La Versione di Banfi

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Scuola, costretti alla Dad?

alessandrobanfi.substack.com

Scuola, costretti alla Dad?

Si torna in classe, nonostante l'opposizione di alcune Regioni. Ma i positivi rischiano di obbligare le lezioni a distanza. Oggi parla Draghi delle nuove norme. Non del Colle. Kazakistan e Ucraina

Alessandro Banfi
Jan 10, 2022
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Scuola, costretti alla Dad?

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Rientro difficile e quanto mai caotico per le scuole. In diverse situazioni locali, a cominciare dalla Campania, restano chiusi alcuni istituti. Lo spettro della Dad poi si allunga laddove corrono i contagi e ci sono positivi fra gli studenti. Oggi è anche il primo giorno di applicazione di alcune delle nuove norme decise dall’ultimo Consiglio dei Ministri. Su queste misure, cinque giorni dopo, parlerà oggi pomeriggio Mario Draghi. Ieri il commissario Figliuolo, in tv, ha anticipato alcuni particolari: c’è un’accelerazione della campagna vaccinale. Il Corriere della Sera annuncia che alcuni hub saranno aperti alla somministrazione anche durante tutta la notte, H 24, come si dice. Sentiremo che cosa dirà Draghi.

Alcuni, fra cui Minzolini sul Giornale, sperano che il premier annunci di rinunciare alla presidenza della Repubblica. Tutti pensano comunque che Draghi voglia concentrarsi sull’opera del governo e che ci tenga a parlare agli italiani della lotta al Covid. A proposito di pandemia, non sono malaccio le notizie che arrivano dai numeri europei: le curve dei contagi cominciano a scendere. Il che fa sperare anche in un picco della pandemia ravvicinato anche da noi. Il dato fondamentale è quello delle curve che si separano nei grafici: mentre i contagi continuano ad aumentare in modo esponenziale, ricoveri, posti nelle terapie intensive e decessi crescono invece in modo lineare.

Si apre una settimana importante per la corsa al Quirinale. Da domani e fino a venerdì sono in calendario Direzioni e vertici di partiti e schieramenti. Silvio Berlusconi è più che mai convinto della sua candidatura, mentre spuntano altri nomi di outsider super partes, come quello di Andrea Riccardi.

Dall’estero, reportage di Repubblica dal Kazakistan. Il bilancio dei morti, dei ricoverati e degli arrestati dopo i disordini è drammatico. Proprio oggi Russia e America iniziano i colloqui a Ginevra sul futuro dell’Ucraina. Bella intervista di Anne Applebaum al Corriere, che denuncia la scarsa presenza politica dell’Europa.

Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano se stesse e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera sottolinea l’accelerazione della campagna di Figliuolo: Via ai vaccini anche di notte. Ma per Il Fatto il generale ha ammesso errori: Figliuolo, la resa dopo le balle: ‘Test per studenti dai medici’. Il rientro in classe mobilita molti titolisti. Il Quotidiano Nazionale vede: Scuola, lo spettro del lunedì nero. Il Mattino riprende l’opinione di Walter Ricciardi (Oms): «Scuole aperte contro la scienza». Il Messaggero nota che ci sono già molte defezioni annunciate: Scuole, rientro ma non per tutti. La Repubblica conferma: Scuole riaperte ma solo a metà. Per La Verità col rientro è arrivato: Scuole e trasporti, il giorno del caos. Libero amplifica il parere dell’immunologo Abrignani (Cts): «Questo Covid letale come l’influenza». Alcuni giornali si occupano della corsa al Colle. Come Domani: Paola Severino. L’avvocato che i potenti vorrebbero al Quirinale. E come Il Giornale che spera: Draghi, aria di rinuncia. La Stampa invece anticipa così la conferenza stampa che il premier terrà oggi: Draghi: il Colle non mi condiziona.

SCUOLA, DUECENTOMILA CLASSI IN DAD

Fra assenze forzate e Dad annunciata, si torna a scuola oggi tra polemiche e proteste. Walter Ricciardi dell’Oms dice: “Condivido le preoccupazioni per la riapertura”. Mentre il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano sostiene: “La didattica online è un diritto”. Valentina Santarpia per il Corriere.

«Sarà una riapertura tra mille ostacoli quella di oggi delle scuole italiane, dopo la pausa natalizia. Mentre il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi assicura, al Tg3 , che «la scuola è pronta», un migliaio di Comuni faranno slittare il rientro in classe a causa del moltiplicarsi dei contagi e, secondo la stima di Tuttoscuola , più di duecentomila classi andranno in didattica a distanza; i presidi sono sempre più preoccupati per una gestione complicata da personale assente, quarantene da gestire e moduli da compilare. La linea del governo però resta ferma: le scuole sono «luoghi sicuri», assicura il commissario all'Emergenza Francesco Paolo Figliuolo che con una circolare annuncia test gratuiti e veloci per tutti gli studenti. Ma in Puglia il governatore Emiliano sostiene, in una chat con un gruppo di genitori, che «nessuno può essere obbligato a essere esposto al pericolo di contagio se esiste uno strumento, la dad, che può ridurre questo rischio». E quindi, come già sostenuto lo scorso anno, per Emiliano «è possibile per i genitori, qualora venga loro negata la dad, impugnare il provvedimento al Tar». E, in questo caso, la Regione «potrebbe costituirsi a favore dei genitori». Anche Walter Ricciardi, consigliere del ministro Speranza, su Rete 4, dice di condividere «le preoccupazioni sulla riapertura». Insomma, l'atmosfera è questa. La buona notizia arriva per i test. L'intera procedura è semplificata per «massimizzare le attività di tracciamento dei contatti in ambito scolastico». Non bisognerà più aspettare la chiamata della Asl: la famiglia dello studente di medie e superiori, una volta informata del contatto, potrà chiamare direttamente il medico di famiglia. I medici potranno effettuare il tampone o far effettuare il test gratuito presso una farmacia. Questo dovrebbe garantire il più possibile le lezioni in presenza, «importanti anche da un punto di vista dell'equità sociale», ricorda Figliuolo. Un altro tassello per aiutare le scuole arriva dal ministero della Salute, che ha fatto sapere che fino al 10 febbraio gli studenti sopra i 12 anni potranno salire sugli scuolabus anche solo con la mascherina Ffp2. Ma le polemiche non si placano. L'associazione nazionale dirigenti scolastici (Andis) ha scritto al premier Mario Draghi che «non ci sono le condizioni per rendere operative le misure previste». E il governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, ha sottolineato che sarebbe stato opportuno «differire la riapertura». I presidi oggi faranno i conti con la realtà. Tra i tanti, c'è il tema delle mascherine Ffp2 da usare in classe nel caso emerga un positivo: «Non è prevista fornitura gratuita per le scuole - rileva Daniela Crimi, istituto Cassarà di Palermo -. Abbiamo avuto fondi per acquistarle, ma la riserva è limitata». La direzione sembra quella del fai da te, dice Mario Rusconi, presidente dell'Associazione presidi Roma: «Alcune scuole stanno inviando moduli per avere informazioni sugli studenti: se si è fatto un test, se si è vaccinati. E ci prepariamo a difficoltà per il personale assente perché contagiato, fragile o no vax». Eventualità ammessa da Bianchi: «È possibile che manchi del personale. Ma abbiamo 35 mila docenti e personale tecnico in più per le emergenze». E si aspetta di capire cosa succederà in Campania, dove il rientro è stato posticipato: mentre il governo impugna l'ordinanza, i comitati no dad di Napoli e Salerno tornano in piazza».

Intervista di Conchita Sannino per Repubblica al Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. De Luca ha emesso un’ordinanza con cui tiene ancora chiuse elementari e medie. Ordinanza contro cui si appella il governo in sede giuridica.

«Presidente De Luca, il governo prepara l'impugnativa contro la sua ordinanza. Perché lei torna a chiudere le aule per i bambini in Campania? «Intanto non abbiamo chiuso proprio niente. Al di là di ideologismi e parole al vento, il motivo del contendere è solo questo: Dad per tre settimane per le medie e le elementari, per consentire una più vasta vaccinazione infantile e per scavallare il picco di contagi previsto per gennaio. E tutto questo accogliendo richieste pressanti di centinaia di presidi, di sindaci e di dirigenti sanitari. Le pare che ci sia motivo per fare crociate da parte del governo? Le nostre sono solo misure ragionevoli».

Ma il suo provvedimento è un unicum italiano. E come ha osservato lo stesso ministro Bianchi è illegittimo. Lei si sente al di sopra delle leggi? «Noi riteniamo di muoverci su un piano di piena legittimità. Siamo in una situazione di straordinaria e drammatica emergenza, che solo il governo non vede. La cosa davvero scandalosa è che il governo non ha riunito il Comitato tecnico scientifico come chiesto da tutte le Regioni, per avere una base sanitaria oggettiva e autorevole su cui fondare le decisioni. La nostra ordinanza invece, è conseguente alle valutazioni della nostra Unità di crisi e di tutti i dirigenti sanitari, sul piano epidemiologico e vaccinale».

Quale documentazione oggi consegnerà al Tar per giustificare lo stop, come prescrivono i giudici? Anche a novembre scorso, i magistrati amministrativi sottolinearono la sua carenza di motivazioni. «Consegniamo al Tar i dati oggettivi che motivano la gravità della situazione: Rt a 1,78; impossibilità concreta di tracciamenti, esaurimento dei posti letto pediatrici, e vaccinati sotto i 12 anni al 15%. Dobbiamo aspettare le tragedie per decidere misure di prevenzione minima, del tutto proporzionate e che non coinvolgono gli istituti superiori, con tassi di vaccinazione più elevati? C'è chi guarda in faccia la realtà e chi è interessato a "fare finta". Noi pubblicheremo subito dopo le motivazioni fornite al Tar». Scusi, ma come spiegare, ad esempio, che oggi la Lombardia apre le scuole e la Campania no? «La Lombardia ha segnalato le stesse criticità, senza avere risposte. Noi abbiamo la popolazione più giovane d'Italia, una densità abitativa e una struttura sanitaria che ci obbligano alla prudenza. Ma ho la sensazione che tra qualche giorno saremo tutti nella stessa condizione».

Sono trascorsi due anni, lei ha impegnato centinaia di milioni per la pandemia. Non si potevano concentrare risorse anche per "preparare" questo rientro? «Intanto, come sempre, abbiamo certificato spese Covid in maniera rigorosissima: 520 milioni in due anni. Realtà molto più piccole della Campania hanno speso centinaia di milioni in più. Bisognerà che ci si rassegni di fronte al dato di fatto di una Campania che ha una gestione spartana e virtuosa: di bilancio regionale e sanitario. Nel frattempo, il Governo non ha rimborsato queste spese. Per il resto, siamo quelli che hanno investito di più nel trasporto scolastico aggiuntivo. Per altre cose, bisogna chiedere allo Stato, ai Comuni e alle Province che ne hanno la competenza».

Lei ritiene che l'azione del governo Draghi per contrastare la pandemia sia inefficace? E perché? «L'azione di governo sulla pandemia rimane ispirata alle mezze misure. Abbiamo perso mesi preziosi autoconsolandoci. L'idea che le decisioni si prendono in tempo utile, prima dell'esplosione del contagio, è estranea al governo. E anche sulla nostra vicenda, registro un misto di ottusità burocratica e di centralismo arrogante, del tutto fuori luogo. Non ritorno per carità di patria sulla vicenda AstraZeneca, sul mercato nero nella distribuzione dei vaccini, sulla presa in giro dei cento euro, su misure cervellotiche e ingestibili relative alle quarantene e così via. So bene che nel governo c'è chi ostacola ogni misura netta, dopo aver strizzato l'occhio ai No Vax e contrastato perfino il Green Pass...» Si riferisce alla Lega? «Lasciamo stare. Ogni misura che si fa finta di prendere diventa operativa dopo 15 giorni. Mi pare incredibile».

Proprio lei parla di "arroganza". Non pensa di usare frasi scomposte, quando parla di bambini usati come "cavie", attribuendolo al governo? «Quando le misure che si prendono prescindono dalla realtà vera che c'è nei territori e negli ospedali; quando si continua sulla linea del "fare finta", le conseguenze rischiano di pagarle i più piccoli. Non mi sento vincolato al "politicamente corretto". Dico quello che vedo, adopero parole conseguenti e chiare, e rispondo alla mia coscienza, non a logiche opportunistiche».

E il giudizio sul lavoro di Draghi riguardo al Piano di ripresa? «Sul Pnrr si è fatto un lavoro importante. Rimane il problema di una debolezza della pubblica amministrazione, di una carenza progettuale, di una illusione centralistica e di un quadro legislativo che, a cominciare dall'abuso d'ufficio, codice degli appalti e soprintendenze, rimane pesante nonostante qualche innovazione».

L'esecutivo è distratto dalla partita Quirinale? Cosa prevede? «Forze politiche e governo sono ormai concentrate su questa partita. Mi auguro che si assumano comportamenti adeguati, per serietà e spirito unitario, allo stato d'animo che domina nel nostro Paese. Non vorrei che anche questa scadenza spingesse a non prendere decisioni necessarie e tempestive rispetto al Covid».

HUB VACCINALI APERTI ANCHE DI NOTTE

Il commissario Figliuolo annuncia un nuovo sforzo: per spingere alla vaccinazione gli over 50 saranno aperti 24 ore, anche di notte, alcuni hub. Fabio Savelli per il Corriere.

«Il rimbalzo delle prime dosi spinto (anche) dall'obbligo vaccinale per gli over 50. Una tendenza che si osserva da qualche giorno e segnala come la svolta impressa dal governo nell'ultimo decreto stia riuscendo man mano a ridurre il numero dei non vaccinati nonostante la «difficoltà di persuaderli», ammette il commissario all'emergenza Francesco Figliuolo. Per smontare profonde resistenze il generale delinea un piano straordinario, a cui la Regione Lombardia ha già aderito spinta anche da restrizioni che si annunciano più pesanti per il rischio di finire in arancione dalla prossima settimana per una crescita incredibile dell'incidenza di casi Covid per 100 mila abitanti unita ad una maggiore pressione sul sistema ospedaliero. Un piano che prevede l'apertura degli hub vaccinali anche di notte. Con linee dedicate (senza prenotazione) per gli over 50. Confrontando d'altronde i numeri degli ultimi due rapporti - datati 31 dicembre e 7 gennaio - si nota uno scatto proprio a ridosso del decreto con un'impennata tra il 7 e l'8 gennaio. La fascia più «scoperta» è proprio quella dei cinquantenni. L'ultimo dell'anno in 1.021.601 non si erano sottoposti a vaccinazione. Sette giorni dopo sono scesi a 993.463, 28 mila nuovi aderenti alla campagna. Tra i 60 e i 69 anni la forbice in sette giorni è di circa 14 mila, tra i 70 e i 79 anni hanno ricevuto la prima dose in una settimana in 7 mila circa. Per 49.438 over 50 raggiunti nel complesso. I numeri dell'8 gennaio, fuori da questa contabilità, con quasi 70 mila prime dosi - di cui però una buona parte si riferisce ai bimbi tra i 5 e gli 11 anni - aumenta la percentuale di copertura di prima dose della popolazione, vicina al 90%. Si tratta di un dato che non si registrava da ottobre, con «prime dosi triplicate tra gli over 50 rispetto alla media», secondo Figliuolo. Le sanzioni possibili, dal 1 febbraio, per circa 2 milioni di persone in questa fascia d'età unite alla necessità di green pass rafforzato (ottenibile solo con vaccinazione o guarigione) anche per i trasporti e per il mondo del lavoro spiegano questo trend. Ma non è da escludere anche un effetto indiretto provocato dalla curva epidemiologica della variante Omicron che spaventa molti. Dice l'immunologo Sergio Abrignani, componente del Cts, che «nei prossimi 30 giorni, stando ai ritmi attuali, avremo 2500 morti tra le persone non vaccinate, morti che potevano essere evitate». Una tesi condivisa da Guido Bertolaso, coordinatore della campagna in Lombardia, una regione in cui negli ultimi giorni si assiste ad un'impennata di vaccinazioni proprio tra i cinquantenni. In oltre 30 mila aspettano il richiamo, il 10% della platea della regione, il dato più alto di tutta Italia trainato dai dati di Milano. Lo stesso sta avvenendo nel Lazio nella stessa fascia d'età, col boom di prime dosi a Roma, probabilmente perché la paura di contagiarsi in contesti ad alta densità abitativa è più forte che altrove. Nella Regione guidata da Nicola Zingaretti aspettano in 20 mila la seconda dose, il 9,6% della platea tra i 50 e i 59 anni. Le prime dosi stanno decollando anche in altre fasce d'età nelle regioni in cui la copertura della popolazione è più bassa. In Friuli-Venezia Giulia il 10,5% dei sessantenni è andata a vaccinarsi in questi giorni, in Toscana il 12,7%. In Sicilia, l'ultima in classifica, circa 64 mila persone solo tra gli over 50 nelle ultime due settimane hanno fatto la prima dose. Salgono a 15 le regioni in zona gialla con il passaggio odierno di colore di Toscana, Emilia-Romagna, Abruzzo e Valle d'Aosta. I numeri di Omicron non rassicurano e spingono l'incidenza ospedaliera: anche ieri 155.659 nuovi casi, tasso di positività sui tamponi al 15,7%, 157 decessi, 38 posti letto in più occupati nelle terapie intensive, 717 in più come ricoveri ordinari».

OGGI CONFERENZA STAMPA DI DRAGHI

Oggi conferenza stampa del premier Mario Draghi, a cinque giorni dal Consiglio dei Ministri che ha deciso le nuove misure. Emanuele Lauria su Repubblica.

«Un passaggio delicato, che si consuma in un clima di assoluto riserbo. La conferenza stampa di Mario Draghi, questo pomeriggio, è un'anomalia, perché un premier che ama poco comunicare stavolta lo fa non in coincidenza di un evento ma per spiegare, chiarire meglio, l'azione del governo. Tornerà sulle decisioni del consiglio dei ministri di mercoledì scorso e si terrà alla larga dalle domande sul Quirinale. L'intendimento della vigilia, spiega nell'entourage dell'ex banchiere, è quello di non affrontare il tema. Partita difficile, per il primo ministro, che vuole cancellare le polemiche e l'immagine delle resistenze interne su un provvedimento che ruota attorno all'obbligo vaccinale per gli over 50. Ma il periodo è quello che è: con Omicron che ha rituffato l'Italia in piena emergenza pandemia, con le lezioni che riprendono oggi a macchia di leopardo fra proteste di governatori e presidi, con una parte della maggioranza (la Lega) in posizione sempre più critica e l'elezione del capo dello Stato che potrebbe dare l'idea di un premier distratto, Draghi ha l'obiettivo primario di mostrare di avere la situazione in pugno come qualche mese fa. Di far capire che è estremamente concentrato sull'azione dell'esecutivo. E, allo stesso tempo, di palesare che questa non rallenta malgrado veti e distinguo dei partiti. Di più: se restasse a Palazzo Chigi (e lo farà solo se la maggioranza non si spaccherà sul voto per il Quirinale) Draghi non accetterà un galleggiamento pre-elettorale sino al 2023. Anche perché sono tante le sfide ancora da affrontare: quella sanitaria ma anche quella legata all'utilizzo dei fondi del Pnrr. Questo il messaggio che lancerà. Farà leva, Draghi, sui numeri anticipati ieri dal generale Francesco Paolo Figliuolo a "Mezz' ora in più": contro la corsa di Omicron si fanno già fra le 65 e le 70 mila prime dosi al giorno, previste in generale almeno 11 milioni di somministrazioni a gennaio. E, soprattutto, «il governo sta lavorando già a un piano di transizione - ha detto Figliuolo - per uscire dall'emergenza e tornare alla normalità». Un segnale rassicurante, rivolto al "dopo", che Draghi vuole trasmettere anche nella fase esponenziale dei contagi. Parlerà di obbligo vaccinale, e dell'importanza di un provvedimento unico nel suo genere, ma anche di ristori, tema caro alla Lega. E sulla scuola ribadirà l'importanza delle lezioni in presenza e chiederà la massima collaborazione a tutte le istituzioni coinvolte. Sullo sfondo, è chiaro, resta la partita del Quirinale, che Draghi ha deciso di non affrontare dopo la bomba deflagrata con le sue dichiarazioni alla vigilia di Natale, accolte senza grande entusiasmo dai partiti. Il presidente del Consiglio ha deciso di non accendere il clima con altre esternazioni: ha compreso che la strategia migliore è quella a lui più cara, il low profile. E d'altronde, a chi l'ha sentito, il premier ha spiegato che la figura che si è attribuito - un "nonno al servizio delle istituzioni" - non equivale per forza a quella di un candidato per la Presidenza della Repubblica. Non esce dalla corsa ma - a differenza di Berlusconi - non si autopromuove: se ci sarà una convergenza sul suo nome per il Colle, valuterà il da farsi. In caso contrario, prima di andare avanti a Chigi, vorrebbe la garanzia di un Presidente della Repubblica ampiamente condiviso e di una maggioranza parlamentare di larghezza non inferiore all'attuale. La gimcana di gennaio è una prova ardua, anche per chi ha preso le redini dell'esecutivo con l'etichetta del "Migliore"».  

VIRGINIA RAGGI IN FILA PER IL TAMPONE

L’ex sindaca di Roma Virginia Raggi è stata fotografata in una fila di persone che aspettano di sottoporsi ad un tampone, davanti ad una Farmacia della capitale. Significa che è No Vax? Gianluca Veneziani per Libero.

«Li abbiamo visti travestirsi in mille modi, da sovranisti e poi da europeisti, da populisti e quindi da uomini e donne dell'establishment, da anti -clandestini e da filo -immigrati, da alleati della destra e poi della sinistra. Ma finora nessun membro dei 5 Stelle era riuscito nel capolavoro compiuto venerdì scorso da Virginia Raggi, che si è presentata in incognito, con tanto di cappuccio in testa a camuffarla, in fila per un tampone davanti una farmacia del quartiere Monte Mario a Roma. Il suo tentativo di nascondimento non è andato esattamente a buon fine, se è vero che l'ex sindaco è stato immortalato da altri cittadini in coda, che hanno fatto girare la sua foto di chat in chat fino a rendere virale la notizia (compresa quella della sua negatività). Ma perché la Raggi si è presentata conciata in quel modo prima del test rapido? Era un'estrema forma di tutela anti-Covid? Non bastandole cioè la mascherina, ha deciso di sperimentare anche il cappuccio come dispositivo aggiuntivo di protezione individuale? Oppure l'ex sindaco si vergogna a presentarsi col suo volto davanti ai romani, dopo i disastri combinati alla guida della città? Se è per questo, la prossima voltale suggeriamo di adottare anche occhiali e baffi finti. O ancora, ipotesi più probabile, la Raggi non vuole far sapere di essere una di quelli che necessitano del tampone per ottenere un Green Pass di 48 ore, essendo sotto sotto una No Vax? Qualche dubbio a riguardo è lecito averlo: sul tema vaccini l'esponente grillina non si è mai esposta in modo chiaro, anzi è rimasta piuttosto ambigua, suscitando non pochi sospetti. Nel novembre 2020 la Raggi era stata contagiata dal Covid e a lungo ha detto di avere anticorpi a sufficienza (per non vaccinarsi). Quando poi le è stato chiesto se fosse pro o contro il siero anti-Covid, ha optato per la libertà di scelta: «Non mi sento di dire se sono favorevole o contraria. Credo siano questioni su cui devono decidere i medici. Ognuno senta il proprio dottore e faccia ciò che dice lui», aveva ribadito lo scorso agosto. Tuttora quindi non si sa se la Raggi si sia mai vaccinata o meno. Il dubbio però rischia di essere fugato già oggi, quando a Roma si riunirà il Consiglio comunale perla discussione del bilancio: per accedere in aula, da ora in avanti occorrerà il Super Green Pass, concesso solo a immunizzati e guariti. Nel caso la Raggi non venisse fatta entrare, il mistero buffo (ma non troppo) verrebbe svelato. E magari Virginia si ritroverebbe a essere una Novak Djokovic de noantri, impossibilitata ad accedere al suo "campo di gioco" per posizioni anti-vacciniste... Di certo, l'immagine del sindaco camuffato e incappucciato, ultima frontiera tragicomica del surrealismo grillino, segue tante altre figure di palta commesse dalla Raggi durante il suo mandato. A mo' di una collezionista di gaffe, la si ricorda accusare i fascisti per le bombe del 1943 sul quartiere di San Lorenzo a Roma, sganciate però dagli Alleati. E ancora scambiare il Colosseo con l'Arena di Nîmes, che si trova in Francia, non proprio a un tiro di schioppo dalla Città Eterna. E poi confondere (dettagli, no?) il Cupolone di San Pietro con il Colosseo. Per non parlare della meravigliosa targa dedicata a Carlo «Azelio» Ciampi, rigorosamente senza «g», non troppo apprezzata dal presidente Matarela (si chiama così, vero, Virgì?). Ne aveva assommati così tanti di scivoloni, la Raggi, che alla fine i romani hanno deciso di lasciarla a terra, facendola arrivare tristemente in quarta posizione alle scorse amministrative. Ma Virginia è cocciuta, vuole rifarsi una verginità o una virginità politica e allora, non essendo riuscita a riciclare i rifiuti della Capitale, vuole almeno riciclarsi lei, come leader del fronte grillino più movimentista, scettico sui vaccini e contrario al Super Green Pass. Un po' l'erede dello spirito originario dei 5 Stelle, più di lotta e meno di governo. Però per certe battaglie (sbagliate) bisogna almeno avere il coraggio di metterci la faccia, non nascondersi sotto un cappuccio. Sennò la faccia si rischia di perderla definitivamente. Ma forse ci sbagliamo noi: la Raggi in realtà è una vaccinista convinta che, per estremo scrupolo, va ogni giorno a farsi il tampone in farmacia. Del resto ora Virginia ha tanto tempo libero: anziché guardare i cantieri, preferisce la fila per l'antigenico».

QUIRINALE 1. DIREZIONI E VERTICI IN VISTA DEL COLLE

Oggi si apre la penultima settimana prima del voto dei grandi elettori. Da domani vertici dei partiti in vista del Quirinale. Il punto per Repubblica di Giovanna Casadio.

«Si scaldano i motori per la partita del Quirinale. Non è più tempo di rinvii: lo sanno tutti i leader che si muovono tra incontri, riunioni di partito, appuntamenti vista Colle. Mancano due settimane alla prima seduta, il 24 gennaio, per votare il successore di Sergio Mattarella. Domani è la volta del Pd che riunisce prima la segreteria e, giovedì, la direzione con i gruppi parlamentari. Poi tocca al tavolo di centrodestra, da cui è partito un invito alla sinistra: «Fate prima voi», tanto per capire l'aria che tira, anche se si sa benissimo. Enrico Letta, il segretario dem, vuole sia tolta di mezzo la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale. Solo dopo, si può trattare per un nome condiviso. E il Movimento 5Stelle, che è il partito di maggioranza relativa, è del tutto in alto mare. Domani sera assemblea del gruppo a Montecitorio, con il capo Giuseppe Conte fermo alla ricerca di una donna di alto profilo e una parte dei grillini per il bis, a tutti i costi, di Mattarella. Matteo Salvini, che vuole intestare alla Lega la regia del voto, mette in campo un paletto alto come un muro: il prossimo capo dello Stato deve essere di centrodestra. Non fa il nome di Berlusconi, e sostiene: «Io non partecipo al toto nomi, lo lascio agli altri. Lavoro per una elezione veloce di un esponente di centrodestra dopo trent' anni. Penso che l'alternanza anche al Quirinale faccia bene». Aggiunge di essere già al lavoro da tempo per «una scelta rapida, condivisa e di centrodestra». Di fatto si smarca dal coro dei forzisti che acclamano Berlusconi. Per il quale, ieri, in una intervista sul Giornale , si è speso anche il segretario del Ppe, Antonio Lopez. Afferma Lopez che «una presidenza di Silvio Berlusconi con un capo di governo come Draghi sarebbe imbattibile e promuoverebbe l'Italia ancora più della già alta posizione di cui gode. Berlusconi e Draghi hanno entrambi questo vantaggio, che surclassa ogni altro politico italiano: sono gli unici veramente noti e apprezzati come leader in Europa». Quindi, una «leadership internazionale» per due. È un assist per l'ex premier e leader forzista che non manca di ringraziare con entusiasmo su Twitter: «Grazie al mio amico Antonio Lopez per le parole che ha voluto riservarmi nella sua intervista a Il Giornale . Siamo la colonna portante dell'Ue, vogliamo istituzioni sempre più moderne ed efficienti, capaci di affrontare sfide difficili come il Covid domani». Dovrebbe essere venerdì prossimo il giorno-chiave per il centrodestra, che può anche continuare a sventolare la bandiera Silvio, ma sa di dovere allargare l'orizzonte, se non vuole annaspare nelle sabbie mobili del suo stesso fronte tra i dubbi e la contrarietà di Salvini e Meloni e dei centristi di Toti e Brugnaro. Dalla Direzione del Pd poi, non uscirà subito un nome, anche se non è un segreto che Letta apprezzerebbe Draghi al Colle, insieme però a un patto di ferro sulla stabilità del governo e quindi sulla fine della legislatura nel 2023. Il segretario deve confrontarsi con la corrente di Matteo Orfini, ex presidente del partito, che ha messo sul tavolo l'opzione di un Mattarella bis, convincendo il presidente uscente a restare per via della bufera da Omicron. Il confronto del Pd con i 5Stelle e Leu (una prima riunione c'è già stata a casa del ministro Roberto Speranza) non ha portato frutti. Conte è alla prese con la truppa pentastellata in libera uscita su più questioni, perciò non può garantire ai Dem la solidità di un accordo. Matteo Renzi, il leader di Italia Viva (che fu da segretario del Pd, con Pierluigi Bersani, il vero regista dell'elezioni di Mattarella nel 2015), punta a farsi ago della bilancia. Ma l'impresa è velleitaria in un Parlamento frammentato come non mai».

QUIRINALE 2. SPUNTA L’OPZIONE SANT’EGIDIO

Nella sua rubrica sul Corriere “Il Fantacolle”, Antonio Polito fa il nome di un outsider di prestigio come candidato super partes: il fondatore di Sant’Egidio ed ex ministro del governo Monti Andrea Riccardi.

«Il partito trasversale dei «no Drag» è consapevole di due cose. «Primo: se vogliamo dimostrare che la politica democratica esiste ancora, ed evitare che l'elezione al Colle del premier rappresenti l'ultimo e definitivo fallimento dei partiti, bisogna che troviamo un candidato che abbia un senso, un valore, una credibilità. Secondo: se non ci riusciamo allora meglio Draghi, perché un Paese che non ha più una politica forte deve potersi almeno affidare a una tecnocrazia forte». Uno dei massimi strateghi dell'operazione «troviamone un altro» dice che queste ore sono decisive. «Il cuore del problema è Salvini. Solo lui può fare la mossa del cavallo a questo giro. Indicare un nome che vada bene anche nel campo del centrosinistra, diventarne il grande elettore, riscuoterne i vantaggi in termini di credibilità internazionale e di favore quando toccherà al nuovo capo dello Stato dare l'incarico. Ma Salvini ce la farà a giocare così in grande, emancipandosi da Berlusconi e infischiandosene per una volta della competizione della Meloni che l'ossessiona?». Resta il problema dei nomi. «Due sono i soliti, Casini e Amato, ma il secondo non piace alla Lega e su Casini c'è un veto della Meloni. Due sono di centrodestra, Frattini e Moratti (quest' ultima, a sorpresa, ha anche l'entusiasta sostegno di D'Alema, convinto che bisogna eleggere una donna, e se non lei la Severino). Ma due sono nuovi, e sono stati proposti a Salvini: quello di Franceschini, che però ha il grave difetto di essere del Pd e i leghisti farebbero davvero troppa fatica a eleggere il terzo del Pd di seguito. E l'altro è un indipendente di credenziali impeccabili e stimato ovunque anche molto in alto: Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant' Egidio». La strategia di questo agguerrito partitino trasversale sarebbe di trovare un accordo prima ancora di cominciare, mandare a vuoto i primi tre scrutini, lasciar sfogare Berlusconi al quarto, e fare un blitz al quinto sul nome già concordato».

QUIRINALE 3. 5 STELLE. LITE SU CONTE MEDIATORE

Nel retroscena di Emanuele Buzzi per il Corriere i tormenti dei 5 Stelle fra cabina di regia e leadership di Giuseppe Conte.

«II confronto (decisivo) tra Giuseppe Conte e i parlamentari, la decisione di ampliare la cabina di regia sul Quirinale e le polemiche interne che non si placano; per i Cinque Stelle è stato un weekend ad alta tensione. In attesa della riunione dei deputati di domani e dell'assemblea congiunta degli eletti di Camera e Senato che si terrà mercoledì, i vertici del Movimento provano a fare passi avanti. I senatori la scorsa settimana avevano chiesto maggior condivisione, sabato durante la riunione sul dossier Quirinale è stato deciso di ampliare la rosa dei partecipanti. Oltre al leader e i vice, oltre ai ministri, ai capigruppo e ai loro vice, dal prossimo incontro ci saranno anche i responsabili dei quattro comitati «centrali», quelli con diritto di presenza nella segreteria. Ai summit sul Colle, quindi, parteciperanno anche Chiara Appendino, Alfonso Bonafede, Fabio Massimo Castaldo e Gianluca Perilli. «Conte ascolta i parlamentari e amplia il confronto», dicono alcuni fedelissimi del leader. D'altro avviso i critici: «Porta al tavolo quattro persone scelte da lui: una finta». La questione Quirinale, però, diventa dirimente. Mentre Raggi sul Fatto apre all'idea di nuove Quirinarie (ossia di un voto online degli attivisti), Vito Crimi in chat con i senatori si sfoga. «Ma davvero pensiamo che una partita come il Quirinale si possa decidere in assemblea? - è il senso del ragionamento dell'ex reggente -. Quando abbiamo fatto votare gli iscritti, lo abbiamo fatto da opposizione, quando sapevamo che non sarebbe servito a nulla». L'ex capo politico poi chiede ai senatori se davvero il Movimento voglia contare, se davvero voglia fermare la corsa di Berlusconi al Colle. «Allora serve una persona, il capo, coadiuvato dai due capigruppo», spiega Crimi, cui dare «una delega totale». L'intervento provoca un vero terremoto nelle chat. I big contiani si schierano a difesa di Crimi, ma molti lo attaccano. Primo Di Nicola lo rimprovera per un «utilizzo della piattaforma strumentale e cinico» e contrattacca: «Lasciaci fare il nostro lavoro». Danilo Toninelli sottolinea: «Non vedo da parte di Vito alcuna autocritica». Scoppia una guerra di numeri, con i contiani che si lamentano per la fuga di notizie e sostengono che gli interventi a sostegno dell'ex leader siano 16 contro i 7 critici. Chi lo attacca, invece, parla di un ugual numero di interventi pro e contro. Durante lo scontro Gianluca Castaldi twitta: «Carta bianca a Conte per la contrattazione». Mercoledì, probabilmente, il redde rationem».

KAZAKISTAN, REPORTAGE DAL TERRORE

Reportage dal Kazakistan di Fabio Tonacci per Repubblica. La rete è bloccata, si comunica solo con gli sms come quelli usati dal regime per diffondere ai cittadini le uniche informazioni ufficiali. Il presidente Tokayev ha silenziato media e web. Il bilancio drammatico della repressione del regime è di 164 morti, più di duemila in ospedale, seimila in carcere.

«Un regime spaventato è un regime imprevedibile. Se si sente minacciato, risponde in modo scomposto, drastico, spesso violento. Un regime spaventato, qual è oggi quello kazako che conta almeno 164 cadaveri per strada, tra cui tre minorenni, 2.200 feriti in ospedale e seimila persone in carcere dopo una settimana di rivolte, non esita ad annichilire la propria capitale con un coprifuoco da tempi di guerra, e con l'oscuramento dell'intera Rete. Nur-Sultan, capitale politica e amministrativa del Kazakistan, è una città cristallizzata al pomeriggio del 5 gennaio, quando nella lontana Almaty hanno preso a sparare ad alzo zero e al popolo sono arrivati gli sms con le draconiane misure del presidente Kassym-Zhomart Tokayev. Xhanna scorre sul telefonino quei messaggi. «Il primo diceva che da lì in avanti avremmo ricevuto le informazioni corrette su quanto stava avvenendo solo via sms , perché Internet era stato spento». La centralizzazione dell'informazione, prima mossa per ridurre la stampa a megafono di parte. «Col secondo hanno detto agli imprenditori che avrebbero fatto di tutto per ristorare chiunque stesse perdendo soldi per colpa dei disordini. Col terzo, venerdì, ci hanno avvertito che il presidente avrebbe tenuto un discorso alla nazione dalla televisione pubblica». Xhanna, 24 anni, dipendente di una compagnia di prodotti elettrici che lavora molto nell'export con la Cina, tentenna un attimo prima di passare al quarto messaggio mandatole dal suo governo. Intabarrata in un giaccone pesante per proteggersi dai -15 gradi dell'inverno di Nur-Sultan, sbuffa attraverso la mascherina. «È una lista di sette siti web che la White House (i kazaki chiamano il palazzo presidenziale Casa Bianca, come negli Stati Uniti, ndr ) ha lasciato accessibili, perché li ritiene affidabili ». Il regime è riuscito nel suo intento, va detto. Nella capitale cristallizzata nessuno ha ben chiaro che cosa sia successo negli ultimi sette giorni e a nessuno pare interessare veramente, se non per i disagi dello stato di emergenza dichiarato fino al 19 gennaio: coprifuoco dalle 23 alle 7, una finestra di accesso a Internet di appena quattro ore (dalle 9 alle 13), il limite a diecimila tense (circa 20 euro) al contante prelevabile al bancomat, la chiusura di molti negozi e ristoranti, blindati dell'esercito a presidiare le arterie urbane principali dell'aeroporto internazionale Nur-Sultan Nazarbayev», intestato al "padre della patria" come molti altri palazzi e musei. La stessa capitale porta il nome dell'autocrate 81enne che è stato padrone indiscusso e indiscutibile della politica kazaka per trent' anni, fino al passaggio di consegne del 2019. E il cui ruolo, in una crisi inaspettata che tutt' ora rappresenta un enigma da sbrogliare, va ancora capito. Qualcuno tra gli analisti internazionali azzarda ipotesi che si sia trattato di un tentativo di golpe, un regolamento di conti tra élite di potere. Una faccenda interna, dunque, che ha portato all'arresto del capo dei servizi segreti Karim Masimov per alto tradimento e alla defenestrazione di personaggi chiave della vecchia guardia. Così come è di duplice lettura l'intervento della 45esima Brigata, le forze speciali russe, per sedare la rivolta, reso possibile dal Trattato di sicurezza collettiva stipulato tra Mosca e le ex Repubbliche sovietiche nel 1992. «Se Tokayev ha ritenuto di attivare per la prima volta il Trattato, si vede che aveva buoni motivi per farlo», dice svogliatamente Aizhan, 38 anni, a passeggio col marito. «Mi fido del governo, perché dovrebbe preoccuparmi la presenza russa? Sono i nostri vicini, sanno quello che fanno». Insieme al marito, sono una delle poche coppie che si incontrano sulla piazza innevata dominata dalla Bayterek, la torre più riconoscibile della riva sinistra del fiume che taglia in due la gelida Nur-Sultan. «Ordinare alle forze dell'ordine di sparare a vista ai ribelli in effetti è stato esagerato, non lo nego...», è il massimo grado di critica alla gestione Tokayev che si ricava. Gli Stati Uniti sono meno entusiasti di Aizhan. Guardano con inquietudine alla presenza delle truppe russe in Kazakistan, che rappresentano la parte più consistente dei 2.500 militari inviati dai Paesi alleati a proteggere i palazzi strategici. Il segretario di Stato Antony Blinken condanna il modo virulento usato per reprimere il dissenso. E, alla vigilia di una settimana cruciale per la geopolitica dell'Europa orientale con il caso Ucraina sull'agenda dei vertici diplomatici di Ginevra e Bruxelles, sintetizza con una battuta il pensiero di Washington: «La storia recente insegna che una volta che i russi sono a casa tua è molto difficile convincerli ad andarsene ». Mosca ribatte di non avere invaso nessuno, di essere stati chiamati. È vero. Ed è uno dei misteriosi snodi dell'enigma kazako. Cos' è accaduto veramente nelle 48 ore di sangue ad Almaty, tra il 4 e il 5 gennaio, quando la pacifica protesta per il rincaro dei prezzi del gpl nelle regioni dell'Ovest si è tramutata in guerriglia urbana nella capitale economica del Kazakistan? Perché quel repentino ingaggio del Trattato di difesa collettivo, mai attuato prima? In pubblico Tokayev ribadisce la sua versione, che a Nur-Sultan, dove è quasi impossibile accedere a media indipendenti e fonti non statali, pare abbiano digerito. È quella che vuole il Paese sotto attacco di «ventimila banditi e terroristi», molti provenienti dall'estero e guidati dall'esterno, «in contatto tra loro via radio», che hanno eletto Almaty a teatro di un piano sovversivo organizzato. Una ricostruzione che, fondata o meno che sia, serve a Tokayev ad allontanare dal deep state dello Stato kazako la genesi della rivolta. Il cui incipit, va ricordato, è stato non violento: la manifestazione di piazza della città di Zhanaozen, durata due giorni. Yevgeniy Zhovtis, direttore del Kazakistan International bureau for human rights, ha un'idea differente. «Ad Almaty - ha spiegato in un'intervista a Open-Democracy - abbiamo assistito alla fusione di quattro diversi gruppi. Il primo era composto da cittadini pacifici, stanchi del carovita. Il secondo comprendeva elementi più politicizzati, di opposizione. Un terzo gruppo era fatto da giovani marginalizzati delle periferie e dei villaggi. Infine c'erano i veri violenti, frange islamiste e criminali infiltrati che hanno messo a ferro e fuoco Almaty, Taraz e Shymkent». Se Zhovtis vede giusto, sono loro ad aver appiccato l'incendio al municipio di Almaty e ad aver devastato l'aeroporto. E a loro appartiene l'armeria mostrata ai telegiornali della sera, l'ultimo di una serie di sequestri della Guardia Nazionale. Venticinque pistole Makarov, cinque kalashnikov, diversi fucili a canne mozze, cinquecento proiettili. Mentre a Nur-Sultan cerca disperatamente un servizio wifi funzionante, ad Almaty i soldati kazaki aiutati dai russi punteggiano il centro con decine di check point. Ma in città si sente ancora sparare».

OGGI A GINEVRA I COLLOQUI RUSSO-AMERICANI

Mentre il mondo guarda con apprensione al Kazakistan, iniziano oggi a Ginevra i colloqui fra Russia e America sull’Ucraina. Francesco Semprini per La Stampa.

«Iniziano in salita i colloqui di Ginevra tra Mosca e Washington per tentare di disinnescare la crisi sull'Ucraina e allontanare la minaccia di un nuovo conflitto. Ieri, alla vigilia degli incontri bilaterali con il vice segretario di Stato Wendy Sherman alla guida della delegazione statunitense e il vice ministro degli Esteri Sergei Ryabkov in qualità di rappresentante per gli emissari di Mosca, il titolare di Foggy Bottom Antony Blinken ha messo in guardia la Russia dai «rischi di uno scontro», ove il dialogo e la diplomazia dovessero fallire. Avvertendo che in caso di aggressione all'Ucraina Mosca andrebbe incontro a «enormi conseguenze». Secondo il New York Times, l'amministrazione di Joe Biden e i suoi alleati stanno lavorando per mettere a punto una serie di durissime sanzioni finanziarie, tecnologiche e militari contro la Russia. Misure punitive che entrerebbero in vigore immediatamente dopo un'eventuale invasione dell'Ucraina, con l'obiettivo di rendere chiaro agli occhi del presidente Vladimir Putin quale sarà il costo da pagare per un'azione di forza contro Kiev. Mosca si è già detta «delusa» dai «segnali» fatti pervenire dagli Usa e anche dall'Ue, e afferma di non avere intenzione di fare «alcuna concessione» alle richieste americane. «E' fuori discussione - ha dichiarato Riabkov -. Siamo delusi dai segnali venuti in questi ultimi giorni da Washington, ma anche da Bruxelles». Ai colloqui di Ginevra seguirà mercoledì una riunione speciale del Consiglio Nato-Russia a Bruxelles, e il giorno successivo una sessione dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) a Vienna.».

Viviana Mazza intervista Anne Applebaum per il Corriere della Sera, alla vigilia dell’incontro tra russi e americani a Ginevra, sull’Ucraina. «L'America sottovaluta Putin: confusione e disinformazione fanno parte della sua strategia».

«Visto da Kiev, l'atteggiamento occidentale verso la Russia sembra incredibilmente ingenuo. Dall'invasione della Georgia nel 2008, americani ed europei sono sempre sorpresi dalla Russia: dall'aggressività, le ambizioni territoriali, le interferenze nei sistemi politici e i tentativi di distruggere le nostre alleanze», scrive sulla rivista The Atlantic Anne Applebaum. Alla vigilia di un incontro teso tra americani e russi sull'Ucraina a Ginevra, la giornalista e saggista statunitense naturalizzata polacca, premio Pulitzer per «Gulag» (2003), afferma che gli americani dovrebbero avere un obiettivo chiaro: «Aiutare a rendere l'Ucraina quella democrazia prospera che Putin chiaramente teme e che porrebbe una minaccia ideologica per la Russia, come per la Bielorussia e tutte le autocrazie. Non prendete decisioni sull'Ucraina senza l'Ucraina».

Nel libro «Il tramonto della democrazia» lei scrive che, dall'America di Trump all'Ungheria e alla Polonia, i leader autoritari minano la fiducia nella democrazia e nella legittimità dello Stato attraverso teorie del complotto. Ora lei crede che Putin faccia lo stesso accusando Usa e alleati di aggressione, inclusi presunti piani di usare gas chimici contro truppe pro russe in Ucraina? «La Grande Bugia, la propaganda ideata per persuadere le persone a fare qualcosa che va contro i loro stessi interessi, è un problema ovunque: dal Kazakistan, dove sia il governo russo che quello kazako mentono sull'origine delle proteste e accusano gli stranieri, agli Stati Uniti dove una significativa porzione della popolazione ha finito con il credere a una menzogna su ciò che accadde il 6 gennaio 2021. I mezzi di comunicazione moderni rendono più facile che mai convincere la gente di cose mai avvenute, e gli autocrati ne approfittano».

In Ucraina lei ha trovato un clima irreale con due letture opposte possibili: che sia tutto un bluff o che Putin abbia davvero deciso di coronare il sogno di invadere Kiev. Però stavolta non sono stati gli ucraini ma gli Usa a lanciare l'allarme: sono preoccupati oltre che dai movimenti di truppe russe anche dall'intelligence strategica sulle mire del Cremlino? «Rendere difficile la lettura della situazione è parte della strategia di Putin: è una tattica dei leader autoritari. Quello che stanno facendo in Ucraina - muovere le truppe e l'equipaggiamento, alcuni cyber-attacchi, la presenza di militari in certi punti dal lato ucraino del confine - dà l'impressione di una imminente invasione. Non so se sia reale o sia una tattica per spaventare gli americani e premere perché Ucraina si pieghi al volere russo. Non so cosa c'è nella mente di Putin e cosa farà».

Usa e Europa sperano di risolvere la crisi con diplomazia e sanzioni: sottovalutano i rischi di una guerra? «Credo che ci sia una reale possibilità di violenza e che sottovalutiamo i russi. La Russia non è potente quanto la Cina, ha una piccola economia, ma tutta la sua politica estera è basata sull'idea di indebolirci, di minare l'Europa, l'America, l'Ue, la Nato, Paese per Paese, attraverso la disinformazione e la ricerca di alleati economici e politici. Niente di tutto ciò è costoso, ma siamo ingenui a ignorarlo e pensare che non conti».

La crisi in Kazakistan può influire sull'Ucraina? «Grossi disordini in Kazakistan possono essere un motivo ulteriore per non invadere l'Ucraina. C'è già il potenziale per costanti disordini in Bielorussia e, tutt' attorno, Paesi insoddisfatti e i russi sono responsabili di mantenere l'ordine perché qualunque rivolta di successo - se ad esempio il governo kazako negoziasse con i manifestanti - sarebbe un male per la Russia per come la vede Putin: mina il suo modello politico di governo che non negozia con nessuno».

L'America è presa dalla sfida interna alla democrazia e dalla Cina. E l'Europa? «È tempo per l'Europa di avere una politica estera seria. Penso che i leader europei siano stati irresponsabili nella gestione della sicurezza europea a Est e a Sud, dal Medio Oriente al Nord Africa. L'unico a parlarne sul serio è stato Macron ma non ha ottenuto niente. L'Europa è economicamente potentissima e strategicamente debolissima. I russi e altri hanno potuto approfittarne».

USA, INCRIMINAZIONE PER TRUMP?

Un anno dopo, la vicenda dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio non è affatto chiusa. Massimo Gaggi per il Corriere della Sera.

«La Commissione della Camera che indaga sull'assalto al Congresso di un anno fa potrebbe chiedere al ministero della Giustizia di accusare l'ex presidente Donald Trump di un ventaglio di reati penali che vanno dalla cospirazione per sovvertire il risultato delle elezioni a capi d'imputazione meno gravi come l'ostruzione diretta dell'attività del Congresso. Questo se gli elementi raccolti non verranno giudicati abbastanza da sostenere l'accusa più pesante. A scriverlo è il quotidiano The Guardian sulla base delle informazioni ricevute da due fonti anonime della Commissione. Anche in assenza di certezze sull'origine di queste indiscrezioni e benché il ministro della Giustizia, il prudente Merrick Garland, non avrebbe alcun obbligo di chiedere un'incriminazione di Trump se sollecitato a farlo dalla Commissione, la notizia ha una sua rilevanza: indica che il cerchio dell'indagine si sta stringendo attorno all'ex presidente sulla base dei tanti elementi emersi dall'indagine parlamentare avviata nel luglio scorso. Risultano cruciali soprattutto i tanti messaggi consegnati dall'ex capo di gabinetto di Trump, Mark Meadows, in base ai quali è stato possibile ricostruire il ruolo svolto dalla Casa Bianca non solo nell'aizzare la rivolta del 6 gennaio, ma anche nel premere sul ministero della Giustizia, sulle autorità elettorali degli Stati cruciali per la vittoria di Biden e sullo stesso vicepresidente, Mike Pence, per impedire la ratifica dei risultati del voto con la proclamazione del nuovo presidente democratico. Già a dicembre il Washington Post aveva scritto che la Commissione si accingeva a sollecitare un'indagine penale sull'operato di Trump. Ora vengono forniti elementi più circostanziati su possibili comportamenti penalmente rilevanti dell'ex presidente: le pressioni che i suoi avvocati, i suoi collaboratori e lo stesso leader conservatore hanno esercitato su tutte le autorità che hanno gestito i passaggi del processo di ratifica del voto, compreso il tentativo di convincere Pence a trasformare il suo ruolo cerimoniale come presidente del Senato in un ruolo politico sostanziale di blocco delle procedure. Quasi un colpo di Stato, almeno a giudizio della maggioranza democratica della Camera, mentre nel suo recente libro di memorie, The Chief' s Chief, Meadows difende quelle iniziative come il semplice tentativo di prendere tempo per consentire indagini più accurate sullo svolgimento delle elezioni. La sua tesi, benché sia ormai sostenuta da gran parte della destra Usa, non sta in piedi: dal voto all'insediamento di Biden sono passati due mesi e mezzo e tutte le indagini fatte dalle autorità degli Stati a guida repubblicana e da magistrati in gran parte repubblicani non hanno fatto emergere irregolarità di qualche rilievo. Ci sono, poi, gli elementi che collegano direttamente Trump alle riunioni tenute alla vigilia del 6 gennaio all'hotel Willard da Rudy Giuliani con avvocati e collaboratori della Casa Bianca per cercare di impedire la proclamazione del nuovo presidente. Infine emerge il ruolo di sei deputati repubblicani della destra radicale del Freedom Caucus, da Jim Jordan a Mo Brooks, che hanno operato dietro le quinte - con pressioni brutali sui funzionari della Giustizia - e sul palco dei comizi, per bloccare l'iter della ratifica del voto affermando di parlare a nome di Trump. Il nodo, però, è politico oltre che giudiziario: a dimostrare un comportamento cospirativo od ostruzionistico di Trump basterebbe la celebre telefonata del 2 gennaio 2021 registrata dal segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, nella quale l'allora presidente gli chiese di «trovare 11.780 voti»: quelli necessari per togliere a Biden la vittoria nello Stato del Sud. Il punto è che se due processi di impeachment non sono bastati a spingere Trump fuori dal palcoscenico della politica, difficilmente riuscirà a farlo un ministro di Biden o una Commissione composta quasi solo da democratici per il boicottaggio dei repubblicani, che trattano da traditori Liz Cheney e Adam Kinzinger: gli unici due deputati conservatori che hanno accettato di partecipare all'indagine».

AFGHANISTAN, TORNA IL NEONATO PERSO IN AEROPORTO

Kabul, torna a casa Sohail, il neonato perso in aeroporto mentre la sua famiglia fuggiva verso gli Usa. È ora con il nonno. La cronaca di Repubblica.

«Lui è Sohail, il neonato smarrito nella calca all'aeroporto di Kabul. Eccolo tra le braccia del nonno, in salvo: presto sarà negli Stati Uniti con papà e mamma, insieme ai quattro fratellini fuggiti dall'Afghanistan. Lui è la favola con il lieto fine. Accanto c'è un uomo che piange. Si chiama Hamid Safi, è il papà in prestito per cinque mesi: lo aveva raccolto da terra e aveva creduto in un miracolo, festeggiando la sua fortuna. Dopo tre femmine, ora aveva un maschio da crescere. Nell'Afghanistan misogino dei talebani vuol dire avere altre braccia per lavorare, e un pizzico di speranza in più di cavarsela. Piange mentre affida il "suo" Sohail al nonno vero, Mohammad Qasem Razawi, che ha attraversato mezzo Paese dal lontano Badakhshan per ridare al bimbo il futuro che gli spetta. Anche le favole, in Afghanistan, hanno un lieto fine complesso. Il 19 agosto, mentre sulla città conquistata dai talebani calava la nube nera della disperazione, i genitori affidarono Sohail a un soldato di guardia all'aeroporto; lo salvarono dalla ressa, lo protessero; ma lo persero. Ce l'avevano quasi fatta, mancavano gli ultimi cinque metri prima di entrare nello scalo, avevano i quattro fratellini più grandi a cui badare, quel cuccioletto di due mesi lo misero tra le braccia «di un uomo in divisa» che credevano «un soldato americano», giusto il tempo di affrontare l'ultimo imbuto prima della salvezza, del futuro, dell'America. E invece i talebani li spinsero qualche metro indietro, persero mezz' ora e Sohail non c'era più. Sparito. Mirza Ali, 35 anni, e Suraya, 32, papà e mamma, lo cercarono ovunque. Altri militari dissero loro che probabilmente il bambino era stato portato al sicuro in un'area riservata ai bimbi, li accompagnarono in tutto l'aeroporto ma non trovarono né Sohail né l'uomo in divisa a cui lo avevano affidato. Mirza Ali per dieci anni aveva lavorato come guardia per la sicurezza dell'ambasciata americana, aveva le carte in regola per volare al sicuro negli Stati Uniti con la sua famiglia. Per tre giorni papà e mamma cercarono il bimbo ovunque: «Probabilmente è già stato evacuato da solo», dissero loro. Alla fine decollarono verso la salvezza senza di lui, insieme agli altri quattro figli di 17, nove, sei e tre anni. Ponte aereo in Qatar, poi Fort Bliss in Texas con gli altri rifugiati; infine la nuova casa in Michigan. È da lì, in video conferenza, che sabato hanno assistito in lacrime di gioia alla riconsegna di Sohail al nonno. Per trovarlo avevano postato foto del bimbo su un sito che si occupa di tutti i bimbi perduti nei giorni terribili della conquista talebana, quando per sfuggire all'incubo non c'era solo chi si aggrappava alle ruote degli aerei ma anche chi affidava i figli ai soldati oltre il filo spinato all'aeroporto, perché almeno loro potessero avere un domani. Sohail sembrava averlo perduto, il suo domani, ma aveva trovato un oggi. Aveva trovato il tassista Safi, che ha raccontato di averlo raccolto da terra in aeroporto mentre piangeva tutto solo. Dice di aver cercato i genitori, poi ha pensato fosse piovu to dal cielo per aiutare lui e la moglie. Lo ha portato a casa, lo ha fatto visitare, lo ha fotografato insieme alle sue bimbe e ha postato sui social le foto della sua famiglia allargata. Ma quando la Reuters ha raccontato la storia del bambino perduto all'aeroporto, qualcuno tra i suoi vicini ha notato che somigliava tanto al nuovo figlio del tassista. Trovato. Era novembre, non restava che farselo riconsegnare. Ma quando il nonno è arrivato a Kabul dall'estremo nordest afghano con un montone sgozzato, qualche chilo di noci e una borsa di vestiti per ricompensare il tassista, Safi ha detto no. Voleva qualcosa di molto più prezioso: portare lui stesso Sohail in America insieme a sua moglie e alle bimbe, per avere anche loro un lieto fine. La famiglia del bimbo ha denunciato il rapimento. I talebani hanno mediato l'accordo, firmato nero su bianco con le impronte digitali: per ringraziare Safi ci volevano 950 dollari. Affare fatto: baci, abbracci e riconsegna in videoconferenza. Ora Sohail ha 7 mesi ed è con il nonno, pronto a volare verso il suo futuro. Safi, la moglie e le bambine hanno quasi mille dollari per l'inverno gelido di Kabul, dove fare la fame non è un modo di dire».

GUANTANAMO, 20 ANNI DOPO

Domenico Quirico racconta per i lettori della Stampa la prigione speciale di Guantanamo, aperta vent’anni fa. E non ancora chiusa. Simbolo dell’ingiustizia e del fallimento dell’Occidente.

«Ho conosciuto un prigioniero di Guantanamo. Otto anni aveva passato laggiù, otto anni. Era nel contingente dei primi arrivati, «i peggiori dei peggiori» come li insolentì il segretario alla difesa americano Rumsfeld. L’undici gennaio 2002 fu l’inizio, anche lui incatenato nella stiva di un aereo decollato dall’Afghanistan appena ripulito da Al Qaeda e taleban, sedici ore di volo da Kandahar, davanti agli occhi una maschera da fonditore e alla bocca una museruola come quella dei cani. «Adesso sei proprietà dei marines degli Stati Uniti» gli dissero i guardiani: poi la tuta arancione, la gabbia, il campo “X Ray”, che adesso non esiste più, è solo una distesa abbandonata di erbe alte e di lamiere arrugginite che friggono nel caldo tropicale. Ho incontrato Adel Ben Mabrouk nella sua città, Tunisi, da uomo libero. Lo aveva fatto uscire da Guantanamo Obama; frustrante, patetico, fallito tentativo di chiudere il lager di Bush di quel presidente velleitario, sempre incompiuto. Doveva essere trasferito nel suo Paese di origine: offriva con piacere le indigene galere per continuare Guantanamo Ben Ali, autocrate modernista e implacabile nemico dei jihadisti. Ma il destino non aveva smesso di rimescolare con i suoi gesti da cieco. Quando era sbarcato a Tunisi non c’era più nulla: Ben Ali la gendarmeria i giudici le prigioni. Tutto evaporato. C’era invece la rivoluzione. Dall’aeroporto aveva raggiunto casa sua, tranquillo come un lavoratore che ha finito il suo turno e si prepara a iniziarne un altro. Nulla era rimasto indietro che non fosse compiuto. Aveva sciolto il suo passato. Aspettava le ore della preghiera seduto davanti al portone, guardando i venditori di verdura e cianfrusaglie immobili agli angoli di quel quartiere di sommessa povertà, senza grida, senza gesti, goffamente abbarbicati ai marciapiedi. Il suo volto era tagliente, solo linee, respiro e occhi. Le donne passavano davanti a lui e con gesto automatico di rispetto stringevano il velo abbassando gli occhi, gli uomini e i ragazzi si inchinavano, un segno di ammirazione per l’eroe, l’invitto di Guantanamo. Volevo parlare di Bin Laden, dell’operazione Geronimo, del capo di Al Qaeda ucciso dai soldati americani, il corpo gettato in mare come un volgare rifiuto per non creare un luogo di pellegrinaggio. Perché aveva fatto parte della guardia personale dello sceicco Osama, gli aveva parlato, aveva combattuto al suo fianco, aveva giurato di morire con lui nei giorni ardenti e feroci di Tora Bora. Prima che i pachistani lo tradissero «vendendolo agli americani per denaro», e salpasse verso quel lungo naufragio di Guantanamo. I suoi occhi brillavano a quella parola. Si poteva guardare attraverso quegli occhi come se non finissero mai. Del resto, per quanto riguarda l’essenziale, l’uomo è ciò che nasconde. Guantanamo... che parola! La più misteriosa parola del mondo: il tramonto della civiltà occidentale, il vergognoso, informe crepuscolo degli dei americani, i tribunali di eccezione del Patriot Act con arresti abusivi, mancanza di prove, confessioni strappate sotto tortura, invenzioni giuridiche per aggirare la convenzione di Ginevra e le garanzie della costituzione americana, le bandiere scolorite dei diritti dell’uomo, la marea montante del fango. Tutto questo è ancora oggi, dopo venti anni, Guantanamo, «la sconfitta quotidiana» come ben la definiva Biden quando era vice presidente. Ma che da presidente neppure lui ha ordinato di chiudere. Troppo pericoloso per il vinto di Kabul. Lo strumento della vendetta si è avviluppata attorno ai vincitori e li lega per sempre. Accettò di parlare di tutto, il “waterboarding”’, la ripetitiva tortura dell’acqua che avete visto in mille film, il ricorso al rumore per impedire che i prigionieri dormissero, la alimentazione forzata per annullare gli scioperi della fame con tubi infilati nell’ano e la bocca sigillata per impedire di vomitare, gli interrogatori duri. «Ma non ti dirò nulla dello sceicco Obama... », avvertì subito. Poi ho capito perché: non ce n’era bisogno. Guantanamo era già, in sé, la perfetta, implacabile descrizione della vittoria del miliardario del terrore. Con cinque taglierini, il costo di due posti al cinema, aveva spinto Bush a volere quello che lui voleva, a precipitarsi nel non diritto. In quei 117 chilometri quadrati dell’isola di Cuba, avanzo dal 1898 di una delle prime manifestazioni dell’imperialismo americano, la guerra contro la Spagna, c’era la catena di cui la più grande potenza del mondo non riusciva più a liberarsi. Bin Laden aveva fatto cadere il suo nemico nell’errore di creare un mostro. Sì. Guantanamo è un mostro americano. Non perché ha messo in prigione degli innocenti. Gli ottocento che vi sono stati rinchiusi erano jihadisti, assassini, molti ideatori e esecutori di attentati sanguinosi, volevano purificare il mondo uccidendo gli uomini. La mostruosità, il peccato originale di Guantanamo e della guerra al terrorismo, è nel fatto che una democrazia non ha saputo trovare una forma di giustizia per punirli senza a sua volta commettere ingiustizie. Senza diventare come loro. Guantanamo, purtroppo, non è un anniversario. È la fotografia della nostra sconfitta come Occidente, nel suo essere ancora lì, intangibile, forse eterna, con i suoi 400 milioni di dollari l’anno di costo per una quarantina di detenuti rimasti, i suoi cartelli surreali che invitano a non dar da mangiare alle iguane, le tavole dei pesci rari, i percorsi natura che nessuno può utilizzare perché tutto è vietato, con una nuova scuola per i figli del personale appena inaugurata e impianti per ridurre le spese di elettricità e acqua potabile costati decine di milioni di dollari. Il processo a tre attentatori dei massacri di Bali e Giakarta del 2003 che provocarono 215 morti va avanti stancamente, quasi con imbarazzo, il rito degli avvocati che incontrano clienti incatenati alle sedie, i volti nascosti, l’obbligo di non descrivere i luoghi. Sono rimasti alcuni detenuti “di alto valore”, li chiamano così: come il pachistano Khaled Mohammed detto “KSM”, uno dei cervelli dell’undici settembre; o il saudita Rahim al Nashiri, uno degli attentatori della “Uss Cole” nel 2000. E poi i “detenuti illimitati”, troppo pericolosi per essere liberati ma i cui processi sono appesi a confessioni ottenute con la tortura. Come si fa, come i gatti, a cancellare le tracce, a ricoprire di sabbia la sporcizia prodotta? Guantanamo è la prova del fallimento della crociata contro il terrorismo. Poco tempo dopo il nostro incontro Adel è partito per la Siria, Al Qaeda chiamava di nuovo a raccolta i suoi. È morto fulminato da un cecchino vicino a Idlib. Anche lui faceva della guerra una igiene esistenziale, era certo che la vicinanza con la morte sul campo di battaglia desse un senso alla vita. Rischiare la propria vita per un dio totalitario significava acquisire un’anima. Quando è uscito da Guantanamo era un morto vivente pronto a trasformare in morte tutto ciò che toccava. La morte l’aveva contaminato e lui a sua volta contaminava la morte. Dopo venti anni dall’arrivo dei primi prigionieri nella base navale a Cuba gli americani hanno mangiato la polvere in Afghanistan. Uno dei detenuti afgani, Abdul Zakir, è ministro nel governo dell’Emirato islamico, altri sei sono tra i capi talebani di nuovo al potere. Non si contano tra i liberati quelli che combattono nelle finte “guerre al terrorismo” lanciate dai politici occidentali in combutta con i venditori di armi o per sostenere vecchi e nuovi complici. Non ci sono pentiti. La domanda ahimè senza risposta di Guantanamo ruota attorno a quello che deve essere il fondamento di ogni impresa umana: dove è la giustizia in tutto questo? Così quella guerra continua. È appena cominciata. Per noi tutto sta finendo, per loro tutto comincia. Aveva ragione Bush quando qualche giorno dopo l’11 settembre annunciava agli americani: «Questa crociata prenderà un po’ di tempo...».

IL PIANO NAZIONALE DEL GAS “NON FUNZIONA”

La Versione aveva riportato nei giorni scorsi il Piano nazionale per il gas, ideato dal governo e anticipato dal Sole 24 ore. Oggi il fatto con Virginia della Sala commenta quelle indiscrezioni, sostenendo che il piano non potrà funzionare.

«La costruzione è perfetta nella sua coerenza interna: le bollette diventano più salate perché il gas è più costoso e viene centellinato perché dobbiamo comprarlo da fornitori esterni che allargano e stringono la cinghia all'occorrenza del proprio vantaggio. La soluzione, secondo certa parte dell'intellighenzia industriale e anche secondo il ministro per la transizione ecologica Roberto Cingolani non è accelerare ancora di più sulle rinnovabili ma spremere al massimo i giacimenti e le concessioni per il gas già rilasciate in Italia. "Nei prossimi 12-18 mesi dobbiamo muoverci anche in altre direzioni. Come quella di aumentare la produzione di gas nazionale con giacimenti già aperti", ha detto Cingolani mentre i petrolieri chiedono finanche di derogare alle regole e alle leggi che in Italia bloccano nuovi permessi di ricerca, prospezione e coltivazione, pure dentro le 12 miglia in mare. Obiettivo: raddoppiare la produzione. Eppure i numeri, le stime e la storia recenti raccontano l'insensatezza di rilasciare nuovi permessi e l'usanza delle aziende di fare sempre e solo ciò che più gli conviene, anche lamentarsi al- l'occorrenza. I dati che arrivano dal ministero sono contenuti nel Pitesai, il Piano che stabilisce dove sia possibile trivellare e dove no e che è stato recentemente approvato dalle Regioni e firmato dallo stesso Cingolani. Rilevano che gran parte della produzione complessiva di gas nazionale registrata nel 2020 è ascrivibile a sole 17 concessioni che hanno realizzato complessivamente 3,5 miliardi di metri cubi di gas, pari all'81% della produzione nazionale. "Quanto fin qui rappresentato - si legge - evidenzia come la produzione di gas nazionale sia concentrata solo in una ridotta percentuale delle concessioni attive: il 9% fornisce oltre l'80% della produzione". Lo stesso vale per il petrolio. "La produzione complessiva di olio greggio dell'anno 2020 è principalmente ascrivibile alle 4 concessioni più produttive (circa il 2% delle concessioni vigenti) che hanno realizzato complessivamente 4,9 miliardi di tonnellate, pari a oltre il 90% della produzione nazionale". Con i pozzi, in pratica, i petrolieri fanno ciò che gli pare: ci sono quelli esauriti che andrebbero dismessi ma restano in un lungo limbo per ritardare il più possibile le spese del decommissioning o attendere eventualmente l'opportunità per utilizzarle in altro modo. Ci sono poi quelli per i quali l'estrazione è più costosa e quindi si preferisce tenerli a bagnomaria in attesa di condizioni di mercato vantaggiose, altri che hanno la Valutazione di impatto ambientale in scadenza e dunque sono fermi a un passo dall'esaurimento per evitare di trovarsi poi un pozzo da dismettere. Ad ogni modo, secondo i calcoli degli esperti diffusi la scorsa settimana da Legambiente, Wwf e Greenpeace, con un fabbisogno italiano di 72 miliardi di Sm3 (metri cubi standard) di gas all'anno ai ritmi di estrazione attuali - circa 4,5 miliardi di metri cubi all'anno - esauriremo le riserve certe in 10 anni e a patto di mantenere intatta anche la fornitura estera che, invece, si vorrebbe limitare. Se pure si esplorassero meglio le riserve cosiddette 'probabili' (cioè che potranno essere recuperate con una probabilità maggiore del 50%) e 'possibili' (probabilità minore del 50%), non cambierebbe molto. Immaginando di puntare all'autonomia, di estrarre tutto e finanche di rilasciare tutti i permessi fattibili si potrebbe contare su 45 miliardi di metri cubi di riserve certe, (forse) 45 di probabili e (forse) 28 di possibili: evaporerebbero in pratica nel giro di massimo 18 mesi. Le sole riserve certe si esaurirebbero invece in sette mesi. Poi, saremmo punto e a capo, caro bollette incluso, ma con un danno ambientale senza ritorno».

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