"Soluzione urgentissima"
Interviene Mattarella sui migranti. Anche Meloni e Macron a Parigi trovano un'intesa. La Ue deve decidere. Lula a Roma: "Sogno la pace". Oggi parte la Maturità. Scontro su Padova e su Davigo
L’emergenza è tale che anche i rapporti tra Italia e Francia, fortemente contrastati da diversi mesi, devono fare i conti con la necessità di una solidarietà europea. E così, nella Giornata mondiale del Rifugiato, Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron provano a ragionare sui migranti e a trovare strategie comuni, dopo il terribile naufragio al largo della Grecia di sette giorni fa. Come dice la nostra premier, la politica estera non è “materia di due ragazzini che litigano e fanno pace. Ci sono interessi delle nazioni che vengono prima di tutto e mi pare che ci siano diversi punti comuni tra Italia e Francia”. Fra questi sicuramente il tentativo di costruire una nuova fase di cooperazione con i Paesi africani per impedire le partenze. Anche Ursula Von der Leyen si è sentita in dovere di far sentire l’intenzione dell’Unione Europea di muoversi. Nelle prossime settimane vedremo concretamente che cosa i 27 riusciranno a mettere in campo. Il nostro capo dello Stato Sergio Mattarella, ricordando anche lui la Giornata del Rifugiato, ha ribadito che «le iniziative di assistenza a queste persone — specie ai rifugiati che sono in condizioni di particolare vulnerabilità — devono essere accompagnate dalla ricerca di un’indispensabile e urgentissima soluzione strutturale di lungo periodo». È necessaria un’azione «di respiro europeo e internazionale», in grado di «intervenire sulle cause profonde che spingono un così gran numero di esseri umani bisognosi ad abbandonare i loro Paesi. Meritano opportunità alternative ai rischiosi viaggi che, spinti dalle circostanze, intraprendono in condizioni anche proibitive». Il Manifesto propone oggi un’intervista allo zia di Alan Kurdi, trovato morto il 2 settembre 2015 sulla spiaggia turca di Bodrum. Il bambino la cui immagine fece il giro del mondo. Dalle indagini in Grecia, emerge che il peschereccio si sarebbe inabissato dopo un tentativo di traino verso l’Italia, causando 634 vittime. Un centinaio i bambini.
Nel mondo crudele del 2023 è poi la guerra a dominare la scena. Le ultime notizie dall’Ucraina raccontano di uno stallo da entrambi i fronti, con la tentazione attribuita a Mosca dal presidente Usa Joe Biden di ipotizzare armi tattiche nucleari. E con il sospetto, espresso da Domenico Quirico sulla Stampa, che la Nato voglia entrare in guerra direttamente per chiudere la partita. In una bella intervista al Corriere della Sera, il presidente brasiliano Lula, oggi in visita in Italia, dice: «Ho mandato un inviato speciale, Celso Amorim, a Mosca e a Kiev. Entrambi i Paesi credono di poter vincere militarmente: non sono d’accordo. Credo che ci sia troppa poca gente che parli di pace. La mia angoscia è che con così tante persone che soffrono la fame nel mondo, ci occupiamo di guerra. È urgente che la Russia e l’Ucraina trovino una strada comune verso la pace». Avvenire rilancia le firme per il referendum contro l’invio delle armi, attraverso un’interessante intervista alla docente di Diritto costituzionale Annamaria Poggi.
Il calendario ci ricorda due appuntamenti. L’estate arriva oggi pomeriggio in Europa (inizio astronomico alle 16:57) ma già stamattina farà caldo nelle aule delle scuole che ospitano i 536mila maturandi, inchiodati alla prima prova scritta di Italiano. La politica è tutta concentrata sulle polemiche giudiziarie, per tre motivi: Piercamillo Davigo, storico giudice di Mani Pulite, è stato condannato in primo grado per il caso della Loggia Ungheria, si discute ancora della riforma Nordio e infine non si placano le polemiche sui paletti fissati dalla magistratura padovana a proposito dei registri delle famiglie omogenitoriali. Una storia terribile di cronaca arriva da Pomigliano d’Arco, dove un senza tetto di colore, Frederick, è stato ucciso senza motivo. Bel commento di don Patriciello su Avvenire.
Per le altre notizie dall’estero va segnalato l’approfondimento del Foglio sulla visita del premier indiano Narendra Modi a Washington. Nella strategia americana c’è la necessità di rompere il fronte della solidarietà delle nazioni del Sud Globale e l’India viene oggi identificato come il Paese chiave su cui far leva. Dal Vaticano arrivano notizie sul prossimo Sinodo di ottobre, grande occasione di confronto e di dialogo fra i Vescovi. Oggi papa Francesco torna alle tradizionali udienze del mercoledì.
È davvero da non perdere il sesto ed ultimo episodio della serie Podcast originale realizzata da WIP Italia per la Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno della Fondazione Cariplo, che si chiama Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo. Il sesto episodio è dedicato ad una figura molto interessante e poco conosciuta: dopo Giorgio La Pira, Taha Hussein, Pierre Claverie, Enrico Mattei e Germaine Tillion, è la volta dello storico israeliano Shlomo Dov Goitein.
Il nome di questo studioso è legato all’interpretazione di circa 350mila frammenti scoperti nella Ghenizah della Sinagoga di Ben Ezra al Cairo, una stanza in apparenza modesta, eppure teatro di una delle più straordinarie scoperte filologiche di tutti i tempi. Gli ebrei del Cairo, infatti, avevano una concezione molto ampia di testo sacro. Dato che ogni brano scritto in caratteri ebraici poteva contenere il nome di Dio, nel dubbio portavano nella Ghenizah qualsiasi documento, anche lettere commerciali, contratti di matrimonio, liste della spesa, registri contabili… Un patrimonio inestimabile, se si considera che la storia del Medio Oriente ci è nota soltanto dai racconti delle élites, mentre qui per la prima volta a parlare è la classe media. Da quando ha questa intuizione, Goitein, studioso già affermato, abbandona tutti gli altri progetti di ricerca per consacrarsi alla ricostruzione della vita della comunità ebraica nella Cairo medievale: una società mediterranea, come recita il titolo dell’opera in cinque volumi che lo terrà occupato fino alla morte, sopravvenuta a Princeton nel 1985. “Sociografo”, come amava definirsi, Goitein sa dipingere miniature con livelli di dettaglio impressionanti, ad esempio sul cibo, la casa, i mobili, i mestieri. Questo però senza mai oscurare la tesi principale: «Musulmani, cristiani ed ebrei vivevano in grande prossimità e condividevano la vita in una misura molto più grande di quanto si sarebbe potuto immaginare sulla base delle sole fonti letterarie».
Lo storico israeliano individuò tre pilastri che, nell’epoca da lui studiata, diedero forma a un modo di vita comune che trascendeva i confini delle diverse comunità religiose: la fede monoteista, la famiglia, e la città, intesa come luogo di socialità e di commercio. Sono tre elementi che saltano ancora all’occhio di chiunque visiti il Mediterraneo. E sono tre fondamentali da cui ripartire anche oggi.
Troverete la serie su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast, Google Podcast e ovviamente qui sul sito di Fondazione Oasis... per ascoltare direttamente cliccate qui e comunque cercate questa immagine grafica:
Oggi La Versione di Banfi, come sempre di mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente ogni mattina può abbonarsi anche subito cliccando qui:
LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae alcuni studenti alle prese con la prima prova scritta della Maturità, il tema di Italiano. Quest’anno i candidati sono 536mila in tutta Italia.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Difficile mettere insieme le aperture di questa mattina. Il Corriere della Sera annuncia una comunanza di vedute tra Meloni e Macron: Sbarchi e Ue, intesa con Parigi. E Avvenire concorda: La pace di Parigi. Per il Domani invece è una finzione: La finta pace tra Macron e Meloni. Su Expo la Francia punta su Riad. Su uno dei più famosi giudici di Mani Pulite vanno Il Giornale: DAVIGO BECCATO. Libero: Il giustiziere giustiziato. E La Verità: Davigo condannato a 15 mesi. Per Il Fatto la condanna, unita alle commemorazioni in Senato di Berlusconi, disegnano: L’Italia alla rovescia. La Repubblica rilancia il monito di Mattarella sul fisco: Il Colle contro gli evasori. La Stampa torna sul caso di Padova: Roccella: bimbi arcobaleno, colpa dei sindaci. Il Quotidiano Nazionale ipotizza il nome del commissario: Curcio in pole per il dopo alluvione. Il Mattino di Napoli mette in primo piano il clochard: Frederick, ucciso di botte senza motivo. Il Manifesto tematizza i guai della sanità con il consueto gioco di parole: Pensate alla salute. Alle nostre tasche pensano Il Sole 24 Ore: Fisco: meno tasse su premi e straordinari. Nell’Ires sconto doppio per chi assume. E Il Messaggero: Meno tasse sulle tredicesime.
MACRON-MELONI, QUASI INTESA SU MIGRANTI E PATTO UE
A Parigi il vertice del disgelo fra Italia e Francia. Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron hanno un’ora e 40 minuti di colloquio all’Eliseo. La premier: non siamo ragazzini, gli interessi delle Nazioni vengono prima. Il leader francese: ci unisce la storia. Stefano Montefiori per il Corriere.
«Non leggerei la politica estera come materia di due ragazzini che litigano e fanno pace. Ci sono interessi delle nazioni che vengono prima di tutto e mi pare che ci siano diversi punti comuni tra Italia e Francia», dice Giorgia Meloni all’ambasciata d’Italia a Parigi, la sera, durante il ricevimento per la candidatura di Roma a Expo 2030. Poco prima la premier italiana aveva incontrato all’Eliseo il presidente francese Emmanuel Macron per un colloquio durato un’ora e 40 minuti, molto più del previsto. Un vertice riuscito e molto concreto: pochi proclami, cordialità reciproche senza strafare, entrambi consapevoli che non mancheranno altre occasioni per qualche tensione legata alla politica interna, da qui alle europee del 2024, ma gli interessi comuni restano più forti perché profondi e oggettivi. Anche e soprattutto sul tema che in passato ha fatto litigare, l’immigrazione. «Penso che abbiate sentito le parole di Macron — continua Meloni —, mi pare che la posizione chiesta dall’Italia, cioè concentrarsi sulla dimensione esterna per affrontare dignitosamente la questione interna, sia convergente. Abbiamo fatto importanti passi avanti su questo dossier, che diventa adesso strategico in vista del Consiglio europeo di fine mese. Per l’Italia è essenziale avanzare concretamente sulla cooperazione con i Paesi africani». Meloni e Macron si sono trovati d’accordo nel sostenere Tunisia e Libia in modo da circoscrivere l’immigrazione clandestina sul nascere e combattere «le organizzazioni criminali», «non possiamo lasciare la politica migratoria agli scafisti», ha detto Meloni all’Eliseo. I due leader non hanno parlato della linea ferroviaria Torino-Lione oggetto di manifestazioni di protesta in Francia — «ma i nostri sherpa stanno lavorando perché per noi, al di là delle manifestazioni, è importante procedere velocemente» —, né del ruolo del gruppo francese Vivendi in Italia (da Telecom a Mediaset) perché «il dibattito è stato molto più geopolitico in questa fase, ma potremmo parlarne in futuro». La sensazione è che il lirismo e il trasporto di certi incontri Draghi-Macron del passato sia stato sostituito da un pragmatismo che potrebbe rivelarsi efficace. E comunque davanti ai giornalisti Macron e Meloni hanno parlato ognuno la propria lingua capendosi senza bisogno della traduzione, a proposito di vicinanza. Macron ha voluto ricordare anche la recente visita del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per parlare di una amicizia «che permette talvolta di far vivere le controversie, i disaccordi, ma in un quadro sempre rispettoso perché si iscrive in una storia più grande e profonda di noi». La convergenza opera anche sull’Ucraina, con l’entrata in funzione del sistema di difesa aerea italo-francese Samp/T salutato come un successo dai due leader, e sul patto di Stabilità che va riformato: «Siamo d’accordo che i parametri oggi sono inadeguati» e che gli investimenti «strategici non vanno trattati come gli altri». «In questi tempi difficili abbiamo bisogno più che mai l’uno dell’altro», dicono all’Eliseo».
VON DER LEYEN: “SERVONO RISPOSTE RAPIDE”
Nella Giornata mondiale del rifugiato migranti, la Ue annuncia un aumento di budget per i migranti. Daniela Fassini per Avvenire.
«Quanto accaduto in Grecia è orribile». Ad ammetterlo è Ursula von der Leyen, a una settimana dal tragico naufragio che ha provocato la morte di centinaia di migranti (solo 80 i corpi recuperati e 104 superstiti, ndr). «Sulla migrazione servono risposte rapide – ha aggiunto –. Abbiamo bisogno di più fondi per i rifugiati siriani in Siria, Libano, Giordania e Turchia, per la rotta migratoria meridionale e per quella balcanica, per i nostri partner nel mondo e per mantenere la nostra capacità di reagire alle crisi umanitarie e ai disastri naturali». Sull’Ucraina è stato proposto un sostegno di 50 miliardi dal bilancio comune, per quanto riguarda il tema migrazione, invece, informa Von der Leyen, è stato proposto un aumento del budget di 15 miliardi. Intanto non si ferma il grande esodo degli ultimi: anche ieri sull’isola di Lampedusa fra sbarchi autonomi e soccorsi della Guardia costiera sono arrivati 252 migranti con 5 diversi approdi dalla scorsa mezzanotte. Nell’ultimo gruppo, sbarcato ieri pomeriggio – in tutto 34 persone, originari di Costa d’Avorio, Guinea, Mali, Camerun, Liberia e Congo approdati al molo Favarolo dopo che il barchino di 7 metri sul quale viaggiavano è stato avvistato e soccorso da una motovedetta della Guardia di finanza – c’erano anche 6 donne. Ai soccorritori hanno riferito di essere salpati da Sfax, in Tunisia, nella serata di domenica e d’avere pagato 2.500 dinari tunisini a testa. Il bel tempo accelera le traversate in mare dei migranti. Sono invece quasi 1.100 gli arrivi registrati nelle ultime 24 ore: nell’hotspot restano in circa 1.350 dopo i 430 trasferiti in traghetto fino a Porto Empedocle; per altri 232 destinazione programmata sempre la città costiera dell’agrigentino. Mentre, secondo il piano della prefettura, 600 saranno trasferiti in Calabria con la nave Diciotti della Guardia costiera. Si fa sempre più drammatico il racconto, infine, di chi è sopravvissuto al tragico naufragio di Pylos. Dopo il video di Frontex che mostra il barcone stracarico intercettato la mattina del 13 giugno, dieci ore circa prima del naufragio, nove superstiti, ascoltati come testimoni dall’Autorità portuale di Kalamata, hanno confermato con lievi variazioni nella ricostruzione che il naufragio sarebbe stato causato dalla motovedetta della Guardia costiera greca, dopo il tentativo di trainare con una corda il peschereccio. Uno dei sopravvissuti descrive le turbolenze in acqua causate dal tentativo di rimorchio del peschereccio. «Quando la nave si è ribaltata sul posto, la Guardia costiera ha tagliato la corda e ha proseguito da sola. Si è allontanata e tutti abbiamo gridato. Dopo 10 minuti sono tornati con delle piccole barche per prendere le persone».
“IL NAUFRAGIO CAUSATO DAL TRAINO VERSO L’ITALIA”
Le ultime indagini in Grecia. Nei verbali del naufragio il racconto dei superstiti: «La guardia costiera greca ha provato a trainarci». E spunta l’ipotesi di un tentato respingimento in acque italiane. Per il Corriere Gianni Santucci.
«La nave greca ci ha lanciato una corda che è stata attaccata al nostro scafo», racconta il sopravvissuto Abdul Rahman Alhaz, 24 anni, palestinese. Poi continua: «Dopo hanno iniziato a muoversi, ma ciò non è durato più di due minuti. Noi gridavamo “Stop, stop”, perché la barca era sovraccarica e ha cominciato a inclinarsi». A provocare l’inabissamento del peschereccio che trasportava 747 migranti, tra i quali ci sono almeno 643 vittime (i numeri sono una stima in base alle testimonianze dei 104 sopravvissuti), sarebbe stata una manovra molto rischiosa: il tentativo della guardia costiera greca di rimorchiare il peschereccio ormai col motore fuori uso, intorno alle 2 della notte tra il 13 e il 14 giugno. Racconti non nuovi, perché già raccolti da giornalisti (anche dal Corriere , nella città di Kalamata), Ong e politici greci. La novità è che quei racconti sono ora anche «testimonianze giurate», verbali giudiziari firmati da alcuni superstiti di fronte alla magistratura greca, che ha in mano la maxi inchiesta sul naufragio avvenuto a 45 miglia dalla costa del Peloponneso. Perché quel tentativo di rimorchio? Per spingere il peschereccio ormai alla deriva verso acque italiane? La prassi degli «accompagnamenti» di barche di migranti in difficoltà verso l’Italia non è un’ipotesi, ma un fatto documentato negli anni, e non solo per i guardiacoste greci. Già nel 2018, ad esempio, una barca con 13 migranti venne avvistata in acque maltesi: quando arrivò a Lampedusa, il 9 novembre, le persone a bordo avevano giubbotti di salvataggio di marca «Mecca marine», la stessa che produceva l’equipaggiamento per Malta. Un particolare che rendeva credibile il resto di quel che raccontarono i migranti, e cioè di aver ricevuto dai maltesi l’acqua e il gasolio che avevano loro permesso di proseguire la traversata. Il ragazzo palestinese sopravvissuto al naufragio in Grecia dice di aver pagato 4 mila euro per il viaggio partito da Tobruk, costa est della Libia, e che gli uomini che componevano l’equipaggio erano tutti egiziani. Lo stesso testimone, di fronte ai magistrati, ha riconosciuto nelle foto sette dei marinai/trafficanti che si sono salvati (in tutto gli arrestati sono nove). Punto chiave: se il testimone viene giudicato credibile quando si tratta di sostenere l’accusa contro gli «scafisti», è possibile che lo stesso valga per la sua ricostruzione dell’affondamento. I verbali sono stati riportati dall’agenzia Associated press e dal quotidiano di Atene Khatimerini . Sono convergenti. Il fatto che il peschereccio sia affondato in un tentativo di rimorchio è stato più volte smentito e negato dalla guardia costiera greca in comunicati ufficiali. Un altro sopravvissuto però ha ricostruito: «La nave greca ha legato una fune alla prua della nostra nave e ha iniziato a tirarci lentamente, ma la fune si è rotta. Poi hanno legato un’altra corda, più stretta. La seconda volta che l’hanno legata, all’inizio ci siamo sentiti trascinati, poi la nostra barca si è inclinata. La nave greca ha preso velocità, abbiamo gridato in inglese “Stop”, ma non ci hanno capito. La prima inclinazione è stata a sinistra e poi a destra, e poi la nostra nave si è capovolta». L’ultimo spezzone di questo racconto apre un interrogativo (che difficilmente verrà chiarito). Aggiunge il superstite: «Quando inizialmente hanno lanciato la corda, eravamo tranquilli, perché pensavamo che ci avrebbero portato in Italia». Ecco, se si dovesse accertare che il peschereccio era «al traino», qual era la rotta? Verso est, per un soccorso in Grecia? O verso ovest, direzione Italia?».
MATTARELLA: “LA SOLUZIONE È URGENTISSIMA”
Nella Giornata del rifugiato arriva un importante richiamo di Sergio Mattarella. Il capo dello Stato italiano dice: sui migranti la soluzione è urgentissima. Marzio Breda per il Corriere.
«Ne ha parlato tante volte, mai però in termini così angosciosi, concedendosi il superlativo assoluto per definire l’urgenza della questione rifugiati. Adesso cambia toni, Sergio Mattarella, mentre è ancora forte l’emozione per l’ultima tragedia del Mediterraneo, che ha visto sparire al largo della Grecia centinaia di migranti. E un po’ di numeri vuole darli lui, come premessa. «Circa 100 milioni di uomini, donne e bambini, in tutti i continenti, sono costretti a lasciare le proprie case per trovare protezione contro persecuzioni, abusi, violenze. Il senso di umanità e il rispetto per i valori della Costituzione impongono di non ignorare il loro dramma». Perciò, celebrando la Giornata mondiale del rifugiato, gli sembra giusto ribadire che «le iniziative di assistenza a queste persone — specie ai rifugiati che sono in condizioni di particolare vulnerabilità — devono essere accompagnate dalla ricerca di un’indispensabile e urgentissima soluzione strutturale di lungo periodo». Per superare la gestione d’emergenza di questi fenomeni serve, e ormai è anzi «indifferibile», un’azione «di respiro europeo e internazionale», in grado di «intervenire sulle cause profonde che spingono un così gran numero di esseri umani bisognosi ad abbandonare i loro Paesi. Meritano opportunità alternative ai rischiosi viaggi che, spinti dalle circostanze, intraprendono in condizioni anche proibitive». Ecco quello che chiede il presidente della Repubblica, chiamando in causa la Ue e le Nazioni Unite (di cui ringrazia comunque l’Alto Commissario). Due entità sovranazionali che si sono finora rivelate troppo spesso distratte e sorde al problema. Cosa che non può essere invece contestata all’Italia. Mattarella, infatti, ricorda che «da sempre siamo in prima linea nell’adempiere al dovere di solidarietà, assistenza e accoglienza, secondo quanto previsto dalla Costituzione per coloro ai quali venga impedito nel proprio Paese l’effettivo esercizio dei diritti e delle libertà democratiche». Anche per tale impegno esprime riconoscenza alle varie amministrazioni dello Stato, che «si adoperano quotidianamente per alleviare le sofferenze dei rifugiati e garantire loro l’accesso ai servizi essenziali». Un appello, quello del presidente, in piena sintonia con il pensiero di un’altra autorità morale che sta a Roma, papa Francesco. Con le scarne parole di un tweet diffuso per la stessa ricorrenza, il Pontefice dice che, «pensando a Cristo presente in tanti disperati che fuggono da conflitti e cambiamenti climatici, occorre far fronte al problema dell’accoglienza, senza scuse e indugi». E aggiunge: «Affrontiamolo insieme perché le conseguenze si ripercuotono su tutti». Una coincidenza: il 20 giugno 1979 il Corriere pubblicò un editoriale di Alberto Cavallari sui boat-people in fuga dal Vietnam e respinti in mare dagli Stati vicini. L’articolo si chiudeva con una profezia di cui oggi verifichiamo la precisione: «Prossima ventura è solo una civiltà di boat-people su scala planetaria».
“ALAN DOVEVA ESSERE L’ULTIMA VITTIMA”
Giansandro Merli per il Manifesto ha intervistato Tima Kurdi, siriana-canadese di 53 anni, zia di Alan, il bambino trovato morto il 2 settembre 2015 sulla spiaggia turca di Bodrum. La cui immagine fece il giro del mondo.
«Quando ho visto la foto di mio nipote su quella spiaggia sono crollata e ho gridato. Avrei voluto che il mondo mi sentisse per mettere fine a tutta quella sofferenza. Sarebbe dovuta essere l’ultima», dice Tima Kurdi al telefono. A Vancouver sono le prime ore del mattino, in Italia la sera sta calando sulla Giornata mondiale del rifugiato. Kurdi, siriana-canadese di 53 anni, è la zia di Alan, il bambino trovato morto il 2 settembre 2015 sulla spiaggia turca di Bodrum. La foto di quel corpicino privo di vita fece il giro del mondo e scatenò un’ondata di indignazione. Contribuì ad allentare, per poco, le politiche anti-migranti nell’Egeo e lungo la frontiera di terra tra Grecia e Turchia. Sulla storia della sua famiglia ha scritto un libro, Il bambino sulla spiaggia. Quando una settimana fa ha saputo nel grande naufragio di Pylos, vicino alle coste greche, ha riprovato lo stesso dolore.
La Giornata mondiale del rifugiato 2023 arriva a una settimana dalla morte in mare di quasi 700 persone. Cosa ha pensato quando ne ha avuto notizia?
Mi sono svegliata e ho visto i tweet di Alarm Phone. Poi ho letto i dettagli sulle centinaia di persone bloccate nella stiva di quella nave, tra cui molti bambini. Li ho immaginati affondare e morire nel silenzio. Ho pensato a quegli innocenti che gridavano per chiedere aiuto mentre l’acqua li portava giù. Così sono ritornata alla scena della mia tragedia familiare, a quando mio fratello ha provato a salvare figli e moglie. Loro sono rimasti in acqua diverso tempo perché non c’erano navi di soccorso. Quel giorno piansi senza speranza. Volevo gridare al mondo: quando è troppo è troppo. Stavolta ho sentito il bisogno di fare qualcosa: ho contattato l’equipaggio di Iuventa per dire che avevo il cuore spezzato e dovevo alzare la voce.
Il naufragio di Pylos è una tragedia o una strage?
Guerra, povertà e disastri naturali creano i rifugiati. Quelle persone non hanno scelta e devono lasciare il loro paese. Incolpo tutti coloro che in questi anni sono rimasti zitti. Quante anime innocenti sono annegate nel Mediterraneo mentre il mondo restava in silenzio? La morte di Alan ha scioccato tutti, inclusi i politici. Nei meeting a Bruxelles venivano da me, mi abbracciavano, dicendo che erano dispiaciuti e che quella tragedia sarebbe stata l’ultima. Ma dopo? Quante altre persone sono annegate? Quando si dice che in 10 anni nel Mediterraneo sono morte 25mila persone non ci credo: tantissime altre sono sparite senza che nessuno se ne accorgesse. Per questo alzo la voce: bisogna aiutare chi arriva alle frontiere.
L’altro ieri con una lettera ha criticato gli ostacoli alle navi delle Ong. Il governo italiano è tra i più attivi nel limitarne le attività. Cosa prova di fronte a questo comportamento?
Mi spezza il cuore. È una decisione inumana. Questa politica deve cambiare. Non si possono lasciare annegare le persone. Sono persone. I politici e la comunità internazionale devono sedersi a un tavolo e trovare delle soluzioni per investire nei paesi da dove originano i flussi migratori e migliorarne le condizioni di vita. Devono fermare le guerre. Aiutare chi ha fame. Solo così le persone rimarranno dove sono per migliorare i loro paesi. Invece si bloccano le navi umanitarie. È sbagliato: io sono totalmente dalla loro parte.
Al contrario secondo i governi di Grecia e Italia tutta la responsabilità è di trafficanti, scafisti o addirittura dei migranti che si mettono in viaggio.
Ci sono trafficanti in tutto il mondo. Le persone disperate finiscono nelle loro mani e si mettono in pericolo, perché hanno bisogno di partire. È facile per chi è al potere dire: facciamo un muro o blocchiamo la navi di soccorso. Ma queste non sono soluzioni. Le persone soffrono e troveranno sempre e comunque un modo per fuggire. A tutti quelli che incontro dico: aprite il vostro cuore, aprite le vostre porte e accogliete chi arriva. Mettetevi nella loro situazione. Ci sono milioni e milioni di rifugiati nel mondo. Potrebbe succedere anche a voi di diventare uno di loro.
Dopo l’ultimo naufragio, nonostante le centinaia di morti, non c’è stata la stessa indignazione seguita alla morte di suo nipote. È dipeso tutto dalla foto del suo corpo sulla spiaggia?
Quella foto ha svegliato il mondo. Personalmente credo che dio abbia messo una luce su quell’immagine per lanciare un messaggio: troppe persone stanno affogando. Ma non c’è differenza tra le diverse tragedie. Molti altri sono morti come Alan. Di quest’ultimo naufragio dobbiamo sapere: dove sono i dispersi? Come si chiamano i morti? Chi erano, cosa facevano, quanti anni avevano tutte queste persone? La storia ci giudicherà per questi fatti. Nel futuro si proverà vergogna di chi non ha fatto nulla per aiutare quelle vittime. Andate dai vostri politici, parlate nella vostra comunità, chiedete ovunque di mettere fine a questa situazione».
IL RISCATTO DEI MIGRANTI ALLA PENNY WIRTON
Riccardo Bonacina su Vita.it, qui l’integrale, racconta la riunione nazionale delle scuole Penny Wirton, che insegnano italiano per stranieri in modo gratuito. Sono più di 60 in tutta Italia e danno la possibilità ai migranti di imparare l’italiano.
«Le scuole Penny Wirton, geniale intuizione di uno scrittore ed insegnante, Eraldo Affinati, e di sua moglie Anna Luce Lenzi, sono ormai più di 60, germinate senza strombazzamenti e senza finanziamenti, ma su una potente onda di vero volontariato, quello di tanti (migliaia) insegnanti in pensione oppure con ancora qualche ora libera dalle incombenze anche burocratiche della scuola italiana, e di migliaia di ragazzi, volontari o inseriti in percorsi di Ptco (Percorsi Trasversali per le Competenze e l'Orientamento). Una mission chiara, semplice: insegnare gratuitamente italiano ai migranti. Sabato 17 giugno tutte le scuole hanno risposto alla chiamata del raduno nazionale (il 6° in 15 anni di storia), in via De Dominicis (a Casal Bertone, quartiere periferico protagonista di alcune riprese di Mamma Roma di Pasolini) arrivano da un po’ tutta Italia, a gruppetti, insegnanti e alunni, ragazzi immigrati da ogni parte del mondo che stanno imparando la nostra lingua. In via De Dominicis si scende una rampa per arrivare ai garage dove ha sede la Penny Wirton di Roma, uno spazio concesso da Regione Lazio. Chi non ce la fatta (tanti non hanno ottenuto il permesso del “padrone” neppure il sabato) si collega tramite piattaforma digitale in una fascia oraria pomeridiana. Eraldo Affinati, apre così l’incontro: “Penso di parlare a nome di tutti noi. Ho pensato che quelle 600 persone se non fossero annegate a Pylos forse qualcuno sarebbe venuto nelle nostre scuole a imparare l’italiano. A noi, più di tanti altri, colpiscono queste stragi del mare, ci feriscono. Io la sento come un’ustione sulla pelle. Oggi parleremo e useremo le nostre parole anche per loro. La morte nel Mediterraneo è una tragedia avvenuta nell’inattività e nell’indifferenza delle autorità politiche: i burocrati incravattati a Bruxelles continuano ad andare da una parte all’altra ma ieri il trattato di Dublino ha compiuto 33 anni e a oggi è rimasto inalterato, fermo”, ha proseguito Affinati. “Alla Penny Wirton, nel nostro piccolo facciamo azioni concrete. Con piccoli numeri ci contrapponiamo a questo sistema: non possiamo considerarci democratici oggi se non entriamo personalmente in azione. E lo facciamo tutti i giorni – ha concluso – insegnando l’italiano: è il nostro modo di contrapporci a questa barbarie, è la nostra proposta politica, o forse prepolitica, il nostro è un gesto semplicemente umano. Per noi è oggi un giorno di festa ma anche di riflessione e ricordo”. Forse proprio per questo la sua non è stata una chiamata celebrativa ma di lavoro, ad ogni scuola è stata affidata una parola. Lavoro, Giustizia, Democrazia, Speranza, Memoria, Ponte, lingua, Responsabilità, Guerra, Futuro, Rischio, Cuore, Sorriso, Scuola, Italia, Barca, Dio, Cura, Tenerezza, Bambini. Una parola per ogni scuola a cui è stata poi lasciata libertà di elaborazione, poesie, racconti, individuali o collettivi, video. Una vera “Scrittura collettiva” la battezza giustamente Eraldo Affinati, evocando don Lorenzo Milani. Che scriveva: "Noi dunque si fa così: Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ognivolta che gli viene un’idea ne prende appunto. ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo”. Il grande tavolo delle Scuole Penny Wirton ribolle di storie: c’è Serge della Costa d’Avorio che sulla parola “Futuro” dice semplicemente: «Vorrei una donna, una casa e dei figli» e il suo insegnante Lucio Battistini si commuove. C’è Sakib, 28 anni dal Bangladesh che è orgoglioso perchè ha la media dell’8 e ringrazia gli insegnanti. Alfa dalla Guinea Bissau è arrivato su un barcone da bambino, oggi ha un’azienda agricola che funziona: “Non lo faccio solo per me ma anche per la mia sorellina che sepro venga presto in Italia”. Giustizia: dice Faereh, iraniana, “Nel mio Paese le ingiustizie sono scritte persine nella Costituzione, per questo sono scappata perchè le prime vittime sono le donne. Ho dovuto lasciare tutto”. Hasna, dal Qatar, ha 32 anni ed è in Italia da cinque: “Senza giustizia non si può vivere in pace”, e Mamouna (Senegal): “Giustizia è dare a tutti la possibilità di realizzarsi”. Poi ancora Ikele dalla Nigeria, Samir dal Pakistan, Buba dal Gambia come Favar che non ha ottenuto il permesso per venire a Roma ma invia attraverso padre Daniele, comboniano, un bellissimo dipinto. Sulla parola Memoria c’è Usman del Kashmir che racconta del suo villaggio a 4.000 metri e del lungo cammino per andare a scuola e Abdullah, afgano che racconta il suo viaggio via terra di 7 mesi per raggiungere l’Italia, un racconto in un italiano perfetto. Una giornata di nomi e storie, di parole e di riscatto. Del resto Il nome della scuola richiama il titolo di un grande romanzo per ragazzi di Silvio D’Arzo (1920 – 1952), Penny Wirton e sua madre (Einaudi 1978), che ha come protagonista un bambino povero e disprezzato, il quale non ha mai conosciuto suo padre e, dopo una serie di prove, conquista, nonostante innumerevoli fatiche, la propria dignità, grazie anche all’aiuto del supplente della scuola del villaggio. Il nome Penny Wirton indica proprio la possibilità di un riscatto, innanzitutto grazie alla lingua. Impossibile raccontare di tutto, è un “vero atlante di emozioni”, dice Eraldo Affinati che annuncia che la Penny Wirton sbarca anche nelle carceri ad Ancona e a Parma. Lo ha annunciato così: “Formeremo detenuti italiani a insegnare la lingua italiana ai detenuti immigrati in due istituti penitenziari. Abbiamo già incontrato la direttrice del carcere di Parma che ci ha dato l’ok e attendiamo l’ok da Ancona”, ha detto Affinati. “È una cosa molto bella e forte soprattutto in una condizione particolare, di isolamento delle persone. Ci sono tante associazioni che già operano sul territorio italiano e con cui collaboriamo perché cercano in noi una sorta di legittimazione”. Insomma, l’onda della Penny non si ferma e cresce. In questi anni si è elaborato un metodo e dei sussidi didattici originali, libri di testo appositi. Il metodo di insegnamento “uno a uno”, un insegnante volontario e uno studente migrante, praticato alla Penny Wirton, consente di mettere al centro la persona e accompagnarla realmente – attraverso la comprensione dei suoi bisogni – all’apprendimento e all’emancipazione dall’insegnante. E quindi a una vera inclusione nei territori e nelle comunità in cui vivono gli studenti migranti quotidianamente. Anna Luce Lenzi, fondatrice della Penny Wirton, nel corso dell’assemblea ha spiegato: “Il metodo ‘uno a uno’ significa considerare la persona per quello che è: la bellezza è interpretare e riuscire a trovare la soluzione. Quando abbiamo cominciato abbiamo fatto un sacco di errori. Avevamo le nostre attese, non sapevamo che gli egiziani non capiscono il verbo essere perché non lo hanno. Non avevamo idea che ci fossero tanti giovani, ma anche adulti, analfabeti. Per gli analfabeti, soprattutto per le donne analfabete, ci vuole molto tatto. Bisogna farli sentire a loro agio altrimenti non funziona. Si tende a pensare d’istinto che abbiano dei problemi di apprendimento o dislessia. Non hanno nessun problema nella maggior parte dei casi, semmai il problema siamo noi che non capiamo i bisogni per favorire l’apprendimento. E non abbiate fretta di vedere i nostri risultati ma abbiate pazienza di vedere i loro risultati”».
UCRAINA, RICOMPARE BUDANOV
Veniamo alle ultime sulla guerra. In Ucraina ricompare il capo delle spie Kyrylo Budanov, che i russi avevano dato per colpito. Il capo delle spie di Kiev va in tv e dice: Mosca ha minato la centrale di Zaporizhzhia. Francesco Battistini sul Corriere.
«Di sicuro, non c’è solo che è vivo: c’è pure che non è mai stato ferito. E che le notizie sulla sorte di Kyrylo Budanov erano francamente esagerate. Anzi, inventate di sana pianta. Il capo dei servizi segreti militari Gur ricompare dopo giorni di misteri, bugie, disinformazione: prima con un’ironica intervista a un giornale di Kiev — «appartengo a una squadra di comandanti immortali…» —, poi in una foto assieme all’ambasciatore giapponese Matsuda Kuninori, infine collegato dal suo ufficio per un’intervista con la tv ucraina Rbc. «I complottisti diranno naturalmente che sono immagini create con l’intelligenza artificiale», è sarcastico un editorialista del Kyiv Post , tanto che tocca a Kuninori confermare l’ovvio e quel che già dicevano domenica molti diplomatici: «Budanov sta bene, gli ho stretto la mano». Per resuscitare, il capo delle spie di Kiev non poteva trovare momento migliore: la stessa ora in cui da Mosca, gran senso dell’umorismo, decidono di multare con 44 mila euro il social Telegram per «aver danneggiato la Russia diffondendo notizie false». Budanov sbeffeggia i propagandisti russi, tipo il presentatore moscovita Vladimir Solovyov che ne aveva annunciato la fine: «Hanno ancora molto da lavorare…». E mobilita un ideale, simbolico commando composto dal generale Valeriy Zaluzhny (pure lui dato per morto, invece vivissimo) e da controversi personaggi storici (stradefunti) come il filonazista Bandera, l’antisemita Petliura, l’atamano Mazepa: «Stepan, Symon, Ivan, io… Questa squadra immortale — avverte il capo degli 007 — verrà di notte nei sogni dei russi. E li trasformerà in incubi». Certi incubi sono già qui, però. Il peggiore lo ricorda il presidente americano, Joe Biden, quando dice che la minaccia atomica di Putin «è reale». Nemmeno Zaporizhzhia è un bluff, dice Budanov: «I russi hanno minato la centrale nucleare. E cosa più grave, anche il meccanismo di raffreddamento». Nei giorni scorsi l’aveva ispezionato il direttore generale dell’Aiea, Rafael Grossi, e la conclusione ora è unanime: «Se viene disabilitato, allora c’è un’alta probabilità che i problemi si facciano molto seri». Tutto dipende dall’acqua della diga di Nova Kakhovka, distrutta dai russi, come dimostrato sul New York Times e da una foto che un drone ucraino ha scattato poco prima del crollo: vi si vede un’auto carica d’esplosivo, parcheggiata proprio sopra l’impianto. «Con trenta minuti d’anticipo sull’esplosione — aggiunge Budanov — da Mosca hanno contattato l’unità militare che stava alla centrale idroelettrica di Kakhovskaya. E via radio, hanno ordinato di fare i bagagli e di lasciare molto rapidamente il sito». Adesso che tutto è allagato, i russi continuano a tirare su chi soccorre i sommersi: a Kherson, han fatto un morto e sette feriti. Lentamente, le acque si ritirano e mostrano l’ultimo disastro d’una guerra che ha portato in Europa otto milioni di profughi e un ecocidio — dice il governo ucraino — che «farà finire sulle spiagge del Mediterraneo le mine trascinate via dall’inondazione». Che importa? Per i russi, conta rallentare con ogni mezzo la controffensiva. Gli ucraini addestreranno 30 mila nuovi soldati in Europa? La Duma di Putin vota i nuovi arruolamenti nelle carceri e i detenuti, in cambio della grazia, potranno andare al fronte se non sono dentro per terrorismo o per reati sessuali: praticamente, tutti. Il Cremlino teme una spallata estiva, Kiev è in difficoltà militare e ha bisogno d’una vittoria simbolica. Perché la guerra è in stallo e l’Ucraina non s’aspettava che il nemico, addirittura, raddoppiasse la produzione d’armamenti. In questo, le sanzioni hanno fallito. I nuovi missili, per esempio, hanno un 80 per cento di componenti elettroniche importate dall’estero. Che arrivano attraverso le triangolazioni. E sono, sorpresa, quasi tutte made in Usa».
LA NATO STA PER ENTRARE IN GUERRA?
L’analisi di Domenico Quirico sulla Stampa. La Nato sta per varcare il Rubicone: i polacchi sono pronti a combattere i russi. L'offensiva di Zelensky non sfonda e alcuni Paesi vorrebbero scendere in campo, così la guerra in Ucraina cambierebbe natura.
«La realtà della guerra, il suo corso subiscono un certo giorno trasformazioni che ricordano quelle della terra quando un terremoto ne smuove le viscere. Il movimento all'inizio è impercettibile, l'ondeggiare di una lampadario o la caduta isolata di un soprammobile, lo si nota appena, non si comprende cosa accada… è qualcosa che non puoi vedere toccare eppure sta accadendo. E cambierà tragicamente, radicalmente la vite di milioni di uomini, le nostre vite di ignari cittadini di un secolo accecato da una mediocre ipocrisia. Fu così, ad esempio, nel 1914 quando un ignoto studente uccise un erede al trono a Sarajevo. Poco più che cronaca nera. A Londra si continuò a bere il tè alle cinque in tutti i club, a Parigi gli Champs-élysées erano affollati più al solito, a Berlino il cartellone degli spettacoli non subì alcuna variazione. La guerra in Ucraina è andata avanti, da un anno, nel suo crescendo sornione e inarrestabile segnata da questi continui piccoli movimenti: le forniture di armi sempre più sofisticate, i bombardamenti di rappresaglia russi sulle città, la incriminazione di Putin che ha affossato giuridicamente ogni trattativa, i sabotaggi dei timidi tentativi di mediazione. Abbiamo scavalcato quasi senza accorgerci infiniti Rubiconi immaginari, una azione invisibile e silenziosa, contro cui non sembra esserci difesa, che i geologi chiamano terremoto e gli strateghi guerra totale, feroce e materialista, ben raggrumata di rancori e di odio. Anche se le carte geografiche non sono state cambiate e la linea del fronte è sempre lì, quasi immobile, dopo che è stata tagliuzzata e ricucita infinite volte da offensive e controffensive egualmente inutili, ti accorgi che sei entrato in una fase nuova, più grande e insidiosa, e non potrai anche volendo tornare indietro. Di colpo tutto è diventato incerto, come quando uno comincia a dire bugie. Il nuovo balzo in avanti nella guerra non si avviluppa alla qualità delle armi da fornire alla Ucraina, ad esempio gli aerei da combattimento F16. Una linea superata con la consueta tattica di scavalcare silenziosamente ciò che fino a un minuto prima ufficialmente si è dichiarato come "non all'ordine del giorno". Provvedono, dopo qualche moina, forniture volontarie di qualche paese Nato più battagliero. In fondo non siamo una alleanza democratica e tra eguali? Il nuovo passaggio a cui ci stiamo apparecchiando è la discesa sul terreno di contingenti militari della Nato a fianco dell'esercito ucraino per scardinare le difese nemiche nei territori occupati. E provocare, perché no? la rotta russa. A capofila di questo sciagurato sviluppo, palesato dalla balordaggine delle parole dell'ex segretario della Nato, il danese Rasmussen, è la Polonia. Varsavia, che ha già sul campo di battaglia molti "volontari" nelle cosiddette brigate internazionali, sembra pronta a spezzare il fragile tabù del non intervento occidentale; in linea con il ruolo di alleato di ferro degli americani sul "limes" europeo che i governanti di Varsavia si sono assunti in quel sanguinoso parco tematico della guerra moderna che è diventata l'Ucraina. Si voglion saldare i conti, come non ricordarlo? per le innumerevoli ferite che il trogloditismo russo, zarista e staliniano, ha inferto alla Polonia negli ultimi tre secoli. Si rinfrescano mai sopite e gloriose rimembranze dell'Armata rossa in fuga davanti alla petulante cavalleria del maresciallo Pilsudski. Ci sono anche in questa determinazione pro ucraina considerazioni di politica interna. Essere la punta di lancia nella guerra contro l'aggressione russa è un lasciapassare infrangibile per tutte le accuse e i dubbi che la Commissione europea accumula sulla politica interna in tema di diritti del governo di Varsavia. La guerra serve, eccome. Non solo al fatturato di armaioli di ogni latitudine e dimensione. E non solo ai polacchi. Di un analogo impiego come certificato di buona condotta si serve anche il governo italiano di centrodestra. Si avvicina dunque la caduta della mediocre finzione della non belligeranza che ci ha messo finora al riparo dalla coscienza dei pericoli di questa guerra. Presentarla con la maschera di iniziativa autonoma al di fuori della Nato dovrebbe evitare, secondo gli ideatori, lo scattare dell'impegnativo articolo 5 che impegna tutti gli alleati in una guerra comune. Dovremo prima o poi tutti immischiarci nella tragedia ucraina mentre finora abbiamo accumulato le buone ragioni per non accostarsi troppo. La guerra falcia agnostici e dogmatici. A far precipitare l'inevitabile c'è il problema della mancanza degli uomini al fronte. L'offensiva ucraina forse troppo sbandierata come risolutiva e inarrestabile va così a rilento da far citare nei bollettini di Kiev tra i successi l'avanzata "da duecento metri a un chilometro"; e da segnare come conquiste l'occupazione di località che sulla carta appaiono come un minuscolo gruppo di case rurali. Le armi si sostituiscono, gli uomini "fini a se stessi", come diceva Kant, purtroppo no. A un certo punto bisogna contare le riserve, non quelle tecniche ma quelle umane. Gli eserciti occidentali dispongono di una forza che è tecnica e organizzativa. Quello russo, da sempre, dispiega una potenza che si potrebbe definire biologica, fatta da riserve umane quasi inesauribili. È una materia prima che zar, "vozd" e Putin allo stesso modo gettano via senza pietà. A Vilnius tra poche settimane nel vertice della Nato si trarranno le conseguenze di questa evoluzione del conflitto. Se l'Alleanza non adotta misure drastiche a favore di Kiev noi marceremo, minacciano i fautori dell'intervento. Sono cambiate le condizioni della vittoria per alcuni alleati dell'Ucraina. Non più difenderla e preservarne la integrità come all'inizio della guerra, scopo su cui c'era un generale seppur tiepido consenso. Per polacchi, baltici, inglesi e Zelenski vincere è distruggere la potenza militare russa mettendola fuori gioco per molti anni, con la conseguente eliminazione di Putin dalla scena politica. L'esplodere del caos tra le Russie sarebbe risultato positivo, anche se presenta rischi. Insomma un secondo Ottantanove ma non per metastasi interna ma per una sconfitta militare».
“SOGNO LA PACE IN UN MONDO MULTIPOLARE”
L’intervista di Greta Privitera sul Corriere al presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. Che dice: «Ucraina e Russia cerchino la pace, sogno un mondo multipolare». Oggi vedrà Mattarella, Meloni e il Papa.
«Nessuno come Luiz Inácio Lula da Silva sa come si fa a rinascere. Definito da Obama «il politico più popolare del mondo», e poi rinchiuso in cella, si è appena ripreso il Brasile cacciando il populista di estrema destra Jair Bolsonaro, ed è tornato da protagonista sulla scena internazionale nel suo terzo mandato. Oggi, a Roma, incontra Sergio Mattarella, discute di pace in Ucraina con papa Francesco, di economia con Giorgia Meloni e di politica con Elly Schlein. Alla vigilia dei colloqui, parla con il Corriere.
Si è proposto come mediatore tra Russia e Ucraina. Pensa di avere visioni simili a quelle del Papa?
«Nel 2020, quando l’ho incontrato, abbiamo parlato di disuguaglianze nel mondo e di un’economia più solidale. Subito dopo sono arrivate la pandemia e la campagna elettorale in Brasile. Ora incontro il Papa con un conflitto in Europa che riguarda tutti. Ho mandato un inviato speciale, Celso Amorim, a Mosca e a Kiev. Entrambi i Paesi credono di poter vincere militarmente: non sono d’accordo. Credo che ci sia troppa poca gente che parli di pace. La mia angoscia è che con così tante persone che soffrono la fame nel mondo, ci occupiamo di guerra. È urgente che la Russia e l’Ucraina trovino una strada comune verso la pace».
Meloni la criticò per la mancata estradizione di Cesare Battisti e a gennaio non ha inviato alcun rappresentante al suo insediamento.
«Spero che oggi ci conosceremo meglio e che gli incontri rafforzeranno il legame tra i nostri Paesi, che è sempre stato forte. Siamo il Paese con più italiani, secondo solo all’Italia stessa. Abbiamo 30 milioni di discendenti italiani. Sono in ottimi rapporti con il vostro movimento sindacale, con gli intellettuali, le imprese. Avremo colloqui molto produttivi con le autorità di Roma, perché le nostre relazioni economiche sono al di sotto del loro potenziale e dobbiamo lavorare sodo per creare un rapporto all’altezza delle nostre economie».
Incontrerà anche Elly Schlein. Pensa che sia più difficile per le donne governare?
«Sarà un piacere incontrarla. C’è ancora molto maschilismo in politica. Il mio partito è presieduto da una donna, Gleisi Hoffmann, e sono orgoglioso di aver sostenuto Dilma Rousseff, la prima presidente del Brasile. Il colpo di Stato che ha subito nel 2016 aveva una forte componente maschilista. La Bolsa Familia (una sorta di reddito di cittadinanza, ndr ) dà i soldi alle donne, non agli uomini. Anche i nostri titoli di proprietà delle case vanno alle madri. Le donne sono, in generale, più responsabili. Con più donne al governo avremmo meno guerre e più attenzione alle questioni sociali».
Pensa che Bolsonaro abbia responsabilità simili a quelle di Trump per i fatti di Brasilia? Sarà processato per abuso di potere.
«Noi diciamo “chi semina vento, raccoglie tempesta”. Il mio predecessore non ha seminato vento: ha piantato odio. Parlava sempre contro la democrazia, contro le istituzioni. Nessuno in Brasile ha mai usato lo Stato in modo così spudorato per cercare di farsi eleggere, distribuendo prestiti a chi non poteva pagare, creando aiuti per i tassisti che arrivavano anche a chi non aveva la patente. E dopo le elezioni i suoi hanno invocato un colpo di Stato militare. Assurdo. Ora deve rispondere in tribunale. Sono per la presunzione di innocenza, il diritto alla difesa e un processo equo».
Lei ha un buon rapporto con la Cina, vostro principale partner commerciale, anche se non è un Paese democratico.
«Noi non abbiamo problemi con nessun Paese al mondo e abbiamo un’ottima relazione con la Cina che ha tolto dalla povertà centinaia di milioni di persone e ha contribuito molto all’economia mondiale. Il mio dialogo con la Cina è nella direzione di una maggiore pace, di sviluppo del commercio e della cooperazione mondiale. La Cina è così importante che anche l’Italia ha già aderito alla Via della Seta, alla quale il Brasile non si è ancora associato».
In Sudafrica ci sarà un vertice dei Brics. È un passo per un mondo multipolare?
«Il Brics è importante per tutti. Crediamo che un mondo multipolare sia meglio di una supremazia unipolare o di una disputa bipolare. La creazione di accordi tra Paesi, può aiutare a bilanciare tendenze e tensioni contrastanti. Per esempio, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è da riformare. Rappresenta l’equilibrio di potere nel mondo del 1945. Oggi molto è cambiato e serve un Consiglio più rappresentativo, con voci dall’America Latina e dall’Africa, per contribuire alla pace e alla sicurezza nel mondo».
L’Amazzonia è cruciale. Come si fa a far convivere crescita economica e protezione della foresta?
«Dopo il mio predecessore, che negava il cambiamento climatico, abbiamo ripreso la lotta contro la deforestazione, con l’obiettivo di azzerarla entro il 2030, e stiamo affrontando anche l’estrazione mineraria illegale. Vogliamo portare una nuova visione di sviluppo sostenibile per la regione, che ospita 25 milioni di brasiliani. I popoli hanno bisogno di lavoro, protezione sociale, salute e istruzione, per essere i più grandi protettori della foresta. L’8 luglio mi incontrerò con il presidente colombiano Petros, ad agosto ospiteremo il Vertice sull’Amazzonia e la COP30 nel 2025».
L’Italia è il secondo partner commerciale del Brasile in Europa. Ci sono progetti in via di sviluppo?
«Abbiamo 1.400 aziende italiane in Brasile e più di 20 aziende brasiliane qui da voi. Importante sarà il ruolo dell’energia rinnovabile. L’87% della nostra elettricità proviene da fonti rinnovabili, ben al di sopra della media mondiale del 28%. Vogliamo espandere la produzione di energia solare ed eolica, il potenziale del Nordest brasiliano è enorme. Possiamo essere un grande produttore di idrogeno verde, con la capacità di sostenere il mondo nella transizione energetica».
LA DOCENTE POGGI: “GIUSTO FIRMARE AL REFERENDUM”
La docente di Diritto costituzionale Annamaria Poggi sostiene la campagna referendaria sullo stop alla consegna di materiale bellico. «Solo così possiamo iniziare a ragionare di pace». L’intervista è di Paolo Viana per Avvenire.
«A sedici mesi dall’inizio della guerra, nessuno ha trovato ancora una soluzione diversa da quella militare. A chi gioverebbe togliere le armi all’Ucraina?
L’iniziativa referendaria – ci risponde Annamaria Poggi, docente di Diritto costituzionale dell’Università di Torino e membro del comitato promotore del referendum sul disarmo e per riservare alla sanità pubblica la programmazione della spesa del Ssn – nasce dal tentativo di costringere il Parlamento a riflettere sull’indirizzo politico assunto rispetto al conflitto. In questi mesi non si è mai minimamente tentato di avviare o collaborare a iniziative di pace. L’unica decisione assunta è stata l’invio di armi. Ecco allora che è lì che occorre incidere: abrogare il decreto legge e costringere ad iniziative diverse.
Non vi è alternativa per la pace?
Non esiste nessuna possibilità di pace «seria» se non si inizia a limitare l’invio di armi, convincendo gli attori in campo a trattare la pace. Più armi si inviano e più è probabile che questa guerra continui ancora per anni. Ormai ci abbiamo fatto quasi l’abitudine e chiudiamo sistematicamente gli occhi dinanzi all’immane tragedia di morti, sofferenze, distruzione. Se non ci fosse il Papa a ricordarci ogni domenica la tragedia ucraina ormai è come se la guerra non ci fosse. La storia insegna almeno due cose: guerre che durano decenni e guerre che finiscono con armi di distruzione di massa.
Avete valutato il rischio che un fallimento del referendum legittimi chi non crede nella pace disarmata?
I rischi vanno messi in conto. Se uno si fermasse a pensare ai fallimenti delle proprie iniziative rimarrebbe immobile. E qui non si può rimanere fermi. Se il referendum fallisce almeno potremmo dire che abbiamo costretto tutti a pensare a ciò che sta succedendo e a parlare di pace, anziché di guerra.
Perché avete associato al quesito sul disarmo quello sulla programmazione in sanità?
La sanità pubblica è l’altro grande tema di cui non si parla. Abbiamo sempre meno personale negli ospedali e, nonostante il Covid e tutte le promesse fatte in quel periodo, non è stato fatto nulla di serio per potenziarla. Il quesito vuole cancellare una previsione di legge per cui le Regioni, cui compete la gestione del sistema sanitario a livello territoriale, possono ammettere la partecipazione nella programmazione della sanità anche soggetti privati i quali, essendo coinvolti nella gestione, si trovano così in conflitto di interessi. In conseguenza di questo conflitto “endemico”, le ingenti risorse pubbliche spese per la sanità finiscono lontane da quegli ambiti in cui i ritorni per i privati sono più limitati. Fra questi, come tragicamente confermato durante la pandemia, vi sono le terapie intensive e la medicina di prossimità. Anche al di la dell’emergenza pandemica, la conseguenza del conflitto di interessi è sotto gli occhi di tutti: l’accesso alle cure, che dovrebbe essere gratuito e garantito in modo efficiente a tutti i cittadini, a prescindere dal loro reddito, è divenuto difficoltoso per coloro che non riescono a sostenere i costi per cure private o semi-private (in convenzione)».
PADOVA, SCONTRO SULLE COPPIE OMOGENITORIALI
Scontro politico sulla decisione dei giudici di Padova di riconoscere un solo genitore delle coppie omosessuali che hanno registrato i figli. Il Pd: destra contro i bambini. Salvini: serve anche un papà. Emanuele Buzzi per il Corriere.
«Non possiamo non combattere fino alla fine»: le «mamme arcobaleno» si mobilitano contro la decisione della Procura di Padova di rivedere le trascrizioni degli atti di nascita di 33 bambini di coppie omogenitoriali. «Stiamo subendo un attacco politico — dichiara Iryna Shaparava, referente delle Famiglie arcobaleno in Veneto —. La Procura ha sempre avuto in mano gli atti di nascita: come mai tutto quanto accade ora, guarda caso con l’arrivo della nuova procuratrice?». Ma la questione infiamma e polarizza anche il dibattito politico. Centrosinistra e centrodestra si schierano su fronti opposti. «Sono vicina al sindaco di Padova e alle 33 famiglie colpite da questa decisione. Questa destra non si capisce cosa abbia contro i bambini e perché voglia privarli delle loro famiglie», attacca la segretaria dem Elly Schlein. «Il Pd esprime massima vicinanza al sindaco di Padova Giordani», scrive su Twitter Alessandro Zan. La pentastellata Stefania Ascari parla di «atto di una ferocia incredibile», mentre il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni esprime «sconcerto» per la decisione e il segretario di +Europa, Riccardo Magi, attacca «l’omofobia di Stato». Matteo Lepore, sindaco di Bologna, sottolinea: «Serve una legge nazionale che tuteli e garantisca alle famiglie arcobaleno i diritti di tutte le altre». Anche la Uil richiama l’attenzione sulla necessità di una norma:«Occorre urgentemente colmare il vuoto normativo esistente». L’Arcigay parla di scelta «surreale, oltre che umanamente impressionante». Di diverso avviso il centrodestra. Il vicepremier Matteo Salvini afferma: «Se la magistratura è intervenuta avrà dei motivi. Sostengo che l’amore è bello e libero, ma per quello che mi riguarda i bambini vengono al mondo se ci sono una mamma e un papà. Le Procure non intervengono perché questo o quel ministro o un politico dicono qualcosa, fortunatamente non è così». Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, rintuzza l’opposizione: «Eviterei gli slogan, sono questioni da affrontare con prudenza e rispetto. La procura di Padova ha applicato le leggi». Anche un altro esponente di Fratelli d’Italia come Fabio Rampelli difende l’operato della Procura: «Hanno semplicemente rispettato la legge e di sicuro non possono essere ascrivibili a magistrati di centrodestra». «Diciamo no con forza alla compravendita di bambini, la maternità surrogata è la più estrema forma di mercificazione del corpo», afferma il leader di Noi moderati Maurizio Lupi. «Le anagrafi italiane non sono il laboratorio per le sperimentazioni sociali delle Famiglie arcobaleno», rimarca Jacopo Coghe, portavoce di Pro vita & famiglia onlus. C’è anche chi si smarca dal proprio schieramento, è l’europarlamentare Alessandra Mussolini. «Quello che è successo a Padova da parte della Procura, che ha impugnato gli atti di nascita di bambini nati da coppie omoaffettive, è indegno di un Paese civile», sostiene l’esponente di Forza Italia».
IL SENATO RICORDA BERLUSCONI
Tajani: «Un combattente». La Russa: «Colpito ma mai affondato». Salvini: «Doveroso portare avanti la sua eredità». Renzi: «Uno statista». L’omaggio di Monti: «Non ostacolò il mio governo». Lo sfregio dei 5 Stelle che restano in silenzio. Fabrizio de Feo sul Giornale.
«È una giornata di ricordi, riflessioni, commozione trattenuta a stento, discorsi difficili da portare a termine, immagini che si affastellano nella memoria di chi ha condiviso con lui trent’anni di vita politica tra ammirazione e gratitudine, ma anche di inciampi e imbarazzi di chi lo ha elevato a nemico, affidando all’antiberlusconismo la sua unica narrazione. È il giorno della commemorazione in Senato di Silvio Berlusconi. Al suo posto, tra Licia Ronzulli e Maurizio Gasparri, c’è a ricordarlo un mazzo di tulipani, fiori da lui immensamente amati, come ricorda la presidente dei senatori azzurri. È il presidente del Senato Ignazio La Russa a prendere per primo la parola. «Il rimpianto è non averlo accanto in un momento in cui l’Italia avrebbe ancora bisogno di lui. Mi consola il generale rispetto che ha accompagnato la sua dipartita. Berlusconi non c’è più o forse c’è più di prima. Mettiamo nell’angolo gli odiatori impenitenti anche nel giorno del dolore, ed emerge così il giudizio sull’unicità dell’uomo», un uomo «più volte colpito ma mai affondato». Il minuto di silenzio viene accompagnato da un lungo applauso, con l’unica eccezione dei Cinquestelle che non partecipano e scelgono di non parlare in aula. Sugli spalti c’è Gianni Letta a rappresentare la famiglia Berlusconi. Gli interventi più difficili e commossi sono naturalmente quelli di Forza Italia, ma anche Matteo Salvini conclude il suo intervento con la voce incrinata, come avviene a Matteo Renzi. Antonio Tajani ricorda la forza dell’innovazione messa in campo dal Cavaliere. «Era un combattente della politica che ha sempre rispettato tutti gli avversari politici. Nessuno di noi aveva nemici personali», anzi Berlusconi «metteva sempre al centro la persona. Lo ricorderemo come uomo di governo e uomo di Stato, ma soprattutto come un uomo». Licia Ronzulli, visibilmente commossa, ricorda il Berlusconi «tornato in questo Senato da vincitore, e con il tributo del governo per il suo ultimo discorso. Berlusconi ha cambiato l’Italia, sapeva trasformare un male in un bene. Continuerà ad essere una luce. Per me camminare al suo fianco è stato un privilegio assoluto di cui sarò per sempre grata alla vita». Il saluto è «all’uomo di Stato e all’uomo che è stato. Buon vento, Dottore». Matteo Salvini si concentra sulla straordinaria eredità politica e sui tratti dell’«epoca berlusconiana». «Parlare di normalità a proposito di un uomo eccezionale, unico come Silvio Berlusconi sembra strano, eppure l’ho sentito anche da qualcuno prima di me. La sua capacità unica di entrare in sintonia con le persone comuni è stata una delle sue grandi forze. Una forza che, non a caso, certa sinistra, intrisa di ideologia, non ha mai capito. Quei ceti popolari Silvio li amava veramente». Salvini si concede un aneddoto personale. «Quando sono entrato per la prima volta nella casa della mia fidanzata ho trovato un poster gigante di Silvio Berlusconi». La chiusa è intrisa di emozione: «Ciao Silvio, onore a te, grande italiano, amico mio». Per Matteo Renzi «Berlusconi era più grande dell’eredità politica che qualcuno vuole raccogliere. Vedo che c’è una gara a inaugurare opere e infrastrutture in suo nome. Se volete tenere alto il ricordo intestategli un grande taglio delle tasse». Il leader di Italia Viva ricorda gli errori della sinistra». Lo descrivemmo come uomo dal sorriso di plastica, ma era un uomo che aveva davvero voglia di sorridere, una dimensione di umanità che non abbiamo voluto cogliere». E ricorda il suo ultimo ingresso nell’aula del Senato: «Camminava male, aveva il passo stanco, ma prese la parola, sorrise e annunciò “è appena nato il mio diciassettesimo nipotino”». E se Mario Monti ricorda che «Berlusconi ha cambiato la mia vita con la candidatura a commissario europeo. Non oppose ostacoli (al suo governo nel 2011, ndr), anzi pur trovandosi in una situazione comprensibilmente molto difficile con il venir meno della sua maggioranza, e con la consapevolezza dei gravissimi rischi che gravavano sull’Euro, sull’economia e sul Paese». Michaela Biancofiore, infine, ricorda come Berlusconi abbia «sfidato i confini dell’ordinario, creato una narrazione epica e lasciato un’impronta indelebile nella storia e che l’Italia gli ha riconosciuto con una commozione profonda, con un funerale degno di un padre della Patria».
PD, UN CAMPO DA CONTE A CALENDA
Il progetto di Elly Schlein è che il Pd crei un’intesa allargata (ma senza Matteo Renzi). Si lavora a un’iniziativa con i 5 Stelle in Molise. Per il Corriere Maria Teresa Meli.
«Elly Schlein prova a mandare in porto l’operazione che non è riuscita a Enrico Letta. Ossia quella di allargare il campo del centrosinistra a Giuseppe Conte e Carlo Calenda, tenendo fuori Matteo Renzi. È questo l’obiettivo della segretaria del Partito democratico in vista delle prossime elezioni politiche. L’idea è quella di un campo semi largo con dentro, oltre ovviamente il Pd, Movimento 5 Stelle, rossoverdi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli e Azione. Ma prima di raggiungere questo traguardo Schlein punta a un passaggio intermedio, testando questa alleanza alle prossime elezioni locali. La leader dem sa che il suo progetto è ambizioso e che gli alleati non si amano. Ma non parte da zero. Letta, prima delle politiche dello scorso anno che hanno portato alla clamorosa sconfitta del Pd, aveva istruito la pratica con Calenda ed era convinto di riuscire nell’intento, poi, all’ultimo, il leader di Azione aveva scartato e non se ne era fatto niente. Interessante, da questo punto di vista, vedere cosa accadrà alle Europee. Il Nazareno, che segue con attenzione i movimenti dei futuribili partner di un’alleanza alternativa al centrodestra, ha concentrato tutta la sua attenzione sui lavori in corso nel Terzo polo. Perché, e questo è il non detto su cui fanno però affidamento i dirigenti dem, se alla fine Calenda si tirasse indietro rispetto all’alleanza con Italia viva alle Europee, l’operazione a cui sta lavorando Schlein sarebbe oltremodo agevolata. Questi sono però i progetti a lungo termine della nuova dirigenza del Partito democratico. Per quanto riguarda l’immediato l’idea è quella di non «perdere di vista» il Movimento 5 Stelle. Per questa ragione Schlein è scesa in piazza con Conte sabato scorso a Roma. E sempre per questa ragione al Nazareno in queste ore si sta lavorando febbrilmente per arrivare a un’iniziativa comune (presumibilmente domani) della segretaria dem e dell’ex premier in Molise, dove si vota domenica ed entrambi sostengono alla presidenza della Regione il sindaco di Campobasso Roberto Gravina. Ieri Pd e 5 Stelle hanno sostenuto insieme una mozione per escludere l’utilizzo delle risorse di pertinenza del Pnrr per la «produzione di armi e munizioni in conseguenza degli aiuti forniti all’Ucraina». È l’emendamento che gli europarlamentari dem avevano sostenuto a Bruxelles e che non era passato. Per quanto riguarda il Pd, Schlein ritiene di poter gestire la situazione, nonostante le polemiche dell’altro giorno in direzione. E nonostante i rilievi che sono emersi anche nella sua stessa maggioranza. Non è sfuggito alla segretaria e ai suoi fedelissimi il fatto che Peppe Provenzano abbia insistito sulla necessità di «trovare luoghi dove maturino democraticamente le decisioni». Insomma, non solo la minoranza, ma anche chi non fa parte del cosiddetto «tortellino magico», pur essendo tra i sostenitori della segretaria, non riesce a celare il proprio disagio per la propensione della leader ad affidarsi solo a una ristretta cerchia di persone. Ma la direzione, in cui la leader è stata costretta a rinunciare a mettere ai voti la sua relazione pur di ottenere l’unanimità del partito, è un segnale che la stessa Schlein non può trascurare».
DAVIGO CONDANNATO
In primo grado è stato condannato per il caso della Loggia Ungheria il giudice Piercamillo Davigo. Diventato famoso come Gip del pool Mani pulite, è stato in Cassazione e membro del CSM. L’articolo di Gianni Barbacetto sul Fatto, giornale di cui Davigo è collaboratore.
«Condannato a 1 anno e 3 mesi: Piercamillo Davigo, magistrato noto per aver fatto parte del pool Mani pulite, poi per dieci anni giudice in Cassazione e a fine carriera membro del Consiglio superiore della magistratura, è stato giudicato colpevole dal Tribunale di Brescia (competente a giudicare i magistrati di Milano) del reato di rivelazione di segreto d’ufficio. La pubblica accusa aveva chiesto una condanna di 1 anno e 4 mesi. “Faremo appello”, hanno annunciato Davigo e il suo difensore, l’avvocato Francesco Borasi. La sentenza stabilisce che Davigo, a cui sono state riconosciute le attenuanti generiche, dovrà anche risarcire con 20mila euro Sebastiano Ardita, il magistrato che si era costituito parte civile nel processo. Questa è la conclusione (provvisoria) di una vicenda iniziata nei primi mesi del 2020, quando Piero Amara, influente e ben remunerato avvocato dell’Eni, arrestato per altri motivi, aveva raccontato ai magistrati della Procura di Milano l’esistenza di una potente associazione massonica segreta, chiamata a suo dire “loggia Ungheria”. Ne fanno parte, giura Amara, oltre 70 tra politici, magistrati, funzionari dello Stato, imprenditori, avvocati, banchieri, alti prelati vaticani, generali dei carabinieri e della Guardia di finanza. I verbali degli interrogatori vengono raccolti dal procuratore aggiunto Laura Pedio e dal sostituto procuratore Paolo Storari e subito segretati. Nei mesi seguenti, Storari si convince che i suoi colleghi, l’aggiunta Pedio e l’allora procuratore Francesco Greco, non vogliono approfondire le indagini e tardano a iscrivere Amara e altri nel registro degli indagati. Ecco che entra allora in campo Davigo: Storari gli chiede consiglio e aiuto e gli consegna una copia informale dei verbali segreti. Davigo lo rassicura che non compie alcun reato nel passargli quei documenti, perché fa parte del Csm, a cui non è opponibile alcun segreto. Ripresa l’attività del Csm a Roma dopo il lockdown, Davigo informa della vicenda i vertici del Csm. Ne parla con l’allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, il presidente della Suprema corte Pietro Curzio, il vicepresidente del Csm David Ermini, alcuni consiglieri (Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna), le sue due segretarie al Consiglio (Marcella Contrafatto e Giulia Befera) e il presidente della Commissione parlamentare antimafia (il senatore Nicola Morra), per spiegargli come mai ha rotto i rapporti con un magistrato che gli era amico, Sebastiano Ardita, che secondo Amara fa parte della “loggia Ungheria” insieme a un altro consigliere del Csm, Marco Mancinetti. Ecco perché – spiega Davigo – “non ho violato alcun segreto: ho informato persone tutte tenute al segreto, nessuna delle quali ha sollevato obiezioni o mi ha chiesto di presentare una denuncia ufficiale”. Lo ha fatto in maniera informale – ha poi aggiunto – perché una denuncia formale avrebbe fatto conoscere i contenuti dei verbali segreti anche ai due componenti del Consiglio indicati da Amara come appartenenti alla loggia Ungheria: “Ho agito dunque nelle uniche forme consentite dalla particolarità della situazione”. I giudici di Brescia non hanno accolto questa spiegazione. Lo scandalo era scoppiato e diventato pubblico quando i verbali segreti di Amara erano arrivati in forma anonima a due giornali, il Fatto e poi Repubblica. Intanto, Amara è stato giudicato non credibile, l’esistenza della “loggia Ungheria” non provata, diffamatorie le sue dichiarazioni su Mancinetti e Ardita. Paolo Storari, come Davigo accusato di rivelazione di segreto, è stato giudicato con il rito abbreviato ed è stato assolto in primo grado e in appello. Nei mesi scorsi, anche Greco e Pedio sono stati indagati e prosciolti dalla Procura di Brescia. Davigo aveva scelto di essere giudicato con rito ordinario e ora è arrivata per lui la condanna in primo grado, con motivazioni che arriveranno entro trenta giorni».
FREDERICK È STATO UCCISO SENZA MOTIVO
Un terribile caso di cronaca è accaduto a Pomigliano d’Arco, in provincia di Napoli. È stato ucciso Frederick, un senzatetto di colore. Il commento di don Maurizio Patriciello è per Avvenire.
«Un clochard, un mendicante, un senzatetto dalla pelle nera. In verità, un uomo. Un uomo solo, povero, lontano dalla sua terra, dalla sua gente, che pur avendo ricevuto quasi niente dalla vita, era felice di attraversarne i giorni. Come tutti coloro che non hanno dove posare il capo, aveva paura dell’inverno. Sapeva che il freddo infame avrebbe potuto tradirlo. L’estate invece, la sentiva amica, ed era ormai alle porte. Per letto aveva una panchina. Gli bastava. I poveri ci insegnano che per vivere ed essere felici, in fondo, basta poco. A volte, è vero, alzava un tantino il gomito. Ma non dava fastidio a nessuno, Frederick. A Pomigliano D’Arco la gente gli voleva bene, e lui tentava di ricambiare aiutando le signore all’uscita dal supermercato a caricare i pacchi pesanti in auto. Da quale Paese dell’ Africa veniva? Forse dal Ghana, forse dalla Nigeria. Della sua vita non sappiamo niente. Dei suoi sogni di libertà, quando adolescente scorrazzava nella sua terra, ancora meno. Era approdato in Italia. Secondo quali misteriosi criteri si sia fermato da noi, a Pomigliano, anziché procedere oltre, non lo sapremo mai. Un fratello nostro, l’uomo dalla pelle nera e dal volto buono. Per coloro che si dicono cristiani, una sfida. Certo, perché per quanto possa suonare scomodo ricordarlo, sono loro, i poveri, i miseri, gli sfruttati, gli umiliati che sono – siamo – chiamati a promuovere e servire. E saranno sempre loro, nel giorno del giudizio, ad aprirci – Chiuderci? Dio non voglia – le porte del Regno dei cieli. Se la società civile ha il dovere di trovare risposte serie al dramma degli immigrati e dei senzatetto, sui cristiani incombe l’obbligo di porsi il problema alla luce della Parola di Dio e delle sue richieste esigenti e liberanti. Frederick è stato ucciso. Senza motivo. Da almeno due persone, di cui una minorenne. Vigliacchi. Fratelli, sì, ma vigliacchi. Per quanto mi sforzi, un altro termine, non offensivo ma vero, non riesco a trovarlo per chi esercita violenza su un uomo solo e malandato. Ma perché? Magari ci fosse un perché. La cosa che più spaventa è proprio questa: Frederick è morto senza un motivo. Chissà, magari per scherzo. I poveri spesso servono per ridere. Pagliacci. Sono fatti oggetto di scherni, battutacce, lazzi. Li si prende in giro, tanto non si rischia niente. Abbiamo bisogno di convertirci. E per farlo, occorre saperci spogliare di una mentalità vecchia, forse un po’ razzista, maschilista, ed essere pronti a farci invadere da un modo di pensare e di agire nuovo, sereno, fraterno. Convertirci significa credere che la dignità di un immigrato, povero, senzatetto è del tutto identica a quella dell’uomo più ricco del mondo. Convertirci vuol dire sapersi inginocchiare, sì, ma non davanti ai potenti di turno, per qualche ritorno personale, ma avere il coraggio di farlo davanti a chi dal punto di vista economico, culturale, politico vale poco, forse niente. La sfida è questa. Ed è continua. Perché «i poveri li avrete sempre con voi» disse Gesù. Frederick è morto. Sotto i nostri occhi. E noi, Paese di antica fede cristiana, non siamo stati capaci di difenderlo. Adesso non ci resta che abbassare la testa e implorare il suo perdono. E continuare a tormentarci chiedendoci – come da giorni ormai – che cosa possiamo fare. Se dobbiamo rassegnarci facendo finta di non vedere o siamo ancora in tempo per arginare una falla che rischia di allagarci. Sono davvero troppi i minorenni, o giovanotti appena maggiorenni, ma anche adulti, che si rendono protagonisti di atti di violenza biechi, inutili, devastanti. Senza gettare la croce su nessuno, bisogna pur riprendere in mano le redini per rimettere in carreggiata il carro della vita».
IL SINODO D’OTTOBRE SUL FUTURO DELLA CHIESA
Al centro dell’Assemblea dei Vescovi, prevista per ottobre, anche il matrimonio dei preti, le donne diacono e i diritti dei gay. Ma il Papa ricorda che non è un Parlamento. Iacopo Scaramuzzi per Repubblica.
«Si preannuncia un autunno caldo in Vaticano. Dal 4 al 29 ottobre un’assemblea sinodale con 370 partecipanti da tutto il mondo discuterà sul presente e sul futuro della Chiesa. Se il titolo è generico — “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione” — i temi sul tappeto, esemplificati nell’“instrumentum laboris”, il documento-base presentato ieri in Vaticano, contrappongono da tempo progressisti e conservatori: la possibilità di introdurre il diaconato per le donne, l’ipotesi dei “preti sposati”, la prospettiva di benedire le coppie gay. Oltre ai “padri sinodali”, ossia vescovi, teologi e religiosi che sinora hanno fatto parte del sinodo, per la prima volta, per decisione di Francesco, saranno membri a pieno titolo anche le “madri sinodali”, una quarantina di donne con diritto di voto. Gli uomini del Papa spargono cautela a piene mani. Le questioni sono quelle emerse nel corso delle assemblee che si sono svolte nei diversi continenti da quando Jorge Mario Bergoglio, a ottobre del 2021, aprì questo sinodo globale. Sono poste sotto forma di “domande”, e non di “asserzioni o prese di posizione”. L’agenda, insomma, non è chiusa, le conclusioni, che si delineeranno in una seconda assemblea a ottobre del 2024, sono di là da venire. «Non è un sinodo sulla sessualità, ma sulla sinodalità», ripetono in Vaticano. Ma i temi che incrociano la sessualità e i ruoli di potere si impongono. “Tutte le Assemblee continentali chiedono di affrontare la questione della partecipazione delle donne al governo, ai processi decisionali, alla missione e ai ministeri a tutti i livelli della Chiesa”, afferma il documento, che stigmatizza la “discriminazione ed esclusione” di cui le donne sono vittime. Se il sacerdozio femminile è stato escluso già da Giovanni Paolo II, emerge la proposta di “considerare nuovamente la questione dell’accesso delle donne al Diaconato. È possibile prevederlo — è la domanda — e in che modo?”. Il documento sviscera il nodo dei “ministeri”, registra “la richiesta di superare una visione che riserva ai soli Ministri ordinati (vescovi, presbiteri, diaconi) ogni funzione attiva nella Chiesa, riducendo la partecipazione dei battezzati a una collaborazione subordinata” e arriva a ipotizzare, sempre a mo’ di domanda, di “aprire una riflessione sulla possibilità di rivedere, almeno in alcune aree, la disciplina sull’accesso al Presbiterato di uomini sposati”. Vi è poi l’evergreen delle coppie gay: il Vaticano ha vietato la benedizione, in diverse chiese europee è prassi. Il sinodo domanda quali “passi concreti” si possano fare per chi si sente escluso dalla Chiesa, “divorziati risposati, persone in matrimonio poligamico, persone LGBTQ+”. Tutte ipotesi che piacciono ai progressisti, allarmano i conservatori. Gli episcopati degli Stati Uniti, della Polonia e di altri paesi dell’Europa orientale, di numerosi paesi africani sono pronti a fare le barricate, con il benestare di un pezzo di Curia romana. I cattolici della Germania e di molti altri paesi europei, nonché quelli dell’America latina, spingono invece per passi arditi. La strategia di Bergoglio è sempre stata quella di far avanzare la Chiesa ma senza spaccare. Teme la «polarizzazione », ripete che il sinodo «non è un Parlamento». L’assemblea, ha detto più volte, deve essere guidata dallo Spirito, e dalla convinzione che sia possibile mantenere «l’unità nella diversità». Ma ritiene che la Chiesa non possa vivere fuori dalla storia, né deve avere paura delle tensioni. E così proposte che in altri sinodi, durante il pontificato, erano state bocciate o accantonate, ora tornano sul tappeto. Trovare nuove sintesi, afferma il documento, permette che la Chiesa “rimanga viva e vitale”: nel caso alternativo chissà. Francesco vuole far maturare il consenso più ampio possibile. È la logica del Concilio vaticano II, l’assise che dal 1962 al 1965 ha sancito l’aggiornamento della Chiesa a valle di discussioni che hanno evitato scissioni, tranne quella di estrema destra dei lefebvriani. Un’esigenza più viva che mai, ora che, nota il documento-base, la Chiesa vive una epocale “crisi degli abusi: sessuali, di potere e di coscienza, economici e istituzionali”. Ed è pertanto chiamata alla “conversione e alla riforma”».
HUNTER BIDEN PATTEGGIA SUL FISCO
Il figlio del Presidente Hunter Biden chiude la sua vicenda giudiziaria per due reati fiscali prima che parta la campagna elettorale. Repubblicani all’attacco. Paolo Mastrolilli per Repubblica.
«Hunter Biden, figlio del presidente degli Stati Uniti, ha patteggiato due reati fiscali minori, per chiudere la sua vicenda giudiziaria prima che il padre cominci la campagna per la rielezione del prossimo anno. I repubblicani però vanno già all’attacco, dicendo che il Dipartimento alla Giustizia lo ha favorito, usando due pesi e due misure con lui e con Donald Trump. Hunter era finito sotto inchiesta per una serie di problemi, iniziati quando dopo la morte del fratello Beau per un cancro al cervello era precipitato nella dipendenza dal crack e dalla cocaina. Non aveva pagato in tempo le tasse nel 2017 e 2018, e aveva mentito quando era andato a comprare una pistola Colt Cobra 38 Special, rispondendo che non faceva uso di droghe a un questionario con valore legale per ottenere l’autorizzazione. I repubblicani poi lo accusavano di aver ricevuto favori economici, sfruttando il fatto che il padre era vicepresidente. In particolare era stato nominato nel consiglio d’amministrazione della compagnia energetica ucraina Burisma, intascando un compenso di circa 50mila dollari al mese senza avere alcuna esperienza nel settore, e collaborando con un imprenditore cinese finito poi nei guai con la legge. Secondo gli avversari di Biden queste operazioni erano finalizzate ad arricchire l’intera famiglia, e quindi Joe ne era responsabile quanto Hunter. Trump aveva chiesto al presidente Zelensky di aprire un’inchiesta su queste accuse, vincolando alla sua collaborazione le forniture militari a Kiev. Perciò aveva subito il primo impeachment, approvato dalla Camera. Nel corso degli ultimi mesi l’avvocato di Hunter, Christopher Clark, ha dialogato con il procuratore David Weiss, per dimostrare che non aveva le prove sufficienti per portare il figlio del presidente in tribunale ed ottenere la sua condanna. Quindi ha negoziato con lui una soluzione condivisa. Hunter ammetterà i due reati minori, ossia il ritardo delle dichiarazioni dei redditi del 2017 e 2018, e non aver pagato in tempo 100mila dollari, ma non verrà condannato al carcere. Nello stesso tempo sarà incriminato per la falsa dichiarazione resa nell’acquisto della pistola, ma non verrà processato, in cambio dell’impegno a non possedere mai più un’arma e sottoporsi ad un programma di disintossicazione. Così però cadranno tutte le altre accuse, e quindi non ci saranno ulteriori incriminazioni per i possibili altri reati commessi, inclusi quelli relativi agli interessi in Ucraina e Cina. È comunque un brutto colpo, per lui e per il padre, ma è certamente il male minore, rispetto alla prospettiva di vederlo alla sbarra di un processo mentre il capo della Casa Bianca corre per la rielezione. La questione però non finisce qui, almeno sul piano politico. Trump ne ha subito approfittato per accusare il Dipartimento alla Giustizia di favoritismo verso il figlio del suo rivale: «È come se gli avessero fatto una multa per un’infrazione del codice della strada. Il sistema è corrotto». Una linea che gli servirà anche per denunciare come un’ingiustizia la sua incriminazione. Lo Speaker della Camera McCarthy ha detto che «se sei il figlio del presidente ti trattano con i guanti», però ha promesso di continuare le inchieste parlamentari. Biden quindi ha evitato il colpo peggiore, ma questa vicenda resterà in primo piano durante la campagna presidenziale».
ISRAELE, 4 COLONI UCCISI
Dopo il raid di Jenin, 4 israeliani sono stati uccisi in una colonia. Subito freddati i due palestinesi che hanno aperto il fuoco. Ben Gvir chiede a Netanyahu un’operazione aerea e terrestre in Cisgiordania. Michele Giorgio per il Manifesto.
«Dopo l’uccisione di quattro coloni israeliani compiuta ieri pomeriggio da due palestinesi a una stazione di rifornimento in Cisgiordania, il premier israeliano Netanyahu e il ministro della difesa Gallant sono rimasti riuniti per ore con i comandanti militari e i capi dell’intelligence (Shin Bet). Sul tavolo c’è la vasta operazione militare nel nord della Cisgiordania occupata che il governo di destra invoca da settimane e che però non convince, scrivono i giornali locali, i comandi dell’esercito più favorevoli a una campagna di «omicidi mirati» e all’uso di droni e unità speciali sotto copertura. «Tutte le opzioni sono aperte», ha avvertito Netanyahu. Israele, ha detto il premier, «ha dimostrato negli ultimi mesi che fa pagare tutti gli assassini, senza eccezioni. Chi ci fa del male è in una tomba o in prigione. Succederà anche stavolta». Urlava e protestava ieri il ministro ultranazionalista Itamar Ben Gvir che vuole l’impiego dell’aviazione contro i «terroristi palestinesi» e la pena di morte. Sull’altro versante, il movimento islamico Hamas, ha elogiato gli attentatori senza rivendicare l’attacco che ha spiegato come «una risposta naturale ai crimini compiuti da Israele» nelle città palestinesi. Ieri due palestinesi, Mohanad Shehadeh e Khaled Falah, pare legati ad Hamas, sono entrati in un ristorante della stazione di servizio dell’insediamento coloniale di Eli (Nablus), e hanno ucciso tre coloni israeliani e ferito quattro persone. Quindi sono usciti e hanno colpito a morte un uomo che stava facendo rifornimento. Un altro colono presente sul posto ha aperto il fuoco e ha ucciso uno dei palestinesi. Il secondo attentatore è scappato in auto ma, dopo circa due ore, è stato individuato e ucciso da forze militari. In quei minuti è partita anche la rappresaglia dei coloni israeliani che, come fecero a fine febbraio, hanno preso di mira il villaggio palestinese Huwara e le località circostanti, dando fuoco a campi coltivati e edifici. La Mezzaluna rossa ha riferito di decine di feriti, tra cui diversi ragazzi. Dopo l’attacco armato, seguito alla battaglia di lunedì a Jenin - con sei palestinesi uccisi e 91 feriti - che ha duramente impegnato centinaia di uomini e decine di automezzi blindati israeliani, più parti danno per certa «Muraglia di difesa 2», così come alcuni chiamano l’operazione militare israeliana in cantiere perché ricorda quella avviata nel 2002 in Cisgiordania dal premier scomparso Ariel Sharon. Nel mirino ci sono le città di Jenin e Nablus divenute nell’ultimo anno, persino più di prima, le roccaforti della lotta armata che gran parte dei palestinesi, lo dicono i sondaggi, vedono come l’unica strada per mettere fine all’occupazione militare dopo il fallimento di ogni opzione politica. I costi, se davvero sarà lanciata questa operazione di terra, saranno molto alti per i palestinesi, civili in testa, ma anche per Israele alla luce delle capacità di combattimento che stanno mostrando i gruppi armati a Jenin e Nablus. L’analista Mouin Rabbani, direttore di Jadaliya sostiene «è ancora presto per affermare che è cominciata la lotta armata contro l’occupazione israeliana perché le azioni palestinesi sono nella maggior parte dei casi una reazione ai raid israeliani nelle città cisgiordane». Secondo Rabbani, «l’unica certezza è che lo scontro aperto in Cisgiordania tra palestinesi e coloni israeliani, una milizia a tutti gli effetti, spesso impiegata a scopo militare». All’Onu intanto prosegue lo scontro innescato dalle dure dichiarazioni fatte due giorni fa dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, contro l’espansione delle colonie israeliane nei Territori palestinesi occupati che ha descritto come «una violazione flagrante del diritto internazionale» e «un ostacolo significativo alla realizzabilità della soluzione a due Stati e al raggiungimento di una pace giusta e durevole. L’espansione di questi insediamenti coloniali illegali - ha continuato Guterres - è causa di tensioni e di violenze e aumenta in misura considerevole il bisogno di aiuti umanitari da parte della popolazione». Parole alle quali il rappresentante di Israele alle Nazioni unite ha reagito con rabbia».
GLI USA PUNTANO SULL’INDIA IN CHIAVE ANTI-CINESE
Arriva il premier indiano Narendra Modi in visita di Stato dal presidente Usa Joe Biden per consacrare una partnership già decisa a frenare la Cina. Carlo Buldrini per Il Foglio.
«“Tutti sappiamo che l’India e gli Stati Uniti sono due grandi e complessi paesi. Certamente dobbiamo lavorare molto per far sì che i nostri popoli possano esprimere pienamente il loro potenziale. Ma la traiettoria di questa partnership è chiaramente definita e piena di promesse”. Così ha dichiarato il segretario di stato americano Antony Blinken alla vigilia della visita del primo ministro indiano Narendra Modi negli Stati Uniti. Il viaggio inizierà oggi e si concluderà sabato. Modi è già stato ricevuto alla Casa Bianca dai presidenti Barack Obama e Donald Trump. Ma questa volta è diverso. Il viaggio è considerato “visita di stato”. La precedente visita di un primo ministro indiano con questa qualifica è stata quella di Manmohan Singh e risale al 2009. Narendra Modi, oggi, darà il via alle celebrazioni della giornata internazionale dello yoga di fronte al palazzo delle Nazioni Unite di New York. Domani, a Washington, sarà ricevuto alla Casa Bianca da Joe e Jill Biden e salutato con 21 colpi di cannone. Modi parlerà poi al Congresso americano riunito in sessione plenaria per “celebrare la duratura amicizia tra l’India e gli Stati Uniti basata su valori comuni”, come si legge nella lettera d’invito dei leader repubblicani e democratici della Camera dei rappresentanti e del Senato americani. E’ ormai lontano il ricordo di quando, nel 2005, il visto diplomatico per gli Stati Uniti fu negato a Narendra Modi “perché un governo responsabile di gravi violazioni della libertà religiosa diventa ineleggibile per un visto americano”. Il riferimento era allo spaventoso pogrom che, nel 2002, si abbatté sulla comunità musulmana del Gujarat, quando Modi era a capo del governo dello stato e nulla fece per impedire il massacro. Venendo a tempi più recenti, nel rapporto annuale sulla libertà religiosa del 2022, redatto dal dipartimento di stato americano e pubblicato il mese scorso, si legge che in India “le forze dell’ordine ricorrono a continue violenze nei confronti delle minoranze religiose musulmana e cristiana in molte parti del paese”. Ma, da sempre, quando gli Stati Uniti cercano un alleato nell’Asia meridionale, non hanno mai preso troppo in considerazione la situazione interna dei paesi con cui stringono amicizia. Durante la Guerra fredda, l’America si alleò col Pakistan in funzione antisovietica, malgrado i colpi di stato militari dei generali Ayub Khan nel 1958 e di Zia-ul-Haq nel 1977. Adesso, gli Stati Uniti hanno bisogno dell’India e l’India ha bisogno degli Stati Uniti, entrambi in funzione anticinese. Così l’America chiude un occhio sulle tendenze autoritarie del regime di Modi tra le mura di casa propria. Storicamente, in India, nell’affrontare i problemi di politica estera e di sicurezza nazionale, maggioranza e opposizione hanno sempre dialogato e hanno spesso trovato una posizione comune. L’intero processo di avvicinamento dell’India agli Stati Uniti è stata un’operazione doppiamente bipartisan. L’avvio lo diede, nel 2008, Manmohan Singh (Partito del Congresso) quando firmò a New Delhi con George W. Bush (Partito repubblicano) l’accordo sull’energia nucleare per scopi civili. L’accordo andava oltre il nucleare ed esprimeva la volontà di entrambe le parti di superare gli ostacoli burocratici e le reciproche diffidenze che impedivano a New Delhi e a Washington di avviare una relazione più fruttuosa. Adesso, con l’incontro di Narendra Modi (Bharatiya Janata Party) con Joe Biden (Partito democratico), questo processo giunge alla sua logica conclusione. L’abbraccio tra Biden e Modi sarà anche l’abbraccio strategico di due paesi che hanno deciso di fare fronte comune nel contrastare la belligeranza cinese in Asia. A Washington, ospite della Casa Bianca, Narendra Modi resterà impigliato nei complessi protocolli e cerimoniali di tutte le visite di stato. Ma il lavoro vero è già stato fatto. Domenica 4 giugno Lloyd Austin, il segretario della Difesa degli Stati Uniti, è volato a New Delhi per incontrare Rajnat Singh, il suo omologo indiano. Al termine della visita di due giorni, Austin e Singh hanno annunciato la definitiva messa a punto di una road map per la cooperazione industriale tra New Delhi e Washington nel cruciale settore della Difesa. La produzione congiunta di armamenti riguarderà “il combattimento aereo, la mobilità terrestre, l’intelligence, la sorveglianza e la ricognizione, le munizioni e l’ambito sottomarino”. Praticamente tutti gli aspetti di una guerra. La clausola dell’accordo strategicamente più importante per l’India è quella che fa riferimento alla coproduzione di motori della General Electric Ge F414 per i jet militari. Per più di 60 anni l’India ha fabbricato aerei da guerra su licenza prima sovietica e poi russa. Questi aerei nulla hanno a che fare con la tecnologia avanzata di cui sono dotati i motori degli aerei da combattimento americani e che ora saranno prodotti in collaborazione da Stati Uniti e India. Austin e Singh hanno anche annunciato il varo di un progetto chiamato “Indus-x” che prevede il coinvolgimento del settore privato di entrambi i paesi nella produzione di armamenti. La compagnia indiana Hindustan Aeronautics Limited, fabbricherà i motori per i jet da guerra in collaborazione con l’americana General Electric. L’India, per quanto riguarda le attrezzature militari, si sta allontanando sempre più dalla dipendenza dalla Federazione russa. L’upgrading dell’aviazione militare è per l’India una priorità assoluta. Negli ultimi anni sono ripresi gli scontri di frontiera con la Repubblica popolare cinese. Nel mese di giugno 2020, venti soldati indiani sono stati uccisi nella valle del Galwan, in Ladakh, dagli uomini dell’Esercito popolare di liberazione. Malgrado 18 tornate di colloqui tra i due paesi, gli scontri continuano. Nel dicembre 2022 i due eserciti si sono confrontati nei confini orientali dell’Arunachal Pradesh, una regione indiana che la Cina rivendica come propria. Sessantamila uomini sono schierati da entrambe le parti lungo i 3.488 chilometri di una linea di confine che la Cina continua a non voler riconoscere. Recenti immagini satellitari hanno mostrato che nell’aeroporto di Lhasa, la capitale del Tibet, i cinesi stanno costruendo una nuova pista di decollo e un grande hangar per velivoli militari. Contemporaneamente, sono stati rafforzati gli aeroporti di Hotan nello Xinjian (400 chilometri in linea d’aria dal confine con l’India) e di Ngari Gunsa nella Regione autonoma (200 chilometri di distanza). Queste infrastrutture stanno cambiando in favore della Cina i rapporti di forza nell’intera regione himalayana. L’intelligence americana sta già aiutando le Forze armate indiane in questa zona di confine. Lo fa fornendo continue informazioni e con il prestito di droni di sorveglianza militare, nel tentativo di aiutare l’India a respingere le continue aggressioni cinesi lungo la Linea di effettivo controllo (Lac). New Delhi ritiene tuttavia che solo con il rafforzamento e la modernizzazione della propria aviazione militare potrà riequilibrare le forze in campo nella regione. Lloyd Austin ha incontrato a New Delhi anche Ajit Doval, il consigliere per la Sicurezza nazionale indiana. In questo meeting l’accento è stato posto sull’Indo-Pacifico. In un comunicato si legge che entrambi i paesi intendono “garantire un Indo-Pacifico libero e aperto, basato sulle regole e sul rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i paesi coinvolti”. Gli Stati Uniti vogliono attuare nell’Indo-Pacifico quella che chiamano la “deterrenza integrata” secondo cui anche la maggiore capacità dell’India di difendersi contribuirà alla stabilità e alla pace in questa area del mondo. I documenti che Biden e Modi firmeranno a Washington conterranno tutto questo. Si tratta di un punto di svolta destinato a incidere profondamente sugli equilibri geopolitici mondiali. Kurt Campbell, coordinatore per l’Indo-Pacifico del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ha dichiarato che “la visita del primo ministro indiano Narendra Modi ‘consacrerà’ le relazioni tra India e Stati Uniti come il più importante rapporto bilaterale dell’America a livello globale”. L’abile diplomazia indiana è più cauta. I funzionari del ministero degli Esteri di New Delhi hanno controllato due volte che nei documenti che Modi e Biden firmeranno alla Casa Bianca compaia solo la parola “partner” e mai quella di “alleato”. “C’è una fiducia senza precedenti” tra i leader di Stati Uniti e India, ha detto Modi in un’intervista esclusiva con il Wall Street Journal pubblicata ieri. Formalmente l’India continuerà a seguire la politica estera di Nehru del non allineamento. Malgrado le forti pressioni americane, non entrerà a far parte della “Nato plus” che comprende i 31 paesi dell’Alleanza più Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Israele e Corea del sud. “Un’alleanza militare non è adatta all’India”, ha detto pochi giorni fa il ministro degli Esteri indiano Subrahmaniam Jaishankar. L’India vuole evitare di essere costretta a entrare in guerra con la Cina nel caso di una crisi taiwanese che avrebbe conseguenze ancora più catastrofiche dell’invasione russa dell’Ucraina. Ma, in questi tempi turbolenti, è difficile non prendere posizione e tutto va letto in filigrana. Avay Shukla, un funzionario in pensione dell’Indian civil service e oggi giornalista, scrive che “non si può stare seduti per sempre sulla staccionata che divide i due campi”. Anche se non lo vuole dire apertamente, con questa visita di stato di Narendra Modi negli Stati Uniti, l’India sembra avere deciso da che parte stare».
RAPITO E TORTURATO, ORA È LIBERO
Nigeria, il prete cattolico Padre Marcellus Nwaohuocha era stato catturato sabato scorso. I confratelli: «Gravi ferite alla testa». Il resoconto di Avvenire.
«Ringraziamo Dio per la liberazione del nostro confratello Padre Marcellus Nwaohuocha – hanno scritto i Missionari oblati di Maria Immacolata (Omi) su Facebook –. Preghiamo per il pieno recupero della sua salute e per il riposo dell’anima della guardia che lascia una famiglia (moglie e figli)». Padre Marcellus, rapito il 17 giugno, è stato liberato nella notte fra lunedì e martedì, come ha confermato l’agenzia Fides. Il giovane parroco di Saint Paul a Bomo, missionario dell’Omi, era stato sequestrato da uomini armati a Jos, nella Nigeria centro-settentrionale. « I rapitori hanno sparato alla guardia di sicurezza che è poi morta durante il trasporto in ospedale », ha raccontato il superiore all’agenzia Fides, padre Peter Klaver. Quest’ultimo aveva lanciato l’allarme domenica dicendo che alcuni uomini armati avevano fatto irruzione nella casa parrocchiale. Tanta la paura. «Preghiamo per la liberazione di padre Marcellus e per i cristiani della Nigeria, continuamente perseguitati», avevano scritto tre giorni fa i Missionari sulla propria pagina Facebook. Non conosciamo le circostanze precise della liberazione ma l’ordine ha raccontato, in un altro post sul social, che padre Marcellus «è stato torturato, ha profonde ferite sulla testa e attualmente è in ospedale per il trattamento». Il rapimento di padre Nwaohuocha, è soltanto l’ultimo di una lunga tragica serie di sequestri e uccisioni di preti cattolici in Nigeria. Dall’inizio del mese, un sacerdote è stato rapito e altri due sono stati assassinati, uno durante il sequestro. Si tratta di padre Charles Onomhale Igechi, caduto, il 7 giugno, in un agguato di banditi armati mentre tornava da Benin City, dove aveva prestato un incarico pastorale. Meno di una settimana prima, il 2 giugno, padre Stanislaus Mbamara, della diocesi di Nnewi, era stato rapito e rilasciato nel giro di una giornata. La domenica di Pentecoste era accaduto lo stesso a padre Matthias Oparra, della diocesi di Owerri, e prima ancora, il 19 maggio, a padre Jude Kingsley Maduka della diocesi di Okigwe. L’Ong Open Doors, che studia il fenomeno della persecuzione dei cristiani, ha classificato la Nigeria al primo posto nel mondo per le violenze contro i fedeli. Si stima che globalmente circa il 90 per cento degli omicidi di cristiani avvenga nel Paese africano: solo tra il gennaio 2021 e il giugno 2022 ne sono stati uccisi più di 7.600. Christian Concern, associazione no profit inglese, ha contato tra i 50 e 70 mila cristiani uccisi negli ultimi 18 anni, ovvero da quando, nel 2009, i terroristi di Boko Haram hanno cominciato a prendere piede nel nord del Paese. Al jihadismo si aggiunge, però, l’incremento delle bande criminali che si finanziano con le estorsioni. Per queste, i sacerdoti sono un “bottino” prezioso per alimentare l’industria dei sequestri. Dei 70 milioni di cristiani che vivono nel gigante africano da 213 milioni di abitanti, circa 19 milioni sono cattolici. Soltanto nel 2022 sono stati rapiti 30 preti e almeno 39 sono stati uccisi da uomini armati».
Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 21 giugno: