La Versione di Banfi

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Sangue sui fuggitivi

alessandrobanfi.substack.com

Sangue sui fuggitivi

Terribile catena di attentati all'aeroporto di Kabul. Kamikaze dell'Isis su soldati Usa e civili afghani. Decine di vittime. Oggi l'ultimo volo italiano. Durigon si dimette. Sicilia gialla da lunedì

Alessandro Banfi
Aug 27, 2021
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Sangue sui fuggitivi

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L’aeroporto di Kabul è diventato l’epicentro di un’emergenza internazionale senza precedenti. Gli attentati di ieri con decine e decine di vittime, fra cui almeno undici soldati americani, hanno sconvolto il mondo. I kamikaze hanno colpito proprio a ridosso dello scalo aereo, nel territorio controllato dalla forza militare americana. Chi ha colpito? Una rivendicazione è venuta dall’Isis della provincia afghana del Korashan. Ma la reazione del governo talebano è stata ambigua, come spiega bene Nicastro sul Corriere. L’effetto della sanguinosa strage è accelerare il ritiro degli occidentali. I tedeschi hanno già concluso la missione. Oggi rientra l’ultimo volo italiano, che imbarcherà anche il nostro giovane diplomatico Tommaso Claudi.

Perché gli Usa si sono messi in questa condizione, pur avendo lanciato l’allarme, almeno da lunedì scorso, su possibili attentati terroristici?  Commenti e articoli provano a rispondere al difficile quesito. Notevole l’intervento di Kissinger, scritto per la stampa internazionale. Fa venire in mente il libro Ragazzi di zinco del premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievič, dedicato ai soldati sovietici caduti nel conflitto decennale dal 1979 al 1989. Lettura illuminante, da riprendere in questi giorni. Quirico su La Stampa fa notare che gli occidentali hanno voluto credere che l’Isis fosse sconfitto e davvero sparito. Non era così. Ultima questione da non dimenticare: come scrive oggi il Manifesto, l’Europa non vuole i profughi dall’Afghanistan.

Fronte pandemia. Buone notizie sui contagi in calo, mentre la Sicilia si avvia a diventare “gialla”. L’80 per cento dei ricoverati nella regione non sono vaccinati. Presa di posizione di Sergio Cofferati in polemica con Landini. Mentre Zaia annuncia che offrirà a tutti gli studenti veneti per il rientro a scuola del 13 settembre test salivari. Ieri sono state fatte solo 288 mila 591 vaccinazioni.

Durigon si è dimesso, ha ceduto dopo un colloquio con Salvini. Lui spiega che non è e non è mai stato fascista, in una lettera aperta pubblicata da Libero. Travaglio sul Fatto, che aveva raccolto le firme contro il sottosegretario, gioisce. Selvaggia Lucarelli, dalle stesse colonne, lascia il segno su Monica Cirinnà. Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Si tinge di sangue il ritiro occidentale dall’Afghanistan. Per Avvenire è: La strage più vile. Il Corriere della Sera spiega: L’Isis attacca, morte a Kabul. Repubblica sottolinea la mano degli attentatori: Isis, bagno di sangue a Kabul. La Stampa ha un titolo diretto: La strage di Kabul. Il Domani ricorda gli allarmi della vigilia: L’attacco che tutti si aspettavano. Decine di morti e feriti a Kabul. Il Fatto lo paragona con la fuga da Saigon: Peggio del Vietnam. Il Giornale evoca Márquez: Strage annunciata. Il Quotidiano Nazionale, quasi una didascalia alla foto di due donne insanguinate: Il massacro di Kabul. Il Manifesto torna sull’immagine dell’aeroporto: La pista del terrore. Per Il Mattino è: La strage dei disperati. Il Messaggero: Kabul, l’ultimo orrore. Libero allude alle polemiche sul rapporto coi talebani: Altro che trattare, ci sparano. Il Sole 24 Ore preferisce la buona notizia sulla produzione industriale: Fatturato, crescita record sull’estero. Mentre La Verità insiste nella sua polemica contro il Green pass: Dai banchi a rotelle a Bianchi senza rotelle.

STRAGE ALL’AEROPORTO DI KABUL

Una serie di attacchi, decine di vittime. Quello che da giorni si temeva è avvenuto. Il racconto di Giuliano Foschini di Repubblica, uno degli inviati italiani sul posto.

«Aiuto! Il canale è diventato rosso. Rosso come il nostro sangue. Ci sono tantissimi morti». Lo avevano promesso. Ce lo aspettavamo. È accaduto. L'aeroporto di Kabul era già, da giorni, il centro del dolore del mondo. Ieri, si è aggiunto l'orrore che solo il terrorismo è in grado di dare: il male per il male. Mentre le truppe occidentali lasciano l'Afghanistan e gli ultimi voli, anche italiani, portano i civili in fuga dal loro paese, al sicuro in Occidente, migliaia di cittadini afghani, due attentati terroristici a distanza di pochi minuti l'uno dall'altro, hanno compiuto una strage di innocenti: 60 morti e 150 feriti, moltissimi bambini, in un primo bilancio destinato, evidentemente, a salire. A colpire sono stati due kamikaze (non si esclude che in una circostanza si sia trattato di una donna) in quello che sembra essere il marchio di fabbrica dell'Isis che, infatti, per primo ha rivendicato l'attentato tramite la sua sezione della regione asiatica del Khorasan. La prima esplosione è stata opera di un kamikaze che si è fatto saltare in aria fuori dal Baron Hotel, che in questi giorni è diventata la base di giornalisti e truppe del Regno Unito. Poco dopo, l'attacco più importante, qualche chilometro più avanti all'Abbey Gate, il grande ingresso dello scalo di Kabul che dal 15 agosto è diventata l'uscita dell'inferno per gli afghani che vogliono scappare da Kabul presa dai talebani. Gli americani, che lo gestiscono, avevano da subito posizionato dei grandi container in modo da poter garantire l'entrata soltanto a chi ne aveva diritto. Chi, cioè, era nelle liste stilate dai Paesi che avevano aperto il ponte aereo. Da giorni la situazione all'Abbey era diventata insostenibile: centinaia di persone occupavano per l'intera giornata il canale di fogna a cielo aperto che corre parallelo al muro di cinta dell'aeroporto. Sul muretto che lo costeggia, i militari di tutto il mondo facevano la spola tirando volta per volta le persone che individuavano per controllare i loro documenti: se avevano diritto, passavano in aeroporto. Altrimenti tornavano nella fogna. Già lunedì i servizi di intelligence americani avevano lanciato un'allerta molto chiara: l'Isis vuole colpire. E lo vuole fare ad Abbey. Vuole infatti punire questa sorta di collaborazione tra i talebani e gli occidentali. Vuole evitare che altre persone escano dall'Afghanistan. E vuole riprendersi la scena nel palcoscenico che, oggi, ha puntati tutti gli occhi del mondo. Un allarme preciso reso ancora più esplicito da un'informazione arrivata nel tardo pomeriggio del 25 quando anche i nostri militari hanno ricevuto un alert: l'Isis è pronta a colpire con almeno tre kamikaze fuori dall'aeroporto: «Non mandate uomini all'Abbey». In realtà ancora mercoledì notte i soldati - anche italiani, insieme con i carabinieri del Tuscania e i vertici della nostra missione - continuavano a calare le mani nella fogna per tirare su e salvare le persone della lista. Ieri però hanno dovuto interrompere: nella tarda mattinata, per una questione di sicurezza, lo scalo di Abbey è stato chiuso. Nessuno più è entrato. Nessuno più è uscito. E, proprio chi sperava in qualche ulteriore mano calata potesse regalare la libertà, è stato colpito. C'era un gruppo di ragazze e di ragazzi che dovevano arrivare in Italia. Qualcuno di loro, purtroppo, dovrebbe essere tra le vittime. «Il canale è diventato rosso come il sangue», piangeva una di loro al telefono con l'Italia, mentre cercava i suoi amici. «Non li trovo, non so dove sono». Tra le vittime ci sono anche 13 marines americani e 15 feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni. E sono stati proprio gli americani, con il Pentagono, a dire le prime parole per cercare di spiegare cosa potesse essere accaduto. «Il fatto - ha detto il capo del comando centrale, Kenneth McKenzie - che un attentato suicida sia riuscito ad avvicinarsi ai marine Usa è in qualche modo un fallimento ». Lo è perché in qualche modo gli statunitensi, insieme con i talebani, avevano garantito la sicurezza dello scalo. «La sicurezza - ha detto McKenzie - è in parte affidata ai talebani: alcuni sono bravi e scrupolosi e altri lo sono meno». Ma esclude che da loro possa essere arrivato un aiuto all'Isis, «Se lo abbiano lasciato accadere, non lo so, non c'è nulla che mi convinca che sia successo. E non è una questione di fiducia. Hanno una ragione pratica per volerci via entro il 31 agosto. Vogliono riprendere l'aeroporto. Vogliamo andarcene anche noi entro quella data, se possibile: quindi abbiamo un obiettivo comune. Finché teniamo vivo questo obiettivo comune, è utile lavorare con loro. Hanno eliminato alcune delle nostre preoccupazioni per la sicurezza: è stato utile lavorare con loro». Quando è arrivato l'eco della prima bomba nello scalo di Kabul è arrivato immediatamente l'allarme dell'attacco via terra. È successo anche nella base italiana, una delle ultime a essere ancora quasi piene: in queste ore stanno andando via tutte, mercoledì notte francesi e turchi staccavano dai muri dei compound le foto dei loro generali. O abbandonavano le auto fuori, sapendo che nel giro di cinque giorni tutto sarebbe stato distrutto. Nessun militare italiano è stato ferito, dice la Farnesina. Le procedure di evacuazione sono state accelerate. Oggi partirà l'ultimo aereo italiano dall'aeroporto d Kabul con a bordo i militari e il console Tommaso Claudi che, con Difesa e intelligence, ancora ieri era a dare assistenza ai cittadini afghani. Ora, però non c'è più tempo. Come ha spiegato il Pentagono nella tarda serata di ieri, ci sono informazioni precise sul fatto che gli attacchi continueranno: c'è un rischio autobombe e un allarme sul possibile lancio di razzi contro l'aeroporto. Era notte quando, gli aerei occidentali erano in pista, e dall'altra parte del muro raccontavano del rumore di una nuova esplosione». 

Andrea Nicastro sul Corriere della Sera mette in luce il gioco ambiguo dei Talebani:

«I nuovi padroni di Kabul reagiscono istituzionali e velenosi alle esplosioni che insanguinano la sera della città. Usano Twitter e lo fanno coordinati. Parlano della «grande attenzione» che il «movimento» attribuisce alla protezione della popolazione», della «ferma condanna dell'Emirato» e altre banalità tipiche di qualsiasi cancelleria. Ma è il principale portavoce, Zabihullah Mujahid, ad andare oltre, dando il senso di quel che ci si può aspettare da oggi in poi dal secondo Emirato talebano. Sembra di vedere la smorfia di disprezzo sotto la barba folta di Mujahid. «Gli attentati sono avvenuti in un'area dove le forze Usa sono responsabili della sicurezza». Noi non c'entriamo, la colpa, insomma, è di quei perdenti degli americani. Sarà meglio che se ne vadano come hanno promesso. Un soggetto politico nuovo e imprevedibile è entrato nella politica internazionale. Le loro parole, le loro azioni nascono dall'esperienza della guerriglia, del carcere, della tortura inflitta e subita, di una vittoria coltivata, sognata per venti anni. Hanno una sconfinata fiducia nei propri mezzi perché hanno avuto la prova che funzionano. La priorità assoluta dei talebani è oggi avere le truppe straniere fuori dal Paese. Solo allora proclameranno la vittoria, vareranno un governo più o meno «inclusivo» oppure risolveranno in altro modo i dissidi tra compatrioti. Sono disposti anche a dire a Joe Biden, il capo della superpotenza che potrebbe schiacciarli con un bottone, che non può restare un giorno oltre il previsto. Non sarebbe strano fossero stati loro a far arrivare l'allarme attentato alla Cia. In una città terrorizzata, dove qualsiasi amico dell'Occidente sta il più possibile coperto, chi altri può passare un'indicazione così circostanziata? E perché non pensare male fino in fondo e concludere che siano stati gli stessi talebani ad avverare la loro previsione? Per gli «studenti coranici» offrire agli Usa la scusa del terrorismo per chiudere il ponte aereo è un'operazione facilissima da mettere in piedi. Le competenze non mancano di sicuro. Il nuovo ministro della Difesa, Abdullah Gulam Rasoul, nome di battaglia mullah Zakir, venne fermato dalle truppe americane nel dicembre del 2001. Aveva un kalashnikov, delle bombe da mortaio nel bagagliaio e due orologi Casio al polso. Allora gli americani non pensavano di dover trattare con lui da ministro e lo trattarono in modo piuttosto ruvido. Come mai due orologi? Li convinse di aver paura di arrivare in ritardo. Non sapevano che mullah Zakir si dilettava ad inventare trappole esplosive e che quegli orologi funzionavano come timer. Da allora il neo ministro ha passato sette anni nell'università del terrorismo del carcere Usa di Guantanamo per poi convincere gli esperti di deradicalizzazione che la sua volontà era spezzata, che avrebbe solo coltivato la terra. Pochi mesi dopo la scarcerazione guidava l'offensiva contro i britannici nella provincia di Helmand. Figurarsi che difficoltà avrebbe ad annunciare un rischio attentati e poi a realizzarlo. Ci sono decine di gruppi talebani che potrebbero aver preso l'iniziativa di dare la spallata finale alle velleità degli stranieri di restare e degli afghani di scappare. I primi sospetti sono gli affiliati del network Haqqani, per anni rivali e poi confluiti nel movimento talebano. Risponde a loro la maggior parte dei miliziani nella capitale. Gli Haqqani controllano un'area più grande dell'Austria a cavallo della frontiera tra Afghanistan e Pakistan. Entrano ed escono dal quartier generale delle Forze armate del Pakistan a Rawalpindi come fossero generali pachistani. Ma sono anche i più stretti alleati di ciò che resta di Al Qaeda in Afghanistan. I talebani «ufficiali», quelli della «shura di Quetta», gli eredi diretti del fondatore del movimento mullah Omar, hanno promesso a Washington di tagliare ogni aiuto ad Al Qaeda. Gli Haqqani hanno accettato, ma chissà? Perché non fare un ultimo dispetto? Poi certo, c'è l'accusato ufficiale: lo Stato Islamico del Khorasan. Si tratta di talebani che hanno lasciato la casa comune per mettersi al servizio del marchio internazionale del terrore. L'hanno fatto per ricevere finanziamenti e volontari, per velleità di espansione internazionale. Ma sono stati talebani e possono tornare ad esserlo. Oggi sono il perfetto colpevole, ma domani potrebbero entrare nel famoso governo «inclusivo». Prima,però, gli stranieri devono andarsene. E l'avviso è arrivato forte e chiaro: prima sarà, meglio per tutti».

Maurizio Molinari dedica alla giornata di sangue di ieri l’editoriale in prima pagina di Repubblica.

«L’attacco terroristico multiplo contro l'aeroporto di Kabul, con il pesante bilancio di vittime afghane e americane, porta con sé il timbro dei kamikaze dello Stato Islamico (Isis). È una mossa sanguinaria con cui i jihadisti dimostrano di saper sfruttare errori e debolezze dei loro avversari. Gli errori del presidente americano, Joe Biden, che ha avallato un ritiro affrettato - contro l'opinione del Pentagono e dell'intelligence - credendo nella possibilità di affidare la stabilità dell'Afghanistan ai talebani e alle loro promesse sottoscritte a Doha nel 2020. E le debolezze dei talebani che, arrivati a Kabul senza sparare un colpo sono palesemente privi di apparati di sicurezza e di leader capaci di controllare il territorio nazionale e impedire le infiltrazioni della "Provincia del Khorasan", espressione locale dei rivali jihadisti dell'Isis. A conferma delle evidenti vulnerabilità del patto Usa-talebani sulla transizione a Kabul, i jihadisti sono riusciti a eseguire l'attacco multiplo nonostante il capo della Cia, William Burns, sia arrivato a Kabul per incontrare il capo dei talebani, Baradar, proprio al fine di impedirlo, affermando di avere prove schiaccianti sulla pianificazione in corso da parte dell'Isis. Il risultato è che l'Afghanistan da cui gli americani hanno fretta di ritirarsi e che i talebani non riescono a controllare si presenta oggi come il più invitante degli "Stati falliti" dove l'Isis può avere l'ambizione di risorgere, con obiettivi talmente feroci da far impallidire ciò che rest a della vecchia Al Qaeda. Inviando un messaggio inequivocabile a chi - da Mosca a Pechino, da Teheran e Islamabad - già faceva piani per un riassetto strategico regionale a proprio vantaggio: chiunque si avvicinerà a Kabul dovrà fare i conti con la Jihad. Il tutto condito dall'esaltazione delle altre "province" dell'Isis, dal Sahel allo Yemen, dal Corno d'Africa al Nord della Siria, che vedono nella strage di Kabul l'inizio di un possibile riscatto a quasi quattro anni dalla caduta di Raqqa». 

Andrea Lavazza scrive l’editoriale di Avvenire.

«L'attentato più vigliacco. La fine più ingloriosa della presenza occidentale in Afghanistan. E forse l'alba livida e tragica di una nuova stagione di terrore, a Kabul e non solo. Mai attentato fu più annunciato, ma i kamikaze che si sono fatti saltare tra civili inermi in fila all'aeroporto difficilmente potevano essere fermati dai militari ancora nello scalo. Potevano intercettarli i taleban? Non lo si può escludere. La carneficina che sdegna il mondo fa comodo (in parte) anche a loro. Finirà con l'accelerare la partenza degli occupanti e frenerà qualche afghano dall'estremo tentativo di unirsi ai fortunati passeggeri degli ultimi voli verso la libertà. L'autobomba che ha colpito al cuore anche i soldati americani è opera del Daesh, deciso a far marcare tragicamente la sua presenza nel Paese riconquistato dall'estremismo sunnita. Tra i risultati indiretti vi è quello di accrescere gli alibi dell'addio frettoloso e carico di nefaste conseguenze da parte degli Stati Uniti». 

Domenico Quirico su La Stampa ragiona sull’Isis, dato per morto, con grande sufficienza,  dalla stampa e dalla diplomazia occidentali:

«Erano ufficialmente annientati, i grandi e piccoli sensali del nuovo Califfato universale, quelli che vivono di guerra santa permanente. Li avevamo dimenticati gli untorelli del terrore planetario, braccati dai curdi e dalle bombe americane, ridotti a poche decine di dispersi tra i deserti di Siria e Iraq. Uccisi i capi, perdute le città della loro feroce recita statalista, sopravvivevano nell’attizzare minuscoli conflitti locali, poco più che storie di predoni e di vendette claniche. Per cercare i loro attentati si doveva scendere in ininfluenti zone del mondo: Mozambico Sahel Nord della Nigeria. Vittime che non ci interessavano, l’unica precisazione tranquillizzante era: non ci sono stranieri. Un mondo residuale di periferici, di isolati, di vinti. Sfiorato l’orlo dell’abisso si distribuivano le medaglie, si brindava all’annientamento del Mostro. Gettiamo l’ancora, abbiamo vinto, Isis non c’è più, garantivano l’Intelligence e gli esperti con alta sartoria speculativa: sparite le bandiere nere, le parate di pick-up, le esecuzioni scenografiche, le minacce universali. In fondo una bizzarra sigla di gente sprofondata nel passato e con sulle labbra solo parole di un tempo che fu. Prevale la tesi secondo cui il Male è un incidente. Un altro miracolo immaginario, l’ennesimo. Basato sulla idea decrepita che senza un territorio il Califfato sparisce. Mentre il Califfato è una Idea che esiste, resiste e nuoce sotto varie forme. L’esperienza doveva insegnarci che la rivoluzione islamica sboccia silenziosamente come un fiore di ferro, ha con sé una incoercibile facoltà di disfare. L’arma vincente della jihad planetaria è appunto la sua moltiplicazione. Non ci sono teatri di guerra santa periferica. La satanizzazione dell’Occidente e dell’islam per loro falso e bugiardo permette una aggressione globale, imperdonabile, definitiva. Che si ingozza degli errori degli altri, inghiotte avidamente le sostanze tossiche seminate da noi in varie zone del pianeta, distribuisce il caos e lo accudisce in un miscuglio di tradizione e modernità. Una strategia in cui non ci sono sconfitte definitive, solo ritirate, riposizionamenti, occasioni di nuove imboscate, bersagli ancora più ghiotti. Si scompare, il califfato fluisce in una impalpabile guerra universale cercando un nuovo fronte. Il soldato occidentale combatte per ciò che è, l’integralista di Isis lotta per essere. Non è una sfumatura, ma ci sfugge. Non li vedevamo più perché cercavamo di non vederli. Viviamo nell’apparenza e dell’apparenza. E loro erano a Cabo Delgado quasi in fondo all’Africa, nell’immenso Sahel, nel golfo di Guinea a far bollire vecchie miserie, a far lievitare l’odio, ad arruolare altri kamikaze e guerrieri. Non abbiamo ancora compreso che non si interessano alla estensione dei territori, interessano loro gli uomini, le obbedienze fino alla morte, le anime. Una demonicità senza frontiere. Erano da anni in Afghanistan, un luogo perfetto: occidentali in evidente ritirata, un Islam dove l’eruzione fondamentalista è antica quanto quello dei wahabiti d’Arabia, e poi armi guerra miseria. Gli odi non sono latenti o tiepidi, non c’è neppur bisogno di scaldarli al calor bianco. È vero: i taleban sono guerrieri di un dio feroce ma tenacemente locale, le guerre universali a loro non interessano, è sufficiente cacciar via lo straniero. L’alleanza con gli “arabi”, gli uomini di Bin Laden, in passato è costata loro la distruzione. Ma gli americani non hanno mai fatto distinzioni, bombe su tutti, la guerra al terrore è bianco e nero, niente sfumature. Il califfo Al Baghdadi non voleva alleati fedeli, come tutti i totalitarismi nascenti voleva sudditi che prestassero giuramento di obbedienza. E i taleban non obbediscono a nessun straniero. Ma Isis sa leggere la realtà locale, ricama sui medesimi schemi: i taleban litigavano, ferocemente, per il potere, bastava approfittarne. Gli scontenti, gli sconfitti, i duri erano pronti a convertirsi a una causa ancora più grande, alle loro esibizioni di calcolata efferatezza. Accanto agli uzbechi ai ceceni ai pachistani sotto le bandiere nere ecco spuntare le reclute afgane. Si staglia a destra dei taleban un temibile concorrente avido e senza scrupoli mentre noi cianciamo di taleban moderati o oltranzisti. I taleban vogliono la partenza degli americani, l’Isis ha bisogno che restino perché è solo nella guerra permanente che le occasioni possono moltiplicarsi, la loro jihad restare viva. E lasciare l’Occidente tra un passato in esaurimento e un avvenire angoscioso».

GLI ERRORI USA

Nei tanti commenti di oggi, un capitolo a parte riguarda gli Stati Uniti. Biden è il nuovo Carter? Federico Rampini su Repubblica riporta la sua reazione all’attentato e traccia un’analisi.

«Quei soldati morti - dice Joe Biden - sono eroi che hanno perso la loro vita per salvare vite altrui. Sono la parte migliore dell'America, si sono battuti per i nostri valori. Abbiamo un dovere sacro nei loro confronti. Quelli che li hanno uccisi, gli daremo la caccia e pagheranno. Li colpiremo con tutti gli strumenti, nel momento che sceglieremo noi. La missione continua». Il peggiore incubo di Joe Biden si è realizzato, alla débacle dell'evacuazione si aggiunge la strage di militari americani inviati per mettere in salvezza i connazionali nel ritiro. Il presidente che parla alla nazione ha la voce spezzata: cita il figlio morto di cancro, Beau, un ex militare che aveva servito in Iraq, si dice vicino alle famiglie delle vittime nel dolore e a un certo punto deve fermarsi per rimandare indietro la commozione. E ora su di lui incombe un interrogativo: ci sarà contro i responsabili del massacro quella risposta dura che lui aveva promesso? «Dodici uccisi, quindici feriti, e la minaccia di altri attentati dell'Isis-K resta terribilmente elevata», annuncia il Pentagono. È il bilancio più grave per un singolo attacco contro gli americani in Afghanistan dal 2011. Il generale Kenneth McKenzie, capo del comando centrale che dirige anche le operazioni in Afghanistan, avverte: «Se identificheremo i responsabili gli daremo la caccia per punirli». Ma non è questa la priorità per i seimila soldati americani che rimangono a Kabul. «La missione continua, l'evacuazione va avanti, restano più di mille cittadini americani che devono tornare a casa»: lo ha ripetuto anche Biden. Ancora ieri sera, nonostante il terrore seminato dagli attentati suicidi e il numero ben più elevato di vittime civili afgane, McKenzie riferiva che «cinquemila persone erano addensate sulla pista dell'aeroporto in attesa di partire». In realtà diventa ancora più difficile e pericoloso "estrarre" dall'Afghanistan gli americani che vi sono rimasti, per non parlare di quegli afghani che avrebbero visti o il diritto di chiedere asilo. Ancora 24 ore prima la Casa Bianca poteva esibire come un parziale successo l'aver portato in salvo centomila persone: ora è più difficile. Il presidente aveva visto chiaro almeno sulla natura del pericolo, ed è quel che ricorda alla nazione: «Avevo detto che un attentato era possibile, probabile, un pericolo annunciato. Per questo non voglio che i nostri militari restino un giorno più del necessario. Gli americani hanno già versato troppo sangue. Non voglio vedere altri lutti, altre sofferenze». Giustifica così anche la decisione di trattenere i 6.000 soldati dentro il perimetro dell'aeroporto, limitando quelle uscite e spedizioni di salvataggio che aumentano ulteriormente i rischi. Accusato da più parti - soprattutto dai repubblicani - di essersi «fidato dei talebani», Biden fa molta fatica a spiegare che Isis e talebani pur essendo islamisti non «sono la stessa cosa, anzi sono nemici». Ieri il presidente ha passato la giornata rinchiuso nel bunker della Situation Room, ha cancellato tutti gli appuntamenti in agenda (tra cui il summit con il nuovo premier israeliano Naftali Bennett), aggiornato costantemente dal suo team per la sicurezza nazionale. Le polemiche sulla sua gestione del ritiro sono state un crescendo per l'intera giornata e sono poi arrivate al punto massimo con l'attentato. Tra i repubblicani cresce il fronte di chi invoca l'impeachment o le dimissioni immediate del presidente. È tornato a tuonare anche Donald Trump: «Non dovrebbe essere un grosso problema (far fuori Biden, ndr) dal momento che non è stato eletto legittimamente». Ora Biden è costretto sulla difensiva, proprio lui che veniva descritto come lo statista anziano con maggiore esperienza di politica estera. La destra ha la memoria corta, come si usa nella tattica politica quotidiana. Il partito repubblicano che chiede la sua testa dimentica che date e modalità del ritiro erano state concordate fra l'Amministrazione Trump e i rappresentanti dei talebani, un anno fa a Doha in Qatar. Né viene ricordato il precedente di Beirut nel 1984, quando un attentato uccise 241 marines. L'allora presidente, il repubblicano Ronald Reagan considerato un falco in politica estera, si limitò a una rappresaglia simbolica (bombardamenti dal mare), ma poco dopo ritirò l'intero contingente americano dal Libano definendo quella guerra come "inutile" per gli interessi nazionali».

Henry Kissinger, statista ma anche storico e analista di grande prestigio, scrive sulla débacle americana un articolo per l’Economist, tradotto in Italia dal Corriere della Sera.

«La riconquista dell'Afghanistan da parte dei talebani ci costringe a dare la massima priorità all'espatrio e messa in sicurezza di decine di migliaia di persone, tra americani, alleati e cittadini afghani dislocati in tutto il Paese. Occorre tuttavia un'attenta riflessione per capire come mai l'America si sia ritrovata a dare l'ordine del ritiro, con una decisione presa senza preavviso né accordo preliminare con gli alleati e con le persone coinvolte in questi vent' anni di sacrifici. E come mai la principale questione in Afghanistan sia stata concepita e presentata al pubblico come la scelta tra il pieno controllo dell'Afghanistan o il ritiro totale. Un problema di fondo ha tormentato a lungo i nostri interventi di contrasto alla guerriglia, dal Vietnam all'Iraq. Quando l'America mette in pericolo la vita dei suoi militari, e in gioco il suo prestigio, chiamando a raccolta anche altri Paesi, deve farlo sulla base di una combinazione di obiettivi strategici, per chiarire quali sono le circostanze che hanno motivato la guerra, e politici, per definire la struttura governativa in grado di appoggiare efficacemente i risultati raggiunti, all'interno del Paese coinvolto e sulla scena internazionale. Gli Stati Uniti si sono rivelati inadeguati nelle azioni di contrasto agli insorti a causa della loro incapacità nel definire quali fossero gli obiettivi raggiungibili e di collegarli tra loro in modo tale da ricevere l'appoggio delle istituzioni politiche americane. Gli obiettivi militari sono stati troppo assoluti e irraggiungibili, quelli politici troppo astratti e sfuggevoli. L'incapacità di collegarli tra loro ha fatto sì che l'America restasse invischiata in conflitti privi di termini ben definiti, e ci ha portati, in patria, a perdere di vista la finalità condivisa, sconfinando in un marasma di diatribe interne. Siamo sbarcati in Afghanistan sull'onda di un ampio sostegno popolare in risposta agli attacchi terroristici di Al Qaeda sferrati contro l'America da un Afghanistan controllato dai talebani. La campagna militare iniziale ha raggiunto i suoi scopi con la massima prontezza. I talebani sono sopravvissuti essenzialmente nei covi forniti dal Pakistan, dai quali hanno continuato a combattere la loro battaglia in Afghanistan con il supporto di una parte delle autorità pakistane. Ma proprio nel momento in cui i talebani lasciavano il Paese, noi abbiamo perso di vista il nostro principale obiettivo strategico. Ci siamo persuasi che l'unico modo per impedire il ritorno delle basi terroristiche nel Paese era quello di trasformare l'Afghanistan in uno Stato moderno, dotato di istituzioni democratiche e di un governo insediato su base costituzionale. Una tale impresa non poteva prevedere un calendario certo, conciliabile con i processi politici americani. Nel 2010, in un articolo in risposta all'invio di nuovi effettivi americani in Afghanistan, avevo lanciato un monito contro un procedimento talmente lungo e invasivo che rischiava di alienare le simpatie della maggioranza degli afghani, anche di coloro che si erano opposti ai jihadisti. Perché l'Afghanistan non è mai stato un Paese moderno. La sovranità presuppone un sentimento di doveri condivisi e l'accentramento del potere. Il territorio afghano, ricco com' è di tanti elementi, è particolarmente carente in questi settori. Erigere uno Stato democratico moderno in Afghanistan, dove i decreti del governo vengano rispettati da un capo all'altro del Paese, richiede anni, se non decenni. E va a scontrarsi con la componente geografica, etnica e religiosa del territorio. È stata appunto la litigiosità, l'isolamento e l'assenza di un'autorità centrale in Afghanistan a renderlo particolarmente invitante come base per le organizzazioni terroristiche. Benché si possa far risalire la presenza di una società distintamente afghana al secolo XVIII, le sue popolazioni si sono sempre ferocemente opposte alla centralizzazione. Il raggruppamento politico, e in particolar modo militare, in Afghanistan ha sempre seguito le linee delle etnie e dei clan, in una struttura essenzialmente feudale, nella quale i detentori del potere sono coloro che organizzano le milizie di difesa del clan. Tipicamente impegnati in conflitti latenti gli uni contro gli altri, questi signori della guerra spesso si associano in larghe coalizioni ogni qualvolta una potenza esterna interviene per imporre centralizzazione e coesione - vedi l'invasione da parte dell'esercito britannico nel 1839 e delle forze armate sovietiche che occuparono l'Afghanistan nel 1979. Tanto la drammatica ritirata degli inglesi da Kabul nel 1842, nella quale un solo europeo riuscì a sottrarsi alla morte o alla cattura, che la storica ritirata dei sovietici dall'Afghanistan nel 1989, furono causate dalla mobilitazione temporanea di tutti i clan. L'attuale tesi che gli afghani non siano disposti a combattere per il loro Paese è ampiamente smentita dalla storia. Gli afghani, anzi, si sono rivelati intrepidi combattenti per i loro clan e per la loro autonomia tribale. Con il passar del tempo, la guerra ha assunto progressivamente i connotati delle precedenti campagne di contrasto alla guerriglia, durante le quali il sostegno dell'opinione pubblica americana è andata via via affievolendosi. La distruzione delle basi talebane era stata essenzialmente terminata. Ma la costruzione di una nazione, in un Paese dilaniato dalla guerra, ha richiesto un ingente spiegamento di mezzi militari. I talebani sono stati tenuti sotto controllo, ma non eliminati. L'introduzione di forme di governo inconsuete, d'altro canto, ha indebolito l'impegno politico e incoraggiato la corruzione già dilagante. Si può pertanto affermare che l'Afghanistan ha ricalcato i precedenti modelli delle polemiche americane interne. Quello che i fautori della lotta ai ribelli definivano come progresso, veniva classificato come disastro dall'ala politica opposta nel dibattito. I due gruppi si sono paralizzati a vicenda durante i successivi governi, nell'uno e nell'altro schieramento politico. Ricordiamo la decisione presa nel 2009, di far seguire all'invio di nuove truppe in Afghanistan l'annuncio simultaneo dell'inizio del ritiro militare nel giro di diciotto mesi. Quello che avevamo trascurato, però, era un'alternativa possibile, capace di mettere insieme obiettivi raggiungibili. La lotta ai ribelli poteva essere ridimensionata a contenimento, anziché annientamento, dei talebani. E il percorso politico-diplomatico avrebbe potuto esplorare uno degli aspetti particolari della realtà afghana: che i Paesi confinanti - anche se in aperta ostilità tra di loro e non di rado con l'America - potessero sentirsi profondamente minacciati dal potenziale terroristico dell'Afghanistan. Sarebbe stato possibile coordinare sforzi comuni di lotta ai ribelli? Certamente India, Cina, Russia e Pakistan spesso manifestano interessi contrastanti. Ma una diplomazia creativa avrebbe potuto distillare misure condivise per debellare il terrorismo in Afghanistan. Questa alternativa non è mai stata esplorata. Dichiaratisi apertamente contrari alla guerra, i presidenti Donald Trump e Joe Biden hanno avviato trattative di pace con i talebani, che avevamo giurato di sterminare una ventina d'anni prima. Quei negoziati oggi sono sfociati nel ritiro incondizionato degli americani, per opera del governo Biden. Spiegarne i motivi non cancella la brutalità, e soprattutto la precipitazione, della decisione intrapresa. L'America non può sottrarsi al suo ruolo di attore chiave nell'ordinamento internazionale, sia per le sue capacità che per i suoi valori storici. Non può rinnegarli, semplicemente ritirandosi dall'Afghanistan. Il governo Biden è agli esordi. Avrà sicuramente l'occasione di sviluppare e sostenere una strategia comprensiva, compatibile con le esigenze interne ed internazionali. Le democrazie si evolvono nello scontro tra le varie fazioni e siglano il loro successo con la riconciliazione».

Fiamma  Nirenstein sul Giornale intervista Efraim Inbar, uno dei più famosi mediorientalisti del mondo, consigliere strategico dei vari governi israeliani e oggi presidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security.

«Una cosa è chiara: questa strage, a lato della difficilissima evacuazione occidentale, è un altro passo nella strada della umiliazione globale americana, promette ulteriore difficoltà, altri attacchi terroristi. Mette l'America sempre più in ginocchio. Questo è nell'interesse di qualsiasi gruppo terrorista islamista. Non sappiamo se qui si tratta veramente dell'Isis. Questa organizzazione al momento non è particolarmente forte, difficile immaginarsi che voglia entrare in un gioco di concorrenza coi Talebani, forse cerca un pò di spazio». Quindi anche se adesso è stata l'Isis a compiere questo attentato, non sarà questa organizzazione a tornare al centro della scena in Afghanistan nel prossimo futuro. «È uno dei gruppi che, fra spinte ideologiche, tribali, etniche, cerca spazio: c'è una bella guerra contro l'Occidente, naturalmente l'Isis, al Qaeda vogliono esserci. Ma teniamo invece a mente che il terrore fa il gioco dei talebani, sia perché questo gesto violento aggiunge alla umiliazione americana e quindi certifica la sua strategia internazionale, sia perché l'oscuro messaggio di terrore consolida la sua presa sulla società Afgana, la riempie di paura, la paralizza come i Talebani avevano da tempo pianificato». Ma per molti anni sono stati tenuti con successo all'angolo dalla presenza americana. «Sì, finché è stata massiccia e armata. Ma l'illusione di democratizzare, occidentalizzare una società islamica è destinata al fallimento: quando gli americani hanno messo le mani in Egitto, è subito uscita fuori la Fratellanza Musulmana; con i palestinesi hanno dato forza a Hamas, in Tunisia si è creato il caos islamista con le elezioni. Non è vero che ogni uomo desidera la libertà. Desidera la pace e il benessere. Nel caos, sopraggiungono i Talebani, si armano, prendono il potere, come a Gaza arriva Hamas, e in Libano Hezbollah». Allora bisogna restare per sempre? «Gli Usa avevano deciso di andarsene dai tempi di Obama, non di Trump come ora scrivono in parecchi. Avevano ragioni importanti per farlo, legati all'invecchiamento degli armamenti, alla spesa enorme, alla necessità di impegnarsi nel contrastare la Cina, ai problemi americani interni. Biden ha fatto quello che l'America chiede da molto tempo». Ma hanno fatto le cose in modo disgraziato, disumano, scoordinato. Dopo il generale biasimo umano e politico ancora confermerebbero questa politica? «Bisogna scontare il piacere che prova la stampa a biasimare l'America. L'ha sempre desiderato. Certo, qui ce ne sono ragioni serie, Biden ha agito in maniera disordinata, debole, priva di rete di sicurezza. Adesso deve sgomberare in fretta e concludere con la deadline fissata, e poi via, chi c'è c'è. Si immagini se oltre alle bombe, gli Afgani adesso offrissero questo spettacolo: un talebano spara un missile Estrella, quelli che la Cia aveva loro fornito contro i russi, e abbatte un aereo di profughi. Biden non vuole affrontare questo possibile guaio, e quindi corre per rispettare iol 31 di agosto». E fa male? «Biden doveva fare quello che sempre si deve fare quando si abbandona il terreno in Medio Oriente: una sventola sonora, un attacco che mettesse i talebani in ginocchio e gli facesse passare la voglia di scontrarsi con gli Usa. Anche noi abbiamo fatto lo stesso errore a Gaza e in Libano: se te ne vai senza creare deterrenza, l'invito a colpire senza pagare pegno sarà sonoro».

DRAGHI, IL G20 E I PROFUGHI

E il nostro Governo? La cronaca di Alessandro Barbera su La Stampa.

«Una voce degli apparati italiani risponde rassegnata: «L'escalation del conflitto in Afghanistan è già sotto i nostri occhi». Alle 21, poche ore dopo l'informativa in Consiglio dei ministri di Luigi di Maio e Lorenzo Guerini, la situazione era già peggio di quel che sembrasse. Si rincorrono le notizie su un terzo attentato, secondo fonti locali le esplosioni attorno a Kabul sarebbero state di più. L'incertezza sui fatti è solo la conferma di una situazione fuori controllo, di un campo che nemmeno il nemico talebano è in grado di controllare. Ai colleghi Di Maio dice che oggi partirà l'ultimo ponte aereo gestito dai militari italiani, poi si vedrà. (…) A sera tarda Draghi in una nota condanna «l'orrendo, vile attacco contro persone inermi che cercano la libertà» e ringrazia «gli italiani che si stanno prodigando nello sforzo umanitario». Ai colleghi in Consiglio difende quanto fatto fin qui, la decisione di concentrare le energie sui ponti aerei umanitari, il pragmatismo scelto sul piano diplomatico. Renato Brunetta, il ministro anziano, si dice d'accordo a nome di tutti. Di Maio espone un piano in cinque punti: la prosecuzione delle evacuazioni, iniziative umanitarie e a sostegno dei diritti, l'accoglienza nelle scuole di giovani afghani e infine l'agenda diplomatica. Il premier - suo malgrado e con il sostegno dei colleghi europei - ha deciso di forzare Washington a dare credito alla sua iniziativa in sede G20. Stamattina incontrerà di persona il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, subito dopo dovrebbe avere una telefonata con il cinese Xi Jinping. I russi sono favorevoli alla riunione, perché interessati a normalizzare i rapporti con l'Unione e preoccupati da una nuova ondata di terrorismo internazionale. Se c'è una cosa che negli anni ha creato problemi a Putin con la sua opinione pubblica sono gli attentati dei gruppi islamici. I cinesi sono invece più diffidenti. Hanno meno da temere dall'estremismo e sono interessati ad aiutare i taleban nel tentativo di riprendere il controllo del Paese. Il problema ora rischia di essere Biden: più aumenta la pressione dell'opinione pubblica interna, più il presidente è spinto a ignorare le proposte della comunità internazionale».  

Giovanna Faggionato sul Domani scrive a proposito della visita odierna del ministro degli Esteri russo a Roma.

« Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, è arrivato in Italia ieri nel pomeriggio, nelle stesse ore in cui i dintorni dell'aeroporto di Kabul si trasformavano nello scenario di una carneficina. Oggi alle dieci e trenta incontrerà il presidente del consiglio Mario Draghi e poco più tardi vedrà il suo omologo, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. La visita di Lavrov in Italia è fondamentale per il presidente del consiglio italiano, che si è posto l'obiettivo di utilizzare la presidenza del G20 per creare un consenso allargato sull'approccio da tenere nei confronti del nuovo regime talebano in Afghanistan. Allargato, si intende, oltre il perimetro del G7 e di una Nato oggi più sfilacciata che mai. Nel comunicato ufficiale della Federazione russa l'Afghanistan non è nominato, ma c'è un chiaro riferimento alla cooperazione nella lotta al terrorismo internazionale. La Russia ha tutto l'interesse al dialogo coi Paesi occidentali su questo dossier per almeno due motivi, dice Giampiero Massolo, già direttore del Dis e oggi presidente di Ispi, uno dei principali think tank italiani di politica internazionale. La prima e quasi ovvia ragione è che Mosca ha bisogno di avere un Afghanistan stabile ai suoi confini e non può permettersi la nascita di quello che già molti temono diventi un santuario del terrorismo. La seconda ragione è che Mosca non ha oggi le capacità di muoversi autonomamente su una crisi come questa, difficile da gestire per tutti. In Siria e in diverse aree dell'Africa subsahariana Putin ha riempito in maniera molto abile i vuoti lasciati dai paesi occidentali, ma la stagione è cambiata e l'emergenza è differente. «Mosca è in questo momento overstretched, troppo tesa: ha casse vuote per interventi unilaterali, con il calo dei prezzi del petrolio, e una situazione già tesa in Ucraina: in questo momento non sarebbe in grado di prendere iniziative indipendenti». È anche una Russia che, nonostante il legame con la Germania, rappresentato solidamente dai cantieri del gasdotto Nord stream 2, ha più difficoltà di prima a dialogare con l'Europa occidentale. Sarebbe difficile il contrario considerando gli avvenimenti degli ultimi anni. Nel 2018 l'avvelenamento dell'agente Skipral a Londra per cui la Gran Bretagna ha accusato un uomo vicino al Cremlino, nel 2019 il sospetto di un altro assassinio di stato a Berlino, poi l'avvelenamento dell'oppositore Aleksej Navalny, su cui non ci sono sospetti ma prove e a cui è seguito uno scontro diplomatico senza precedenti culminato nelle accuse lanciate dal ministro degli Esteri Lavrov contro Ue e Stati Uniti, a fianco dell'Alto rappresentante Ue Borrell in visita a Mosca. D'altra parte anche Draghi ha almeno due notevoli ragioni per cercare la sponda russa. La prima, dice Massolo, «è che Mosca ha ancora una notevole influenza anche strategica sulle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale e può muovere leve che in questo momento sono necessarie, nella gestione della crisi umanitaria e non solo». La seconda è che la Russia è altro rispetto a quello che nella vulgata viene chiamato occidente, ma è un "altro" diverso rispetto alla Cina, cioè il competitor su cui gli Stati Uniti stanno concentrando la loro attenzione strategica, costringendo anche la malconcia Alleanza atlantica a fare la stessa cosa. E quindi per trovare il più ampio consenso possibile e impedire corse in avanti nel riconoscere il governo talebano in questo momento è fondamentale avere la sponda della Russia. L'alternativa sarebbe una intesa menomata. Il vertice di Pratica di Mare che per la prima volta portò Putin al tavolo della Nato, nacque da una telefonata a Bush Jr durante una visita di Berlusconi a Sochi. Chissà se domani dopo la visita di Lavrov ci sarà una telefonata anche a Washington».

Al di là delle belle parole, l’Europa non vuole i profughi. Lo scrive Leo Lancari per il Manifesto.

«Ci aspettano giorni dolorosi», dice Paolo Gentiloni quando a Bruxelles cominciano ad arrivare le notizie sugli attentati all'aeroporto di Kabul. Il commissario Ue all'Economia spinge perché l'Unione europea per una volta si decida ad aprire le sue porte almeno agli afghani più vulnerabili che si potrebbero portare via organizzando dei corridoi umanitari. «Stiamo parlando di qualche decina di migliaia di persone, non di milioni», spiega. Inutilmente, viene da dire, visto che almeno per ora i 27 non sembrano essere in grado di fare scelte comuni. Ieri si è tenuta una riunione degli ambasciatori dalla quale sarebbe dovuto uscire almeno il numero di afghani che l'Ue è disposta ad accogliere, ma non si è giunti a nulla di fatto. Tutto rimandato, magari a martedì prossimo, 31 agosto, quando si terrà un vertice dei ministri dell'Interno per valutare le misure da adottare in conseguenza alla nuova e sempre più drammatica situazione in cui è precipitato l'Afganistan. Si discuterà di sicurezza, ma anche delle gestione di un eventuale - anche se per ora improbabile - flusso di rifugiati che dovesse muovere verso l'Europa. E ancora una volta si va in ordine sparso: «Non ripeteremo l'errore strategico del 2015» ha ripetuto anche ieri il premier sloveno Janez Jansa che già nei giorni scorsi, senza che nessuno glielo chiedesse, ha affermato che l'Ue «non organizzerà corridoi umanitari». Nel frattempo la Commissione europea ha ricordato come tutti gli Stati membri devono presentare entro la metà di settembre «i propri impegni» in materia di accoglienza e in particolare sulle quote di rifugiati che sono disposti ad accogliere. In questo caso, però, si parla di quanti hanno collaborato con gli occidentali e che per questo rischiano di essere uccisi dai talebani. Su tutti gli altri regna l'incertezza. Nei giorni scorsi l'alto rappresentante per la politica estera della Ue, Josep Borrell, aveva proposto di utilizzare per i profughi afghani una direttiva del 2001 sulla protezione temporanea per i richiedenti asilo. La direttiva prevede il riconoscimento della protezione per tre anni, ma nessuna obbligatorietà per gli Stati ad accogliere i profughi. Successivamente, però, un portavoce della Commissione ha smentito la possibilità di poterla utilizzare visto che la stessa commissione ha proposto di abrogarla per sostituirla con un nuovo regolamento. In ogni caso, comunque, visto che non era previsto nessun obbligo per gli Stati di accettare i profughi, si sarebbe proceduto come al solito su base volontaria. Cosa intenda fare l'Europa per fermare i profughi è comunque chiaro: se proprio non è possibile evitare che escano dall'Afghanistan allora vanno bloccati nei Paesi confinanti, Pakistan, Iran e Tagikistan. «Non dovremmo aspettare di avere rifugiati afghani alle nostre frontiere esterne», ha spiegato la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson, che ha invitato gli Stati membri a «non intraprendere azioni unilaterali». Viceversa, per la commissaria occorre stanziare fondi per aiutare sia gli afghani che ancora si trovano nel Paese, che gli Stati confinanti con un finanziamento di 200 milioni di euro in aiuti umanitari. Un modo, ha concluso Johansson, per «assicurarsi di non finire in una situazione in cui molte persone intraprendono pericolose rotte dei trafficanti che portano alle nostre frontiere esterne».

IL PRIMO G20 PER LE DONNE

È stata la prima conferenza organizzata dal G20 sulla promozione delle donne. La cronaca di Gabriele Bartoloni per Repubblica.  

«È la prima volta che il G20 organizza una conferenza dedicata all'empowerment femminile. Al centro c'è il tema del lavoro, dei diritti e il contrasto alla violenza di genere. La conferenza va in scena a Santa Margherita Ligure. A presiederla è Elena Bonetti, ministra delle Pari opportunità. «In questa giornata non possiamo non volgere la nostra attenzione verso l'Afghanistan », dice nell'intervento di apertura dei lavori. Secondo Bonetti «serve una chiara assunzione di responsabilità dei membri del G20 e dell'intera comunità internazionale ». La conferenza include tutti i ministri delle Pari opportunità dei Paesi del G20, inseme ai rappresentanti delle organizzazioni internazionali, delle imprese, del mondo accademico e della società civile. «In un'ottica post-pandemica, l'empowerment delle donne resta una questione di diritti ma è anche un'opportunità inedita di sviluppo e di ripartenza sostenibile per tutte e tutti», dice Bonetti. È un maxi-evento presieduto dall'Italia, quello andato in scena nella cittadina ligure, dedicato all'emancipazione femminile e ai diritti delle donne e che capita a pochi giorni dalla conquista di Kabul. È in questo contesto che la riunione rappresenta il primo strumento, in ordine di tempo, per affrontare la crisi in Afghanistan. La presa del potere dei talebani e il ritorno alla sharia sono in cima all'agenda dell'incontro. L'approccio scelto da Mario Draghi, del resto, è quello di una gestione allargata, che includa i principali attori internazionali coinvolti nella crisi, compresi Cina e Russia. Il tavolo dei leader mondiali è il luogo giusto, secondo il premier. Lo ha detto nei giorni scorsi, lo ribadisce nel messaggio di apertura : «Il G20 deve fare tutto il possibile per garantire che le donne afghane mantengano le loro libertà e i loro diritti fondamentali». Il presidente del Consiglio è convinto che sia necessario «difendere i diritti delle donne ovunque nel mondo, soprattutto dove esse sono minacciate» Per Bonetti «sono tante le sfide che le donne hanno fronteggiato nella pandemia di Covid-19 e ancora affrontano». La ministra parla di violenza contro le donne, di quanto la pandemia abbia aumentato il divario con gli uomini. E annuncia la nascita di una «piattaforma strutturale di discussione interna al G20» per garantire «condivisione, continuità di approccio e una prospettiva concreta di raggiungimento degli obiettivi». Le conclusioni verranno portate al vertice di Roma in programma per fine ottobre».

SICILIA IN GIALLO, SI TORNA A SCUOLA

Aggiornamenti del venerdì sulla pandemia. Oggi si decide definitivamente ma la Sicilia rischia di diventare “gialla”. La notizia è che l’80 per cento dei ricoverati non è vaccinato. La cronaca sul Corriere di Carlotta De Leo.

«Dopo due mesi ininterrotti di zona bianca, da lunedì la Penisola potrebbe tornare a rivedere il giallo. Lo deciderà oggi la cabina di regia sulla base del monitoraggio dell'Istituto superiore di sanità che fotografa l'andamento dei contagi e la risposta del sistema sanitario. A rischiare di più è la Sicilia che già la scorsa settimana aveva evitato il giallo per un soffio. Ma sotto osservazione c'è anche la Sardegna, altra grande meta del turismo estivo. Ed è proprio all'arrivo in Sicilia di una moltitudine di vacanzieri da tutto il mondo che l'assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza, attribuisce «la grande circolazione del virus» che il territorio sta pagando. Ma aggiunge subito dopo: «L'80% dei ricoverati non è vaccinato e quei cittadini oggi sono pentiti. Abbiamo il dovere di chiedere a chi non lo ha ancora fatto di vaccinarsi, perché la minoranza non può decidere le sorti di tutti». La Sicilia ha la percentuale più bassa di persone che hanno completato il ciclo vaccinale - il 55% contro una media nazionale del 62%- e, al contempo, il maggior numero di contagi di tutta Italia (1.097 quelli registrati ieri). Dai dati dell'Agenas, poi, i tre nuovi indicatori che definiscono il cambio di colore sono tutti al di sopra delle soglie critiche: l'incidenza dei casi ogni 100 mila abitanti sopra quota 150, i pazienti nei reparti ordinari al 20% (il limite è 15%) e i posti letto Covid in terapia intensiva all'11% (un punto in più del consentito). (…) Rischia ma dovrebbe restare in zona bianca la Sardegna dove ieri sono stati registrati 424 nuovi casi. Il problema riguarda i letti occupati in terapia intensiva (12%) mentre nei riparti ordinari sono il 14% (quindi al di sotto della soglia critica). A livello nazionale, il bollettino di ieri segna una discesa delle nuove infezioni (7.221, contro le 7.548 di mercoledì), a fronte però di 24mila tamponi in meno (220mila) e un indice di positività in aumento al 3,3%. I decessi sono 43: in totale dall'inizio dell'epidemia in Italia 128.957 persone hanno perso la vita per Covid. Cresce il numero dei posti letto occupati in terapia intensiva (503, +4 rispetto al giorno precedente) e nei reparti ordinari (4.059, +36). Un incremento, quello dei ricoveri, segnalato anche dal monitoraggio indipendente della Fondazione Gimbe, anche se il dato nazionale rimane basso e quindi gestibile: i pazienti Covid occupano il 7% dei posti letto in area medica e il 6% in terapia intensiva. E nella mappa del rischio del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) anche la Campania diventa rossa oltre a Toscana, Marche, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna».

Fabrizio Caccia del Corriere della Sera intervista il presidente della Regione Veneto Zaia sul ritorno a scuola.

«Aspetto con ansia il 13 settembre, per noi veneti sarà il D-Day, la madre di tutte le battaglie. L'apertura delle scuole l'anno scorso per gli italiani fu un'esperienza dolorosa, stavolta però non si può fallire, dobbiamo evitare la Dad. L'obiettivo è scuola in presenza al 100 per cento, così ecco che già il 13 mattina ai ragazzi farò trovare i tamponi all'ingresso. È il nostro progetto insieme all'università di Padova, piace molto al generale Figliuolo (il commissario per l'emergenza Covid, ndr ) che ora pare intenzionato a replicarlo a livello nazionale...». Sarebbe? «Il piano delle scuole sentinella, una rete di decine di istituti sparsi in ogni provincia dove si monitora costantemente il livello di circolazione del Covid, facendo tamponi su tamponi, uno screening a tappeto. Abbiamo già comprato un milione di tamponi salivari molecolari in previsione del giorno della prima campanella per elementari, medie e superiori. Test per nulla invasivi, sarà come succhiare un lecca-lecca. Il generale Figliuolo credo ne abbia già disposto un maxi acquisto. Funziona così: tamponi salivari per scovare gli asintomatici e poi, in caso di positivi, tamponi nasali semplici per tutta la scuola. Una falange macedone contro il virus». Basterà? «No purtroppo, bisogna vaccinare ancora il più possibile, da un mese il Veneto consente l'accesso diretto agli hub senza prenotazione alla fascia 12-25 anni. E da due mesi agli over 60. É vero che adesso l'offerta di vaccini supera la domanda: così per convincere gli indecisi noi scriviamo a casa, spieghiamo, tante lettere contro le fake news, quelli che pensano ancora che insieme al siero t' inseriscono sotto pelle un microchip. I risultati per fortuna cominciano a vedersi: il 78% dei veneti è già immunizzato, il 55% dei ragazzi tra i 12 e i 19 anni. Ma l'amara verità è che mi ritrovo oggi col 98% dei ricoverati nelle terapie intensive che non sono vaccinati. Altro che fake news. Ci vuole presto la terza dose». Davvero? «Sì, faccio un appello al governo. Se la scienza ci indicherà di seguire questa strada, bisogna agire subito e non partire a novembre-dicembre quando potrebbe essere troppo tardi. In Israele, negli Usa, hanno già iniziato con le terze dosi. Io ho un milione e 600 mila over 60 in Veneto e 30 mila anziani nelle Rsa, persone che hanno una risposta immunitaria più bassa rispetto ai giovani. Con il virus non si può scherzare, teniamoci stretta la mascherina».

Ritorno dalle vacanze di Andrea Marcenaro sulla prima pagina del Foglio, con la sua rubrica Andrea’s version dedicata a Claudio Borghi, già economista anti euro, oggi dedito alla causa No Vax:

«Onorevole Claudio Borghi, leghista: "Quando la coltre di silenzio che è stata ordinata sugli effetti avversi del vaccino tra i giovani non terrà più, non credo che basterà strillare ' nessuna correlazione' per fermare chi cercherà giustizia. Io tiferò per gli inseguitori". Perciò. Ogni mattina, in Africa, come sorge il sole, una gazzella si sveglia e sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa. Ogni mattina, in Africa, come sorge il sole, un leone si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella o morirà di fame. Ogni mattina, in Italia, come sorge il sole, l'onorevole Borghi si sveglia e sa che dovrà dire una cazzata più di Agamben o arriverà secondo».

ANCHE COFFERATI CONTRO LANDINI

Dopo l’ex segretario della Fim Cisl Bentivogli, anche Sergio Cofferati ha una posizione netta, molto diversa dall’attuale segretario della CGIL Maurizio Landini.

«L’obbligo vaccinale è la priorità assoluta. Il resto, dai Green pass ai tamponi, viene di conseguenza». I toni sono pacati ma Sergio Cofferati, ex leader della Cgil nonché ex sindaco di Bologna e parlamentare europeo, non le manda a dire: «Per non scontentare nessuno, si finisce per non fare le cose necessarie. Al governo manca il coraggio di decidere». Nel frattempo, rendere il passaporto vaccinale obbligatorio per tutti i luoghi pubblici è una soluzione? «Assolutamente sì. Nei posti in cui le persone sono a contatto con altre persone, l’uso del Green pass è indispensabile». I sindacati hanno espresso contrarietà al Green pass nelle mense aziendali. «Le funzioni delle mense e dei ristoranti sono le stesse: ci vai per mangiare». Usufruire della mensa non è un diritto dei lavoratori? «È fuor di dubbio, ma il diritto non può essere esercitato senza mettere a repentaglio la salute degli altri, come fa chi non si vaccina. Di norma, tra l’altro, quando vai al ristorante sei con persone che conosci e comunque sai che entri in un luogo dove sono tutti vaccinati. Nella mensa non sai invece se chi sta vicino a te è immunizzato». L’obiezione dei no vax è nota: così si lede la libertà dei lavoratori. «Il problema non è la libertà, ma la sicurezza. Una persona che non vuole vaccinarsi è una persona non sicura, che rischia la sua vita e, cosa decisamente grave, mette in discussione la sicurezza degli altri. C’è un bene supremo che è la vita di chi mi sta vicino. E va garantito con tutti gli strumenti». Cosa bisogna fare per convincere i lavoratori a vaccinarsi? «Il Green pass è uno stimolo gentile. Poi bisogna insistere e spiegare le ragioni del bene generale. Non puoi pensare a te stesso soltanto, ma a tutti. Devi fare la tua parte, vaccinarti e rispettare le regole». È favorevole o contrario ai tamponi gratuiti? «Il tampone è uno strumento importante, lo Stato deve garantirne l’accesso a tutti. Non si può far ricadere il costo sulle persone, non solo nel mondo del lavoro ma in genere».

DURIGON SI È DIMESSO

La politica italiana è concentrata sulle dimissioni annunciate ieri sera da Claudio Durigon. Che ha lasciato il posto di sottosegretario nel Governo Draghi con una lettera pubblicata oggi da Libero. “Non sono e non sono mai stato fascista”, scrive.

«Un processo di comunicazione si valuta non in base alle intenzioni di chi comunica, ma al risultato ottenuto su chi riceve il messaggio: è chiaro che, nella mia proposta toponomastica sul parco comunale di Latina, pur in assoluta buona fede, ho commesso degli errori. Di questo mi dispiaccio e, pronto a pagarne il prezzo, soprattutto mi scuso. Mi dispiace che mi sia stata attribuita un'identità "fascista" nella quale non mi riconosco in alcun modo. Non sono, e non sono mai stato, fascista. E, più in generale, sono e sarò sempre contro ogni dittatura e ogni ideologia totalitaria, di destra odi sinistra: sono cresciuto in una famiglia che aveva come bussola i valori cristiani. Mi dispiace soprattutto che le mie parole, peraltro lette e interpretate superficialmente, abbiano potuto portare qualcuno a insinuare che per me la lotta alla mafia non sia importante. È vero esattamente il contrario: la legalità e il contrasto alle organizzazioni criminali sono per me dei valori assoluti. Per questo, anche se le mie intenzioni erano di segno opposto, mi scuso con quanti, vittime di mafia (o parenti di vittime di mafia), possono essere rimasti feriti dalle mie parole. E sottolineo che le mie scuse, in particolare alle famiglie Falcone e Borsellino, e a quelle degli agenti caduti insieme a loro, sono sentite e profonde. Mi indigna veramente il fatto che qualcuno mi abbia accusato di mancanza di rispetto nei confronti di Falcone e Borsellino. Che invece, per me (e per moltissimi della mia generazione), sono non solo due figure eroiche, ma anche modelli di etica, di civismo, di senso dello Stato. Anche per questo, sono disgustato da alcuni media che mi hanno addirittura accostato ai clan rovistando nella spazzatura al solo scopo di infangarmi. Detto questo, colgo l'occasione per precisare una volta per tutte il senso delle mie parole. Come indica chiaramente il mio cognome, io sono figlio, e nipote, di veneti immigrati, tanto tempo fa, nel Lazio e in particolare a Latina. Sono dunque nipote di "coloni", italiani che hanno partecipato a una grande opera di recupero di un territorio che fu, per troppo tempo, svantaggiato e inabitabile. Mi riferisco alla bonifica dell'Agro Pontino. Stiamo parlando del recupero di un'area con una superficie di circa 75.000 ettari, che per secoli è stata flagellata dalla malaria. (…) Nella mia mal formulata proposta, io avevo a cuore solo l'idea di ricordare questa storia così intensa e così particolare. E, soprattutto, non ho mai chiesto «l'intitolazione del parco al fratello di Mussolini», come hanno riferito alcuni titoli di giornale, bensì semplicemente il ripristino del suo nome originario. Il nome "Arnaldo Mussolini" venne infatti scelto dai coloni e per decenni è rimasto tale, nonostante il susseguirsi dei sindaci e delle giunte. E fa parte della memoria della città. Dunque, io non ho mai inteso né accostare i nomi dei giudici Falcone e Borsellino a quello del fratello di Mussolini né tantomeno - fare un assurdo confronto fra loro. Sostenere il contrario, come è stato fatto sulle mie parole, è una forzatura bella e buona. (…) Il tempo che non passerò più al ministero lo dedicherò anche alle mie amate comunità di Latina e Roma: hanno bisogno di progetti, efficienza, sicurezza e lavoro, non di incapacità e polemiche. Da militante fra i militanti, avrò anche più tempo per raccogliere firme per i Referendum sulla Giustizia, così da arrivare a un milione di firme. Sperando di aver finalmente chiarito il mio pensiero, auguro buon lavoro a chi prenderà il mio posto. In un grande partito come la Lega siamo tutti sostituibili, tranne Matteo Salvini che ringrazio peril sostegno, la vicinanza politica, morale e umana che ha avuto nei miei confronti. Non da ultimo, ringrazio i tanti militanti, simpatizzanti o elettori che mi hanno inviato messaggi di vicinanza in questi giorni».

Marco Travaglio non si fa scappare l’occasione di celebrare le dimissioni, visto che il suo giornale aveva anche raccolto le firme contro Durigon.

«Il 4 agosto, quando Claudio Durigon, sottosegretario leghista all'Economia, annunciò in un comizio alla presenza di Salvini che, in caso di vittoria del centrodestra a Latina, il Parco Falcone e Borsellino sarà ridedicato ad Arnaldo Mussolini, pensammo ingenuamente che quello fosse troppo persino per i Migliori. E che in poche ore il Migliore dei Migliori, SuperMario Draghi, l'avrebbe accompagnato alla porta con una dichiarazione per ricordare che nel suo governo non c'è spazio per i nostalgici del fascismo e della mafia, che Arnaldo Mussolini non era solo un fascista ma pure un tangentista, che preferirlo a Falcone e Borsellino è uno sfregio alla legalità e una captatio benevolentiae ai malavitosi che imperversano a Latina (anche nella campagna elettorale del fascioleghista). Invece non accade nulla da 22 giorni. Anzi, da Palazzo Chigi trapelano "fastidio" e "irritazione" perché M5S, Pd e varie forze di sinistra, spinti dal Fatto e dalle 160mila firme sulla nostra petizione, hanno provveduto a fare ciò che non faceva il premier: chiedere le dimissioni dell 'impresentabile. Ora che Salvini e Durigon, dopo i capricci, appaiono rassegnati all'estremo sacrificio, leggiamo sul Foglio di un "lavorio di Palazzo Chigi", che però "non apprezzale uscite tese a umiliare" Durigon. Ma povere stelle, Draghi e Durigon: l'uno non vuole umiliare un fascista che preferisce Arnaldo Mussolini a Falcone e Borsellino; e l'altro, quello che preferisce Arnaldo Mussolini a Falcone e Borsellino, non vuole essere umiliato. Sta' a vedere che alla fine la colpa di questo sconcio è di chi lo denuncia, cioè nostra. Due anni fa un premier, non certo dei Migliori, cacciò il sottosegretario leghista Armando Siri, coinvolto in una storiaccia di rapporti con giri di mafia e indagato per corruzione. E lo spiegò pubblicamente: "Questo è un governo che ha l'obiettivo di recuperare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e ha un alto tasso di sensibilità per l'etica pubblica". Ora invece siamo al "lavorio", al pissipissi baubau tra il lusco e il brusco. Come per gli altri impresentabili - Gerli, Tabacci, De Carolis, Farina-Betulla - nominati dai Migliori e poi, appena smascherati (quasi sempre dal Fatto), fatti sparire alla chetichella, aumma aumma, senza uno straccio di spiegazione. Desaparecidos come nelle purghe staliniane, quando i gerarchi scomparivano dalle foto ufficiali senza motivazioni. Ma, su Durigon, la motivazione conta più della rimozione. Se Draghi non dice nulla sul suo sottosegretario che preferisce Mussolini a Falcone e Borsellino, vuol dire che gli sta bene così. E allora respinga le sue dimissioni. Tanto ormai l'han capito in tanti che quella storia dei Migliori era solo un'esca per gonzi».

DOPO DURIGON, IL CASO MONTANARI

Dopo Durigon, c’è già un nuovo caso alle viste, quello del professor Tomaso Montanari, che proprio dalle colonne del Fatto è “scivolato” sulle foibe. La notizia è del Corriere della Sera.

«Un intervento sulle foibe che, non è la prima volta, gli è costato una pioggia di critiche. Ormai ci è abituato Tomaso Montanari, storico dell'arte e neo rettore dell'università degli stranieri di Siena. Nei giorni scorsi, sul Fatto Quotidiano , il professore ha pubblicato un articolo sulla «falsificazione delle foibe». «Non si può nascondere che alcune battaglie revisioniste siano state vinte, grazie alla debolezza politica e culturale dei vertici della Repubblica - ha scritto -. La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica». Un intervento che ha scatenato un putiferio. «Il rettore Tomaso Montanari minimizza il dramma delle foibe. - scrive Salvini -. È strano e preoccupante che Letta, sempre col ditino alzato e candidato nella Siena ferita dallo scandalo Pd-Mps, non apra bocca». Mentre Ignazio La Russa (Fdi) definisce vergognosa la presa di posizione del professore. Critiche da Gennaro Migliore (Iv) e da Carlo Calenda. La risposta di Montanari: «Nessuno minimizza o nega le foibe. Contesto l'uso strumentale che la destra neofascista fa delle foibe».

CORSA ALLE ASSUNZIONI NEI DATI INPS

Buone notizie in economia dai dati sulla produzione industriale. E anche dai dati Inps sulle assunzioni. Claudio Tucci per il Sole 24 Ore.

«A maggio c'è stata una vera e propria corsa alle assunzioni, complice la programmazione estiva (purtroppo ancora alle prese con l'emergenza sanitaria) e i primi segnali di ripresa economica in atto. I nuovi contratti di lavoro firmati sono stati 683.057, il risultato migliore del 2021 (ma anche del 2020). Di questi nuovi rapporti di impiego, oltre 92mila sono stati a tempo indeterminato, quasi 256mila a termine, 142.772 stagionali, solo per citare i più numerosi. In totale, ha reso noto ieri l'Inps rilasciando il consueto «Osservatorio sul precariato», nei primi cinque mesi dell'anno sono state attivate 2.412.000 assunzioni, in netto aumento rispetto allo stesso periodo del 2020 (+17%). Un risultato dovuto alla combinazione tra la flessione registrata per i mesi di gennaio e febbraio 2021 (nel 2020 nei mesi corrispondenti non era ancora iniziato il periodo pandemico, ndr) e l'aumento a partire da marzo 2021 rispetto agli stessi mesi del 2020, con +18% a marzo, +216% ad aprile e +79% a maggio. Insomma, da marzo 2021, anche sul fronte lavoro, sembra essere iniziata una lenta risalita, che si ritrova anche negli ultimi dati Istat (e tutto ciò nonostante un certo utilizzo della cig emergenziale e il blocco generalizzato dei licenziamenti che per industria e costruzioni è terminato a fine giugno - solo il settore tessile-moda sta proseguendo fino al 31 ottobre, come per il terziario e le piccole imprese). Sempre da gennaio a maggio, l'Inps ha registrato pure 176.382 trasformazioni da tempo determinato in rapporti stabili (-25% nel confronto tendenziale) e, nello stesso periodo, +45.175 conferme di rapporti di apprendistato giunti alla conclusione del periodo formativo (+18 per cento). L'Istituto guidato dall'economista Pasquale Tridico ha certificato inoltre 1.795.000 cessazioni di contratti, -12% sullo stesso periodo 2020; spiccano il -30% per i contratti stagionali e il -21% per quelli a termine. Guardando al saldo netto, vale a dire la differenza tra nuove assunzioni e cessazioni, il risultato, da gennaio a maggio, è positivo: +616.509 rapporti, di cui quasi 120mila a tempo indeterminato, 226.126 a termine, circa 80mila in somministrazione, 141mila stagionali, 46mila intermittenti, poco più di 4mila apprendistati. Nel solo mese di maggio le variazioni contrattuali nette sono letteralmente schizzate in alto: +256.767 (ad aprile ci si fermava a quota +88.466). Positivo anche il saldo annualizzato: +559.606 contratti; un dato su cui ha pesato l'andamento del Covid, con cali da aprile 2020 a settembre 2020, lievi recuperi a ottobre e novembre 2020, poi di nuovo segno meno fino a febbraio 2021 (-36mila rapporti), e solo a partire da marzo 2021 ritorno in terreno positivo. Risultati contenuti invece per l'incentivo per stabilizzare gli under35: nei primi cinque mesi 2021 hanno usufruito dello sgravio triennale 11.549 rapporti (7.100 assunzioni e 4.449 trasformazioni a tempo indeterminato), valore in forte diminuzione rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente (-66%). Il calo, ha spiegato Inps, è condizionato anche dall'istituzione dell'esonero per nuove assunzioni e trasformazioni a tempo indeterminato di giovani previsto dalla legge 178/2020 che, essendo in attesa dell'autorizzazione da parte della Commissione europea, non è ancora operativo e pertanto al momento non rilevabile. Passando al lavoro occasionale, a maggio i lavoratori impiegati con contratti di prestazione occasionale si sono attestati intorno alle 14mila unità, +48% nel confronto tendenziale (importo medio lordo mensile 253 euro). A maggio poi sono stati circa 17mila i lavoratori pagati con i titoli del Libretto Famiglia, in calo del 93% su maggio 2020, periodo in cui si era registrato un forte sviluppo dell'utilizzo del Libretto Famiglia legato ai bonus baby-sitting previsti dal decreto Cura Italia (importo medio mensile lordo 201 euro). ».

LA CUCCIA RADICAL CHIC

La penna brillante di Selvaggia Lucarelli, dalle colonne del Fatto, colpisce sul fronte Capalbio. Nella capitale estiva dei radical chic c’è stato un clamoroso ritrovamento nella cuccia del cane della famiglia Montino-Cirinnà.

«La faccenda sarebbe già esilarante così (perfino i cani ormai hanno benefattori a loro insaputa), se al tutto non si aggiungesse anche una dichiarazione della senatrice che pare uno sfogo della contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare di Capalbio Lido: "Ero già nei pasticci di mio, nelle ultime settimane. Nei pochi giorni di ferie sto facendo la lavandaia, l'ortolana, la cuoca. Tutto questo perché la nostra cameriera, strapagata e messa in regola con tutti i contributi Inps, ci ha lasciati da un momento all'altro. Volete sapere il motivo? Mi ha telefonato un pomeriggio e mi ha detto, di punto in bianco: 'Me ne vado perché mi annoio a stare da sola col cane'". (…) Se non fosse che Landini è occupato a presidiare le indispensabili barricate contro l'obbligo del green pass nelle mense di lavoro, se non fosse che alla Festa dell'Unità il Pd invita uno che si travestiva da nazista, se non fosse che Italia Viva sta pensando a un referendum contro il reddito di cittadinanza per poi passare a proporre, in futuro, quello per l'abolizione dei cassonetti gialli della Caritas, sulle parole della Cirinnà ci sarebbe da scrivere un "Lavoro salariato e capitale" in salsa maremmana. C'è tanto di quel materiale per un trattato sociologico che io stessa mi sarei messa a scriverlo, se non fosse che si è da poco licenziata la mia dattilografa, sono nei pasticci e non intendo fare l'amanuense. Un po' come la Cirinnà, insomma, la quale ci spiega che, tapina, è costretta a fare LA LAVANDAIA, L'ORTOLANA, LA CUOCA. Insomma, quei problemi classici della sinistra vicina alla gente: scopri che la cuccia del cane è un caveau e nel frattempo ti si licenzia la donna di servizio. Speriamo che lo schiaccia-chele per le aragoste non le si sia inceppato, altrimenti si prospetta proprio un'estate di merda, povera donna. Ma è anche il resto della dichiarazione a sembrare il definitivo scollamento di un bel pezzo di sinistra dalla realtà. Una sinistra in cui ormai, come scriveva ieri la giornalista Giuliana Sias, "ci si batte solo per i diritti civili perché ci hanno costruito il loro pubblico e le loro carriere". ED È EMBLEMATICO come la Cirinnà parli di normali lavori domestici attingendo a un lessico dal sapore verghiano, trasformando banali mansioni casalinghe in "vecchi mestieri". Ci mancava solo che lamentasse di dover fare anche il cocchiere e la carbonaia. Sembrano parole della nobiltà di altri tempi che immagina il mondo del lavoro fatto di manualità e fatica come una sorta di presepe vivente. Col ciabattino illuminato dallo stoppino acceso della lanterna a olio. Lavandaia, cameriera, ortolana. A sapere che avevo tutti questi titoli mi sarei messa le medagliette sul petto come Figliuolo. POI C'È QUEL sottolineare che lei la cameriera la STRApagava ed era perfino in regola, quasi stupita di se stessa, della sua magnanimità. Infine, un altro passaggio che trovo insuperabile. Quello in cui la Cirinnà si lamenta che la cameriera si sia licenziata perché si annoiava sola col cane. Una cameriera si è licenziata perché forse di spadellare, accudire il giardino, lavare, stirare in una villa in campagna a Capalbio sola come un cane e senza neppure una cuccia-caveau non aveva più voglia e la Cirinnà lo trova inconcepibile. Trova anomalo che un'ortolana-lavandaia-cuoca-dog sitter-guardiana della villa possa ambire pure a una vita sociale. Al pane e alle rose. Alla cuccia e alle banconote. Quante bizze, questo proletariato. P.s. Ieri, in giornata, la Cirinnà ha chiesto scusa per le parole utilizzate. Lo ha comunicato direttamente lei su Twitter. Il suo araldo era in malattia».

Per la Versione si prepara un grande balzo in avanti (Copyright Mao Tse Tung) per le prossime settimane. Scrivete suggerimenti, considerazioni, osservazioni critiche a lelio.banfi@gmail.com. Vi aspetto.   

Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Oggi appuntamento con la Versione del Venerdì.

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Sangue sui fuggitivi

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