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Senza accordi
Draghi rompe coi sindacati sulla Manovra. Muro contro muro sul Ddl Zan, fra poco in aula. Catania allagata è un monito per G20 e Cop26. A Kabul bimbi in vendita per fame. Boom ai corsi di esorcismo
Si è consumata una rottura fra Governo e sindacati. Alla fine la manovra di Bilancio, partita sotto i buoni auspici del tesoretto con cui tagliare le tasse, rischia di portare ad un passaggio molto difficile. I partiti, in gran parte innervositi dai risultati elettorali, sembrano diventati insofferenti verso Draghi. Il premier, assediato, non vuole cedere, soprattutto sulle pensioni. Elsa Fornero scrive sulla Stampa un articolone sulla materia e gli dà ragione. È il momento per chi sostiene la maggioranza di alzare il prezzo e così stanno facendo Pd, 5 Stelle e la Lega. Marco Travaglio riprende Dagospia per dire che tira una brutta aria per Palazzo Chigi. Fino a dove arriverà? Diventerà il ciclone di una vera crisi?
Un po’ di nervosismo va attribuito anche alla mancata trattativa sul Ddl Zan. Era sembrato che Letta, dopo il voto, volesse accettare la proposta di Renzi di una mediazione per arrivare all’approvazione della legge, mentre ieri in Senato è prevalsa la linea dello scontro, del muro contro muro. Stamattina si va in Aula senza accordi e il margine perché la legge vada avanti è di 5-6 voti. E un altro po’ di nervosismo va compreso per i giochi quirinalizi: se è vero che Conte non vuole votare Presidente un dem come Gentiloni o Franceschini, a sinistra pochi vorrebbero Draghi al Colle. Come spiega Giorgetti a Verderami.
Il disastro del nubifragio a Catania, col maltempo che colpisce il Sud in modo così violento e drammatico, ricorda a tutti l’urgenza dell’emergenza climatica e ambientale. Emergenza che è sul tavolo del G20 (il 30 e 31 a Roma) e della Cop26 di Glasgow. Il bla bla bla (copyright Greta) rischia di non approdare a nessuna decisione vincolante. Qui invece ci sarebbe bisogno di misure anche drastiche. La Ue non ha trovato l’accordo sui prezzi dell’energia, che salgono ancora.
Dall’estero la foto simbolo di oggi è scattata da un deputato afghano e ritrae i corpi di due bimbi morti di fame mentre le donne tornano in piazza a Kabul, anche per chiedere cibo per i loro figli. Avvenire racconta di una neonata venduta da una madre a 500 euro, perché non sa come sfamare gli altri figli. Il Sudan del dopo colpo di Stato è ancora avvolto nel mistero. Il Presidente cinese Xi fa pagare parte del crack della Evergrande al suo fondatore, che si era arricchito. Lezione in stile maoista all’imprenditore privato.
Potete ancora ascoltare il secondo episodio di una mia serie Podcast originale realizzata da Chora Media per Vita.it. con Fondazione Cariplo. Il titolo è: Le Vite degli altri e racconta storie di chi dedica il proprio impegno e il proprio tempo agli altri. È disponibile il ritratto e l’intervista con Dino Impagliazzo, conosciuto a Roma come Nonno Chef. La sua storia è bellissima ed è arricchita da un’intervista col figlio Marco, perché purtroppo lo scorso luglio Dino, a quasi 90 anni, ci ha lasciato. Occhio che da domani sarà on line il terzo episodio della serie! Un’altra storia che merita e che parla di CUOCHE COMBATTENTI. Questa l’immagine della “cover”.
Troverete Le vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo:
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
La rottura fra Draghi e i sindacati è in primo piano. Il Corriere della Sera registra: Alta tensione sulle pensioni. Avvenire accosta la rottura sul Bilancio a quella sul Ddl Zan: Trattative senza sbocco. Anche Il Giornale va sull’omofobia: Zan «scomunicato». Il Manifesto ha un titolo alla Arbore: Indietro tutta. La Repubblica racconta un Premier sdegnoso: Pensioni, Draghi respinge le richieste dei sindacati. La Stampa è più oggettiva: Draghi-sindacati, è rottura. Il Mattino vede un Armageddon: Pensioni, scontro totale tra governo e sindacati. Il Messaggero più cauto nei toni: Pensioni, strappo più vicino. Aumenti di merito agli statali. Libero non proprio ottimista: Torna la Fornero. Lavoreremo 5 anni in più. Sulla pandemia insistono il Quotidiano Nazionale: Chiudono gli hub. E la terza dose? Ed è anche immancabile La Verità: Terza dose libera e via il green pass. Il Sole 24 Ore va su un aspetto particolare della manovra: Venture capital, 2 miliardi in arrivo. Cronache giudiziarie per il Domani: Indicazioni di voto e incontri, il signore delle coop inguaia De Luca. E per Il Fatto: “4 capi di sartoria gratis a Figliuolo”.
ROTTURA FRA GOVERNO E SINDACATI SULLE PENSIONI
Pensioni, no di Draghi ai sindacati, che ora pensano ad uno sciopero. La cronaca della rottura e le intenzioni del premier nella cronaca di Roberto Mania per Repubblica.
«Mancano pochi minuti alle 20 quando il presidente del Consiglio, Mario Draghi, si alza dalla sedia e lascia la Sala Verde al terzo piano di Palazzo Chigi, quella dei grandi patti sociali. Dice ai leader di Cgil, Cisl e Uil, Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri, che ha un altro impegno ma anche - se non soprattutto - che le richieste che hanno avanzato sono troppe. Se ne va nervoso, praticamente senza salutare. Non ha voglia di negoziare con i sindacati che pezzo dopo pezzo gli hanno smontato la manovra, la sua prima legge di Bilancio per rilanciare la crescita. È di fatto una rottura. Oggi ci sarà un nuovo incontro, sul G20 però. È la prima frattura tra il governo Draghi e le forze sociali. Ma era nell'aria, fin dall'inizio dell'incontro. Ormai è certa la mobilitazione dei sindacati, che vuol dire anche lo sciopero. Le tre confederazioni decideranno sabato prossimo. Sulle pensioni non si sono divise. La strategia di Cgil, Cisl e Uil, tuttavia, non ha funzionato. O almeno per ora appare così. Hanno provato ad alzare il prezzo, ma Draghi non ha ceduto su nulla. Muro contro muro. Landini, Sbarra e Bombadieri hanno chiesto di riformare il sistema pensionistico, di rivederlo strutturalmente, di non tornare quindi alla legge Fornero, e di abbandonare anche la logica delle Quote per andare in pensione prima dei 67 anni. Draghi rimane sorpreso per i toni, la quantità di richieste, lo scarso spirito dialogante, l'atteggiamento rivendicativo. Lo dice esplicitamente ai leader sindacali, dopo averli ascoltati seduto a braccia conserte. Spiega che ci sono tante risorse per le politiche sociali oltreché per la riforma del fisco. Alza la voce per respingere l'idea di una nuova riforma pensionistica. C'è già, è la sua tesi. È la riforma Fornero, quella imposta dalla Banca centrale europea con la famosa lettera dell'agosto del 2011 firmata da Jean-Claude Trichet e dallo stesso Draghi che da lì a poco assumerà la presidenza dell'Eurotower di Francoforte. Insiste: non di torna indietro quando le pensioni costituivano la maggiore fonte di squilibrio per i conti pubblici. Ora il sistema previdenziale è in equilibrio. Lo aveva detto a Bruxelles la settimana scorsa: si deve tornare gradualmente alla «normalità », cioè alle regole delle legge Fornero. Ma c'è di più: c'è l'impegno che lo stesso premier prende in mattinata davanti ai giovani incontrati durante la sua visita a Bari. «Con tutti voi - dice - voglio prendere un impegno. Dopo anni in cui l'Italia si è spesso dimenticata delle sue ragazze e dei suoi ragazzi, sappiate che le vostre aspirazioni, le vostre attese, oggi sono al centro dell'azione del governo». Accettare di mandare in pensione chi ha già un lavoro ed è ancora in condizioni di proseguire la propria attività non sarebbe stato coerente con questo impegno. Con l'insofferenza di Draghi nei confronti dei sindacati tramonta così definitivamente anche l'ipotesi di un nuovo patto sociale che lo stesso premier aveva evocato, seppur senza molta convinzione. Draghi appare preoccupato. Per le quotidiane tensioni tra i partiti della larga maggioranza che sostiene il suo governo, per i ritardi che ora si rischiano di accumulare nel "mettere a terra" i progetti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) soprattutto per la debolezza progettuale dei Comuni. Un sistema Italia che torna ad incepparsi. Questa volta Cgil, Cisl e Uil appaiono isolate. Non hanno "conquistato" un tavolo di confronto con il governo e si ritrovano senza sponde politiche in Parlamento, dove si approvano ma si possono anche cambiare le leggi proposte dal governo. I sindacati sono rimasti da soli. Sì, il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, garantisce le risorse per i contratti pubblici; quello del Lavoro, Andrea Orlando li ha coinvolti nella riforma degli ammortizzatori sociali. Troppo poco. Il Pd non li ha seguiti. Enrico Letta ha puntato su alcuni aggiustamenti: proroga di Opzione donna, proroga ed allargamento della platea dei lavori gravosi che permette di lasciare il lavoro prima. Entrambi dovrebbero entrare nella legge di Bilancio, Letta li porta a casa. «Si accontentano di poco», era uno velenosi commenti che si raccoglievano ieri sera ai piani alti dei sindacati. Con il patto, tuttavia, tramonta anche l'alleanza con la sinistra politica, quella che si era vista in piazza San Giovanni contro la devastazione della sede nazionale della Cgil da parte di un gruppo neofascista. E sulle pensioni, infine, la Lega, con le nuove Quote, potrà cantare una mezza vittoria per quanto effimera. Anche questo è il primato della politica».
BANDIERINE GIALLO ROSA
Il Fatto ricostruisce l’asse giallo rosa sulla manovra di bilancio: Pd e 5 Stelle viaggiano insieme contro Draghi. Luca De Carolis e Wanda Marra per il Fatto.
«Uniti, per portare avanti almeno alcune delle misure simbolo del Conte bis. Così si presentano Pd e M5S nella fase finale della trattativa sulla manovra, nella serata in cui Luigi Di Maio, parlando a Otto e mezzo lancia un segnale a Mario Draghi: "Oggi Quota 100 non è più sul tavolo, nessun partito lo sta chiedendo, così come nessuno chiede che si torni alla legge Fornero, non più sostenibile dopo tre anni". Però è sempre Draghi a fare muro al cashback, misura cui pure Giuseppe Conte tiene moltissimo, e che il Movimento reclama. In giornata il dem Francesco Boccia prova a dare un sostegno se non altro formale. "Io sono sempre stato favorevole al cashback" dice al fattoquotidiano.it. Ma a Palazzo Chigi non ne vogliono sapere. E hanno preso male, raccontano, le dure agenzie con cui lunedì il Movimento era tornato a invocare la misura. E allora la battaglia giallorosa si è spostata su qui bonus che, come dice un big del M5S , "a Draghi proprio non piacciono". Ieri a esprimersi pubblicamente sul tema è stato Enrico Letta: "È fondamentale la continuità sui bonus, sapere che non è che si fa una norma e un attimo dopo viene cambiata, gli investimenti si fanno se sono di lungo periodo. La battaglia sui bonus, per dare continuità, è necessario farla, muovendosi in quella direzione". Sulla stessa linea Mario Turco ( M5S ): "Il superbonus, così come altri bonus edilizi, hanno il merito di aver dato un'incredibile scossa all'economia italiana". Il tentativo è quello di far sì che venga prorogato fino al 2023 il cosiddetto 110 per cento, anche per le villette e non solo per i condomini. Così Conte telefona al ministro dell'Economia Daniele Franco per parlare della manovra ("Lo cercherò" assicura ai 5Stelle riuniti via Zoom per parlare di Mps). Mentre a Palazzo Chigi a trattare sul bonus facciate e su alcune questioni legate alla Cultura va il dem Dario Franceschini, che incontra Franco e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli. Ma da Chigi filtra che la proroga del superbonus al 110% per le villette è fuori discussione. Mentre per le facciate si cerca una mediazione. Il Pd parte dalla richiesta di un decalage: invece di passare dal 90% a zero, la proposta è di passare al 70%, o comunque a una percentuale minore, e dunque non interromperlo del tutto. Un accordo di massima c'è - dicono sia a Palazzo Chigi che al ministero dell'Economia - ora si stanno definendo i dettagli. Intanto, il fronte comune tra Pd e Cinque Stelle va avanti anche sul cuneo fiscale. Sulle pensioni l'idea è quella espressa dal Enrico Letta: "Superare il sistema quote". Al Pd proprio non piace. E dunque il segretario si riferisce a una riforma che porti a un sistema flessibile e dia una mano soprattutto a donne, giovani e lavori gravosi. Anche in questa battaglia, il Movimento sostiene l'estensione dell'Ape sociale ai lavoratori gravosi e la proroga dell'opzione donna proposti dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando. Altri due obiettivi che dovrebbero essere centrati. E ancora, i giallorosa procedono congiunti sulla difesa della riforma degli ammortizzatori universalistica di Orlando, e per difendere il reddito di cittadinanza».
DDL ZAN IN AULA SENZA ACCORDO
Ddl Zan: toni accesi alle riunioni in Senato, dove è fallito ogni tentativo di mediazione. Oggi in aula si va al voto segreto, il testo è in bilico per 5-6 voti ma dovrebbe passare. Angelo Picariello per Avvenire.
«Nessun accordo, nessuna mediazione sul ddl Zan. Il testo che sanziona l'omotransfobia arriva oggi nell'aula del Senato alle 9.30, senza modifiche, così come approvato dalla Camera. E si andrà, dopo la discussione generale, alla conta a scrutinio segreto sul 'non passaggio del voto per articoli', in base alla proposta avanzata da Lega e Fratelli d'Italia, la cosiddetta 'tagliola' che Pd, M5s e Leu chiedevano di ritirare per poter aprire la trattativa. La riunione 'di maggioranza' convocata nel pomeriggio dal presidente della commissione Giustizia del Senato, il leghista Andrea Ostellari, iniziava subito con i peggiori auspici, per le defezioni dei capigruppo di M5s e Leu. Al vertice erano invece presenti la capogruppo del Pd Simona Malpezzi, col vice Franco Mirabelli, Davide Faraone di Italia viva, per Forza Italia Anna Maria Bernini e il vice Maurizio Gasparri, e il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo. Un dialogo fra sordi, con la Lega indisponibile a eliminare l'emendamento a prima firma Roberto Calderoli (in grado, astrattamente, di far bocciare la legge ancor prima di entrare nel merito) e il Pd non in grado, anche per l'assenza degli altri due partiti, di garantire l'eliminazione dei punti controversi, ossia la definizione di identità di genere (articolo 1) il rischio di reato di opinione (scaturente dall'articolo 4) e le iniziative nelle scuole (previste all'articolo 7). «Non era proponibile - spiega il Ostellari - il ritiro dell'ememdamento senza un impegno per le modifiche nel merito». A quel punto era Italia viva, con Faraone, a proporre un'ulteriore di mediazione, un rinvio del voto di una settimana, proposta che veniva sposata anche da Forza Italia, e dalla stessa Lega, sulla quale il Pd prendeva tempo, anche per sentire M5s e Leu. Clima non buono, ma fino a sera si alternavano voci discordanti sulla possibilità in extremis di addivenire a un accordo o almeno a un rinvio. Parallelamente, però, sotto traccia, si continuavano ad aggiornare i conti fra i sostenitori del ddl, in vista di un possibile voto segreto, e la voce circolante in serata, a Palazzo Madama, era di una tenuta (per 5 o 6 voti) della maggioranza che aveva votato la legge, Italia viva inclusa. Cosicché, alle 20, direttamente in conferenza dei capigruppo, Pd, M5s e Leu annunciavano il mancato accordo nella maggioranza. «Ho seri dubbi a questo punto che la voglia di trattativa fosse reale», constata Ostellari, prendendo atto del fallimento del tavolo da lui convocato. «Avevamo proposto un rinvio di una settimana per continuare la mediazione, ora ognuno si prenderà le sue responsabilità», dice il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo. «La proposta di rinvio al 3 novembre era inaccettabile, per loro era solo un modo per prendere tempo», replica Loredana De Petris, per Leu, che incolpa alla Lega, per non aver ritirato la 'tagliola': «Nessuno si siede a un tavolo se uno ha ancora un'arma». Delusa Paola Binetti, dell'Udc: «Ha prevalso alla fine l'ostinazione politica dei capi del centrosinistra a scapito di una mediazione ragionevole che avrebbe potuto portare a un risultato condiviso». Irritazione dentro Italia viva, intestataria della prima e dell'ultima mediazione. «È da irresponsabili aver deciso di andare subito in aula senza un accordo, occorreva un rinvio di una settimana per entrare nel merito, cercando un'intesa, come avevamo chiesto. Cercando quelle modifiche che erano state auspicate anche da Letta. Senza questa intesa si rischia il naufragio in aula», sostiene Faraone, che comunque assicura i voti di Iv. Ma nel Pd sono convinti, invece, di farcela, anche a scrutinio segreto: «Non voglio nemmeno prefigurare che passi la 'tagliola' sarebbe una sconfitta per il Paese», dice Alessandro Zan».
GREEN PASS FINO A MARZO?
Fino a quando durerà l’obbligo del Green pass sui luoghi di lavoro? Dipenderà dai contagi. Ma potrebbe arrivare fino a marzo 2022. A Genova intanto prosegue la protesta anti-Pass dei portuali iscritti all'Usb. La cronaca della Stampa.
«Con i contagi che riprendono a salire toccando ieri il picco più alto del mese a quota 4.054, il governo è pronto a calare la carta della proroga almeno fino a marzo del Green Pass obbligatorio. Una mossa da annunciare quanto prima per spingere verso il vaccino No Vax e No Pass, che fino ad oggi si erano fatti due conti, sperando con una spesa più o meno di 200 euro al mese in tamponi di tirare avanti così fino al 31 dicembre, scadenza al momento fissata dal governo tanto per il certificato verde che per lo stato di emergenza. Che non si vogliano fare sconti a chi frena la ripresa rifiutando il vaccino lo confermano anche le parole pronunciate ieri da Mattarella, il quale dopo aver ricordato «che in Italia la campagna vaccinale ha più successo che altrove», ha poi puntato il dito contro i No Vax affermando che «non possono prevalere i pochi che vogliono far imporre le loro teorie antiscientifiche, con una violenza a volte insensata». Se la proroga del Green Pass appare pressoché scontata ancora in ballo è quella dello stato di emergenza. Ma è chiaro che se con la stagione fredda i segnali di oggi dovessero trasformarsi in una vera e propria nuova ondata anche lo stato di emergenza dovrebbe essere prorogato, per lasciare al suo posto il commissario Figliuolo e concedere al governo la possibilità di legiferare per le vie brevi dei dpcm anziché quelle parlamentari dei decreti legge. Questo almeno fino a tutto febbraio, anche perché andare oltre non si può, salvo modificare la legge, che oltre due anni di legislazione emergenziale non consente di andare. Del resto che bisognerà procedere ancora per piccoli passi lo conferma il timing scandito ieri dal sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri. «Ci vorrà cautela nel cancellare le misure restrittive. Toglieremo prima il distanziamento, poi le mascherine al chiuso e infine il green pass" è il percorso a tappe tracciato. Anche sulle terze dosi agli under 60 la strada sembra segnata. Dopo le aperture del presidente dell'Iss Brusaferro e del coordinatore del Cts Locatelli ieri a dire la sua è stato Guido Rasi, ex direttore dell'Ema e attuale consigliere del commissario straordinario. «Da gennaio si potrà scendere sotto i 60 anni, per poi estenderla progressivamente, anche se non proprio a tutti». Parole che lasciano intravedere un'agenda della terza dose cadenzata sui sei mesi di distanza della seconda, già fissati per la sua somministrazione. Che significa da gennaio a febbraio chiamare alla puntura "ter" i cinquantenni e da marzo ad aprile i quarantenni, sperando che il virus abbia nel frattempo abbassato la testa non rendendo più necessario andare oltre. I segnali del bollettino di ieri non sono però buoni. Oltre a sfondare il tetto dei quattromila contagi la pandemia fa aumentare ricoveri e morti, altri 48 nelle ultime 48 ore. E dove si fanno meno vaccini, come in Alto Adige, si è già oltre i 100 casi settimanali ogni 100mila abitanti. Il doppio della soglia di sicurezza».
FORZA ITALIA, PRIMO VERTICE CON LA GELMINI
Primo vertice del nuovo corso fra il Cav e Forza Italia, domani riunione anche coi ministri della Lega. Su tre ministri di FI, ieri però due non potevano esserci. E domani c’è anche Salvini. Pier Francesco Borgia sul Giornale:
«La riunione congiunta dei ministri della Lega insieme con quelli di Forza Italia è in programma per domani. E saranno presenti anche Berlusconi e Salvini. Momento cruciale per mettere a punto una posizione comune da presentare a Draghi. Da qui parte la road map del centrodestra per arrivare alla legge di Bilancio prima e all'elezione del nuovo inquilino del Quirinale poi, punto - quest' ultimo da condividere con Fratelli d'Italia. Intanto ieri Berlusconi ha riunito i vertici di Forza Italia, presente anche la ministra Mariastella Gelmini. Assenti gli altri due suoi colleghi di governo Brunetta (perché impegnato proprio a Palazzo Chigi per un incontro con i sindacati) e Carfagna (assente per motivi familiari). La politica economica resta al centro dell'azione di Forza Italia che vuole innanzitutto tagliare il cuneo fiscale, «per una cifra spiega lo stesso Berlusconi - di almeno undici miliardi di euro». La ripresa economica passa necessariamente, poi, per la proroga dei bonus che sostengono il comparto dell'edilizia. Vantaggi fiscali che stanno rivitalizzando, aggiunge il leader azzurro, la lunga filiera di un settore «che è dunque in grado di generare l'effetto propulsivo più elevato sull'economia rispetto a tutti gli altri comparti di attività». E in questo caso bisogna sciogliere alcune criticità che si sono evidenziate in questi mesi. «Come suggerisce lo stesso presidente di Forza Italia - le procedure che vanno semplificate e rinnovare per almeno tre anni i diversi bonus: 110%, sisma bonus, e gli interventi per il risparmio energetico». Sul governo, poi, si dovrà fare pressione per un rinvio selettivo delle cartelle esattoriali per i debiti prodotti nei mesi della pandemia. E per chiedere la riforma del Reddito di cittadinanza. «Gli imprenditori lamentano di non riuscire a trovare lavoratori conferma lo stesso Berlusconi Il reddito di cittadinanza non si è rivelato solo una misura per contrastare la povertà, ma ha drogato il mercato del lavoro, aumentando il lavoro nero. Inoltre è finito nelle tasche di furbetti e delinquenti. Bisogna separare la platea degli "occupabili", che sono in grado di lavorare e dunque devono farlo, da tutti gli altri che, invece, devono continuare a essere destinatari di interventi di welfare». A fine riunione Berlusconi si è poi raccomandato con i suoi. «Basta di usare l'espressione green pass. Se lo avessimo chiamato sin dall'inizio per quello che è, cioè "certificato sanitario", come lo chiamo sempre io, non avremmo avuto così tante persone disposte a scendere in piazza per protestare». In mattinata, Berlusconi, aveva inoltre partecipato alla riunione con il gruppo degli europarlamentari azzurri, parlando della necessità, per la Ue di essere più solidale, coesa e forte militarmente: «Il problema delle migrazioni non si risolve costruendo muri - sottolinea Berlusconi ma al contrario condividendo scelte di rigore, di accoglienza e di fermezza secondo i casi. Il grande piano Marshall per l'Africa, del quale parliamo da tanto tempo, è un progetto così ampio che solo l'Europa ha la dimensione per affrontarlo. Così come la stabilizzazione della sponda Sud del Mediterraneo, dei paesi sub-sahariani, del Medio Oriente». Le priorità quindi sono: «una comune politica estera europea e un comune strumento di difesa, naturalmente in sinergia con l'Alleanza Atlantica. Ne abbiamo parlato noi per primi. Ora se ne sono resi conto molti altri, anche alla luce dell'impotenza dimostrata dall'Europa nella catastrofe afghana».
DIREZIONE PD, AVANTI CON DRAGHI (AL GOVERNO)
Direzione post voto del Partito democratico. Enrico Letta tenta di rimandare il dibattito sul Quirinale e sulla fine della legislatura. Giovanna Vitale per Repubblica.
«Non ci stanno, i parlamentari e i ministri pd, a subire la moratoria imposta dal segretario. «Di Quirinale e di legge elettorale si parla dopo la legge di Bilancio», avverte Enrico Letta aprendo la direzione sul trionfo nelle città. «Non vorrei che queste questioni, di là da venire, finissero per prosciugare tutte le nostre energie», afferma invitando a «concentrarsi sulle priorità del Paes », l'attuazione del Pnrr e il completamento della campagna vaccinale, oltre che sulla manovra in cantiere. Ma se il grosso dell'intendenza segue, i colonnelli invece rumoreggiano, convinti che il leader debba dare risposte almeno sul proporzionale: un nodo da tagliare in fretta, prima del precipitare degli eventi, ché mantenere intatto il Rosatellum (coi collegi uninominali) significherebbe consegnare la vittoria al centrodestra, quando ci sarà da votare alle politiche. «La Lega è ancora forte, specie al Nord», ripetono in tanti: «Il risultato delle Comunali potrebbe risultare un'illusione ottica, guai a pensare di trasporlo su scala nazionale ». Perciò è necessario discutere subito di sistema elettorale: serve per stanare la galassia centrista che, a parole, dice di volersi sganciare dai sovranisti, senza però averne il coraggio. Aiutando magari l'emersione d'una coalizione inedita: analoga al "semaforo" (socialisti, verdi e liberali) appena acceso in Germania. È la strada indicata, sebbene per escluderla, da Gianni Cuperlo. «Qualcuno teorizza che, dopo il successo alle amministrative, possiamo puntare a spendere il nostro consenso nella costruzione, dentro il prossimo Parlamento, di una maggioranza politica. Diciamo, per semplicità, il modello tedesco», spiega il presidente della Fondazione dem. Significa cioè «scommettere su una scomposizione di un pezzo della destra che, varcando il Rubicone, passerebbe di qua, dando vita a qualcosa di molto simile alla maggioranza di oggi, senza la Lega». Strategia però praticabile solo a patto «che il Parlamento sia in grado di licenziare una nuova legge elettorale». E siccome appare improbabile, meglio andare sul sicuro, puntando sul nuovo Ulivo. Mentre per Andrea Orlando un tentativo val la pensa farlo: «Con il campo largo e l'unità del partito, che hanno funzionato nel voto per le città, dobbiamo provare a dare un'occasione di sganciamento alle forze liberali che sono nel centrodestra, anche in vista dell'appuntamento per l'elezione del presidente della Repubblica». Gancio che il vicesegretario Peppe Provenzano ritrova sul «terreno delle regole democratiche»: è lì che «si può offrire alla destra moderata la possibilità di stabilire un discrimine con la destra estrema, quel discrimine che c'è in tutti i Paesi europei ma in Italia non è mai esistito a causa dell'anomalia berlusconiana che ha saputo tenere insieme estremisti e moderati». Finendo per innescare un gioco delle parti che adesso va smascherato. «Al netto del wishful thinking di Brunetta e Carfagna», incalza infatti Andrea Romano, «è giusto porre il tema del proporzionale per chiamare il bluff di coloro che a destra auspicano un superamento del blocco sovranista, senza riuscire a essere coerenti con quanto affermano». Tutti d'accordo, dagli ex renziani alla sinistra dem, sul fatto che Letta debba darsi una mossa. È il coordinatore di Base riformista, Alessandro Alfieri, il primo a chiedergli di fare chiarezza: di dire, finalmente, che «noi faremo di tutto per cambiare una legge elettorale che, dopo il taglio dei parlamentari, viola il principio di rappresentanza e rischia di esporci al ricatto delle forze minori». Ma il segretario fa muro. Per allargare il campo del centrosinistra rilancia le Agorà, che saranno allungate sino a maggio, e rinvia ogni ipotesi di trattativa sul proporzionale. «Fino al Quirinale il centrodestra non si muoverà su nessun tema», taglia corto Letta. «Berlusconi ha scelto di farsi prendere in giro da Salvini e Meloni e di chiudersi in questa grande finzione fra di loro, che bloccherà tutto». La decisione è dunque presa: «Finché non verranno chiarite le scelte per la presidenza della Repubblica, la possibilità di discutere in modo serio sull'assetto delle regole è pari a zero». Ministri e parlamentari se ne facciano una ragione».
5 STELLE, DUE FRONTI PER CONTE
Giuseppe Conte è stretto tra due fuochi nel portare avanti il Movimento 5 Stelle. La cronaca di Emanuele Buzzi sul Corriere.
«È partito da poche settimane e il progetto di rifondazione del Movimento si trova stretto già tra due fuochi. Da un lato ci sono gli ex, i fuoriusciti, che stanno piano piano riannodando i legami tra loro e intorno alle figure di Davide Casaleggio e Alessandro Di Battista. L'ex deputato già dalla prossima settimana inizierà il suo tour per l'Italia, un viaggio che dovrebbe toccare varie regioni (dalla Toscana alla Puglia, dal Lazio alla Sicilia) e che servirà per misurare il consenso in vista di un proto-partito che si ispira al Movimento delle origini. E se da una parte Giuseppe Conte deve fronteggiare l'avanzata di un «nemico» esterno, dall'altra deve fare i conti anche con il ribollire dei delusi. Molti sono i Cinque Stelle che per un motivo o per un altro si possono ascrivere a questo gruppo: c'è chi è scontento delle nomine, chi della gestione del gruppo, chi della sua situazione personale. Si tratta di un limbo, però, di una zona grigia che per ora non ha dato vita a correnti. C'è chi cerca di tirare per la giacca Virginia Raggi, molto attiva dopo la fine del suo mandato. L'ex sindaca di Roma ha pranzato con Chiara Appendino e parlato di «progetti futuri». Parole che dentro al M5S sono interpretate chiaramente come un progetto di alleanza, ma chi è vicino a Raggi respinge l'idea. Un dato di fatto è che una fetta di delusi guarda all'ex sindaca per riorganizzarsi, tirandola metaforicamente per la giacca. «Non è lei l'antagonista di Conte», assicura chi la conosce bene. Di sicuro oltre a Raggi, il fronte dei delusi guarda con attenzione anche ai capigruppo, una partita - la prima partita politica interna - che Conte dovrà affrontare molto presto. E in chiave di consensi e potere di aggregazione, salgono le quotazioni alla Camera di Davide Crippa, ormai considerato esponente della visione del M5S targata Beppe Grillo. Al Senato scalpita Maria Domenica Castellone: la sua candidatura contro quella del contiano Ettore Licheri sta crescendo. Secondo le indiscrezioni Castellone avrebbe raggiunto quota 25 preferenze, un terzo del gruppo a Palazzo Madama. Licheri resta comunque in vantaggio al momento. La situazione è ancora tutta in divenire. I prossimi sei mesi, con l'elezione del presidente della Repubblica e con il braccio di ferro sulla permanenza del M5S nel governo Draghi, saranno decisivi. I parlamentari, ovviamente, non hanno nessuna voglia di fughe in avanti verso le urne e temono invece che i vertici vogliano mescolare le carte. Non solo. Si guarda con attenzione anche alla riforma della legge elettorale. Tutte partite che Conte dovrà giocare su due tavoli, fuori e dentro i Cinque Stelle. «Ogni leader viene sempre preso d'assalto», dice un dirigente del partito. «Il Movimento con i leader è come Crono che si mangia i suoi figli. Un tutti contro uno senza motivazioni politiche». E spiega: «Le correnti non hanno mai fatto strada nel Movimento, perché siamo sempre in competizione uno contro l'altro».
QUIRINALE, IN MOLTI NON VOGLIONO DRAGHI
L’avvicinarsi dell’appuntamento risveglia nei partiti “istinti primordiali”. Non possono dirlo esplicitamente, ma in molti, soprattutto a sinistra, non vogliono Draghi al Quirinale. Il retroscena di Francesco Verderami sul Corriere della Sera.
«Al momento l'elezione di Draghi al Quirinale ha più oppositori che fautori. Soprattutto a sinistra». Giorgetti non sarà una fonte neutra, ma non c'è dubbio che dalla sua postazione nel governo disponga di una visuale privilegiata. E la confidenza del ministro leghista ad un amico consente di allungare lo sguardo oltre il centrodestra, che in questa fase di difficoltà è un libro aperto. Non solo per ciò che riguarda i rapporti di coalizione ma anche per l'imminente corsa al Colle: da una parte c'è Berlusconi che rincorre un sogno; dall'altra ci sono Salvini e Meloni che avrebbero aperto in modo tattico alla candidatura di Draghi, siccome temono che con lui al Quirinale non si aprirebbe per loro il portone di palazzo Chigi. Epperò anche nell'altro campo monta una forte resistenza all'ipotesi, testimoniata dalla sequenza di dichiarazioni dello stato maggiore del Pd, tutte formalmente lusinghiere verso il presidente del Consiglio. «Avanti con Draghi, con convinzione», ha detto ieri Letta. «Al Paese serve stabilità», ha aggiunto Bonaccini. Persino Emiliano ha riservato al capo del governo parole che pochi mesi fa dedicava a Conte: «Siamo con lei senza se e senza ma». A patto - sottinteso - che resti dove sta. Ed è chiaro che il nome dell'ex presidente della Bce potrebbe essere speso solo se ci fosse una convergenza bipartisan, perché - come ha spiegato Giorgetti - «con lui non può ripetersi quanto è accaduto con Prodi». Del dirigente leghista va però sottolineato l'incipit, quel «al momento» che è la chiave per capire come tutto possa mutare di qui all'inizio della Grande Corsa, «perché se Draghi dovesse rompere gli indugi - sussurrava ieri un deputato dem - noi non potremmo opporci. E finiremmo nei guai». Quale sia il motivo, lo ha spiegato giorni fa il costituzionalista del Pd Ceccanti all'ex ministro Costa: «Letta può puntare solo su Mattarella. Se scegliesse altri candidati, Prodi gli ficcherebbe due dita negli occhi». La ricandidatura del capo dello Stato è «al momento» il segreto meno custodito del Palazzo. Se ne fa un gran parlare tra i capigruppo di maggioranza, che ogni volta fanno voto di discrezione. Poi però non possono evitare di riferire ai loro parlamentari, che quel voto non lo hanno fatto. Per sbarrare a Draghi la strada verso il Colle, i partiti hanno iniziato a riempire di mine il sentiero del governo: la manovra è il terreno ideale per centrare l'obiettivo, che accomuna centrodestra e centrosinistra. E per una Lega che si espone c'è un Pd che agisce in modo più felpato, ma non meno deciso. Al punto che esponenti della segreteria dem arrivano sottovoce a definire la squadra del premier «la Spa di palazzo Chigi». Se si sentisse tutelato dal Nazareno, anche il ministro Orlando si toglierebbe qualche sassolino dalle scarpe, visto come si è sentito trattato in alcuni casi: uno su tutti, le norme per impedire i licenziamenti selvaggi delle multinazionali, quando Draghi - evidentemente scontento del testo - gli disse «ne riparleremo». L'unico ad affrontare finora il premier è stato Franceschini, che sconta l'etichetta di essere un potenziale quirinabile, e che in Consiglio dei ministri ha incrociato spesso la lama con Draghi. In verità l'aveva fatto a suo tempo anche con Monti, quando da capogruppo del Pd intervenne in Aula per criticare l'allora presidente del Consiglio che si era rivolto al Parlamento usando il «noi» e il «voi»: «Non esistono il voi e il noi, perché non esistono governi tecnici ma soltanto governi politici». Un tema che ha fatto sovente capolino nelle dure discussioni a palazzo Chigi, compresa quella sui bonus per l'edilizia. E c'è un motivo se ieri Letta ha assunto la posizione di Franceschini e non quella del premier. Insomma, la narrazione che il Pd sia «il partito di Draghi» è «al momento» solo l'effetto ottico distorto dalle mosse agitate di Salvini, che pure rimarca di avere con il capo del governo un «rapporto diretto, al contrario di altri». Ed è ovvio che il fuoco inizi a manifestarsi sopra la cenere anche tra i dem, dato che si avvicina l'ora di scegliere il capo dello Stato: l'appuntamento risveglia in tutte le forze politiche istinti primordiali a cui nessuno è in grado di resistere».
VERSO IL G20, ACCORDO SU CLIMA E VACCINI?
Fervono i preparativi per il G20 a Roma: il summit si terrà il 30 e 31 ottobre. Ma l'Onu avverte: "Gli impegni dei governi sull'ambiente sono troppo vaghi”. Ilario Lombardo sulla Stampa.
«Non è proprio la migliore delle vigilie se, a tre giorni dal G20 che ambisce a dare una risposta collettiva sul cambiamento climatico, arriva la sentenza impietosa dell'Agenzia delle Nazioni Unite per l'Ambiente (l'Unep). Gli impegni nazionali, è scritto nell'Emission gap report dell'Onu, «potrebbero fare una grande differenza per le emissioni nette zero», tuttavia «sono ancora troppo vaghi, in molti casi incompleti e incoerenti con la maggior parte degli obiettivi del 2030». Così, con il rischio e il fardello di un fallimento annunciato, i venti leader globali si ritroveranno sabato e domenica a Roma, tra i marmi geometrici dell'utopia littoria dell'Eur. Sta a loro tentare di recuperare in extremis un accordo che al momento non è all'orizzonte. Ancora troppe le distanze tra chi intende rispettare il target delle emissioni zero di CO2 al 2050 e chi invece, come Cina e India, spostano la deadline di dieci anni, al 2060. Gli sherpa saranno al lavoro da oggi per dare forma a un compromesso accettabile nel comunicato finale che farà da ponte per Cop26, la conferenza sul clima dell'Onu che partirà sempre domenica, a Glasgow. I pesanti contraccolpi che un nulla di fatto a Roma potrebbe avere sul summit in Scozia sono chiari a Mario Draghi, presidente di turno del G20 e padrone di casa dell'evento, presente a Milano un mese fa quando la giovane attivista Greta Thunberg si è scagliata contro il «bla bla bla» dei leader sul climate change. Nella plenaria tra i capi di Stato e di governo, nei bilaterali, nelle trattative private e, infine, nelle dichiarazioni al termine del vertice andranno pesate le parole e trovata una formula che dia speranza per quelli che sono gli ultimi obiettivi fissati dalla scienza per contenere il riscaldamento globale entro un +1,5% da qui alla fine del secolo, come deciso con gli accordi di Parigi del 2015. Al momento, la Terra gira a una temperatura che invece potrebbe aumentare più del doppio, a +2,7. Una catastrofe che l'indolenza e le strategie di crescita economica dei big mondiali non calcolano quanto dovrebbero. Chi siederà al tavolo del summit di sabato è responsabile dei tre quarti del totale di queste emissioni nefaste. Sarà assente il maggior contribuente all'inquinamento, però. La Cina sarà rappresentata fisicamente dal ministro degli Esteri, perché il presidente Xi Jinping sarà collegato solo in videoconferenza, come farà anche il russo Vladimir Putin. È la prima volta dopo quasi due anni di pandemia che i leader si vedono di persona nel formato dei 20. I colloqui in presenza sono l'occasione per smussare le resistenze, ricentrare i negoziati e strappare concessioni. Draghi dovrà farlo puntando a «coordinare» gli interventi e coinvolgere le grandi economie, senza le quali la lotta al cambiamento climatico è destinata al fallimento. Le insidie sono ovunque, e si ritroveranno nel sudore e nelle virgole del comunicato. L'Australia, terra ricca di carbone, ha promesso appena ieri di aderire all'obiettivo di emissioni zero nel 2050, ma non ha dettagliato i target intermedi. Nel primo grande vertice in presenza si affronteranno anche altre due sfide globali: la vaccinazione di massa nei Paesi più deboli e la ricostruzione dell'economia su basi più sostenibili dopo il Covid. Fonti italiane parlano di 1-2 miliardi di vaccini subito disponibili ma fermi in attesa di capire come distribuirli. Il G20 lavorerà sui giganteschi problemi che esistono nella catena della logistica: i trasporti, la conservazione a freddo, il personale qualificato, le strutture sanitarie adeguate sono condizioni necessarie per un'immunizzazione di massa, senza la quale il virus continuerà a girare producendo varianti. Ma a margine dei lavori all'interno della Nuvola di Fuksas, cuore di una zona rossa blindata da cecchini e droni, i leader si ritroveranno anche per i tradizionali bilaterali. Draghi venerdì sarà a colloquio con Joe Biden, poi con il premier indiano Narendra Modi - che proverà ad ammorbidire sul clima - mentre non è ancora confermato il faccia a faccia del disgelo con il presidente turco Erdogan. Grande attesa, infine, c'è sul confronto tra l'americano Biden e Emmanuel Macron, il primo di persona dopo la firma del patto economico-militare Aukus tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia, che ha tagliato fuori le commesse francesi».
VACCINI PER TUTTI? L’ITALIA NON RISPETTA GLI IMPEGNI
Per ora il nostro Paese non ha rispettato le promesse sulle dosi ai Paesi più poveri. Il progetto Covax è deludente, Usa a parte. La cronaca sul Fatto di Stefano Vergine.
«"Entro fine anno doneremo 45 milioni di dosi". A poco meno di due mesi dalla scadenza del termine fissato da Mario Draghi, i vaccini che l'Italia ha effettivamente consegnato ai Paesi più poveri del mondo sono in tutto 7,8 milioni, quasi sei volte meno rispetto all'obiettivo annunciato dal premier alla Global Covid-19 Summit, la riunione straordinaria di un mese fa tenutasi a margine dell'Assemblea generale dell'Onu. I numeri raccolti dal Fatto tengono conto sia delle dosi regalate attraverso il programma Covax, sia di quelle frutto di accordi bilaterali firmati da Roma con altre nazioni. Resta da capire quanti siano i vaccini in scadenza che rischiano di essere buttati: su questo le autorità italiane non forniscono numeri, ma la cifra potrebbe essere rilevante visti i dati a livello globale. Tra pochi giorni vanno in scadenza le prime dosi. Solo tra i Paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Usa) ci sono 46,5 milioni di vaccini che non potranno più essere utilizzate a novembre. A queste se ne aggiungeranno altre 60,6 milioni in scadenza a dicembre. Il totale fa oltre 107,1 milioni: sono le dosi che rischiano di andare perse, se non verranno subito distribuite alle nazioni che di iniezioni per proteggersi dal Covid ne hanno ricevute pochissime. Gli ultimi dati (20 ottobre) pubblicati da Airfinity dicono che finora in totale sono state donate 350 milioni di dosi. Più del doppio rispetto a un mese fa, quando le statistiche di Our World in Data fissavano a 143 milioni le donazioni complessive effettuate. È il segno che la macchina del programma Covax - creato nell'aprile del 2020 da Oms, Commissione europea e Melinda Gates Foundation per "dare a tutti un vaccino" - sta finalmente iniziando a funzionare. La spinta è arrivata soprattutto degli Usa, che hanno raggiunto quota 187 milioni di dosi donate su un totale di 280 milioni promesse entro il 2021. Nonostante i progressi, però, l'obiettivo fissato di arrivare a 1 miliardo di dosi donate è ancora lontanissimo, anche perché nel frattempo le nazioni ricche si stanno dando da fare per la terza dose ai propri cittadini. Il risultato - ha calcolato l'Università di Oxford - è che mentre in alcune nazioni (come l'Italia) più del'80% della popolazione ha ottenuto la doppia dose, in quelli a basso reddito i vaccinati sono in media il 2% del totale, I prodotti che rischiano di scadere sono quasi tutti marchiati AstraZeneca e Johnson&Johnson. Battuti dalla tecnologia nRna di Pfizer-BioNTech e Moderna, i due vaccini sono rimasti praticamente inutilizzati dall'inizio dell'estate, dopo lo stop dell'Ema e del Cts per gli under 60. Milioni di dosi stipate nei freezer di mezzo mondo, anche di quelli della struttura commissariale guidata dal generale Francesco Paolo Figliuolo. Basti dire che l'Italia ad oggi ha somministrato 88,9 milioni di iniezioni, e di queste 71 milioni sono di Pfizer-BioNTech, 15 di Modena, mentre solo 11 sono prodotti di Astrazeneca e 1,8 milioni di J&J. Le dosi consegnate all'Italia dalle singoli aziende non sono note, ma i dati della Commissione europea dicono che ai 27 Paesi sono state vendute in tutto 300 milioni di dosi Astrazeneca e altre 200 milioni di J&J. Numeri che fanno pensare a un elevato tasso di vaccini rimasti nel freezer. Oltre che attraverso Covax, i Paesi stanno regalando vaccini anche tramite accordi bilaterali. Un'opzione apprezzata da alcune cancellerie, perché così si può scegliere a quale nazione fare beneficenza. L'Italia finora ha donato in tutto 7,8 milioni di dosi. Di queste, 2,6 milioni sono vaccini AstraZeneca trasferiti mediante accordi bilaterali, principalmente a Tunisia e Vietnam. Il resto è andato al Covax: 5,2 milioni le dosi consegnate finora, secondo i dati aggiornati al 15 ottobre. Per rispettare la promessa di Draghi, in due mesi l'Italia dovrà riuscire a donare vaccini a una media di 620 mila dosi al giorno».
ENERGIA, SALGONO ANCORA I PREZZI E NIENTE ACCORDO NELLA UE
Salgono ancora i prezzi di gas e petrolio. Ma per il no della Germania, i Paesi della Ue non trovano l'accordo su una risposta coordinata dell’Europa. Michele Pignatelli per il Sole 24 Ore.
«Vigilanza rafforzata contro possibili speculazioni, ma nessuna risposta coordinata a livello comunitario all'impennata dei costi energetici che pesa su imprese e famiglie europee. Ha prodotto un sostanziale nulla di fatto il Consiglio straordinario dei ministri dell'Energia, riuniti ieri in Lussemburgo per studiare possibili misure condivise di medio-lungo termine. Unica apertura, tutta da esplorare, l'ipotesi di acquisto e stoccaggio comune di gas. «Non è stato trovato un accordo su misure di intervento da adottare a livello Ue», ha dichiarato Jernej Vrtovec, ministro delle Infrastrutture della Slovenia, presidente Ue. Difficile, del resto, prevederlo, visto il documento firmato alla vigilia da nove Paesi - tra cui la Germania, principale economia e mercato dell'elettricità - che chiudeva di fatto la porta a qualsivoglia riforma del mercato elettrico, invitando piuttosto a migliorare l'efficienza energetica e accelerare sulle fonti rinnovabili. «Poiché l'impennata dei prezzi è determinata da fattori globali - si legge nel testo - dovremmo stare molto attenti a interferire nella struttura dei mercati interni dell'energia. Questo non sarebbe un rimedio per mitigare l'attuale aumento dei prezzi legati ai mercati dei combustibili fossili». Firmatari, insieme alla Germania, Austria, Olanda, Finlandia, Danimarca, Irlanda, Estonia, Lettonia e Lussemburgo, molti dei quali - soprattutto i Paesi nordici - già in altri contesti europei hanno saputo far valere il peso delle minoranze di blocco. Il documento è stato poi condiviso anche da Svezia e Belgio. A chiedere interventi di riforma più radicale sono stati Spagna, Francia, Repubblica Ceca e Grecia, convinti che invece sia proprio il modo in cui funziona il mercato Ue dell'energia - dove la formazione dei prezzi all'ingrosso dell'elettricità dipende fortemente da quelli del gas - ad aggravare la situazione. Spagna e Francia, in particolare, vorrebbero un vero e proprio "decoupling", un disaccoppiamento, dei prezzi di elettricità e gas. Ancora la Spagna, affiancata dalla Polonia, ritiene che sui prezzi abbiano influito movimenti speculatori nel mercato degli Ets, il sistema di scambio di quote di emissioni di CO2, di cui chiede una riforma (su questo punto l'Esma, l'Authority europea dei mercati, fornirà un'analisi entro inizio 2022). E sempre Madrid, con il sostegno della Grecia, è tornata a chiedere una piattaforma comune europea per l'acquisto e lo stoccaggio di gas naturale, un punto su cui si registra il favore anche del governo italiano, ma su base volontaria. È questo in realtà l'unico elemento su cui si coglie un margine di manovra per una trattativa, come ha sottolineato ieri al termine del Consiglio la commissaria all'Energia, Kadri Simson, pur chiarendo che «ci sono molti aspetti da considerare a cominciare da chi paga, chi immagazzina le riserve, chi trasporta il gas». Per il resto, Simson ha detto che «non è chiaro come potrebbe funzionare un sistema con due prezzi a seconda delle fonti e non sappiamo se è la soluzione». La struttura del mercato energetico - ha aggiunto - «fornisce un quadro stabile che fornisce più energie rinnovabili e, in generale, garantisce energia più economica per tutti i consumatori. Nella configurazione attuale, i combustibili fossili vengono utilizzati solo quando non c'è abbastanza energia verde o a basse emissioni di carbonio per soddisfare la domanda». Come dimostra il rapporto sullo stato dell'Unione dell'energia, pubblicato ieri, che mostra che nel 2020 le rinnovabili hanno superato per la prima volta nella Ue i combustibili fossili come principale fonte di produzione di elettricità (con le emissioni di gas serra calate del 31% rispetto al 1990). Naturalmente, ha concluso, Simson, «il mix energetico in futuro ha bisogno delle rinnovabili ma serviranno anche fonti stabili nella transizione», come gas e nucleare sulla cui inclusione nella tassonomia degli investimenti sostenibili la Commissione Ue deve esprimersi entro l'anno».
EVERGRANDE, XI FA PAGARE IL FONDATORE
Nella crisi finanziaria dell’Evergrande arriva un ordine del Presidente cinese Xi: chiede al fondatore Xu Jiayin di coprire con i propri risparmi gli interessi sul mega debito del colosso immobiliare. Una lezione “maoista” al capitalismo privato, che però evita il crack. Guido Santevecchi per il Corriere.
«Grandi manovre nell'ombra intorno a Evergrande e ai suoi 305 miliardi di dollari di debiti. Secondo fonti cinesi citate dall'agenzia Bloomberg , le autorità hanno ordinato al fondatore Xu Jiayin di pagare con i suoi soldi gli interessi sulle obbligazioni, che sono una discreta parte del debito. A Pechino vogliono evitare il default tecnico del colosso immobiliare, il «disordine sociale» e un colpo al prestigio internazionale del partito-Stato. La fortuna personale di Xu Jiayin (anche noto con il nome in cantonese di Hui Ka Yan) era valutata in 42 miliardi di dollari, al culmine del successo nel 2017. La crisi del suo gruppo immobiliare e il crollo del titolo in Borsa, -80% da inizio 2021, hanno asciugato di molto il suo portafogli privato, che però contiene ancora almeno 7,8 miliardi di dollari secondo il Bloomberg Billionaires Index. Il beau geste di usarli per onorare le cedole dei bond e alleviare le pene degli obbligazionisti di Evergrande, eviterebbe a Xu ulteriori guai personali e permetterebbe a Xi Jinping di dare un primo forte segnale della sua determinazione a dare «prosperità condivisa» alle masse cinesi, mettendo in riga «il capitalismo disordinato» (sono promesse che il segretario generale comunista ripete senza sosta). Gli analisti erano rimasti sorpresi quando il 22 ottobre Evergrande, con un pagamento dell'ultima ora, aveva versato alla Citibank di Pechino 83,5 milioni di dollari per onorare gli interessi su un bond offshore scaduto il 23 settembre. In base alle regole, l'azienda aveva un periodo di tolleranza di 30 giorni prima della dichiarazione formale di default. Dove ha trovato il denaro il gruppo immobiliare i cui conti sono bloccati? Ogni risorsa, hanno detto le autorità va impiegata per riaprire le centinaia di cantieri fermi e consegnare le case (1,4 milioni di case) ai cittadini che le hanno già pagate. Quegli 83 milioni potrebbero essere venuti dalla ricchezza personale di Xu Jiayin. Ma basteranno i suoi «risparmi» per pagare tutte le obbligazioni? Nel corso del 2022 matureranno cedole su 7,4 miliardi di dollari di bond, tra onshore e offshore. Fatti i calcoli, i 7,8 miliardi di dollari del portafogli dell'imprenditore sarebbero perfetti. Questa settimana, Evergrande ha riaperto una quarantina di grandi cantieri nel Guangdong. L'obiettivo è di consegnare gli appartamenti pagati in anticipo dai cittadini cinesi, rastrellare nuova liquidità e cercare di uscire dal tunnel. I cantieri erano paralizzati da fine agosto quando Evergrande non aveva più potuto pagare fornitori e appaltatori. Pechino non vuole usare la sua potenza finanziaria per soccorrere il grande costruttore, ma vuole anche evitare il caos nell'edilizia, che vale il 29% del Pil cinese. Xu Jiayin cerca una fuga in avanti. L'ingegnere ha annunciato grandi piani per il futuro, non più legati al cemento ma alle auto elettriche. Aveva cominciato a diversificare dal 2019, costituendo la Evergrande Nev (New energy vehicle), una casa automobilistica che nell'ambizione di Xu avrebbe dovuto sorpassare la Tesla di Elon Musk. Evergrande Nev era stata quotata in Borsa e in un anno il titolo aveva guadagnato il 1.000%, arrivando a capitalizzare 87 miliardi di dollari a febbraio, più di Ford e General Motors. Unico problema: Evergrande Nev non ha ancora venduto una sola automobile, ha registrato perdite per quasi un miliardo di dollari e le sue azioni sono sprofondate del 97%. Ma per correre via dalla crisi del mattone, Xu Jiayin dice che il primo modello, la «Hengchi», uscirà dalla catena di montaggio entro febbraio del 2022».
SUDAN, ALTRI 7 MORTI NEL DOPO GOLPE
Sudan, il giorno dopo il colpo di Stato ancora proteste nelle strade: 7 morti e 140 feriti. Il generale Al Burhan svela la sorte del premier destituito: «È ospite a casa mia». Marco Boccitto fa il punto sul Manifesto.
«A 24 ore dal putsch che lunedì ha di nuovo cambiato le carte in tavola nella complessa crisi politica del Sudan, il generale Abdel Fattah al Burhan tira dritto. L'espressione sempre accigliata, il tono tutto sommato conciliante, ieri ha spiegato che lo scioglimento del governo di transizione e del Consiglio sovrano (da lui presieduto) è servito a «scongiurare una guerra civile». Che la convivenza tra militari e civili sarebbe stata difficile se non impossibile si sapeva fin dall"intesa sul dopo-Bashir faticosamente raggiunta nel 2019. L'insofferenza dell'esercito, che in base agli accordi dopo 21 mesi avrebbe dovuto cedere la guida del Consiglio sovrano a un civile, ha trovato un pretesto nelle innegabili spaccature nate in seno alla composita coalizione governativa delle Forze per la libertà e il cambiamento (Flc), con fazioni contrapposte nelle piazze e nel palazzo, a fronte dell'«immobilismo» del governo. Ora nascerà un esecutivo tecnico, ha detto al Burhan, composto da personalità giovani slegate dai partiti, che proseguirà il percorso della transizione. Al termine del quale - ha assicurato - «i soldati torneranno nelle caserme». Burhan ha poi svelato la sorte toccata al primo ministro Abdalla Hamdok e a sua moglie, l'economista Muna Abdalla, prelevati dai militari all'alba di lunedì, portati "chissà dove" e dei quali era tornato a chiedere l'«immediato rilascio» il segretario generale dell'Onu Guterres. «Non sono detenuti - ha rivelato il generale - ma ospiti a casa mia. Andavano protetti dalla minaccia costituita da alcune forze politiche. Torneranno nella loro residenza quando le cose saranno risolte, forse già nelle prossime ore». Analogo discorso per la connessione alla rete, che tornerà «gradualmente» (ieri le immagini delle violenze della polizia contro le donne e gli universitari del giorno precedente avevano comunque aggirato il blocco), mentre restano sospesi fino al 30 tutti voli internazionali. A Khartoum gli appelli alla disobbedienza civile e alla resistenza rivolti da più parti alla popolazione hanno ripreso fin dalla notte la forma delle barricate, con copertoni in fiamme nella centralissima Juma street e in altre parti della città, secondo una strategia di "guerriglia urbana pacifica" chiamata tetris, tesa a evitare lo scontro frontale con le forze di sicurezza. Che anche ieri hanno sparato sulla protesta: fonti mediche parlano finora di 7 morti e 140 feriti. Dopo il golpe sono state sciolte anche le segreterie delle rappresentanze sindacali, che peraltro erano state azzerate e ricostituite appena due anni prima con la scusa che erano zeppe di elementi legati al vecchio regime. Le mobilitazioni del mondo del lavoro contro il golpe partono comunque dall'Associazione sudanese delle professioni, medici in testa, come ai tempi delle proteste che hanno portato alla caduta del presidente al Bashir. Ma i militari per ora sembrano ignorare anche le unanimi e stizzite pressioni internazionali. Solo Mosca è sembrata in parte smarcarsi nel ricordare, accanto al rituale appello al dialogo, che quanto avviene in Sudan riguarda solo i sudanesi. Non la pensano così a Washington, dopo aver rimosso il Sudan dalla lista dei paesi sostenitori del terrorismo e fornito aiuti sia economici che militari al nuovo corso, esprimendo una fiducia che dopo le aperture del governo di trasnsizione a Israele e al Patto di Abramo era diventata aperta simpatia. Ieri la Casa bianca ha annunciato il congelamento di qualsiasi assistenza, informando dei contatti avviati con i Paesi della regione e soprattutto con quelli del Golfo - l'altra stampella che fin qui ha salvato il Paese dal baratro economico - per una risposta coordinata».
LE DONNE DI KABUL: “IL MONDO CI GUARDA MORIRE”
Le ragazze afghane sfidano ancora i divieti dei Talebani e tornano in strada. Non possono studiare né lavorare e dicono: “L’Onu ci aiuti, i nostri figli soffrono la fame”. Giordano Stabile per La Stampa.
«Le ciocche di capelli che spuntavano dagli hijab colorati, tirati all'indietro, in mano fogli bianchi con le scritte in dari, il persiano parlato in Afghanistan. Poche e coraggiose. Una ventina forse, lungo il viale che costeggia le fortificazioni in cemento della Zona Verde, nel centro di Kabul. Donne afghane che non si vogliono arrendere alla nuova realtà imposta dai taleban. Sono passate dieci settimane dalla presa della capitale da parte degli studenti coranici. I passi all'indietro sono stati precipitosi. Prima il divieto di andare al lavoro, poi le porte sbarrate alle studentesse nelle scuole superiori. Le persecuzioni delle atlete, colpevoli di «mostrare il corpo», costrette a scappare, a nascondersi da amici e parenti, ridotte alla disperazione fino al suicidio. E ora un abisso ancora più profondo, la povertà dilagante, la fame e le famiglie costrette a dare le figlie in spose a chi ha soldi e cibo, ancora bambine. Protestare è pericoloso. Un video girato di nascosto pochi giorni fa mostra un militante che prende a calci e minaccia con Kalashnikov un giornalista che riprendeva una manifestazione. Ieri invece i taleban hanno lasciato fare. E le donne afghane si sono rivolte alla comunità internazionale. Senza giri di parole. Slogan e scritte denunciavano il «silenzio» del mondo sulla «situazione politica, sociale ed economica» nel Paese. E poi «ogni giorno la povertà si fa sentire, i nostri figli muoiono, gli uomini non hanno più un lavoro, si suicidano e il mondo tace». O ancora «Diritto all'istruzione» e «Diritto al lavoro». Husna Saddat, una delle manifestanti del «movimento spontaneo delle donne attiviste in Afghanistan» lo ha ribadito davanti ai reporter: «Perché il mondo ci guarda morire in silenzio?». Il mondo è stato colto di sorpresa. L'Intelligence occidentale non aveva minimamente previsto un collasso simile del governo afghano. Adesso le principali potenze sono divise. Cina e soprattutto Russia spingono per un riconoscimento di fatto del nuovo Emirato islamico, chiedono, come fanno i taleban, di ripristinare i fondi bloccati all'estero, negli Usa, e facilitare la stabilizzazione dell'economia. Oltre metà della popolazione, 22 milioni di persone, rischia un inverno di fame, migliaia di bambini potrebbero morire. Europa e Stati Uniti cercano invece una strada per aiutare la popolazione senza legittimare un potere, che al d là delle dichiarazioni, ha già mostrato il suo volto brutale e retrivo. Il tempo è poco. Le prime nevicate sono alle porte, gran parte del Paese rischia di essere tagliato fuori dagli aiuti, anche se arrivassero a Kabul. Per questo l'Onu ha deciso di rinnovare nonostante tutto la sua missione, Unama. La presenza sul terreno è indispensabile per salvare vite. E proprio all'Unama si rivolgevano le afghane coraggiose di ieri. Volevano in un primo tempo raggiungere la sede, poi si sono spostate verso la Zona Verde, il fortino che è diventato il fantasma della ventennale presenza occidentale, con le ambasciate chiuse, come anche gran parte delle Ong internazionali. «Chiediamo al segretario generale delle Nazioni Unite di sostenere i nostri diritti, all'istruzione, al lavoro. Oggi siamo private di tutto» ha spiegato Wahida Amiri, una delle organizzatrici: «Non abbiamo nulla contro i taleban, vogliamo solo manifestare pacificamente», ha aggiunto con prudenza. Cosa sempre più difficile, ma in questo momento i taleban, impegnati in un'offensiva diplomatica fra Qatar, Turchia, Russia e Cina, lasciano ancora aperto qualche spiraglio. Il mondo, se ascolta, deve approfittarne».
Luca Geronico per Avvenire racconta di una bimba afghana venduta a 500 dollari. È stato l’ultimo atto di una famiglia alla fame: la neonata ceduta per salvare gli altri figli. E c’è una foto drammatica rilanciata da un deputato di Kabul.
«La telecamera dell'inviata della Bbc indugia con un primo piano su di una bimba neonata sotto spesse coperte in una culla che dondola. Dopo aver visto la disperazione di madri che accudiscono bimbi scheletrici in un ospedale di Herat, uno stacco ci porta fuori dalla città, dove «la situazione è ancora più disperata » e alcune famiglie sono costrette all'«impensabile». «I miei altri figli stavano morendo di fame, così ho dovuto vendere mia figlia», dice con il volto coperto dal burqa nero e gli occhi persi inquadrati una giovane donna. «Come posso non essere triste? È mia figlia», conclude con un filo di voce che pare un lamento. Il marito, fino a pochi mesi fa, faceva lo spazzino, ma ora «stiamo morendo di fame: a casa ora non abbiamo né farina, né olio», sussurra l'uomo seduto per terra. È la banalità del male, di chi abbandonato da tutti, per inumana necessità, deve violentare i suoi affetti: «Mia figlia non sa quale sarà il suo futuro. Non so come sta, ma ho dovuto farlo», conclude. Così, una volta che la bambina sarà in grado di camminare, sarà consegnata all'uomo che l'ha comprata, spiega l'inviata della Bbc Yogita Limaye. L'"acquirente" ha già pagato più della metà dei 500 dollari promessi: «Hanno detto che la bimba sarà data in sposa a un figlio dell'uomo, ma nessuno può essere sicuro», afferma la reporter. Ci sono altre famiglie, nell'entroterra di Herat, che hanno venduto i loro figli. «La disperazione di questa situazione è difficile da esprimere a parole. Non c'è altro tempo da perdere per soccorre il popolo afgano che non può aspettare mentre il mondo dibatte se riconoscere e no i taleban », conclude Yogita Limaye. Intanto ieri sono emersi nuovi dettagli sulla tragica morte per fame, alla periferia di Kabul, di otto fratelli orfani denunciata da Save the children. Un deputato afghano, Haji Mohammad Mohaqeq, ha postato la foto che ritrae due corpicini inanimati sotto un telone. I bambini, afferma il deputato sul suo account Facebook, erano rimasti abbandonati a se stessi dopo la scomparsa per tumore del padre mentre la madre, malata di cuore, è da tempo ricoverata in ospedale. Una morte «imbarazzante e vergognosa» che, conclude il deputato, «avrebbe dovuto scuotere il mondo».
IL DIAVOLO, PROBABILMENTE
Tommaso Rodano sul Fatto racconta il successo del corso di esorcismo proposto dall'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum a Roma: si sono iscritti in 137. Iscrizioni aumentate nel post Covid.
«Sono in mezzo a noi, intorno a noi. Esorcisti, demonologhi. Spiritualisti militanti, secondo cui Satana non è affatto una metafora o un sinonimo del male, ma un'entità reale, uno spirito vivo che attraversa la società e s' impossessa ancora degli esseri umani. L'esorcismo non è una pratica consegnata alla storia e alle credenze medievali, non è materia da film horror e serie Netflix: è vivo e gode di ottima salute. È riconosciuto e accreditato dalla Chiesa cattolica e ha ancora centinaia di "praticanti", soprattutto in Italia. A Roma ha appena riaperto i battenti la "scuola" di esorcismo, un corso universitario organizzato ogni anno dall'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum che nel 2021 è arrivato alla quindicesima edizione. Le iscrizioni sono aumentate rispetto al passato: gli iscritti quest' anno sono 137 (un centinaio in presenza e gli altri dietro al computer) e quasi la metà sono laici. Il coordinatore è sempre lo stesso, padre Luis Ramirez, responsabile dell'Istituto Sacerdos e cultore della disciplina. Obiettivo del corso è presentare "una ricerca accademica attenta e multidisciplinare sul ministero dell'esorcismo e della preghiera di liberazione; una risposta concreta, approfondita e professionale". Gli incontri sono iniziati lunedì e proseguono fino a sabato nell'aula magna "Giovanni Paolo II" dell'ateneo. I momenti clou - fanno sapere dall'ufficio stampa - saranno la "tavola rotonda tra esorcisti di diverse confessioni cristiane" e la presenza di un'enfant prodige dell'esorcismo mondiale, il sacerdote francese don Olivier Rollan, che potrebbe raccogliere l'eredità di Padre Gabriele Amorth, l'esor-star della diocesi di Roma che si è spento nel 2016. L'approccio accademico dell'Ateneo Pontificio è tutt' altro che scherzoso. Gli iscritti dopo gli anni del Covid sono cresciuti, ma non sfuggirà che nello stesso periodo sono aumentati soprattutto i casi psichiatrici e le sacche di sofferenza psichica. I due temi per la religione non si intrecciano, sono distinti. Per chi crede nell'esorcismo, la patologia psichiatrica è una condizione diversa dalla possessione demoniaca, che presenta caratteristiche proprie. Alcuni esorcisti lavorano anche insieme a psichiatri e psicologi, ma non è esagerato supporre che professionisti disposti a prestare servizio nel campo dell'irrazionale abbiano una peculiare predisposizione culturale e religiosa. Come ha detto Ramirez al Post, agli esorcisti si rivolgono anche "non credenti, che magari dopo tanti anni di sofferenza alla fine cercano un sacerdote, perché capiscono che si tratta di una cosa che va oltre una situazione normale". Persone con patologie che non trovano sollievo nella medicina e nel pensiero razionale, si affidano a un sacerdote. Il corso di Roma ha valore teoretico, divulgativo: non si distribuiscono "patenti" da esorcista. Lo si può diventare solo per cooptazione, se nominati da un altro sacerdote "certificato". E come nelle professioni, c'è una sorta di praticantato durante il quale il giovane esorcista affianca una figura già esperta. L'Associazione internazionale degli esorcisti fondata da padre Amorth - scrive ancora il Post - sostiene che "i professionisti" in Italia siano 300 e ce ne siano più o meno altrettanti nel resto del mondo. Secondo le indagini dell'istituto Sacerdos (2020) la figura dell'esorcista è presente in 160 diocesi italiane su 226: in totale sarebbero 283. Al di là delle ironie e al netto delle adesioni entusiastiche alla "scuola" pontificia, è in corso un vero risorgimento dell'istituto dell'esorcismo nella dottrina cattolica. E non sono stati solo i papi "conservatori", come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a ridare centralità teologica alle figure del demonio e della possessione, ma anche un progressista come Francesco: è sotto il suo magistero che è stato emesso il decreto che riconosce giuridicamente l'Associazione internazionale degli esorcisti. "Il diavolo esiste e si è fatto uomo, semina l'odio nel mondo, provoca morte", ha detto Bergoglio in un'omelia del 2019. Non parlava di un film».
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