente». Ratzinger negli ultimi giorni ha subito molti attacchi da parte dei media tedeschi, in particolare da Bild. Il quotidiano nazional-popo-lare, come spesso accade, cavalca l'onda mediatica. Nel giorno della sua elezione a Papa, il 19 aprile 2005, Bild urlò al mondo: «Wir sind Papst!» («Noi siamo il Papa!»), salutando il primo Pontefice tedesco della storia. «La Chiesa cattolica tedesca ora vive probabilmente il momento più difficile della sua storia moderna e contemporanea », ha commentato ieri il quotidiano progressista di Monaco di Baviera, Süddeutsche Zeitung. «Non ci sarà un futuro per il cristianesimo nel nostro Paese se non ci sarà rinnovamento nella Chiesa», ha concluso il cardinale Marx».

PERCHÉ RATZINGER È PAPA EMERITO

Ratzinger e il ruolo di Papa emerito. Antonio Socci per Libero torna sull’argomento recensendo un libro di monsignor Georg Gänswein.

«Il principale collaboratore di Benedetto XVI, Mons. Georg Gänswein, ha raccolto, nel libro Testimoniare la Verità. Come la Chiesa rinnova il mondo (Edizioni Ares, pp. 272, euro 19), alcuni suoi interventi pubblici, testi di conferenze, interviste e omelie. È un libro ricco di spunti e prezioso da leggere per capire la grandezza del pensiero e del pontificato di Benedetto XVI. Inoltre c'è una "perla nascosta" a pagina 59. Sotto il titolo Il papato rinnovato, mons. Gänswein pubblica il testo della clamorosa conferenza che tenne, all'Università Gregoriana di Roma, il 20 maggio 2016, in occasione della presentazione del volume di Roberto Regoli Oltre la crisi della Chiesa. In quella conferenza il segretario particolare di Benedetto XVI cercò di esplicitare la riflessione di Joseph Ratzinger a proposito della «rinuncia» e della scelta del «papato emerito». Nel libro si ritrovano certi passaggi importanti della conferenza: dove definisce «irrevocabile» per Benedetto XVI «l'accettazione dell'ufficio di Pietro nell'aprile 2005» o dove dice che «il ministero papale non è più quello di prima» perché Benedetto XVI lo «ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d'eccezione». O dove afferma che la Chiesa «continua ad avere un unico Papa legittimo. E tuttavia, da tre anni a questa parte, viviamo con due successori di Pietro viventi tra noi». Ma nel libro manca la parte più "esplosiva" di quel discorso (reperibile in rete su Acistampa), quella dove Gänswein parlava del «munus petrinum» affermando: «Prima e dopo le sue dimissioni Benedetto ha inteso e intende il suo compito come partecipazione a un tale "ministero petrino". Egli ha lasciato il Soglio pontificio e tuttavia, con il passo dell'11 febbraio 2013, non ha affatto abbandonato questo ministero. Egli ha invece integrato l'ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune». Poi proseguiva: «Dall'elezione del suo successore Francesco il 13 marzo 2013 non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato con un membro attivo e un membro contemplativo. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l'appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è "Santità"; e per questo, inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all'interno del Vaticano- come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo successore e a una nuova tappa nella storia del papato». Nel libro poi c'è un finale, che non compariva su Acistampa, in cui si parla di «ministero petrino allargato intorno ai successori dell'apostolo Pietro». Precisazione. In una successiva intervista, riportata nel libro, Gänswein, «poiché da molte reazioni ho dedotto che mi sono state attribuite cose che non ho detto», precisa che «ovviamente papa Francesco è il legittimo Papa, legittimamente eletto. Chi parla di due Papi, uno legittimo e uno illegittimo, di conseguenza sbaglia. Quel che ho detto in realtà - e che anche Benedetto dice - è che egli continua a essere presente nel "recinto di san Pietro" (cioè nel Distretto Vaticano) con la preghiera e il sacrificio, ciò che porta frutti spirituali al suo successore e alla Chiesa. Questo è ciò che ho detto. Da tre anni abbiamo due Papi viventi... è chiarissimo che papa Francesco detiene la plenitudo potestatis (i pieni poteri). Egli è colui che detiene la successione di Pietro».

Leggi qui tutti gli articoli di venerdì 28 gennaio:

https://www.dropbox.com/s/qc1lta0lab8p0ec/Articoli%20La%20Versione%20del%2028%20gennaio.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Oggi c’è La Versione del Venerdì.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Share this post

Salvini prova a forzare

alessandrobanfi.substack.com
Comments
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing