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"Sette punti per la pace"
Zamagni lancia una proposta di negoziato. Mentre il mondo è in ansia per i referendum che Mosca vuol far votare nel Donbass. Letta-Meloni nemici e alleati. Gas, la Germania nazionalizza
Il mondo è in ansia. E l’angoscia grava su New York, dove sono riuniti per l’Asssemblea generale delle Nazioni Unite molti capi di Stato e di governo. I governatori delle terre del Donbass conquistate dall’esercito russo ieri hanno annunciato che ci saranno i referendum per l’annessione a Mosca. È un passo che preoccupa, perché se quei territori diventano ufficialmente territorio russo, un’altra eventuale controffensiva ucraina potrebbe giustificare l’uso di ordigni nucleari. Per alcune ore ieri era anche stato annunciato un discorso televisivo di Vladimir Putin, che ha fatto ipotizzare quella “mobilitazione generale” che i falchi dell’esercito russo chiedono negli ultimi tempi allo Zar. Poi il discorso non c’è stato. Ma il sospetto che Putin stia preparando una nuova fase della guerra resta fondato. La sensazione è che ci troviamo ad un bivio: potremmo salire un ulteriore gradino nell’escalation bellica, oppure paradossalmente si potrebbe finalmente aprire un serio negoziato. Lo dice esplicitamente il presidente turco Recep Tayyip Erdogan alle Nazioni Unite, quando sostiene che tutti vogliono “risolvere il conflitto”.
A proposito di pace, Stefano Zamagni, ha scritto un contributo importante ripreso oggi da Avvenire. Sostiene il Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali che: “È doveroso avanzare una proposta di negoziato tra i due Paesi belligeranti”. E presenta sette punti per arrivare al cessate il fuoco, che sembrano ricalcare l’iniziale proposta di pace avanzata dal nostro governo proprio nella sede delle Nazioni Unite. Sette passi giusti ed equi che Russia ed Ucraina dovrebbero accettare. Nella notte Mario Draghi è intervenuto all’Assemblea Generale nel palazzo di vetro (vedi Foto del Giorno) e ha citato Mikhail Gorbaciov e il valore del “multilateralismo”. Oggi parlerà Joe Biden, domani il Consiglio di sicurezza discuterà delle atrocità commesse in Ucraina.
Sempre a New York Henry Kissinger ha premiato il nostro presidente del Consiglio come Statista dell’anno. Il World Statesman Award, organizzato dal rabbino Arthur Schneier da diversi anni, è infatti un riconoscimento che premia uomini di stato e di governo. Repubblica stampa oggi il discorso di Kissinger con la motivazione del premio. A Roma intanto prosegue la campagna elettorale. Enrico Letta, intervistato dal Giornale, continua a fare sponda con Giorgia Meloni. Come dicevano i latini, Simul stabunt, simul cadent. Dice Letta al direttore Augusto Minzolini: «Una delle pochissime cose che ci uniscono, con Giorgia Meloni, al di là del rispetto e della cortesia che ci si riserva tra avversari, è una visione bipolare della contesa politica. Destra e sinistra. Conservatori e progressisti. Chi vince governa. E io non ho alcuna intenzione di mettere in discussione la democrazia dell'alternanza». È l’ossessione del segretario del Pd. Per dirla con il cardinal Matteo Zuppi, la “polarizzazione forzata” dell’Italia. Una polarizzazione che, per ora, ha fatto fuori il miglior statista dell’anno, in una crisi surreale nel momento peggiore della nostra storia dal 1948. Siamo dei geni.
Tanto più che l’emergenza eccezionale che aveva spinto le forze politiche a stare insieme per trovare una soluzione comune ai problemi non è affatto finita. Purtroppo. In questo quadro il voto negativo del Senato alla riforma fiscale è un segnale bruttissimo. Come lo era stato il sabotaggio del taglio alle bollette. I partiti e i leader ballano sul Titanic. Intanto la Germania ha deciso di nazionalizzare il colosso del gas Uniper. Costerà 29 miliardi al governo federale ma è meglio evitare il fallimento.
Le altre notizie dall’estero ci raccontano delle proteste delle donne iraniane, della repressione di Ortega che ha messo fuori legge altre 100 Onlus in Nicaragua e delle speranze di Lula di battere Bolsonaro. In Brasile si voterà il 2 ottobre.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae Mario Draghi che ha parlato, nella notte italiana, all’Assemblea generale dell’Onu a New York. Mantenere la "coesione sociale" deve essere il mantra che guida le scelte dei governi che devono continuare a perseguire la "cooperazione" come già accaduto con la pandemia Covid. Le crisi innescate dalla guerra, "alimentare, energetica, economica", richiedono di "riscoprire il valore del multilateralismo", ha insistito Draghi citando il discorso del 1988 di Michail Gorbaciov sulla necessità della cooperazione per affrontare i problemi globali.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
L’incubo di una nuova fase della guerra in Ucraina pesa sul mondo. Mosca annuncia referendum di annessione nel Donbass, possibile preludio ad una difesa “nucleare” del neo territorio russo. Il Corriere della Sera annuncia: Putin, l’arma dei referendum. Per Avvenire è la: Grande usurpazione. La Repubblica sintetizza: Putin sfida il mondo con un voto farsa. La Stampa non ha dubbi, è: L’ultima follia di Putin. Il Mattino rompe il tabù e parla esplicitamente di atomica: Putin, la minaccia nucleare. Così come Il Messaggero: Ucraina, l’incubo nucleare. Draghi: avanti con Nato e Ue. Il Domani guarda allo scacchiere del Pacifico: La Cina minaccia gli Stati Uniti. Su Taiwan pronti alla guerra. Il Fatto insiste nell’ossessione contro il premer: Gli italiani bocciano Draghi sull’Ucraina. Il Giornale intervista l’amico-nemico Enrico Letta, che per l’ennesima volta promuove la leader di Fratelli d’Italia: «Governa chi vince. Anche se è la Meloni». Il Quotidiano Nazionale nota che la polarizzazione è finta: Destra e sinistra, la rissa è ideologica. Il Manifesto attacca la destra: Fuoco e fiamma. La Verità prosegue nella campagna su Autostrade: La trattativa Stato-Benetton. Libero si straccia le vesti per un’intervista su Rai3: Linciaggio Rai sul centrodestra. Il Sole 24 Ore ricorda invece la realtà della crisi economica: Energia, a rischio fino a 100 imprese. Berlino nazionalizza il colosso Uniper.
PUTIN APRE UNA NUOVA FASE DELLA GUERRA?
Il mondo guarda con angoscia a Mosca, perché Vladimir Putin sembra voler spingere la guerra verso una nuova fase. I governatori di quattro province occupate indicono il referendum per l’annessione a Mosca. Il mistero del discorso tv dello Zar, rimandato all’ultimo. Luigi De Biase per il Manifesto.
«A sette mesi dall'invasione dell'Ucraina Vladimir Putin sembra deciso a spingere la Russia verso una nuova fase di quella che le autorità ancora chiamano «operazione speciale», ma che nei prossimi giorni potrebbe diventare «guerra» a tutti gli effetti. I governatori di quattro province ucraine occupate, le province di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia, hanno indetto un referendum per essere integrate nella Federazione russa, così com' era accaduto in Crimea nel 2014. L'iniziativa, è chiaro a tutti, viene direttamente dal Cremlino. Nelle stesse ore a Mosca la Duma ha approvato una serie di modifiche al codice penale per portare a dieci anni di carcere le pene previste in caso di diserzione. L'ipotesi della mobilitazione generale parrebbe sempre più vicina. Eppure Putin non sembra ancora risolto a dichiararla. La Russia aspettava ieri sera un messaggio del presidente registrato nel pomeriggio che la tv di stato avrebbe dovuto trasmettere alle 20. Alle 22 non era ancora andato in onda. Il che alimenta i dubbi sulle reali intenzioni di Putin e del suo establishment, già duramente criticato per la sconfitta militare nel settore di Kharkiv di dieci giorni fa. Dal punto di vista politico lo scenario è molto simile a quello che si è verificato alla vigilia dell'invasione. Allora la Duma chiese a Putin di esprimersi sull'indipendenza di Donetsk e Lugansk. Putin prima convocò il Consiglio di sicurezza al completo, dopodiché firmò il decreto e concluse con le Repubbliche appena riconosciute un accordo di cooperazione militare. Quella è stata la premessa alla campagna militare partita il 24 febbraio. In modo analogo il Cremlino cerca oggi la più pomposa ed evidente legittimazione prima di procedere.
I movimenti alla Duma, seguiti dal calo del 10% delle quotazioni alla Borsa di Mosca, non sono stati gli unici preoccupanti in giornata. Nel corso della mattina Putin ha ricevuto i responsabili complesso militare industriale e ha avanzato due richieste: aumentare la produzione di armi e munizioni e sostituire «al 100%» l'import di componenti stranieri. Altro segnale, venuto questa volta dall'altra parte del confine, ma probabilmente concordato: in Bielorussia il presidente, Aleksander Lukashenko, avrebbe ordinato al ministero della Difesa si intraprendere le misure previste in caso di guerra. Tutto, insomma, è pronto per una nuova fase. I leader di Donetsk e di Lugansk sono stati i primi a comunicare la scelta di indire un referendum fra il 23 e il 27 settembre. È il secondo nella breve storia delle due regioni. All'altro, con cui le due città stabilirono il 14 maggio del 2014 la loro indipendenza, il governo ucraino rispose con una «operazione antiterrorismo» costata la vita a migliaia di civili. Ora si tratta di chiedere l'integrazione nel territorio russo. La reazione delle autorità di Kiev potrebbe essere ancora più dura. A Donetsk e Lugansk è seguita Kherson, alla foce del fiume Dnepr, nella parte meridionale del paese, conquistata dai russi nei mesi scorsi con la loro spinta verso Odessa. È un centro strategico, forse il più importante nei calcoli dello stato maggiore, perché permette di controllare l'accesso alla Crimea. Per ultimo si è espresso il governatore russo di Zaporizhzhia, Vladimir Rogov. Il suo appello merita particolare attenzione. La città, che contava 750.000 abitanti prima della guerra, è sotto il controllo dell'esercito ucraino. L'esercito russo occupa una parte significativa della provincia, compresa la centrale Energoatom, al centro da mesi di pericolosi scambi di artiglieria. I russi hanno fatto sapere che l'esito del voto riguarderà l'intero territorio. Il che, è chiaro a tutti, condurrà probabilmente a ulteriori rivendicazioni. Le prossime ore saranno indispensabili per capire se il ricorso al referendum, e quindi la concreta minaccia di integrare altre terre ucraine e il rischio di una escalation sul piano militare, facciano parte di un tentativo più ampio, ancorché confuso, di fissare i cardini di una possibile intesa. «Credo che Putin voglia mettere fine alla guerra il prima possibile», ha detto a Samarcanda la scorsa settimana il presidente turco, Receep Tayyp Erdogan, dopo il vertice del gruppo del Shanghai. Ieri Erdogan ha avuto un lungo colloquio telefonico con il collega ucraino, Volodymyr Zelensky, al termine del quale ha chiesto a «tutti i Paesi» di sostenere il suo sforzo diplomatico per «risolvere il conflitto». Anche il capo dell'Eliseo, Emmanuel Macron, ha chiesto in serata di parlare con Putin. Non è chiaro se il tentativo abbia incontrato il favore russo. A questo punto Erdogan sembra l'unico leader ad avere aperto un canale per trattare».
NON È FACILE ANNUNCIARE LA FINE DEL MONDO
L'analisi di Anna Zafesova per La Stampa. Segnali di divisioni e tentennamenti al Cremlino. Il discorso di Putin per inasprire la guerra e passare alla “mobilitazione generale” viene rinviato. I primi a essere arruolati sarebbero gli under 26, la generazione dei giovani russi che più contesta il regime.
«L'Apocalisse viene rinviata, «andate a dormire», scrive sul suo canale Telegram Margarita Simonyan, la capa della tv di propaganda Rt che soltanto poche ore prima annunciava trionfante «l'inizio della nostra rapida vittoria, o della guerra nucleare, non vedo una terza opzione». La scelta tra la guerra totale con chiamata alle armi dei russi e la bomba atomica si è rivelata troppo difficile, come dimostrano le due ore di angosciata e inutile attesa di un discorso di Vladimir Putin che doveva annunciare la fine del mondo. Il portavoce del presidente Dmitry Peskov si rende irreperibile per i giornalisti, nei social russi girano ironici filmati del Lago dei cigni, il balletto trasmesso dalla tv sovietica durante il golpe contro Mikhail Gorbaciov nel 1991, la borsa di Mosca collassa, le vendite di biglietti aerei online registrano il tutto esaurito e la classifica delle ricerche nel segmento russofono di Google viene scalata dalle domande «come scappare dalla Russia?» e «come evitare la chiamata in guerra?». Il risultato è che proprio nel giorno in cui il leader russo voleva mostrare di essere tornato l'uomo che non deve chiedere mai dal Cremlino partono messaggi di divisioni e tentennamenti: «Non è questo il modo per annunciare la mobilitazione generale», riassume l'analista di opposizione Yulia Latynina. La sensazione, negli ultimi giorni, era quella di una palla di neve che stava crescendo a vista d'occhio, mentre rotolava a valle accelerando la sua corsa. Prima, la controffensiva travolgente degli ucraini a Kharkiv e nel Donbass. Poi, l'ondata di indignazione che la perdita dei territori già occupati dai russi ha provocato nei ranghi dei nazional-imperialisti, per la prima volta in 23 anni di putinismo arrabbiati al punto da aver cominciato a chiedere la testa del loro leader. La presa di posizione pubblica contro la guerra di Alla Pugaciova - la famosissima cantante che per milioni di russi simboleggia il rimpianto per l'Unione Sovietica molto più del presidente - è suonata come una condanna dall'altro fronte putiniano, quello della maggioranza silenziosa apatica e nostalgica, pronta ad applaudire l'invasione dell'Ucraina solo fino a che la vede in tv. Lo scontro all'interno del gruppo dirigente putiniano, sempre più evidente, come lo scontento dei militari, mentre l'ex Armata Rossa stava ormai reclutando soldati tra gli assassini e gli stupratori nelle carceri. La freddezza di Xi Jinping, di Recep Tayyip Erdogan e del presidente kazakho Kasym-Zhomart Tokaev al vertice asiatico di Samarcanda ha ristretto lo spazio di manovra internazionale di Putin, insieme alle crisi in Iran e nel Caucaso. La guerra stava diventando palesemente impossibile da proseguire, in assenza di risorse umane, economiche e politiche, ed è altrettanto impossibile da interrompere, in un sistema troppo monarchico per perdonare al leader massimo un errore, peggio, una sconfitta. È questo il dilemma atroce del Cremlino, e l'accelerazione vertiginosa del doppio programma dei "referendum" sull'annessione dei territori ucraini occupati e delle nuove leggi sulla mobilitazione e la legge marziale - che sul sito della Duma risultano già approvate, nonostante debbano ancora venire votate dal Senato e firmate dal presidente - significano che Putin ha optato per l'escalation. Una decisione non troppo sorprendente: il presidente russo non ha mai imparato l'arte politica del compromesso, e ha un culto della forza che associa all'inflessibilità e alla violenza. Il partito della guerra domina il Cremlino ormai da mesi, e la sua visione del mondo è stata riassunta di recente dalla solita Simonyan, che ha spiegato in un talk show che «se facciamo marcia indietro nessun'altro la farà, se noi non facciamo marcia indietro qualcun altro potrebbe farla». Nella teoria dei giochi si chiama il "chicken game", il gioco del pollo, la scommessa che chi non cede vince. Una tattica che ha già portato una volta l'umanità sull'orlo della catastrofe nucleare, durante la crisi di Cuba. Il problema per Putin è che non ha le risorse per quella guerra "patriottica" totale che i suoi falchi gli stanno chiedendo: non riusciva a trovare soldati per il fronte ucraino nemmeno in cambio di migliaia di rubli e grazie a pluriomicidi, difficile che i russi ora vogliano andare nelle trincee gratis, per difendere dei "nuovi territori" che toglierebbero miliardi di finanziamenti a pensioni e ospedali. L'inefficienza mostruosa dell'esercito russo non promette miracoli strategici, e le potenziali vittime del reclutamento si rendono conto che verrebbero usati nella classica guerra sovietica che prevede di sommergere l'avversario in un mare di corpi. Inoltre, i primi a venire mobilitati sarebbero gli under 26, una generazione che al Cremlino non dispiacerebbe mandare al macello: anche se non portasse la vittoria militare, eliminerebbe la fascia d'età più critica della guerra, dove il sostegno a Putin è al minimo. I loro genitori però sono la base del regime, e il loro consenso rassegnato potrebbe venire sostituito da un'esplosione di rabbia. Queste ore offrono ai russi comuni l'ultima possibilità per far sentire la propria voce, prima di quella che potrebbe diventare una catastrofe».
ERDOGAN: “UNA VIA DIGNITOSA ALLA FINE DELLA GUERRA”
Si muove la diplomazia mondiale. Il pressing degli altri leader all’Onu. L'Occidente condanna compatto i referendum: "Non hanno nessun valore". Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è solidale con Kiev e dice: si trovi una soluzione, anche la Crimea torni ucraina. Francesca Sforza per La Stampa.
«Il partito della guerra ha ripreso forza al Cremlino dopo il doppio scacco delle ultime settimane, quello sul terreno, con la prepotente ripresa di controllo da parte degli ucraini, e quello diplomatico, in seguito all'umiliante trattamento che gli asiatici hanno riservato - pur con tutte le melliflue sofisticherie del caso - alla Russia di Vladimir Putin. E ieri, di nuovo, è stato il giorno del presidente turco Erdogan, che alla 77esima Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha sollecitato «una via dignitosa» di uscita dalla guerra. Lo ha fatto dopo aver parlato con il presidente ucraino Zelensky con cui ha discusso di questioni legate alla sicurezza, e dopo aver rilasciato alla televisione americana un'intervista in cui ha detto chiaramente il suo pensiero: «È importante che i territori contesi tornino all'Ucraina, anche la Crimea - ha detto -. La Turchia intrattiene con quella penisola un rapporto storico, è una delle case del popolo tataro, che condivide con il popolo turco legami profondi, linguistici, e culturali». Una presa di posizione che non poteva essere più chiara, e che sposa implicitamente la condanna unanime che ieri è stata rivolta alla Russia per aver preso la decisione di avviare un referendum - proprio come avvenne in Crimea nel 2014 - nelle repubbliche del Donbass e nei territori al centro della contesa con l'Ucraina. Decisione che sembrava accantonata dopo la presa di Izyum, e che invece ha ripreso corpo in modo inaspettato per mano dei falchi del Cremlino. «I referendum fittizi non hanno legittimità e non cambiano la natura della guerra di aggressione della Russia contro l'Ucraina - ha detto ieri il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg -. Rappresentano piuttosto un'ulteriore escalation nella guerra di Putin. La comunità internazionale deve condannare questa palese violazione del diritto internazionale e rafforzare il sostegno all'Ucraina», ha aggiunto. E la condanna infatti è arrivata anche dall'Europa: dalla presidente del Parlamento Metsola al commissario Paolo Gentiloni i toni sono stati fermissimi, «i referendum di Putin in Ucraina per annettere territori occupati con le armi sono un insulto alla democrazia e alle Nazioni Unite», ha scritto Gentiloni in un tweet. Diversi leader presenti alle Nazioni Unite, dal presidente francese Macron al premier spagnolo Sanchez fino al nuovo ministro degli Esteri britannico James Cleverly si sono espressi in modo inequivocabile: «I referendum di martedì in quattro regioni separatiste dell'Ucraina sono una parodia e non avranno conseguenze legali - ha detto Macron -. L'unica cosa che esiste è la guerra decisa dalla Russia, la resistenza dell'Ucraina e la fine della guerra che vogliamo». L'opposizione dell'Occidente tuttavia si snoda nel primo livello di questa nuova fase della guerra. Nel secondo, quello che sottotraccia agita l'intelligence americana e i servizi alleati, ci si prepara a nuovi e più preoccupanti scenari, sintetizzabili in una frase ripetuta a più riprese da Joe Biden nelle ultime settimane: «Dobbiamo cercare di evitare la terza Guerra Mondiale». Nessuno al momento sa quale forma possa assumere un'eventuale escalation, ma le possibilità vanno dai bombardamenti indiscriminati sulle città ucraine agli attentati contro i leader di Kiev fino alla mobilitazione di massa dei riservisti russi. Per questo l'amministrazione americana ha rinviato a data da destinarsi l'invio a Zelensky, che ne aveva fatto richiesta con insistenza nei giorni scorsi, dei missili teleguidati a lungo raggio. Non è il caso di offrire a Mosca il pretesto di nuove provocazioni, così come non bisogna dimenticare, avvertono gli analisti del Pentagono, che Putin non rinuncerà facilmente ai suoi obiettivi originari. La tiepida accoglienza riservata dai giganti asiatici India e Cina a Vladimir Putin durante il vertice di Samarcanda costituisce al momento l'unico fattore geopolitico che induce alla moderazione, ma è anche vero che di fronte all'eventualità di un innalzamento del livello dello scontro, l'imbarazzo di Pechino potrebbe non tramutarsi automaticamente in un'opposizione, e quindi allargare ancora di più i margini di un'estensione del conflitto. Prendere tempo, nella speranza che il rinvio si trasformi in neutralizzazione di possibili collisioni dirette, sembra in questa fase l'unica tattica a disposizione della diplomazia internazionale. E non è molto».
PROPOSTA DI PACE IN SETTE PUNTI
Sette punti per la pace. Stefano Zamagni, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ha scritto un importante intervento che uscirà sul numero 3 (ottobre 2022) della rivista Paradoxa. E che oggi viene pubblicato da Avvenire. Scrive Zamagnai: «Se è vero, com' è vero, che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” questa strada maestra va aperta. La storia ci insegna che le guerre per il territorio sono sempre perdenti nel lungo andare. È doveroso avanzare una proposta di negoziato tra i due Paesi belligeranti».
«Cosa vuol dire essere costruttori di pace («Beati gli operatori di pace », Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum progressio (1967) di papa Paolo VI secondo cui «lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. (…) La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza - e proprio per questo quasi mai citato - di Quincy Wright ( A study of war, Chicago, 1942) si legge che «mai due democrazie si sono fatte la guerra». È proprio così, come la storia ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, occorre operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico. A tale riguardo, è opportuno richiamare l'attenzione su taluni fatti stilizzati che connotano la nostra epoca. Si consideri l'inquietante fenomeno della fame e della denutrizione. È noto che non si tratta di una tragica novità di questi tempi; ma ciò che la rende oggi scandalosa, e dunque intollerabile, è il fatto che essa non è la conseguenza di una incapacità del sistema produttivo globale di assicurare cibo per tutti. Non è pertanto la scarsità delle risorse, a livello globale, a causare fame e deprivazioni varie. È piuttosto una « institutional failure », la mancanza cioè di adeguate istituzioni, economiche e giuridiche, il principale fattore responsabile di ciò. (…) Di un altro fatto stilizzato mi preme dire in breve. La relazione tra lo stato nutrizionale delle persone e la loro capacità di lavoro influenza sia il modo in cui il cibo viene allocato tra i membri della famiglia - in special modo, tra maschi e femmine - sia il modo in cui funziona il mercato del lavoro. I poveri possiedono solamente un potenziale di lavoro; per trasformarlo in forza lavoro effettiva, la persona necessita di adeguata nutrizione. Ebbene, se non adeguatamente aiutato, il malnutrito non è in grado di soddisfare questa condizione in un'economia di libero mercato. La ragione è semplice: la qualità del lavoro che il povero è in grado di offrire sul mercato del lavoro è insufficiente a 'comandare' il cibo di cui ha bisogno per vivere in modo decente. (…) Q uale conclusione trarre da quanto precede? Che la presa d'atto di un nesso forte tra «institutional failure », da un lato, e aumento delle disuguaglianze globali dall'altro, ci ricorda che le istituzioni non sono - come le risorse naturali - un dato di natura, ma regole del gioco economico che vengono fissate in sede politica. (…) La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni, (cioè regole del gioco), di pace: sono tali quelle che mirano allo sviluppo umano integrale. Situazioni come la guerra in Ucraina vengono descritte nella scienza sociale con l'espressione «problemi di azione collettiva», problemi cioè in cui ciascun partecipante ha un interesse di lungo termine a cooperare, ma un forte incentivo di breve termine ad agire in modo opportunistico. Ecco perché occorrono istituzioni che valgano a modificare gli incentivi individuali di breve termine. (…) Quali istituzioni di pace allora meritano, nelle condizioni odierne, prioritaria attenzione? Primo, rendere credibile il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell'aggredito. A tale riguardo, occorre modificare lo Statuto dell'Onu nel senso di cancellare il diritto di veto finora concesso ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Esso equivale a un diritto di monopolio. Il che è moralmente inaccettabile. Secondo, dare vita entro l'universo delle Nazioni Unite a una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli Aiuti (Aiga), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal 'dividendo della pace' e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà (circolare), operi in quanto ente grant-making. (Se solo il 10% della spesa militare globale venisse dirottata su Aiga, nell'arco di un decennio le attuali diseguaglianze strutturali potrebbero venire sanate). Chiaramente, la struttura governante di Aiga deve essere quella di un ente multistakeholder; vale a dire nel suo organo di governo devono sedere i rappresentanti dei vari portatori di interesse, in particolare delle oltre 7mila Organizzazioni non governative registrate presso l'Onu. Terzo, si tratta di rivedere, in modo radicale, l'assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (Fmi, Oms, Banca Mondiale, Wtc), divenute ormai obsolete perché pensate per un mondo che non esiste più. Al tempo stesso, occorre operare per far nascere due altre istituzioni, dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un'Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (Omm) e un'Organizzazione Mondiale dell'Ambiente (Oma). Una quarta iniziativa urgente è quella tesa al disegno di una nuova regolamentazione sulle sanzioni. (…) L'idea di fare la guerra con mezzi economici è antica (assedio, blocco navale, ecc.), ma oggi la deterrenza economica non funziona più per prevenire i conflitti o per farli cessare. Primo, perché sono un'arma a doppio taglio, dato che danneggiano anche chi le introduce. Secondo, perché più vengono usate, più le sanzioni perdono efficacia, dato che i Paesi si adattano a resistere a esse. Terzo, perché le sanzioni per risultare efficaci postulano l'accordo leale tra i Paesi sanzionatori, cioè l'assenza di comportamenti del tipo free riding. Tutti sanno che vi sono lobby belligeranti che non vogliono che i conflitti abbiano termine. (…) Infine, è urgente far decollare un piano volto alla riduzione bilanciata degli armamenti e in modo speciale a bloccare la proliferazione delle testate nucleari. La spesa militare del mondo è di circa due trilioni di dollari all'anno, quasi il 10% in più rispetto a un decennio fa. Si tratta di espandere il Trattato sul commercio internazionale di armi convenzionali (Att), approvato nel 2013 e ratificato nel 2020 da Ue e Cina, ma non dagli Usa né dalla Russia. Il che la dice lunga. La Convenzione Onu sui dispositivi d'arma autonomi (Laws: Lethal Autonomous Weapon Systems) si è conclusa nel dicembre 2021 con un nulla di fatto. (…) Nell'agosto 2022 si è conclusa la 10a conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare ( Tnp), pure con un nulla di fatto, in conseguenza dell'irrevocabile no russo - posizione criticata perfino dalla Cina. Una proposta credibile deve prevedere la creazione di un fondo globale per consentire il riacquisto di armi convenzionali, per poi distruggerle. Il fondo otterrebbe le risorse necessarie da quelle liberate dalla riduzione della spesa militare. (…) È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire in tale direzione. Assai opportunamente il cardinal Pietro Parolin ha scritto: «Purtroppo, bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni, che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La guerra in corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta». ('Vatican News', 11 marzo 2022). Desidero fissare qui un punto. È vero che 'l'Occidente collettivo' (e la Nato) non hanno saputo anticipare e ancor meno prevedere quanto poi è accaduto a partire dal 24 febbraio 2022. Ed è altresì vero che troppo poco l'Occidente ha fatto per costruire «un nuovo sistema di convivenza tra le nazioni». Ma tutto ciò in nessun modo può giustificare l'offensiva russa in Ucraina; può semmai spiegarla, non certo giustificarla, né sul piano politico, né sul piano etico. È doveroso avanzare una proposta di negoziato di pace tra i due Paesi belligeranti. Il fine del negoziato non può limitarsi a conseguire una pace negativa nel senso di Johan Galtung che, già nel 1975, introdusse la distinzione, divenuta poi celebre, tra pace negativa e pace positiva. (…). Mentre la prima fa riferimento all'assenza di violenza diretta ('al cessate il fuoco', come si usa dire), la seconda fissa le condizioni che servono per aggredire le cause della guerra. Invero, solamente la pace positiva è sostenibile nella prospettiva della durata. (…) Quella in Ucraina rischia di evolvere in una guerra di logoramento e può terminare o come conflitto congelato oppure come pace negoziata. È dimostrato che una pace negoziata è sempre un esito superiore rispetto all'altra possibilità. (…) Si consideri solo quel che sta accadendo al prezzo del gas naturale in Europa e alla rottura delle catene globali del valore attraverso le quali i Paesi si scambiano tra loro beni e servizi. (…) D'altro canto, la Russia con la sua economia strutturalmente debole non può certo pensare di poter competere sui mercati internazionali. (L'e-conomia russa è meno di un ventesimo dell'economia Usa e Ue, insieme). Questo dato aiuta a spiegare perché la guerra per le conquiste territoriali siano così appetibili alla dirigenza di Mosca. Ma - come la storia insegna - le guerre per il territorio sono sempre perdenti nel lungo andare; dato che è vano pensare, oggi assai più che nel passato, che più territorio significhi più potere. (L'ha ben capito la Cina, la cui strategia geopolitica è di conquistare mercati, non territori). (…) Q uali dunque i punti qualificanti di una proposta volta ad ottenere, un accordo di pace positiva? Ne indico sette. 1) Neutralità dell'Ucraina che rinuncia all'ambizione nazionale di entrare nella Nato, ma che conserva la piena libertà di diventare parte dell'Ue, con tutto ciò che questo significa. Una risoluzione dell'Onu deve essere adottata per assicurare meccanismi di monitoraggio internazionali per il rispetto degli accordi di pace. 2) L'Ucraina ottiene la garanzia della propria sovranità, indipendenza, e integrità territoriale; una garanzia assicurata dai 5 membri permanenti delle Nazioni Unite (Cina, Francia, Russia, Uk, Usa) oltre che dall'Ue e dalla Turchia. 3) La Russia conserva il controllo de facto della Crimea per un certo numero di anni ancora, dopodiché le parti cercano, per via diplomatica, una sistemazione de iure permanente. Le comunità locali usufruiscono di accesso facilitato sia all'Ucraina sia alla Russia; oltre alla libertà di movimento di persone e risorse finanziarie. 4) Autonomia delle regioni di Lugansk e Donetsk entro l'Ucraina, di cui restano parte integrante, sotto i profili economico, politico, e culturale. 5) Accesso garantito a Russia e Ucraina ai porti del Mar Nero, per lo svolgimento delle normali attività commerciali. 6) Rimozione graduale delle sanzioni occidentali alla Russia in parallelo con il ritiro delle truppe e degli armamenti russi dall'Ucraina. 7) Creazione di un Fondo Multilaterale per la Ricostruzione e lo Sviluppo delle aree distrutte e seriamente danneggiate dell'Ucraina, un fondo al quale la Russia è chiamata a concorrere sulla base di predefiniti criteri di proporzionalità. (L'esperienza storica del Piano Marshall è di aiuto a tale riguardo). Ho motivo di ritenere che una proposta del genere, se opportunamente presentata e saggiamente gestita per via diplomatica, possa essere favorevolmente accolta dalle parti in conflitto. Forse l'ostacolo maggiore per una pace negoziata è la paura della negoziazione stessa. I politici e i capi di governo, infatti, temono di essere percepiti dalle rispettive constituencies o come pacifisti ingenui oppure come opportunisti con secondi fini. (…) Ecco perché, in una situazione come l'attuale, il ruolo dei costruttori di pace è fondamentale. La mobilitazione della società civile internazionale tesa a dare vita a una 'Alleanza per la Pace' è oggi, una iniziativa urgente e altamente meritoria».
MORTO UN VOLONTARIO ITALIANO
Le notizie dal campo bellico. È morto un giovane volontario italiano, Benjamin Giorgio Galli, 27enne di madre olandese, che si era arruolato a marzo nella Legione internazionale dell’esercito ucraino. Nelle ultime settimane aveva partecipato alla controffensiva ucraina a Sud di Kharkiv. Giuliano Foschini per Repubblica.
«Lo hanno ucciso, in un bombardamento, i soldati russi che cercavano di mantenere un territorio occupato a sud di Kharkiv. «Ma il sacrificio di Ben non è stato inutile: ci siamo ripresi tutto», hanno detto i compagni della Prima Legione internazionale di difesa ucraina, quando hanno comunicato la notizia. Benjamin Giorgio Galli, 27 anni, italiano con residenza a Varese e una vita tra l'Olanda e la Germania, è morto in combattimento. Ieri i genitori sono arrivati a Kiev per riprendersi il corpo del loro ragazzo, morto nella notte tra sabato e domenica. "Ben", come lo chiamavano tutti, si era arruolato il tre marzo dopo essere passato - come testimoniano le fotografie che ha pubblicato sul suo profilo Facebook da Varsavia. Aveva deciso di combattere al fianco dell'esercito ucraino "per una questione di ideali" hanno raccontato ieri parenti e amici ai carabinieri dell'antiterrorismo del Ros che, immediatamente nelle ultime 36 ore, hanno compiuto una serie di accertamenti per capire cosa ci fosse dietro l'arruolamento di Galli. Dai primi riscontri, seppur il lavoro proseguirà nei prossimi giorni, non sta emergendo nulla rispetto al racconto ufficiale: Ben è quello che tecnicamente chiamano «un combattente convinto», e non un "foreign terrorist fighter". Dietro non ci sono soldi, motivazioni politiche né una centrale di arruolamento. Ma soltanto la convinzione di combattere «per la parte giusta» come lo stesso Galli aveva scritto ai suoi amici in questi giorni dal fronte. Ed è proprio sulla rete di amici che sono stati fatti i primi accertamenti: Galli frequentava abitualmente un gruppo di ragazzi a Varese, dove vive anche sua sorella, Anna, e i suoi nipoti. Ben - dopo aver passato un periodo in Olanda, Paese originario della madre - era tornato a Varese. Dove, racconta chi lo conosceva bene, aveva trovato una sua dimensione: lavorava come operaio, «conduceva una vita - dice Anna a Repubblica - normale: so che si dice sempre in questi casi, ma mio fratello era un ragazzo semplice e deciso. E per quella sua decisione è morto». Che significa? «Era un pacifista. Ma in qualche modo anche un idealista. Eravamo insieme a vedere il telegiornale, a fine febbraio. Non si capacitava dell'aggressione russa e delle sofferenze del popolo ucraino: abbiamo visto Zelensky che chiedeva l'aiuto di tutti in nome della pace e della libertà. Mi ha detto: "Parto". E non c'è stato modo di fargli cambiare idea. È andato». «Un mercenario? Non scherziamo. Ben non è andato lì per soldi. Ma perché credeva fosse giusto. Ed è morto da eroe», hanno detto i suoi amici in queste ore ai carabinieri. È vero, sono tutti appassionati di guerra: le loro pagine social, i loro telefoni, sono pieni di fotografie in mimetica mentre giocano a soft air, la guerra era finta. Il loro team si chiama Tre Valli ma, per capire di cosa stiamo parlando, basta dire che la scorsa settimana al campo c'erano i ragazzi dell'oratorio. Anche per questo, Galli non era inserito nella lista dei foreign fighters italiani. Quelli sono 17 secondo l'ultimo censimento: 9 combattono con gli ucraini, 8 con i russi. Tra di loro c'era anche Eddy Ongaro, l'estremista di sinistra che combatteva con gli uomini di Putin, morto il 31 marzo scorso. Accanto a questa lista c'è poi un elenco di un'altra ventina di persone - la maggior parte dei quali hanno doppio passaporto italiano-ucraino - che hanno scelto di combattere con gli ucraini per convinzione. Sono saliti su un treno, si sono addestrati per due settimane. E hanno preso le armi. Proprio come aveva fatto Ben».
DRAGHI A NEW YORK “STATISTA DELL’ANNO”
Henry Kissinger ha premiato il nostro Presidente del Consiglio Mario Draghi come “Statista mondiale dell’anno” nella 57esima edizione del premio della Fondazione "Appeal of Conscience" presieduta da Rabbi Arthur Schneier a New York. Repubblica ha tradotto e stampato il testo della "laudatio" per Draghi pronunciato da Kissinger.
«Conobbi Draghi molti decenni fa e ho sempre avuto un enorme rispetto per lui. Ha dimostrato una straordinaria capacità di analisi intellettuale che si è concentrata sul migliorare le cose, non solo su un punto particolare. È diventato primo ministro quando il Presidente italiano ha deciso che aveva bisogno di un leader che, pur essendo al di sopra delle parti, fosse rispettato dai partiti. Era sicuro che qualsiasi proposta gli avesse presentato il primo ministro Draghi sarebbe stata basata su un'analisi del buon risultato da raggiungere e dell'interesse nazionale. È quindi il simbolo di una sfida della nostra generazione. E la sfida è che noi, come società, abbiamo un'enorme quantità di competenze tecniche, ma non siamo necessariamente in grado di concentrarle su ciò che ci prospetta il futuro che abbiamo davanti. Si tratta di una crisi importante, prima di tutto in ambito economico, con la crisi economica all'inizio del secolo, e poi con la crisi che viviamo oggi, e che riguarda il futuro della pace e del progresso nel mondo. Ha ricoperto incarichi importanti come direttore generale del Ministero del Tesoro, come presidente della Banca centrale europea e poi come primo ministro italiano. Mario Draghi è stato chiamato a svolgere compiti straordinariamente complicati perché si riteneva, e si è rivelato corretto, che avrebbe analizzato i problemi, che non li avrebbe affrontati da una prospettiva di parte e, quindi, nel corso dei decenni, ogni volta che Mario Draghi si è ritirato da uno di questi incarichi, si è trattato di un intervallo e mai di un ritiro definitivo. Nel tempo attuale, i dirigenti devono decidere come condurre il loro Paese, o l'unità che governano, da dove sono a dove non sono mai stati, e per farlo non solo è necessaria un'elevata conoscenza tecnica, ma bisogna avere anche coraggio e visione. Coraggio perché i leader devono muoversi su strade ancora sconosciute ma necessarie. E visione per gestire il rapporto tra ciò che si sta sviluppando e le necessità di ognuno. Al giorno d'oggi, il mondo ha raggiunto una tecnologia impensabile anche solo una generazione fa, ma le capacità sviluppate non tengono ancora il passo con le finalità da raggiungere. Se guardiamo al mondo, vediamo gli Stati Uniti e la Cina in conflitto verbale quasi ogni settimana, e il pericolo è che quando questo diventa parte integrante del pensiero di ciascuna parte, può accadere qualche incidente, qualche imprevisto che poi viene interpretato con l'ostilità che si è creata. Cina e Stati Uniti hanno quindi bisogno di dialogare, non solo per le questioni immediate del momento, ma anche per l'evoluzione del futuro. Guardiamo alla crisi ucraina e accogliamo con favore lo sforzo del popolo ucraino di mantenere la propria indipendenza e la propria libertà, ma dobbiamo anche considerare che cosa accadrà dopo la vittoria e quali saranno le relazioni tra l'Europa, un'Ucraina liberata e la Russia come entità storica. E in Medio Oriente la questione delle armi nucleari e della loro diffusione domina molte tensioni ed è la causa di molti per icoli. È quindi un grande privilegio per me parlare qui, per un uomo che credo abbia una capacità unica di analizzare le situazioni e contribuire alla loro soluzione. E può dare questo contributo a volte nel governo e a volte come consulente, ma il lavoro da lui svolto ha evidenziato che ha capacità analitica, coraggio e visione. Spero che sarà con noi per molto tempo nel suo ruolo costruttivo, e io lo osserverò, e che vada oltre il periodo che gli è stato concesso».
MATTIA FELTRI: “MA NOI NON SAPPIAMO CHE FARCENE”
Il commento ironico di Mattia Feltri sulla prima pagina della Stampa.
«Sarò un'inconsolabile vedova, ma le mie vesti si sono tinte di lutto alle immagini di ieri, di Mario Draghi premiato a New York da Henry Kissinger come statista dell'anno. Kissinger ha lodato «la sua straordinaria capacità di analisi» e «il coraggio e la visione» con cui ha governato la Banca centrale europea e l'Italia, per Joe Biden è stato «potente nel promuovere tolleranza e giustizia», e non dico gli altri perché sembrava un elogio funebre a elogiato vivo. Mezzi morti siamo noi, fenomeni che di quest' uomo non sappiamo che farcene, né a Palazzo Chigi né al Quirinale, ma qui sono alla mia solita geremiade. Però, per sovrapprezzo, due fenomeni degni campioni in un paese di fenomeni, Matteo Salvini e Giuseppe Conte, ieri sulla faccenda hanno detto la loro. Il primo ha rassicurato sull'inutilità di Draghi in un governo di centrodestra. Con tutto il rispetto, ha aggiunto. L'altro è salito all'ineguagliabile consegnando alla platea mondiale questo brocardo appulo: non è con un buon curriculum che si può governare un'emergenza energetica. Saranno loro due, insieme al resto della truppa, a cominciare da Giorgia Meloni, impegnata nelle stesse ore a chiamare coincidenze i rari punti d'accordo con Draghi, a disputarsi il ruolo di prossimo presidente del Consiglio. C'è poco da dire, questa è la democrazia e la democrazia è più forte di qualsiasi leader, compresi quelli piovuti dal cielo per grazia divina. In democrazia la sovranità appartiene al popolo, che la esercita anche attraverso il voto. Ed è il popolo a indirizzare il proprio destino, sebbene spesso se ne dimentichi e raramente glielo si ricordi».
L’ITALIA SPOSTA L’EQUILIBRIO NELLA UE
Secondo il retroscena di Francesco Verderami scritto per il Corriere della Sera la disputa elettorale sui rapporti intrattenuti dai nostri partiti con l’estero, a cominciare da Orbán, nasconde uno scontro reale sul futuro dell’Unione Europea.
«Nella contesa tra Meloni e Letta non è in gioco solo Palazzo Chigi. Il voto di un Paese fondatore dell'Europa avrà infatti un peso rilevante sugli equilibri politici nell'Unione. E la preoccupazione che si avverte in questi giorni dentro e fuori i confini nazionali è di veder trasformato l'appuntamento elettorale italiano in una data spartiacque anche per il Vecchio Continente. Il timore è che in prospettiva salti la «dottrina Merkel», quello schema di potere che a Bruxelles ha retto per vent' anni e in base al quale il Ppe ha sempre avuto nel Pse il suo tradizionale avversario ma anche il suo interlocutore privilegiato, con cui all'occorrenza stringere accordi. Senza mai far cadere il muro a destra. Ma il quadro sta mutando. Nella Repubblica Ceca il governo è guidato dai Conservatori insieme a due forze popolari. In Svezia la prossima maggioranza sarà targata Ppe-Ecr. E «in Spagna - sostiene un autorevole esponente di FdI - si preannuncia una maggioranza simile». Ovviamente l'Italia ha un peso specifico diverso e se le urne garantissero la nascita di un gabinetto Meloni, il processo di cambiamento acquisirebbe un'accelerazione nell'Ue. E la «dottrina Merkel» - come riconoscono nel Pd - sarebbe messa seriamente a repentaglio. Così si capisce perché il socialista olandese Timmermans - incurante del suo ruolo di vicepresidente della Commissione - si era scagliato contro l'ipotesi di un esecutivo di centrodestra a Roma. E si capiscono le ragioni che hanno indotto all'attacco (scomposto) della Spd verso «i postfascisti». Ma si capisce anche la sortita della leader di Fratelli d'Italia su Vox, che ha provocato la reazione del Pd e di Azione. Se è vero che «siamo in una politica sempre più intrecciata e sovranazionale», come dice il ministro democratico Orlando per giustificare il viaggio a Berlino del suo segretario, era ovvio che la parte finale della campagna elettorale piegasse su questi temi. E c'è un motivo se Calenda e Renzi hanno criticato la visita di Letta a Scholz: non è solo perché «certi endorsement sono controproducenti», o perché «se gli italiani decideranno non sarà il cancelliere a cambiarne i giudizi». Oltre al problema dell'«ingerenza» tedesca, il punto è che la Germania è vista dall'opinione pubblica nazionale come il Paese che oggi frena sul tetto europeo al prezzo del gas, mentre lo acquista dalla Russia a un terzo del costo per l'Italia. Tutte questioni che diventano armi propagandistiche per Meloni. L'approccio del commissario alla Giustizia Reynders - «lasciamo gli elettori liberi di scegliere tanto poi saranno gli atti di governo a contare» - è un modo per togliere Bruxelles dalla disputa ma anche una mossa astuta in attesa di vedere alla prova il centrodestra. Che alla vigilia del voto continua a mostrare crepe. La candidata a Palazzo Chigi derubrica le divergenze a «fisiologici distinguo» per la conquista del consenso, e non c'è dubbio che Lega e Forza Italia stiano cercando di uscire dal cono d'ombra per non essere cannibalizzate da FdI. Ma si avverte una divergenza di visione. Quando Berlusconi richiama la «signora Meloni» a un atteggiamento più europeista, e quando Salvini batte il tasto sulle sanzioni che «stanno arricchendo qualcuno e impoverendo noi», emergono contraddizioni proprio sulla linea di politica internazionale con l'alleata. E sono il preludio a un chiarimento che - secondo la presidente di FdI - il risultato delle urne potrà risolvere. Fino a un certo punto, però. Sicuramente c'entra il futuro assetto dell'esecutivo. Tajani che sottolinea come FI sarà «garante del prossimo governo e porrà l'Ue al centro dell'azione politica» sembra candidarsi alla Farnesina. Il segretario della Lega, che affida agli elettori «il compito di stabilire cosa farò», lascia capire che non ha smesso di pensare al Viminale e che non gradirà «tecnici» né agli Interni né all'Economia. Ma il problema politico è soprattutto legato alle differenze tra Meloni e Berlusconi sull'approccio con l'Unione e alle divergenze tra Meloni e Salvini sul conflitto ucraino. I loro avversari - dentro e fuori i confini - attendono di capire se il centrodestra italiano sarà in grado di dare un colpo di piccone a equilibri di potere che resistono da molto tempo in Europa».
CONTE-D’ALEMA ASSE ANTI DRAGHI
Il retroscena di Ilario Lombardo sulla Stampa riguarda invece l’alleanza, nel meridione ma non solo, fra Giuseppe Conte e Massimo D'Alema: la coppia anti-Draghi. L’intesa degli ex premier è contro il banchiere ma prefigura anche un cambio di leadership nel Pd.
«Nell'archivio dei ricordi di questa legislatura feroce, c'è una fotografia. 2019, settembre inoltrato: Giuseppe Conte arriva alla festa di Articolo Uno. L'avvocato è sopravvissuto a se stesso. È appena nato il secondo governo che porta il suo nome. La Lega di Matteo Salvini è naufragata nel mojito del Papeete, e al suo posto come partner del M5S sono subentrati il Pd e la sinistra. Qualche grillino si lecca le ferite sovraniste. Per esempio, Luigi Di Maio: in quei giorni è ancora il teorico del «mai con i democratici». Il ministro, appena traslocato agli Esteri, ha subìto il matrimonio di interessi con loro. Ad accogliere Conte, in prima fila, ci sono Roberto Speranza e Massimo D'Alema. Il primo è da pochi giorni ministro della Salute. Il secondo sta per diventare uno dei principali confidenti politici dell'allora premier. Conte si sente a casa e dice: «Mi fido del Pd». Esattamente tre anni dopo, tanti ruoli si sono capovolti. Di Maio corre in un seggio che gli ha lasciato il segretario dem Enrico Letta e se sarà eletto dovrà ringraziare quello che definì «il partito di Bibbiano». Tra Conte e il Pd il divorzio è stato rumoroso. E il primo non si fida più del secondo. L'avvocato, invece, non ha mai smesso di sentire e di confrontarsi con D'Alema. C'è una corrispondenza evidente tra i due ex premier, accomunati dallo stesso giudizio sul Pd, su Mario Draghi e sulla guerra in Ucraina. Quando Conte era a Palazzo Chigi, le telefonate con D'Alema erano già abbastanza frequenti. Ma il legame si è fatto via via più solido, quanto più si allargava la distanza dai democratici e, ancora di più, dal presidente del Consiglio uscente. C'è anche un po' di D'Alema dietro l'operazione che ha reso Conte un volto attrattivo per l'elettorato più a sinistra. Sicuramente c'è la sua benedizione, e il suo sostegno. Il presidente del M5S respinge l'idea che ci sia l'ex segretario del Pds dietro la sua strategia, ma non nega di sentirlo. «Certamente condividiamo lo stesso giudizio su Draghi» dice. Un giudizio che si è fatto meno sfumato, più netto e duro. Ecco, per esempio, cosa diceva l'altro ieri al telefono: «Draghi non ha compreso l'emergenza, e dimostra tuttora di essere lontano dalle difficoltà quotidiane dei cittadini. Prendiamo l'ultima conferenza stampa. Ha detto che tutto va bene, perché non siamo matematicamente in recessione? Con le bollette decuplicate?». Conte precisa che su Draghi ha mantenuto e manterrà la sua opinione sempre su un piano puramente politico. «Non ho mai voluto scendere sul personale, anche quando avrei potuto, come sulla famosa telefonata a Grillo». La telefonata in cui, secondo il comico fondatore del M5S, il premier gli avrebbe suggerito di mettere alla porta Conte. A due mesi dalla crisi di governo che ha portato alla caduta di Draghi e al termine di una campagna elettorale che è stata rapida e sorprendente, Conte sente di dover rimettere in ordine i fatti: «Quando lo fermai sulle armi, in primavera, mi disse che volevo la crisi di governo. L'inflazione era già fuori controllo e lui sosteneva che era solo passeggera. Ha sbagliato i calcoli». Concetti che ha ribadito nuovamente ieri in tv, nelle stesse ore in cui Draghi veniva premiato e celebrato a New York, seduto accanto a personalità come l'ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger: «Non è con il prestigio, l'abbiamo ormai toccato con mano, e non è con un buon curriculum che si può governare un'emergenza energetica come questa, che adesso sta sfuggendo di mano». Secondo Conte alcune soluzioni, come il tetto al prezzo del gas, andavano indicate molto prima. Alla radice però c'è una debolezza, spiega, che rende fragile tutto il sistema. «Va recuperata la politica, la dialettica tra i partiti e tra le idee». È un argomento che sostiene da mesi e che trova perfettamente d'accordo D'Alema, per il quale Draghi rappresenta «una delle più grandi rovine dell'Italia» proprio perché nel suo paradigma - di tecnico, di uomo dell'eterna emergenza, di salvatore chiamato dai partiti fuori da se stessi - vede l'umiliazione del Parlamento e la morte del primato della politica. Ma le affinità tra Conte e D'Alema sono anche su altro. I giudizi, quasi sovrapponibili, sulla guerra in Ucraina e sul rapporto di Draghi con gli Stati Uniti: «Completamente acquiescente e pedissequa a quella di Usa e Gran Bretagna» dice l'avvocato. Infine c'è il Pd. Il passato («il campo largo» di Letta inondato di rancore reciproco, sempre a causa di Draghi e della sua caduta), il presente (la lotta all'ultimo voto con il M5S), il futuro, che dipenderà dai risultati di domenica. Se il Pd sarà sotto il 20%, se Conte sfiorerà il traguardo degli ex alleati: cosa succederà? Si apriranno scenari nuovi per la sinistra italiana, sostiene in privato D'Alema: la sinistra dei diritti dei lavoratori, dei poveri, del reddito minimo, della diplomazia sempre e comunque, la sinistra che dice di intravedere «più nell'agenda di Conte che nel Pd».
LETTA AL GIORNALE: “SE VINCE, TOCCA ALLA MELONI”
Enrico Letta, segretario del Pd, viene intervistato da Augusto Minzolini sul Giornale. Dove conferma per l’ennesima volta il suo schema bipolare, trovando una corrispondenza di interessi.
«Con Enrico Letta siamo su due pianeti diversi. Eppure ha un senso sapere perché ha radicalizzato molto la campagna elettorale, perché ha ritirato fuori dal cassetto i fantasmi del passato, perché è convinto che Renzi non sia un uomo di parola. Il lato positivo, però, è uno solo ed è nell'ultima domanda. Gli chiedi se riconoscerà la vittoria dell'avversario senza puntare alla sua delegittimazione nel Paese e a livello internazionale: «Chi vince governa, è la democrazia dell'alternanza».
Speriamo che non siano solo parole. (…)Siamo ormai agli ultimi giorni di campagna elettorale. Lei ha provato a polarizzarla in uno scontro tra lei e la Meloni: le è convenuto?
«Con una legge elettorale iper-maggioritaria la polarizzazione è matematica. Dunque, non è una opinione. Vince il primo che compete contro il secondo. E i primi e i secondi siamo noi o la coalizione di destra».La Meloni ha detto che l'ha colpita quel tweet in cui ha tentato di spiegarle cosa significhi essere donna. Ha le sue ragioni, non crede?
«Sa qual è la differenza? Che se vince il centrosinistra Meloni può continuare a gestire la sua vita di madre, donna, cattolica, italiana come meglio crede. Se vince la destra e chi dice Dio, patria e famiglia, il rischio è veder contratti i diritti individuali, a partire da quelli delle donne. Basta guardare cosa accade nelle Marche sulla 194. Il suo è un modello intrinsecamente patriarcale. Il discrimine tra noi e loro sui diritti della persona è nella parola libertà. E mi stupisce che un liberale come lei non lo consideri dirimente».
In realtà, come ha scritto Alessandro Gnocchi su questo Giornale, i valori di Dio, patria e famiglia furono utilizzati per primo da Giuseppe Mazzini nel Risorgimento. Non sarebbe il caso di smetterla di fare campagne elettorali con gli occhi rivolti al passato?
«La Meloni si dichiara orgogliosamente conservatrice. Che significa conservare quel che c'è, quel che arriva dal passato. È legittimo, ma non si può far finta che non ci sia sottesa una forte matrice reazionaria. Quanto ai giudizi storici, lascerei stare Mazzini e il Risorgimento, le cui pulsioni libertarie poco si confanno all'utilizzo autoritario che nel Ventennio si fece della triade Dio, patria e famiglia». (…)Un'ultima domanda. Chi perderà le elezioni riconoscerà la vittoria dell'avversario, come avviene in ogni democrazia? O comincerà un'opera di delegittimazione interna e internazionale, anche sui mercati, per far saltare l'equilibrio uscito dalle urne? È successo in altre occasioni ed è stata una delle cause della rovina di questo Paese...
«Una delle pochissime cose che ci uniscono, con Giorgia Meloni, al di là del rispetto e della cortesia che ci si riserva tra avversari, è una visione bipolare della contesa politica. Destra e sinistra. Conservatori e progressisti. Chi vince governa. E io non ho alcuna intenzione di mettere in discussione la democrazia dell'alternanza».
“LA SINISTRA AIZZA LA STAMPA STRANIERA”
Maurizio Belpietro sulla Verità è invece molto critico verso il Pd e Letta, accusati di essere i veri ispiratori dei “dubbi” esteri sul futuro governo di centro destra.
«Ma di che cosa sono preoccupati i politici socialdemocratici, i mercati e i giornali? A spiegarlo è Repubblica, che in un commento chiarisce che «non si tratta di evocare il pericolo di un ritorno alla dittatura come l'hanno conosciuta i nostri padri e i nostri nonni. Ma di una postura, di un atteggiamento. E forse banalmente di un'educazione». Ecco, ora tutto è chiaro: Meloni e i suoi alleati sono maleducati, non hanno imparato il bon ton richiesto nei consessi internazionali, non si chinano a baciare la pantofola come auspicano i giornaloni che lanciano l'allarme democratico. Sì, in un Paese normale, con una sinistra che sia orgogliosamente italiana e non se ne vergogni, con una stampa che sia così scioccamente provinciale tanto da genuflettersi a qualsiasi osservazione che venga dall'estero, le critiche che piovono sugli esponenti di centrodestra verrebbero rispedite immediatamente al mittente, con una presa di posizione secca o, come dicevo, una pernacchia. Al contrario, da noi non solo tutto tace, ma si enfatizzano le scomuniche, titolando a tutta pagina e rilanciando le accuse nel dibattito politico. Tace il presidente della Repubblica di solito assai loquace, forse perché impegnato con i funerali della regina Elisabetta. Parla la grande stampa, che di grande ormai conserva solo la presunzione. E a proposito di informazione (si fa per dire), ieri mi è pure capitato di ascoltare un'intervista andata in onda sul servizio pubblico a Bernard-Henri Levy, in cui il filosofo francese attaccava pesantemente Giorgia Meloni, sollecitato dalle untuose domande di Marco Damilano, ex direttore premiato dalla Rai dopo il disastro dell'Espresso con una ben remunerata collaborazione. Il che mi ha riportato alla memoria quando, nel 2001, la tv di Stato e i giornali si mobilitarono contro l'attesa vittoria della Casa delle libertà. Comici, attori, grandi giornali: tutti contro Silvio Berlusconi e i suoi alleati. Ovviamente, il 13 maggio di 21 anni fa non fu instaurato un regime fascista, come qualcuno temeva, ma un normale governo. Tuttavia, fu chiara una cosa, ovvero che un gruppo di potere, composto da politici e giornalisti, e spalleggiato anche dall'estero, fino all'ultimo e anche dopo provò a sabotare la democrazia. Sì, questo è il solo fatto certo. Quanto al resto, cioè agli appelli di chi lamenta le interferenze internazionali (in passato ce l'avevano con la Cia, ora con Putin, ma gli unici che approfittano dell'aiutino estero sono loro), meritano solo la mia pernacchia».
ENERGIA, LA GERMANIA NAZIONALIZZA
La Germania nazionalizza il più grande importatore di gas del Paese: il colosso Uniper, a rischio fallimento. L'operazione di salvataggio potrà costare allo Stato 29 miliardi di euro e il Governo dovrebbe diventare azionista con il 78%. Isabella Bufacchi per il Sole 24 Ore.
«Uniper, il più grande importatore di gas in Germania, sarà nazionalizzato. Il colosso di Düsseldorf è finito nella morsa della crisi energetica ed è stato stritolato dalle due ganasce: lo stop del gas russo a basso costo, i contratti pluriennali a prezzi prefissati da onorare e l'impennata dei prezzi del gas sul mercato spot. L'operazione di salvataggio potrebbe costare allo Stato federale 29 miliardi di euro, ma tutti i dettagli si sapranno oggi. In un comunicato Uniper ha confermato ieri di essere in «trattative finali con il Governo Federale e con Fortum (gruppo finlandese azionista di maggioranza attuale ndr) per modificare il pacchetto di stabilizzazione del 22 luglio 2022», scattato quando il distributore di gas ha chiesto ufficialmente aiuto al governo. Si prevede ora un aumento di capitale da 8 miliardi di euro con esclusione dei diritti di opzione, che sarà sottoscritto esclusivamente dal governo federale e che diluirà la quota di Fortum al 10% circa. In aggiunta, il governo acquisirà le azioni Uniper detenute da Fortum, diventando azionista di maggioranza «con una quota consistente», il 78% secondo gli esperti. Uniper sarà dotata di una linea di credito da 8 miliardi garantita dallo Stato. La nazionalizzazione di Uniper è divenuta l'unica strada percorribile da Berlino, in quanto consente di mantenere in funzione il mercato e la distribuzione energetica domestica. La bancarotta di Uniper avrebbe scatenato un devastante effetto-domino sull'indotto, capace di innescare una crisi sistemica. Altre due società distributrici di gas, Sefe e VNG, potrebbero essere salvate dallo Stato federale prima di fallire, per gli stessi motivi di Uniper. Il problema è lo stesso: la mancanza di gas russo (per onorare contratti pluriennali con prezzi ante-crisi bassi) e gli alti prezzi del gas sul mercato ora. I distributori potrebbero appellarsi a cause di forza maggiore, per scaricare il rincaro sulla clientela finale: ma al governo questa soluzione non piace, dovendo intervenire in un secondo momento per risarcire la clientela per il caro-bollette. Resta però sul tavolo una nuova tassa sul gas, che dovrebbe entrare in vigore il primo ottobre e che servirebbe a scaricare in parte sui consumatori i maggiori costi dei distributori. Il conto per il salvataggio di Uniper resta salato per le casse dello Stato, soprattutto dopo l'annuncio di un terzo pacchetto di aiuti da 65 miliardi per famiglie e imprese (che porta il totale 2022 a quota 95 miliardi per la crisi scatenata dalla Russia) e un set di misure aggiuntive di sostegno alle Pmi (tramite soprattutto garanzie e prestiti KfW garantiti) fino a 67 miliardi. A complicare la tenuta dei conti pubblici, in vista del freno sul debito che il ministro delle Finanze Christian Lindner intende ripristinare nel 2023, è l'inflazione record abbinata all'arrivo della recessione. La Bundesbank pronostica una lieve contrazione del Pil nel terzo trimestre e un Pil significativamente negativo nel quarto trimestre 2022 e in tutti i mesi invernali, fino a inizio 2023. «L'elevata inflazione e l'incertezza sulla fornitura di energia e sui suoi costi non colpiscono solo l'industria ad alta intensità di gas ed elettricità e le sue attività di esportazione e investimenti, ma anche i consumi privati e i fornitori di servizi», ammonisce la banca centrale tedesca che pronostica un'inflazione a due cifre entro fine anno. A questo proposito, l'istituto federale di statistica Destatis ha reso noto ieri che in agosto l'indice dei prezzi alla produzione industriale in Germania è cresciuto del 45,8% su base annua, l'aumento anno su anno più elevato di sempre (+37,2% in luglio, +32,7% in giugno). Rispetto a luglio, l'indice è salito del 7,9%: anche questo un record. Il fattore principale per l'aumento dei prezzi è l'energia, ma non solo, sono stati registrati incrementi significativi anche per le altre categorie».
RAPPORTO SULLA RICCHEZZA, AUMENTANO LE DISEGUAGLIANZE
Secondo un rapporto di Credit Suisse, i super ricchi nel mondo, nell’era post covid, sono 5,2 milioni in più. Nicola Borzi per Il Fatto.
«La pandemia? Non è venuta per nuocere a ricchi e ultraricchi: dopo lo sbandamento del 2020 dovuto al crollo delle Borse, l'anno scorso la ripresa economica, il rimbalzo dei listini e gli aiuti delle Banche centrali hanno allargato il club dei milionari. Ma anche il fossato sempre più ampio della disuguaglianza che li divide dal resto della popolazione del pianeta. A dirlo non è qualche arrabbiato sostenitore della collettivizzazione dei fattori di produzione, vulgo comunismo, ma la 13esima edizione del Rapporto sulla ricchezza globale realizzato da Credit Suisse, che mappa ricchi e ultraricchi proprio per offrir loro i propri servigi. Ne emerge che l'1% della popolazione mondiale, nel 2021, possedeva il 45,6% della ricchezza planetaria, il cui totale era pari a 463 mila 600 miliardi di dollari. Nel 2019, il valore in mano all'1% dei più ricchi era "solo" del 43,9%. La somma in mano ai Paperoni è cresciuta del 9,8% in 12 mesi, molto oltre la media di aumento annuale del 6,6% registrata da inizio secolo. Depurata dell'effetto cambio, la crescita è stata addirittura del 12,7%, la più alta mai registrata. Il Covid dunque non solo ha accentrato la ricchezza, ma ha anche allargato il "club dei milionari" (in dollari), che a fine 2021 nel mondo contava 62,5 milioni di persone, ovvero 5,2 milioni di membri in più (+9%) dell'anno prima, e quello degli ultra facoltosi che possiedono almeno 50 milioni, cresciuti del 21% e concentrati soprattutto negli Stati Uniti e in Cina: gli adulti con ricchezza superiore a 100 milioni di dollari sono altri 84.490, 7.070 in più quelli con oltre 500 milioni. In larga parte cittadini degli Usa (30.470), seguiti dalla Cina (5.200), Germania (1.750), Canada (1.610) e Australia (1.350), mentre i superfacoltosi sono calati in Svizzera (-120), a Hong Kong (-130), Turchia (-330) e Regno Unito (-1.130). "Dall'analisi della ricchezza media per Paese e a livello globale risulta che la disuguaglianza globale è diminuita nel corso di questo secolo grazie alla crescita più rapida dei Paesi emergenti. Negli ultimi due decenni la famiglia media è stata così in grado di accumulare ricchezza", afferma Anthony Shorrocks, economista e autore del rapporto. Sarà: ma nel 2021 la disuguaglianza è aumentata non solo su base geografica ma anche di genere. L'anno della ripresa post-pandemica ha visto il solo Nord America accumulare metà dell'aumento della ricchezza globale, la Cina un quarto, l'Africa, l'Europa, l'India e l'America Latina solo dell'11%. Quanto alle donne, tra il 2020 e il 2021 su 26 nazioni che rappresentano il 59% della popolazione adulta mondiale, ben 15 Paesi tra cui Cina, India e Germania, hanno registrato un calo del patrimonio femminile. Credit Suisse prevede che entro il 2024 la ricchezza globale per adulto dovrebbe superare la soglia di 100 mila dollari e che nei prossimi cinque anni i milionari superino gli 87 milioni di persone. In Svizzera a fine 2021 ogni adulto possedeva in media su 696 mila dollari (+3% su base annua), il record mondiale. Seguivano Usa (579 mila), Francia (322 mila), Regno Unito (309 mila), Germania (257mila). In Italia la ricchezza media sarebbe di 231 mila euro pro capite, cresciuta su base annua del 3,1%. L'anno scorso la Penisola contava 1,41 milioni di milionari (in dollari). Un gruppo che, secondo Credit Suisse, dovrebbe crescere a 1,67 milioni nel 2026, con un aumento del 18%. Se nell'anno pandemico 2020 in Italia il risparmio lordo delle famiglie è stato in media pari al 17,4% del Pil, a fronte del 10,0% del 2019, nel 2021 è tornato al 15,2%. Quanto alla disuguaglianza, in Italia e Spagna la sua misurazione espressa dal coefficiente di Gini (zero significa nessuna disuguaglianza, 100 disuguaglianza massima) è passata dal 62,9 del 2000 al 68,2 nel 2021, mentre la quota di ricchezza posseduta dall'1% superiore della popolazione era del 23,8%. Per Francia, Germania e Gran Bretagna i dati rispettivi (73,2% e 25%) indicavano invece una disuguaglianza maggiore. Sebbene dunque sinora l'Italia compare solo nelle retrovie della classifica mondiale della disuguaglianza economica, anche nel Bel Paese le differenze patrimoniali durante e dopo la fine della fase acuta del Covid hanno ripreso a crescere, anche se in misura inferiore a quanto avviene in Francia, Germania e Regno Unito. Secondo Credit Suisse nella Penisola comunque il 10% della ricchezza appartiene a 20,69 milioni di persone e l'1% a 1,14 milioni di cittadini (milionari), mentre sarebbero solo 4.300 gli ultraricchi che possiedono 50 milioni - o più - a testa. Resta senza risposta una domanda: quanto sono attendibili questi dati per un Paese nel quale gran parte dei percettori di redditi e possessori di patrimoni medio-alti per decenni si sono avvantaggiati del "nero"?».
MORTO VIRGINIO ROGNONI, PER 5 ANNI AL VIMINALE
È morto Virginio Rognoni, importante esponente della Dc lombarda e ministro dal 1978. Prese il posto di Francesco Cossiga al Viminale. Per Repubblica Alessandra Ziniti.
«Cinque anni al Viminale con cinque governi negli Anni di piombo, un anno da Guardasigilli, due da ministro della Difesa. Sette legislature alla Camera e poi una seconda stagione sulla scena da vicepresidente del Csm nei primi anni 2000. Virginio Rognoni, scomparso ieri a 98 anni nella sua casa di Pavia, era uno dei grandi vecchi della politica italiana, una vita nella Democrazia Cristiana approdata poi nel Pd, di cui è uno degli autori del manifesto. Ma è stato anche uno degli uomini di potere che ha attraversato molte stagioni della vita della Repubblica. Anni molto controversi segnati dalla Guerra fredda sullo scacchiere internazionale, dalla lotta al terrorismo prima e da quella alla mafia in Italia poi: un lunghissimo rosario di eventi tragici, dal delitto Moro alle stragi di Ustica e Bologna, agli assassinii di Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio La Torre, caduti sotto i colpi di una guerra di mafia fino a quel momento sottovalutata. E poi, Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Vittorio Bachelet, uccisi dai terroristi. Ma sono anche gli anni dello scandalo della P2 e di Gladio. Con sé Virginio Rognoni porta anche le risposte mai date sulle ombre che caratterizzarono l'operato del Viminale in un altro degli eventi che segnarono la storia d'Italia nel 1982: l'attentato alla Sinagoga di Roma, che il 9 ottobre costò la vita ad un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché nell'attacco terroristico in cui rimasero ferite 37 persone. Nonostante le richieste della presidente dell'Unione delle Comunità Tullia Zevi, non solo il Viminale non rinforzò le misure di sicurezza ma, quella mattina, non c'era neanche la camionetta che di solito sostava davanti al Tempio Maggiore. Era la "festa dei bambini" e il commando palestinese entrò in azione indisturbato. Eppure - hanno rivelato recentemente gli atti desecretati - i servizi segreti interni per ben sedici volte avevano segnalato un attentato come «altamente probabile» proprio in occasione di festività ebraiche. Perché dunque l'allarme fu ignorato? A questo interrogativo Rognoni non ha mai voluto rispondere, neanche dopo la desecretazione degli atti quando, inutilmente, i componenti della commissione Moro II lo hanno invitato in audizione. A chiamare Virginio Rognoni alla guida del Viminale nel 1978 fu Giulio Andreotti, subito dopo le dimissioni di Francesco Cossiga in seguito al ritrovamento del corpo di Aldo Moro. La lotta al terrorismo è la sua prima mission che conduce richiamando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa alla guida del nucleo antiterrorismo dei carabinieri. C'è Rognoni al Viminale quando Dalla Chiesa scopre il covo delle Br in via Montenevoso a Milano ed è il ministro ad autorizzare la pubblicazione del memoriale di Moro rinvenuto nel covo. C'è sempre Rognoni quando il Viminale viene investito dalle polemiche per le presunte torture agli esponenti delle Br responsabili del rapimento del generale della Nato James Lee Dozier e quando il figlio del ministro del Lavoro Donat Cattin, accusato di terrorismo, riesce a fuggire in Francia. I primi anni Ottanta sono gli stessi in cui in Sicilia i vertici di Cosa nostra cominciano a puntare al bersaglio alto, ma saranno necessari un delitto eccellente dietro l'altro prima che lo Stato prenda sul serio la minaccia mafiosa: cadono Piersanti Mattarella, il generale Dalla Chiesa (i cui appelli erano rimasti inascoltati), cade il segretario regionale del Pci Pio La Torre. Proprio con lui Rognoni stava lavorando a quella legge (che porta il loro nome) che introduce il reato di associazione mafiosa e la confisca dei patrimoni.
Nel '92, con la fine della Prima repubblica anche Virginio Rognoni esce di scena, ma nel 2002, da vicepresidente del Csm, sarà protagonista di una nuova stagione, diventando punto di riferimento di buona parte della magistratura italiana che vede minacciata la propria autonomia e autorevolezza negli anni della crociata di Berlusconi contro le toghe».
LA LUNGA MARCIA DEI CATTOLICI, ANCHE DOPO IL VOTO
Convegno all'Istituto Sturzo, nell'anniversario della breccia di Porta Pia, sul futuro dei cattolici nella vita pubblica italiana. La cronaca è di Angelo Picariello per Avvenire.
«Inizia dal 26 settembre la 'lunga marcia' dei cattolici. Un parterre, e un uditorio, di tutto rispetto ieri all'istituto Sturzo a discutere di Cattolici e politica, ieri e oggi, dove 'ieri' è riferito alla data simbolo della questione cattolica, il 20 settembre, nell'anniversario della breccia di Porta Pia del 1870. E dove l'oggi è riferito invece a una campagna elettorale che volge al termine in cui i cattolici e chi ispira la sua azione in direzione del bene comune, non si è certo trovato a suo agio. C'è da tener conto, come ha detto nell'introduzione il presidente dello 'Sturzo', Nicola Antonetti, che «è stato prosciugato, nel frattempo, il ruolo del Parlamento e conseguentemente quello dei partiti, per inseguire delle prospettive leaderistiche e populistiche». Cosicché, ragiona Marco Damilano, «il quadro che la Costituzione aveva fotografato, in cui i partiti, tutti, erano centrali, è venuto meno». Ma per l'ex direttore dell'Espesso «più che di 'eclissi dei cattolici', di cui parla Galli Della Loggia, si dovrebbe parlare di 'eclissi di tutti', essendo venuta meno tutta un'idea di mediazione alla base dell'agire politico». In questo quadro, piuttosto sconfortante, ai cattolici, per Damilano, tocca il compito di riscoprire la politica «come più alta forma di carità», come la definì Paolo VI. Analogamente Giuseppe De Rita vede superata «da 15-20 anni» quella contrapposizione «laici-cattolici, con da un lato lo Stato e la politica e dall'altro la Chiesa e i cattolici». Perché mentre «armi e finanza in politica oggi si autoriproducono», i valori dello Stato e quelli dei cattolici non trovano modo di affermarsi, nell'attuale scenario politico. Il compito dei cattolici, per il fondatore del Censis, è quello di riprendere a «valorizzare il ruolo dello spirito». Tuttavia, «non è che dal 1994 i cattolici sono scomparsi» ricostruisce Agostino Giovagnoli, ma qualcosa è cambiato da quando «è stato imposto il maggioritario »: nel tempo «la politica è diventata un luogo inospitale non solo per i cattolici, ma per tutti coloro che sono preoccupati del bene comune». I cattolici «sono stati spinti - per lo storico della 'Cattolica' moralmente all'opposizione», non solo di uno schieramento politico, «ma di un certo tipo di Repubblica non del tutto democratico. Ad esempio - conclude - i cattolici sono per la pace, ma nessun partito si è fatto carico sul serio di questa aspirazione che vive il 60% degli italiani». Marco Tarquinio cita il titolo di un editoriale proprio di Giovagnoli su Avvenire e parla di «irrilevata rilevanza dei cattolici», i quali «hanno raddoppiato il loro impegno nel sociale, ma manifestano una distanza ostentata e dolorosa dalla politica ». Un distacco originato da «una politica che seleziona i propri adepti per cooptazione non è una politica fatta di persone, non riesce ad aggregare la speranza nei territori». Sulla pace il direttore di Avvenire concorda con Giovagnoli: «Moro, ma anche Andreotti - constata amaramente - avrebbero saputo fare di meglio». Ma ora per Stefano Zamagni, «i cattolici non possono limitarsi al pre-politico, debbono contribuire al bene comune, come insegna San Tommaso». E debbono organizzarsi, «perché un lievito di un grammo non crea nessun effetto se la pasta è di 10 chili». Concorda, nelle conclusioni, Andrea Riccardi, sulla tesi della «eclissi di tutti» e sui «corpi intermedi diluiti» dall'attuale politica. Ma «l'ultimo corpo intermedio rimasto è la Chiesa», annota il fondatore della Comunità di Sant' Egidio. «E contro questa condanna all'auto-irrilevanza occorre una fede che si fa cultura. Dal basso, senza nessun dirigismo».
MYANMAR, STRAGE DI BAMBINI
Nel Myanmar gli elicotteri della giunta militare mitragliano per un'ora intera una scuola. Almeno 13 morti, tra cui 11 bambini. Sara Perria per La Stampa.
«Per un'intera ora, elicotteri militari Mi 35 hanno sparato contro una scuola in Myanmar, uccidendo almeno 13 persone fra cui 11 bambini. A ricordare la recrudescenza delle violenze in atto nel Paese del sudest asiatico sono le notizie riportate prima da Radio Free Asia e dal sito Irrawaddy, poi riprese dall'Unicef e dall'organizzazione non governativa Save the Children. La scuola - un asilo e l'equivalente delle nostre elementari - si trova dentro un monastero e al momento dell'attacco ospitava più di 200 allievi del villaggio di Let Yet Kone, nella regione di Sagaing. Si tratta di un'area centrale, confinante con l'India e di etnia mista, divenuta il teatro degli scontri più intensi fra i militari fautori del colpo di Stato del febbraio 2021 e gli oppositori armati e uniti sotto la sigla di People' s Defence Force (PDF), fra le cui fila si annoverano perlopiù giovani, inclusi studenti universitari. I militari avrebbero effettuato uno dei frequenti controlli a sorpresa nel villaggio, a cui sarebbero seguiti attacchi dei gruppi ribelli. La violentissima risposta dei militari è avvenuta venerdì scorso e ricalca una tecnica rodata in decenni di scontri con le milizie etniche, prendendo di mira il villaggio dove si rifugiano i combattenti, senza alcun distinguo con la popolazione. Dinamiche simili si sono viste anche nel recente passato, durante la pulizia etnica della minoranza musulmana Rohingya. La Tatmadaw, come viene spesso designato il corpo militare birmano, ha però affermato in un comunicato che dentro la struttura si nascondevano non solo membri della guerriglia PDF, ma anche soldati della ben addestrata Kachin Independence Army. I militari accusano i gruppi, denominati «terroristi», di aver usato i civili come scudi umani, lanciando attacchi dalla scuola e nascondendo 16 bombe. Secondo la ONG Save the Children, però, nel 2021 ci sarebbero stati un totale di 190 attacchi contro scuole, mettendo in grave pericolo la vita dei bambini e il loro diritto a proseguire gli studi. Secondo le ricostruzioni dei testimoni, i militari avrebbero prima sparato dagli elicotteri, per poi entrare nell'edificio, provocando morti e feriti. Il governo civile parallelo denominato di Unità Nazionale ha richiesto il rilascio di 15 bambini e insegnanti che sarebbero stati portati via dai militari. L'agenzia di stampa Reuters riporta anche la testimonianza di due abitanti del villaggio, secondo cui due corpi sono stati prelevati e immediatamente sotterrati in un villaggio vicino.
Altri feriti sono in ospedale, mentre circa 2mila persone sono fuggite dall'area interessata dagli scontri. Secondo le Nazioni Unite, all'inizio del colpo di Stato sono state circa 440mila le persone sfollate all'interno del Paese, per un totale di 800mila persone, oltre al milione circa di Rohingya musulmani costretti alla fuga nel confinante Bangladesh. Anche durante la repressione della minoranza sono stati ritrovati corpi di abitanti dei villaggi accusati di essere conniventi o combattenti di gruppi ribelli. «Molti di quei bambini morti avevano l'età dei miei studenti», dice Aung Moe, insegnante nella regione con un nome fittizio per proteggere la sua identità, al telefono con La Stampa. «È terribile, perché non posso fare nulla per proteggerli». «Cos' è il coraggio, cos' è la verità? Mi sembra che di noi non importi nulla a nessuno», dice ancora la giovane insegnante, riferendosi alla scomparsa della Myanmar dalle pagine dei giornali. «A volte ho paura perché sento che anche la mia umanità se ne sta andando. Mi sento insensibile di fronte alla violenza e a questi atti orrendi, ma non voglio che questo succeda ad altri, e non voglio che i miei studenti si sentano in colpa per il semplice fatto di riuscire a studiare, a causa di quello che sta succedendo ad altri loro coetanei». Nelle stesse ore dell'attacco alla scuola, la giunta birmana ha annunciato la possibilità di arresto anche per un like ai post dei gruppi di opposizione sui social. Persino personalità di spicco come l'ex ambasciatrice britannica Vicky Bowman sono state colpite, divenendo uno dei 15mila prigionieri dall'inizio del colpo di Stato che ha estromesso la Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, anche lei agli arresti. I morti sarebbero finora circa 2,300, secondo la Ong di Bangkok Associazione di Assistenza per i Prigionieri Politici».
IRAN, DONNE IN PIAZZA PER MAHSA
Cinque morti nel Kurdistan iraniano fra le manifestanti per Mahsa Amini, uccisa dalla “polizia morale” perché non indossava bene il velo. Farian Sabahi per il Manifesto.
«Zan, zendeghì, azadì (donna, vita, libertà) è uno degli slogan dei dimostranti che in questi giorni protestano per la morte della ventiduenne Mahsa Amini, arrestata e malmenata dalla polizia morale perché non indossava il velo secondo lo stretto dettato della Repubblica islamica. Se inizialmente le forze dell'ordine utilizzavano lacrimogeni e pallottole di gomma per disperdere i dimostranti, ora nel Kurdistan iraniano i morti sarebbero almeno cinque. Secondo il governatore di questa provincia, le vittime sarebbero state «uccise con armi non utilizzate dalle forze di sicurezza iraniane». Si tratterebbe quindi di «un complotto fomentato dal nemico». Se le autorità della Repubblica islamica cercano di scaricare la colpa della morte dei dimostranti su potenze straniere, in merito all'uccisione di Mahsa Amini la polizia parla di «incidente» e adduce presunte malattie pregresse, smentite dai famigliari. La morte di Mahsa Amini dopo tre giorni di coma sta convogliando nelle piazze la rabbia degli iraniani, esasperati dalla crisi, dall'aumento vertiginoso dei prezzi, dalla disoccupazione e dal giro di vite nei confronti delle donne. Obbligate a coprire i capelli con il foulard, ma anche discriminate da un sistema giuridico secondo cui la loro testimonianza in tribunale vale la metà rispetto a quella di un uomo, ricevono il cinquanta percento di risarcimento in caso di ferimento e di morte violenta, ereditano la metà rispetto ai fratelli, faticano a ottenere il divorzio e ancor più la custodia dei figli. Inoltre, vengono escluse da certe facoltà universitarie a causa delle quote azzurre introdotte anni fa dal governo dell'ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad per garantire i posti in aula agli studenti di sesso maschile. Oltre alle donne, il giro di vite colpisce anche le minoranze religiose (in particolare i bahai) e la comunità Lgbtqia+. Le proteste di questi giorni attirano l'attenzione internazionale e, anche per questo motivo, il presidente Ebrahim Raisi ha chiesto di aprire un'inchiesta sulla morte di Mahsa Amini. Ora, l'uccisione di questa ragazza sta mettendo in discussione l'esistenza della stessa polizia morale. Lunedì circolavano voci di una rimozione o una sospensione del capo della Gasht-e Ershad, la «pattuglia della morte», circostanza negata dalla polizia di Teheran. In questi giorni di proteste, in diverse parti dell'Iran, centinaia di manifestanti ne hanno invocato l'abolizione, e ora anche alcuni parlamentari hanno chiesto la revisione e persino l'abolizione di questo corpo inviso alla popolazione. Il deputato Jalal Rashidi Koochi ha dichiarato che la polizia morale «non ottiene alcun risultato, se non quello di causare danni al Paese». Il presidente del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf, già sindaco di Teheran, ha chiesto che la condotta della polizia morale sia oggetto di un'inchiesta: per evitare che si ripeta quanto accaduto a Mahsa Amini, dice il presidente del Parlamento, «i metodi utilizzati da queste pattuglie dovrebbero essere rivisti». Ancora più radicale un altro parlamentare, Moeenoddin Saeedi, che intende proporre l'abolizione totale della polizia morale e infatti ha dichiarato: «A causa dell'inefficacia del Gasht-e Ershad nel trasmettere la cultura dell'hijab, questa unità dovrebbe essere abolita, in modo che i bambini di questo Paese non ne abbiano paura quando vi si imbatteranno». Se l'obbligo del velo è la punta dell'iceberg di un sistema che non garantisce l'uguaglianza di genere, la sua abolizione minerebbe le basi della Repubblica islamica perché a introdurlo era stato l'Ayatollah Khomeini nel 1979 all'indomani della rivoluzione che aveva portato alla fine della monarchia. Insieme allo slogan «Morte all'America», il foulard è uno dei principi cardine della Repubblica islamica. Se lo slogan danneggia l'Iran sul fronte internazionale, isolandolo, l'obbligo del velo fa sì che una parte della popolazione si rivolti contro le autorità. Entrambi i principi sono nocivi per il benessere degli iraniani. Sarebbe più saggio lasciar perdere sia l'uno sia l'altro. Ma il pragmatismo è stato sepolto l'8 gennaio 2017 con le spoglie mortali del suo maggior fautore, l'ex presidente Ali Akbar Rafsanjani.».
NICARAGUA, ORTEGA CANCELLA ALTRE 100 ONG
Il regime di Ortega mette fuori legge altre Organizzazioni non governative in Nicaragua. Paola Del Vecchio per Avvenire.
«Non c'è fine alla violenza politica in Nicaragua. Il governo di Daniel Ortega ha cancellato la personalità giuridica di altre 100 Organizzazioni non governative, accusate di irregolarità amministrative o finanziarie. Con queste, il numero di Ong messe fuorilegge da inizio anno dal regime è salito a 2.000 delle circa 6.000 registrate, stando ai dati della Gazzetta Ufficiale di Managua citati da La Prensa. L'ultima lista include l'Associazione di smobilitati della resistenza, di cui fanno parte vecchi membri della "Contra"' che combatterono i sandinisti durante la guerra civile negli anni Ottanta. Ma anche organizzazioni mediche, ambienta-liste, di sviluppo comunitario e di assistenza ai collettivi a rischio. E a un mese dagli arresti domiciliari imposti al vescovo di Matagalpa, monsignor Rolando Álvarez, detenuto nell'ambito di un'inchiesta per presunto «incitamento all'odio » - senza che sia stata formalizzata alcuna accusa - il pugno di ferro del regime torna ad accanirsi sulla Chiesa. Ieri agli arresti domiciliari "virtuali" sono finite le statue dei Santi Jerónimo e Miguel de Arcangel nella chiesa di Masaya, a 18 chilometri da Managua, dopo che la polizia ha vietato le tradizionali processioni per le festività patronali, le maggiori nel Paese. L'arcidiocesi di Managua spiega che le celebrazioni, previste per il 29 e il 30 settembre, sono state interdette «per ragioni di sicurezza pubblica». Otto religiosi che accompagnavano il vescovo Álvarez al momento dell'arresto, fra cui quattro sacerdoti, sono ancora rinchiusi nel carcere di El Chipote, un noto centro di tortura dei prigionieri politici. Altri due sacerdoti sono stati condannati per reati comuni, mentre almeno altri sei hanno lasciato clandestinamente il Paese per salvarsi la vita. Come gli oppositori e la stampa indipendente smantellata dal regime, sono considerati «ostili» per aver criticato la feroce repressione delle proteste del 2018 contro il regime di Ortega e della moglie, Rosario Murillo».
BRASILE, LULA IN VANTAGGIO SU BOLSONARO
La rivincita di Lula: dal carcere verso la presidenza del Brasile. I sondaggi lo danno in netto vantaggio su Bolsonaro per le elezioni del 2 ottobre. Il reportage di Luca Veronese per il Sole 24 Ore.
«Per Lula le elezioni del 2 ottobre potrebbero segnare l'inizio di una nuova vita, un'altra, la quarta dei suoi 76 anni intensi, fatti di successi clamorosi e di alcune pesanti batoste. Da sindacalista a presidente del Brasile, poi reietto e incarcerato con gravissime accuse di corruzione nello scandalo Petrobras. E oggi di nuovo in corsa per la presidenza. I sondaggi lo danno in vantaggio, gli Stati Uniti di Joe Biden stanno con lui, nonostante l'ideologia di sinistra, per togliere di mezzo Jair Bolsonaro, il Trump dei Tropici, populista e conservatore, che ha deluso anche il mondo imprenditoriale e gli investitori internazionali. I Brics con Lula potrebbero trovare un equilibrio sulla guerra in Ucraina più vicino all'Occidente, lasciando Vladimir Putin ancora più isolato: lo stesso Lula ha accusato l'Europa di «non avere insistito abbastanza per cercare un dialogo tra Mosca e Kiev», ma Bolsonaro anche ieri si è schierato contro le sanzioni alla Russia. Più difficile, comunque vada, allentare i legami con la Cina che ormai è il primo partner commerciale con almeno il 30% dell'interscambio complessivo del Brasile.
«Lula ascolta tutti, media e poi cerca una via che protegga gli interessi del suo Paese, fa sempre così, in casa e fuori», ci dice sulla spiaggia di Botafogo, Carlos, mentre prepara un batido di mango. È così anche sulla scena internazionale, nei rapporti con la Russia o l'Iran, o con i governi latinoamericani più discussi, dalla Bolivia al Venezuela. «Ricordo - dice un suo collaboratore - quando gli Usa gli chiesero di sostenere la guerra in Iraq e lui, senza farsi troppe domande, rispose che non aveva nessuna guerra da combattere così lontano da casa e che l'unica guerra che aveva un senso era quella contro la fame del popolo brasiliano». Nella prima vita, negli anni 70, con il Brasile oppresso dalla dittatura militare, Lula è un operaio e un capo del sindacato dei lavoratori metallurgici dell'Abc: nell'area più industrializzata del Paese, a sud di San Paolo, nelle fabbriche di automobili dei grandi gruppi mondiali, Ford, Volkswagen, Mercedes. A meno di trent' anni, Luiz Inacio Lula da Silva è già per tutti Lula, leader naturale, politico carismatico, all'inizio di una corsa inimmaginabile per lui nato in una famiglia povera di Cates, cittadina nel Pernambuco: dalla fondazione del Partido dos Trabalhadores, il Partito dei lavoratori (assieme a intellettuali, economisti e altri dirigenti sindacali), fino al Congresso e alle campagne che lo porterenno a diventare presidente della Repubblica, al quarto tentativo, nel voto del 2002 e poi, per una seconda legislatura nel 2006. Nei suoi otto anni al governo, il Brasile attraversa la più forte crescita economica della sua storia democratica: sfrutta in pieno il boom globale delle materie prime e pur aumentando la spesa in programmi di welfare, riduzione della povertà e infrastrutture, riesce a tenere sotto controllo i conti pubblici riducendo il debito dall'80 al 60% del Pil. Per milioni di brasiliani sono gli anni del rilancio. «C'è una memoria affettiva molto resiliente dei programmi di inclusione realizzati da Lula e poi da Dilma Rousseff. Una memoria che porta consenso ancora oggi», spiega Creomar de Souza, del think tank brasiliano Dharma Political Risk and Strategy. Il Brasile arriverà nel 2012 ad essere la sesta economia mondiale per poi crollare rapidamente al dodicesimo posto. Lula resta alla presidenza fino al 2010, quando dopo due mandati, deve lasciare il Palacio do Planalto di Brasilia: designa come erede la fedelissima Dilma Rousseff, che sarà la prima donna a ricoprire la massima carica dello Stato. Lula è sempre il riferimento assoluto di tutta la sinistra brasiliana, il simbolo del riscatto delle classi più povere. Fino agli scandali di corruzione che lo portano in carcere per ben 580 giorni (in gran parte senza una condanna definitiva), prima di essere prosciolto da ogni accusa nel marzo dello scorso anno da una sentenza della Corte suprema federale. L'operazione Lava Jato, operazione autolavaggio, che prende il via nel 2014 e lo coinvolge, è una vicenda torbida e ancora non chiarita che travolge Petrobras, la compagnia petrolifera brasiliana, e tutta la maggioranza di governo. Rousseff è costretta a dimettersi, Lula va in carcere, dove vive la sua terza vita, urlando però la sua innocenza e accusando la magistratura e la destra di avere organizzato un complotto per colpirlo, per bloccare la sua ricandidatura alla presidenza. Lo zoccolo duro del partito dei lavoratori gli crede, l'opinione pubblica lo attacca. Sembra tutto finito, lo scandalo Petrobras (connesso con altri filoni) è il più grave nella storia del Paese, una valanga inarrestabile: mille persone indagate, tra manager, funzionari ed esponenti politici in una dozzina di Paesi; oltre 400 incriminazioni e 150 condanne. Lo stesso Lula nei giorni scorsi ha ammesso che «sì, anche nel mio governo c'è stata corruzione» ma ha rivendicato la propria estraneità alla vicenda. Secondo le prove portate nei vari processi, dalle casse della compagnia petrolifera, tra appalti gonfiati (soprattutto per i giacimenti off-shore), mazzette ai politici, fondi neri, malversazioni e ruberie varie sono stati distratti almeno dieci miliardi di dollari, un'enormità. La Corte suprema federale ha tuttavia annullato, l'anno scorso, per motivi procedurali le sentenze del tribunale che aveva condannato Lula a dieci anni di carcere, diventati 17 in appello. Azzerata dunque l'accusa portata avanti dal magistrato Sergio Moro, che intanto, tra fortissime polemiche, viene chiamato a fare il ministro della Giustizia da Bolsonaro, eletto presidente proprio nel mezzo delle vicende giudiziarie di Petrobras, nel 2018. La quarta vita di Lula, inizia appena viene prosciolto e riottiene il diritto di candidarsi alla presidenza. A dargli forza da subito, assieme alla terza moglie, Rosangela da Silva (sociologa che lo aveva sostenuto mentre era in carcere con cui si è sposato lo scorso maggio), sono stati i militanti del Partito e i sondaggi: anche nell'ultima rilevazione pubblicata lunedì notte dalla brasiliana Ipec, il leader della sinistra è dato al 47% dei consensi, in vantaggio su Bolsonaro di 16 punti percentuali e non lontano da una vittoria già al primo turno quando per diventare presidente serve il 50% più uno dei voti. Meno netti i risultati previsti dalla media dei sondaggi delle ultime due settimane nei quali comunque Bolsonaro è indietro di cinque punti. In molti si chiedono che Lula ci troveremo davanti se dovesse davvero vincere le elezioni. La campagna elettorale è stata dura e molto ideologica, quasi priva di spazi di approfondimento. A volte è prevalsa la voglia di rivincita, se non di vendetta con attacchi diretti a Bolsonaro paragonato a Hitler. Ma Lula ancora una volta ha mostrato anche tutte le sue capacità di mediazione mettendo assieme molte anime della politica brasiliana: negli ultimi giorni ha ricevuto l'appoggio pubblico (non scontato) dell'ex governatore della Banca centrale ed ex ministro Henrique Meirelles, ma anche quello dell'ambientalista Marina Silva, che in passato si era candidata alla presidenza sfidando il Partito dei lavoratori. Di certo Lula, nonostante l'età e alcuni problemi di salute, ha mostrato tutta la voglia di iniziare una nuova vita, la quarta, come presidente del Brasile».
I VESCOVI BELGI E LA BENEDIZIONE ALLE COPPIE OMOSESSUALI
Con una decisione a sopresa, in Belgio i vescovi cattolici autorizzano la benedizione delle coppie gay, nonostante il recente pronunciamento del Vaticano in senso contrario. Matteo Matzuzzi per Il Foglio.
«I vescovi belgi di lingua fiamminga, insieme al cardinale arcivescovo di Malines-Bruxelles, Jozef De Kesel, hanno pubblicato un documento che autorizza la benedizione delle coppie omosessuali. Il testo, che si compone di una preghiera e di una benedizione, è stato reso noto sul sito internet della Conferenza episcopale locale. La decisione è dovuta al fatto che numerose coppie gay "spesso domandano durante gli incontri pastorali un momento di preghiera in cui si chieda a Dio di benedire questo impegno di amore e fedeltà". Si tratta di un gesto di rottura con il Vaticano, che solo un anno e mezzo fa aveva chiarito con un responsum ad dubium (risposta a un quesito formale) che la benedizione non è consentita. Il motivo è chiaro. "Non è lecito impartire una benedizione a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio", e "poiché le benedizioni sulle persone sono in relazione con i sacramenti, la benedizione delle unioni omosessuali non può essere considerata lecita, in quanto costituirebbe in certo qual modo una imitazione o un rimando di analogia con la benedizione nuziale". In sostanza, la Chiesa "non benedice né può benedire il peccato: benedice l'uomo peccatore" e per queste ragioni "non dispone, né può disporre, del potere di benedire unioni di persone dello stesso sesso". I vescovi fiamminghi non hanno tenuto conto del chiarimento dell'ex congregazione per la Dottrina della fede e, primi nel mondo, hanno messo per iscritto un testo che godrà di piena legittimità. Il portavoce della diocesi della capitale belga ha detto che il documento non è stato sottoposto - prima della sua pubblicazione - al vaglio del Vaticano. I presuli hanno sottolineato che con questa decisione si risponde "concretamente" alla volontà di "prestare un'attenzione esplicita alla situazione delle persone omosessuali, dei loro genitori e della famiglia". Il tutto, sempre a loro giudizio, sarebbe stato "esplicitamente espresso da Papa Francesco nell'esortazione apostolica Amoris laetitia". In ogni caso, specificano i vescovi di lingua fiamminga, deve restare ben chiara la differenza "con ciò che la Chiesa intende per matrimonio sacramentale". E' stato istituito anche un punto di contatto per i credenti appartenenti alla comunità lgbt in cui si potranno porre domande sul rapporto tra fede e sessualità e ricevere, se necessario, assistenza. Il coordinatore della struttura (inglobata nel servizio per la pastorale famigliare), Willy Bombeek, ha definito l'operazione "rivoluzionaria", una cosa mai accaduta prima nella storia della Chiesa cattolica. Lui, Bombeek, si definisce "gay e credente" e si è detto orgoglioso che i vescovi abbiano voluto un cattolico lgbt in questa posizione. Qualche mese fa, la diocesi di Liegi aveva pubblicato un opuscolo intitolato "Accogliere, accompagnare, portare nella preghiera il progetto di vita condiviso dalle persone omosessuali" il che induce a pensare che presto anche i vescovi francofoni s' accoderanno ai confratelli fiamminghi. Si tratta di un coup de théâtre: mentre gli occhi erano rivolti a comprendere quanto sta accadendo in Germania con il Cammino sinodale, a muoversi erano i vescovi belgi. Si vedrà ora quale sarà la reazione di Roma (ammesso che ci sia): se è vero che il responsum fu reso noto con la firma dei vertici dell'ex Sant' Uffizio, è altrettanto noto che secondo diverse ricostruzioni di ambienti vicini al Papa quest' ultimo non sarebbe stato pienamente informato del no esplicito contenuto nel chiarimento curiale».
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