Spiragli di tregua
All'Onu apertura di Israele. Pizzaballa risponde all'esercito sull'attacco dei cecchini. Negli ospedali c'era Hamas. Task force anti-houthi. Patto Ue vicino, oggi l'Ecofin. Per Ferragni ancora guai
Una vittima collaterale della guerra è la verità. Perché la violenza dell’uomo sull’uomo è sempre basata sulla menzogna. Fatalmente anche a Gaza e in Israele è così. Non solo perché fino ad oggi sono stati uccisi quasi 100 giornalisti mentre facevano il loro mestiere (vedi articolo di Avvenire). Ma perché non c’è accesso alla Striscia per la libera stampa. Incredibilmente, secondo i media israeliani, l’esercito di Israele (Idf) ha cercato di smentire il cecchinaggio e l’assalto militare all’unica parrocchia cattolica di Gaza di sabato scorso dichiarando di «non prendere di mira i civili, indipendentemente dalla loro religione». In un’intervista con Alessandra Buzzetti al Tg2000, il telegiornale di TV2000 (qui il servizio) il cardinal Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, ha poi spiegato ieri, replicando: “Abbiamo avuto contatti con l’esercito israeliano sia durante che dopo. Abbiamo letto un comunicato che sembrava negare tutto, poi c’è stata una correzione dove si sono ammessi i fatti evidenti: due persone sono morte e un tank ha sparato. Questi sono fatti incontrovertibili”. In realtà i colpi dei cecchini dell’Idf hanno colpito e distrutto anche i pannelli solari e il generatore elettrico della casa delle Suore di Madre Teresa, che rappresentano l’unica fonte di elettricità utile anche a far funzionare i respiratori necessari ai giovani disabili che le religiose accudiscono. Distrutti anche i grandi contenitori di acqua posti sui tetti della parrocchia. Avvenire riporta stamattina una dichiarazione del portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller: «Abbiamo parlato con Israele del fatto che non vogliamo vedere chiese, moschee, scuole e ospedali attaccati».
Proprio ieri però l’esercito israeliano ha rese note le dichiarazioni di un direttore di ospedale della Striscia che ha ammesso di essere affiliato ad Hamas: i terroristi hanno usato le strutture sanitarie, e persino le ambulanze, per nascondersi. Ma nella chiesa della Santa Famiglia non ci sono e non c’erano terroristi. All’Onu importante apertura del presidente israeliano Isaac Herzog che ha aperto uno spiraglio per la sospensione delle ostilità.
Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno raccolto una task force per contrastare i ribelli yemeniti Houthi che colpiscono con missili e droni i cargo che passano nel Mar Rosso. Secondo quanto annunciato dal ministro della Difesa Crosetto, anche l’Italia partecipa all’operazione “Prosperity Guardian” lanciata da Washington. Non è chiaro però il ruolo che avrà l’Arabia Saudita, nemica dei ribelli, nell’alleanza. Il Sole 24 ore spiega che per ora le grandi compagnie di navigazione non si fidano affatto della guardia navale occidentale e hanno cambiato rotta (e prezzi).
Si profila un accordo sul nuovo Patto di stabilità Ue alla riunione dell’Ecofin che inizia oggi. O meglio: c’è un asse fra Germania e Francia. L’Italia, anche se sé stata tirata in ballo, è più prudente, anche perché vuole trattare “nel contesto” anche del Mes e del Pnrr. Vedremo. Nel frattempo la manovra economica sembra entrata nella corsia finale di approvazione.
Venendo all’Italia, lo scontro di politica interna, con le opposizioni sulle barricate, riguarda la limitazione alla pubblicazione degli ordini di custodia cautelare, ottenuta grazie all’approvazione di un emendamento presentato da Azione e votato anche da Italia Viva. Pd, 5 stelle e Verdi gridano al bavaglio ma la norma sembra piuttosto garantista. Gli stessi giornalisti italiani dovrebbero fare una riflessione su come hanno tante volte preferito in questi anni usare la gogna, pur sapendo di ledere i diritti dei cittadini imputati. Invece che stracciarsi oggi le vesti.
L’altro tema di contrasto è il premierato, che ha spinto le opposizioni ad accusare di autoritarismo Giorgia Meloni. Oggi Matteo Renzi la difende su Libero, spiegando che ogni riforma organica mette mano ai vari poteri, compreso quello del Presidente della Repubblica.
I guai di Chiara Ferragni aumentano. Non solo perché l’inchiesta sulla finta beneficenza coi pandori della Balocco potrebbe diventare penale. Ma perché ieri Selvaggia Lucarelli sul Fatto ha raccontato di misfatti simili della influencer anche per le uova di Pasqua. Mentre Stefano Feltri su “Appunti” (altra newsletter da non perdere e che la Versione raccomanda) ha fatto le pulci ai bilanci della presunta buonista.
Fra le altre notizie dall’estero va segnalata la durissima denuncia dell’Onu contro la Libia per la gestione dei migranti e dei lager allestiti per la loro detenzione. Ne scrive in solitaria Avvenire e Nello Scavo, reporter che ha fatto una encomiabile battaglia proprio su questo tema.
La Versione si conclude con l’anticipazione di un libro del vaticanista del Tg1 Ignazio Ingrao sul ruolo delle donne nella Chiesa di papa Francesco.
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LA FOTO DEL GIORNO
Sono stati restaurati gli straordinari dipinti di Pietro da Cortona che decorano la cupola di Santa Maria in Vallicella, la Chiesa Nuova, a Roma, dove è sepolto San Filippo Neri. Nessuno vi aveva più messo mano, nella sua interezza, dal 1893. L'intervento della Soprintendenza Speciale di Roma, con il finanziamento del Fondo Edifici di Culto, è durato due anni.
Foto Ansa
LE PRIME PAGINE
Molti e diversi i temi in apertura dei quotidiani anche stamattina. Il Corriere della Sera valorizza le aperture del presidente israeliano Herzog: Spiragli di tregua a Gaza. Schierata sull’indignazione La Repubblica per la norma sugli ordini di custodia cautelare: Stampa, ritorna il bavaglio. La Stampa guarda a Bruxelles dopo l’annuncio di Francia e Germania: «Patto di stabilità, c’è l’accordo». Ma Il Giornale è preoccupato: Patto, blitz contro l’Italia. E dall’altra sponda politico-giornalistica conferma il Manifesto, che allude al taglia fuori di tedeschi e francesi: Due senza. Lo scandalo Ferragnez mette d’accordo qualcun altro, come Libero: La Ferragni dalle uova d’oro. E La Verità: Le uova rotte dei Ferragnez. Il Quotidiano Nazionale allarga il tiro: Non solo Ferragni: il caso influencer. Del Ministro della Difesa si occupano Il Fatto: Crosetto e il padrone di casa: ecco tutti i conflitti d’interessi. E il Domani che sono molto simili: Crosetto, oltre la casa c’è di più. All’amico milioni dalla Difesa. Sull’economia Il Sole 24 Ore: Superbonus, spunta decreto salva spese. Via libera al nuovo calendario fiscale. E Il Messaggero: Ricette mediche e licenze. Arriva la semplificazione. Mentre Avvenire, in solitaria, sottolinea in tema migranti la denuncia Onu contro i governi libici: I crimini di Tripoli.
TENTATIVI DI TREGUA IN SEDE ONU
Si cerca di arrivare all’Onu ad una soluzione condivisa per il Medio Oriente, attraverso una mozione comune. Importante l’apertura del presidente israeliano. «Siamo pronti a una pausa umanitaria per facilitare il rilascio degli ostaggi», ha detto ieri Isaac Herzog. Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera.
«Cessazione» oppure «fine» dell’attacco israeliano su Gaza? Soprattutto su queste due parole si è consumato lo scontro alle Nazioni Unite nelle ultime ore mirato a cercare di arrivare ad una risoluzione condivisa, che permetta una tregua nei combattimenti tra militari israeliani e Hamas per garantire l’arrivo degli aiuti umanitari. Gli Stati Uniti sono l’unico membro del Consiglio di Sicurezza a bloccare la domanda di uno stop immediato e permanente dei combattimenti. Il suo potere di veto è stato decisivo. Lo stesso atteggiamento aveva tenuto una settimana fa. Il tentativo ieri sera era di cercare una formula di compromesso che facilitasse comunque l’arrivo degli aiuti. Nella Striscia di Gaza la situazione è disperata. Il ministero della Sanità controllato da Hamas segnala che i morti sono ormai quasi 20.000, i feriti oltre 50.000, tra i circa 2 milioni e 300 mila abitanti della Striscia. I bombardamenti fanno strazio dei civili, riducono la gente alla fame, mancano acqua, cibo e medicine. Pare che il 60 per cento degli sfollati sia ormai a rischio di morire per la denutrizione e per l’impossibilità di filtrare l’acqua delle pozzanghere spesso inquinata dalle fognature distrutte. Le organizzazioni umanitarie internazionali e le agenzie Onu denunciano una deriva ormai fuori controllo. I giornalisti sul posto, una settantina è morta sotto le bombe, mostrano immagini di cadaveri insepolti, ospedali presi di mira, bambini feriti, massacri di fronte agli ospedali e tra le tende di fortuna. A peggiorare le sofferenze si aggiungono il freddo e le piogge. I portavoce militari israeliani sostengono di avere adesso il pieno controllo del campo profughi di Jabalya, nel nord della Striscia, dove sarebbero morti una ventina di palestinesi nelle ultime ore e gli israeliani hanno individuato alcuni tunnel particolarmente larghi e profondi. All’Onu si vorrebbe anche delineare una sorta di percorso politico che preveda la gestione di Gaza da parte dell’Autorità Palestinese basata a Ramallah dopo la fine del conflitto. Un punto che trova Washington consenziente, ma non la coalizione di estrema destra guidata da Benjamin Netanyahu. Un velo d’incertezza adombra inoltre i negoziati a Varsavia tra il capo del Mossad, David Barnea, il premier del Qatar, Mohammad al Thani, e con la presenza del capo della Cia, William Burns, per cercare di rilanciare il meccanismo dello scambio degli ostaggi in mano di Hamas per i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. «Siamo pronti a una pausa umanitaria per facilitare il rilascio degli ostaggi», ha detto ieri il presidente israeliano, Isaac Herzog. Per adesso i progressi sono molto limitati. Israele cerca di liberare specialmente gli ostaggi più anziani e malati, ma Hamas esige come precondizione il blocco immediato degli attacchi. Nelle prossime ore, il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh si recherà al Cairo per discutere della tregua e intanto la Jihad Islamica ha pubblicato un video con due ostaggi. Sul fronte del Mar Rosso, gli Houthi, i miliziani yemeniti filoiraniani, dichiarano che la creazione di una coalizione internazionale guidata dagli americani per garantire il traffico marittimo, non bloccherà i loro attacchi contro le navi finalizzati a sostenere la causa palestinese. La loro minaccia resta di aggredire con missili e droni i cargo ogni dodici ore. «La nostra scelta di sostenere i Palestinesi non cesserà sino a che non sarà finito l’assedio contro Gaza. Qualsiasi Paese che si unisce agli Usa contro lo Yemen avrà le sue navi prese di mira», dichiara Mohammad Alì Al Houthi, uno dei dirigenti del movimento».
GLI USA CHIEDONO DI NON COLPIRE LE CHIESE
Si distingue fra cessazione e sospensione delle ostilità. Il Dipartimento di Stato Usa condanna l’attacco alle chiese. Anna Maria Brogi su Avvenire.
«Non la cessazione, bensì la sospensione delle ostilità. Cammina sul filo sottile dei distinguo la speranza per la Striscia di Gaza. C’è voluta più di una giornata di trattative, al Palazzo di Vetro di New York, perché in Consiglio di Sicurezza dell’Onu approdasse una bozza di risoluzione (sponsorizzata dai Paesi arabi) in grado di sfidare il veto Usa. La votazione è slittata fino alla notte italiana. «Sarebbe forse possibile un’estesa pausa umanitaria se Hamas accettasse di rilasciare gli ostaggi» ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller. «Abbiamo parlato con Israele del fatto che non vogliamo vedere chiese, moschee, scuole e ospedali attaccati» ha aggiunto. Per la prima volta il presidente israeliano Isaac Herzog ha evocato una sospensione delle ostilità: «Israele è pronta per un’altra pausa umanitaria, in modo da rendere possibile il rilascio degli ostaggi. Ora la responsabilità ricade interamente su Sinwar e sulla leadership di Hamas». Secondo il quotidiano Haaretz, una delegazione di Hamas è attesa al Cairo per discutere con funzionari dell’intelligence egiziana. Sarebbe la prima volta dalla fine della tregua di una settimana il 1° dicembre scorso. Nulla di nuovo invece è emerso dai colloqui, ripresi lunedì, tra il ministro del Qatar, Mohammed al-Thani, e i capi del Mossad e della Cia, David Barnea e William Burns. Tace il premier Benjamin Netanyahu mentre Benny Gantz, il leader di Unità Nazionale entrato nel governo di guerra, promette che presto i palestinesi del Nord potranno tornare nelle loro case (o quel che ne resta). «Le forze di difesa continueranno a operare in profondità nella Striscia fino al raggiungimento dei nostri obiettivi» precisa. Sarebbe la linea suggerita dagli Usa: transizione verso un conflitto a bassa intensità dopo l’insostenibile numero di vittime dei raid. Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha ribadito che Israele porterà i capi di Hamas «al cimitero o in prigione». Confermando che la guerra si sposterà a sud: «Khan Yunis è la nuova capitale del terrorismo». Che nel governo cominci a serpeggiare impazienza emerge dalle indiscrezioni pubblicate da The Times of Israel. Citando Channel 12, scrive che nel gabinetto di guerra vari ministri avrebbero chiesto al capo dell’esercito Herzi Halevi quando saranno sterminati Hamas e i suoi leader. La risposta di Halevi: «Colpire i leader richiede tempo. Ci sono voluti dieci anni per avere la testa di Benladen. Qui sono in campo gli uomini migliori, ci vorrà meno». Sul terreno ieri si sarebbero registrate almeno 100 vittime a Rafah, nel quartiere Rimal di Gaza City e nel campo profughi di Jabalya. L’esercito ha annunciato l’eliminazione di Subhi Ferwana «coinvolto nel trasferimento di decine di milioni all’ala militare» di Hamas. Il bilancio aggiornato del ministero della Sanità controllato da Hamas è di 19.667 morti e 52.586 feriti. Il numero dei soldati uccisi dall’inizio dell’offensiva è salito a 132. L’esercito e lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) affermano che il direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Jabalya, Ahmed Kaho-lot, in un interrogatorio avrebbe ammesso di essere stato reclutato da Hamas insieme ad altri 15 tra medici, paramedici e impiegati. I miliziani avrebbero avuto a disposizione un’ambulanza riconoscibile, un ufficio e linee telefoniche. L’esercito ha anche annunciato di aver sospeso alcuni riservisti che avevano divulgato sui social un video in cui umiliavano alcuni palestinesi appena fermati, legati e bendati. È inoltre in corso un’indagine sulla morte, nella base militare di Sde Teiman vicino a Beersheva, di centinaia di arrestati durante la guerra. I detenuti erano «bendati e ammanettati per gran parte del giorno e le luci restavano accese per tutta la notte».
GLI OSTAGGI PESANO COME UN MACIGNO
Pressioni in aumento per arrivare a un nuovo scambio di prigionieri. La questione ostaggi pesa come un macigno sul premier Benjamin Netanyahu. E Hamas lo sa. Michele Giorgio per il Manifesto.
«Quando a inizio mese è saltata la tregua umanitaria con Hamas durata una settimana, il premier israeliano Netanyahu e gli altri membri del gabinetto di guerra, a cominciare dal ministro della difesa Yoav Gallant, con parole di fuoco hanno ribadito che l’unico obiettivo era e resta la «distruzione totale di Hamas». E messo ai margini la possibilità di tornare a negoziare nuovi scambi tra gli ostaggi israeliani nelle mani del movimento islamico e i prigionieri politici palestinesi. Invece, come si era capito già dal giorno successivo all’attacco di Hamas il 7 ottobre, la questione degli ostaggi pesa come un macigno sulle spalle di Netanyahu e sul futuro delle offensive militari israeliane a Gaza. I sequestrati sono l’arma più potente nelle mani del movimento islamico per costringere Israele al cessate il fuoco e a liberare i prigionieri palestinesi, traguardi che consentirebbero ad Hamas di risultare «vincitore» della guerra agli occhi dell’intera popolazione palestinese. Il gabinetto di guerra israeliano, perciò, farà di tutto per impedire che Hamas possa conseguire questa vittoria. Hamas gioca con abilità la carta degli ostaggi. Le immagini di tre anziani fra gli oltre 100 israeliani prigionieri a Gaza che ha diffuso due giorni fa, erano ieri su tutti i giornali israeliani. L’emozione suscitata dal video nell’opinione pubblica israeliana ha accresciuto la pressione sul governo Netanyahu - già in difficoltà per i tre ostaggi uccisi per errore la scorsa settimana dall’esercito - per arrivare a un nuovo scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi. I negoziati sono già ripresi. Il capo del Mossad israeliano David Barnea si è incontrato con il premier del Qatar Mohammed Al Thani e il capo della Cia per trovare una intesa con Hamas. Ieri è sceso in campo il Capo di Stato Isaac Herzog che ha affermato la disponibilità del suo paese per un’altra tregua temporanea. «Israele è pronto per un'altra pausa umanitaria e per ulteriori aiuti pur di consentire il rilascio degli ostaggi» ha detto il presidente incontrando oltre 80 ambasciatori. E ha ipotizzato un maggior ingresso di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Una delegazione di Hamas andrà al Cairo nei prossimi giorni per colloqui con alti funzionari dell'intelligence egiziana per discutere un nuovo potenziale accordo sugli ostaggi. L’Egitto sta esercitando forti pressioni su Hamas affinché accetti un accordo simile a quello che ha permesso la «pausa umanitaria» a fine novembre: liberare gli ostaggi in cambio di un certo numero di prigionieri. Ma al movimento islamico occorre di più per raggiungere i suoi obiettivi. Vuole la scarcerazione di detenuti di primo piano e non più, come a novembre, di dozzine di adolescenti arrestati da Israele con accuse di poco conto. Per i leader di Hamas all'estero gli ostaggi sono l’unica carta per imporre un cessate il fuoco generale. Quindi il rilascio dei sequestrati israeliani - in particolare donne, bambini e anziani - dovrà avvenire solo in cambio di una contropartita di eccezionale importanza, come la tregua definitiva, altrimenti Israele rinnoverà la sua offensiva alla scadenza dell’intesa. Da parte sua Israele dice di voler negoziare continuando la guerra e chiede la liberazione immediata delle donne ostaggio a Gaza che Hamas invece considera delle militari. Netanyahu esclude, per ora categoricamente, la scarcerazione di capi e militanti di Hamas di alto rango, perché consapevole che ciò porterebbe alla caduta immediata del suo governo di estrema destra. Allo stesso tempo si diffondono voci di segno diverso. E sia pure contro la sua volontà, Netanyahu e il gabinetto di guerra potrebbero dare l’ok alla liberazione di detenuti anziani che hanno scontato gran parte della loro pena. Difficilmente anche Marwan Barghouti, il più popolare dei prigionieri politici palestinesi».
DUE GENERALI AL POSTO DI NETANYAHU
I sondaggi fra i cittadini israeliani indicano che a governare, dopo Netanyahu, potrebbe essere il partito di Unità nazionale di Benny Gantz e Gadi Eisenkot, i due ex capi di Stato maggiore che a lungo hanno guidato l’opposizione e si sono uniti al governo di emergenza nazionale dopo le stragi del 7 ottobre. Francesca Caferri per Repubblica.
«Il tunnel in cui Israele è sprofondato il 7 ottobre ha una sola via d’uscita: quella che rafforza le politiche di sicurezza. Lo raccontano gli ultimi sondaggi: numeri che evidenziano due trend chiarissimi. La devastante perdita di consensi del primo ministro Netanyahu, ritenuto responsabile delle falle nella sicurezza che hanno consentito agli uomini di Hamas di penetrare nel Sud del Paese e agire indisturbati per ore prima che l’esercito riuscisse a fermarli. E la scomparsa dal panorama politico della sinistra dei padri fondatori del Paese, quel Labour già da anni in pesantissima crisi – alle ultime elezioni ha ottenuto solo quattro seggi che pochi giorni fa ha perso anche la sua leader Merav Michaeli, dimessasi vista l’impossibilità di operare nello scenario post 7 ottobre. A sancire la situazione è una ricerca commissionata dal canale tv Channel 12 al gruppo Migdam: se Israele andasse alle urne oggi a vincere nettamente (37 seggi rispetto ai 12 attuali e su una maggioranza alla Knesset che è di 61) sarebbe il partito di Unità nazionale di Benny Gantz e Gadi Eisenkot, i due ex capi di Stato maggiore che a lungo hanno guidato l’opposizione e si sono uniti al governo di emergenza nazionale dopo le stragi. Eisenkot pochi giorni fa a Gaza ha perso il figlio e un nipote: un sacrificio che non ha fatto che far crescere il rispetto pubblico nei suoi confronti. Al secondo posto, lontanissimo, il Likud di Netanyahu: 18 seggi contro i 32 di oggi. Solo terzo, 15 seggi rispetto ai 24 attuali, il centrosinistra di Yesh Atid guidato da Yair Lapid, l’altro leader dell’opposizione, colui che all’indomani del 7 ottobre ha scelto di separare la sua strada da quella di Gantz, rifiutando di sedere in un gabinetto in cui i ministri dell’ultradestra religiosa (anch’essa in forte calo) che aveva portato Netanyahu al governo avrebbero mantenuto i loro posti: scommessa che al momento non pare essere stata vincente. Peggio ancora di Lapid andrebbe il resto della sinistra storica: zero seggi per il Labour, il culmine di una crisi che da anni non fa che peggiorare. Non basterebbero a consolare gli orfani dei laburisti i dati relativi a Meretz, il partito progressista basato nell’area di Tel Aviv e legato ai kibbutz: alle ultime consultazioni non era entrato alla Knesset, mentre questa volta avrebbe cinque deputati. In tutto, Gantz e gli uomini con cui si era alleato in passato, oggi otterrebbero 71 seggi, controllando comodamente la Knesset, mentre l’attuale coalizione scenderebbe a 44. La lettura dei numeri sui media israeliani è univoca: se la maggioranza dell’elettorato non è disposta a perdonare Netanyahu, ancor meno è disposta a dare credito a chi (la sinistra) per anni ha invocato la necessità di un dialogo costruttivo con i palestinesi. Il mood dell’opinione pubblica, compresa la maggior parte della sua anima progressista, è chiaro: dopo il 7 ottobre ogni prospettiva di dialogo è lontana, è necessario fermare Hamas una volta per tutte. Non è un caso che, nonostante l’alto numero di morti fra i militari israeliani e le pressioni internazionali, le richieste di cessate il fuoco siano legate sempre alla crisi degli ostaggi e non alla richiesta di un’opzione diversa rispetto a quella militare. E non è un caso che in questo senso vadano anche le parole di Naftali Bennett, ex primo ministro, uomo della destra, falco sulla questione palestinese, che si sta preparando a tornare in scena: ieri ha chiesto al governo di «non permettere il ritorno della popolazione nel Nord di Gaza finché tutti gli ostaggi non saranno rilasciati».
“NON VOGLIAMO VIVERE SOTTO IL TERRORE”
Il diario da Gaza di Sami Al-Ajrami per Repubblica. Hisham, Ahmed e gli altri sono i ragazzini che cercano legna per dare pane agli sfollati. Gli abitanti della Striscia non vogliono più stare sotto il regime di Hamas.
«Nelle scuole di Gaza ancora rimaste in piedi e nei rifugi le organizzazioni umanitarie provano a dare sostegno mentale ai ragazzi. La loro vita è stata spazzata via. Non possono studiare, non possono sognare, non hanno nulla da fare se non cercare di sopravvivere, come tutti qui. Ma hanno anche una grande capacità di resistenza. Molti di loro stanno facendo volontariato, aiutano le associazioni a distribuire gli aiuti e gli sfollati a costruirsi una tenda. Nella zona occidentale di Rafah, che è diventata una tendopoli, ho conosciuto Ahmad e Hisham, 18 e 17 anni, che hanno deciso di aiutare gli sfollati facendo il pane. C’è un forno fatto di gesso, loro si occupano di procacciarsi la legna per accendere il fuoco. Trascorrono così gran parte della giornata, lavorando per gli altri. La vita quotidiana a Rafah è una sfida per arrivare vivi a sera. Gli aiuti stanno entrando, più di quanto accadesse 15 giorni fa, la situazione è migliorata ma siamo ancora solo poco sopra la soglia di sopravvivenza. Non abbiamo più il terrore di non avere acqua da bere, ma manca tutto, dai prodotti al mercato alle medicine. Ci sono gli ospedali da campo emiratini e qatarini che curano i feriti perché il centro medico locale è sopraffatto, ma mancano i farmaci, chi soffriva di malattie croniche fa fatica a curarsi. L’umore delle persone è a terra. Nelle famiglie ci si divide i compiti. C’è chi va a procurarsi l’acqua potabile, chi i coupon del cibo, ognuno ha la sua missione quotidiana. Le donne fanno il pane e sono sempre alla ricerca di forni in cui cuocerlo. Gli uomini riempiono i contenitori con il gas da cucina e li portano su e giù dai centri di distribuzione alle case o alle tende. C’è chi cerca carburante. Si mangia una sola volta al giorno. I bambini di mattina ricevono un pezzo di pane, e quella è la loro colazione. In alcuni campi sfollati, nella parte occidentale di Rafah, molti hanno iniziato un proprio business per sopravvivere. Vendono e comprano piccole cose, acqua potabile, fagioli, vanno a prenderli al mercato centrale e li portano lì per smerciarli: legna, nylon per riparare le tende, strumenti per costruire un bagno, temendo di dover restare lì per molto tempo ancora. Chi non ha nulla, prova a vendere i coupon per il cibo o gli aiuti che riceve dalle Ong. Al mattino presto ho visto alcune persone prendere i pacchi di aiuti ricevuti dalle organizzazioni internazionali e andare al mercato per rivenderli e racimolare qualche soldo e comprare cibo per la famiglia. Di sera tutti restano chiusi in casa o nelle tende, hanno paura, ci sono ancora bombardamenti, anche se con intensità minore rispetto ai giorni scorsi. L’altra notte hanno colpito di nuovo Rafah, almeno 30 morti. Bombardano ma non sappiamo quali siano i loro obiettivi. Molte persone hanno aperto le loro case per ospitare i rifugiati ed è impossibile sapere se tra loro ci siano militanti o affiliati di Hamas. Credo che nel giro di pochi giorni ci sarà uno stop ai combattimenti e un accordo per liberare gli ostaggi e forse anche per un cessate il fuoco perché Israele non ha più obiettivi, non riuscirà a fare quello che ha promesso. Volevano liberare gli ostaggi e non ci sono riusciti. Hanno compiuto molti massacri, crimini contro l’umanità, ma finora non sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi. A Khan Younis hanno provato a conquistare la città e a far collassare il regime di Hamas, a catturare o uccidere il leader del gruppo, per ora senza esito. Dovranno uscirne, trovare un accordo per lo scambio di prigionieri. Abbiamo sentito parlare di colloqui in corso per decidere il “post- guerra a Gaza”, ma sono discorsi lontani. È vero che la maggioranza delle persone qui non vuole più vivere sotto il regime di Hamas. Nessuno crede che dopo la guerra ci saranno Hamas o l’Anp al governo a Gaza. Tutti sono convinti che sarà Israele a controllare la Striscia».
“HAMAS HA USATO GLI OSPEDALI PER NASCONDERSI”
Sulla Stampa Fabiana Magrì riporta alcune dichiarazioni rese in interrogatorio da Ahmed Kahlot, direttore sanitario dell’ospedale Kamal Adwan di Jabalia. Dichiarazioni rese dopo il suo arresto e ora diffuse dall’esercito israeliano.
«Quando sono negli ospedali, sanno che non verranno presi di mira. Vi si nascondono perché sono luoghi sicuri». Dopo averlo sentito ripetere molte volte dal portavoce militare israeliano fin dall'inizio della guerra con Hamas, le stesse parole escono adesso dalla bocca di Ahmed Kahlot, direttore sanitario del Kamal Adwan di Jabalia. E sono solo una parte della dettagliata confessione rilasciata dal manager dell'ospedale del nord della Striscia a esercito e Shin Bet, i servizi interni, durante un interrogatorio dopo il suo arresto a Gaza il 12 dicembre, registrato e diffuso da Tsahal. Oltre a riconoscere che Hamas utilizza e controlla gli ospedali a scopi militari, Kahlot ammette che almeno 16 dei suoi dipendenti tra medici, infermieri, paramedici o impiegati sono militanti nelle Brigate Al-Qassam, il braccio armato della fazione islamista. Per le stanze del nosocomio Kamal Adwan passavano leader e funzionari di Hamas. «C'è un posto per gli interrogatori, uno per la sicurezza interna e un altro per la sicurezza speciale. Tutti sono dotati di un telefono privato e linee interne all'ospedale», ha dettagliato agli agenti dell'intelligence israeliana. Tra i "benefit" di cui godevano gli uomini di Hamas, ha confessato il palestinese, c'è «un'ambulanza privata» di colore e insegne diversi dalle altre, e senza targa. Anche un soldato israeliano rapito il 7 ottobre è stato trattenuto in uno degli uffici della struttura sanitaria e ha viaggiato sull'ambulanza di Hamas. Kahalot si è lamentato che quando l'ospedale ha fatto presente l'esigenza di usare il mezzo per trasportare i feriti in altri centri medici, come l'indonesiano o lo Shifa, la richiesta è stata negata perché l'altra «missione» era «più importante». Il direttore del Kamal Adwan è stato arrestato perché, come ha confessato lui stesso, era stato reclutato da Hamas «nel 2010 con il grado di generale di brigata». Che gli ospedali fossero tra i siti privilegiati dai jihadisti per attività militari e operative era noto all'esercito da anni. Dopo il massacro del 7 ottobre nelle comunità del sud di Israele, l'esercito ha avviato una campagna per smascherare Hamas ed esporre le attività illecite all'interno di diverse strutture sanitarie nella Striscia. Dai materiali raccolti e diffusi da Tsahal è emerso che accanto ai normali reparti ospedalieri, convivono depositi di armi ed equipaggiamento militare. E nei sotterranei, una rete di tunnel di collegamento con l'esterno».
94 GIORNALISTI UCCISI DAL 7 OTTOBRE
La denuncia è di una Ong americana che difende i giornalisti: «Dal 7 ottobre sono già 94 i reporter uccisi». Riccardo Michelucci per Avvenire.
«Non si era mai visto un numero di giornalisti uccisi in guerra come quello registrato negli ultimi due mesi a Gaza. A lanciare l’allarme, in un’intervista di qualche giorno fa al New Yorker, è stata Jodie Ginsberg, presidente del Committee to Protect Journalists (Comitato per la protezione dei giornalisti), autorevole Ong statunitense in difesa della libertà di stampa. Il Cpj ha accertato l’uccisione di almeno 64 giornalisti e operatori dell’informazione mentre stavano svolgendo il proprio lavoro per documentare la guerra tra Israele e Hamas. Una media di quasi uno al giorno. Una “Spoon River” infinita che non accenna a fermarsi e comprende quattro cronisti israeliani assassinati da Hamas durante gli attacchi del 7 ottobre, tre libanesi colpiti a morte mentre lavoravano al confine israelo-libanese e cinquantasette giornalisti palestinesi uccisi in servizio nella Striscia di Gaza dall’esercito israeliano. Ma il bilancio sarebbe ancora più alto secondo l’agenzia di stampa palestinese Wafa, che ha contato 94 giornalisti, fotografi e cineoperatori uccisi fino a ieri. Uno degli ultimi a cadere è stato il cameraman di al-Jazeera Samer Abudaqa. Un missile lanciato da un drone dell’esercito israeliano l’ha ucciso venerdì scorso mentre stava documentando un attacco aereo contro una scuola di Khan Yunis, nel sud della Striscia. Insieme a lui è rimasto ferito anche Wael al-Dahdouh, il corrispondente della tv qatariota che nei primi giorni della guerra aveva perso la moglie, i figli e un nipote in un raid israeliano e l’aveva scoperto mentre stava trasmettendo in diretta. Dahdouh è stato colpito al braccio destro da una scheggia. Abudaqa è rimasto invece intrappolato nella scuola per sei ore e secondo alcuni testimoni le forze israeliane avrebbero impedito ai soccorsi di raggiungerlo. Alla fine è morto dissanguato. Anche Amnesty International e Human Rights Watch puntano il dito contro l’operato dell’esercito israeliano sostenendo che eliminare i testimoni sul campo serve a silenziare la guerra. Le due Ong hanno individuato numerosi attacchi premeditati contro i media che a loro avviso dovrebbero essere indagati come crimini di guerra. Uno su tutti, quello del 13 ottobre scorso contro un gruppo di sette giornalisti che stavano documentando gli scontri tra Hezbollah e le forze israeliane nel sud del Libano, un attacco che ha causato la morte del giornalista dell’agenzia Reuters Issam Abdallah e il ferimento grave di altri sei colleghi, tra cui la fotoreporter di France-Presse Christina Assi, che ha subito l’amputazione di una gamba. Finora è rimasto del tutto inascoltato l’appello lanciato alla fine di ottobre dalla Federazione internazionale dei giornalisti (al quale ha aderito anche la Fnsi, il sindacato della stampa italiana) in cui si chiedeva ai ministri e ai comandanti militari israeliani di rispettare il diritto internazionale, che vieta espressamente di prendere di mira i giornalisti. Alcuni giorni fa l’esecutivo della stessa Federazione Internazionale ha reso noto di aver raccolto le prove di crimini commessi contro i giornalisti a Gaza e in Cisgiordania e di aver incaricato i propri legali di presentare una denuncia contro il governo israeliano alla Corte penale internazionale».
L’ITALIA NELLA TASK FORCE ANTI-HOUTHI
La crisi nel Mar Rosso. Il ministro della Difesa Crosetto annuncia che l’Italia parteciperà all’operazione “Prosperity Guardian” lanciata da Washington. E dice: «Tuteleremo la prosperità del commercio». I ribelli yemeniti, alleati con l’Iran, rilanciano: attaccheremo i cargo ogni 12 ore. La cronaca è del Sole 24 Ore.
«L’Italia parteciperà con una fregata all’operazione per difendere la navigazione nel Mar Rosso, ma i ribelli yemeniti Houthi alzano il livello dello scontro e definiscono «inutile» l’alleanza navale internazionale. L’annuncio ufficiale è arrivato dopo un videocollegamento a cui hanno partecipato il ministro alla Difesa, Guido Crosetto, e il capo del Pentagono, Lloyd Austin. «L’Italia - ha assicurato Crosetto - farà la sua parte, insieme alla comunità internazionale, per contrastare l’attività terroristica di destabilizzazione degli Houthi, che abbiamo già condannato pubblicamente, e per tutelare la prosperità del commercio e garantire la libertà di navigazione». L’invio della fregata europea multi missione Virgilio Fasan nel Mar Rosso era inizialmente previsto per febbraio nell’ambito della missione antipirateria Atalanta ma a questo punto rafforzerà l’operazione “Prosperity Guardian” lanciata da Washington, a cui - secondo quanto ha annunciato Austin - parteciperanno anche Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Spagna, Norvegia, Bahrein, Canada e Seychelles (ma non la Russia che si è chiamata fuori). L’operazione sfrutterà le missioni multinazionali già operanti nell’area, compresa la Combined Task Force 153 creata un anno fa dagli Usa per vigilare su Golfo di Aden e Stretto di Bab el-Mandeb. Le nuove minacce dei ribelli sciiti e filo-iraniani Houthi, arrivati ora a paventare un attacco ogni 12 ore per premere su Israele affinché fermi l’offensiva su Gaza, hanno portato a un’accelerazione sui tempi: già domenica, vigilia di Natale, la fregata italiana dovrebbe attraversare il canale di Suez. «Durante il colloquio con Austin - ha riferito Crosetto- è stata affermata l’importanza del principio di libera navigazione, valutato l’impatto sul commercio internazionale e discusse le opzioni per garantire la sicurezza delle rotte marittime al fine di prevenire ripercussioni sull’economia internazionale, con pericolose dinamiche sui prezzi delle materie prime». Va ricordato che i fondamentalisti Houthi hanno lanciato attacchi già un mese fa, con droni, barchini e missili per colpire le rotte commerciali sul Mar Rosso, arrivando persino ad assaltare e dirottare un mercantile, il 22 novembre. La fregata Fasan, dotata di missili Aster 30 e 15 in grado di garantire protezione in un raggio di 100 chilometri, potrebbe essere affiancata da una seconda nave italiana. Il leader del movimento yemenita alleato con l’Iran, Mohammed Abdulsalam, ha osservato che l’alleanza navale guidata dagli Stati Uniti è «essenzialmente inutile», aggiungendo che tutte le acque adiacenti allo Yemen sono sicure, tranne che per le navi israeliane o per quelle dirette in Israele, a causa della «ingiusta guerra di aggressione contro la Palestina».
LE ROTTE COMMERCIALI ABBANDONANO IL MAR ROSSO
Le navi portacontainer lasciano comunque il Mar Rosso: la task force non rassicura. Alcuni gruppi manifatturieri studiano modifiche alle catene di rifornimento. Sissi Bellomo per Il Sole 24 Ore.
«La task force internazionale annunciata dagli Stati Uniti nel Mar Rosso per ora non basta a rassicurare le società di navigazione, che continuano ad allontanarsi dall’area colpita dagli attacchi degli Houthi. Il ripristino della sicurezza, del resto, non è un obiettivo facile da raggiungere. C’è anzi il rischio che l’iniziativa di Washington provochi un ulteriore aumento della tensione se non addirittura un allargamento del conflitto. Sull’operazione Prosperity Guardian di certo si sa ancora troppo poco. E gli operatori marittimi si muovono con estrema cautela, mentre qualche grande gruppo manifatturiero inizia già a studiare modifiche nelle catene di rifornimento: segno che si aspetta un periodo prolungato di difficoltà logistiche. Tra questi sono venuti allo scoperto Electrolux e Ikea, che teme possibili «ritardi e limitata disponibilità di alcuni prodotti». La danese Maersk – numero due al mondo nel trasporto navale di container, che era stata tra i primi venerdì scorso a sospendere i transiti nel Mar Rosso – ieri ha confermato lo stop a tempo indefinito «a causa della situazione di sicurezza altamente deteriorata»: tutte le sue navi fino a nuovo avviso eviteranno la regione, compreso il Canale di Suez, utilizzando piuttosto la rotta intorno all’Africa, che richiede 10-15 giorni extra di viaggio dall’Asia all’Europa (e fino a un milione di dollari in più di carburante, secondo gli analisti di Xeneta). «Gli attacchi che abbiamo visto contro le navi commerciali nell’area sono allarmanti e pongono una minaccia significativa – spiega Maersk –. Abbiamo preso questa decisione per garantire la sicurezza dei nostri equipaggi, delle nostre navi e dei carichi a bordo». Anche le navi Maersk che si trovano già in prossimità del Mar Rosso (in tutto una ventina, di cui la metà nel Golfo di Aden) dovranno cambiare rotta «non appena fattibile dal punto di vista operativo». Analoghe istruzioni aveva impartito fin da lunedì la tedesca Hapag-Lloyd. E se altri operatori si mostrano più attendisti, non si vedono comunque segnali di ripensamento da parte di nessuna delle grandi società – almeno una dozzina – che hanno dichiarato lo stop alla navigazione nel Mar Rosso. La Lloyd’s Market Association, riferimento del potente settore assicurativo londinese, nel frattempo ha esteso l’area qualificata «a rischio guerra»: una decisione che peserà sul costo delle polizze navali, già più che triplicato in un mese. La task force a guida Usa, che sta ancora prendendo forma, lascia tiepide anche le organizzazioni del settore marittimo, che pure avevano invocato un’iniziativa a difesa delle navi mercantili: «Le compagnie esprimeranno un giudizio una volta che vedremo gli effetti dell’accresciuta sicurezza sui trasporti marittimi, ma per ora siamo solo agli inizi», ha dichiarato a Bloomberg Tv il segretario generale dell’International Chamber of Shipping, Guy Platten. Una prudenza che appare giustificata, dal momento che molti aspetti chiave dell’operazione Prosperity Guardian sono ancora tutti da chiarire: dai tempi necessari per dispiegare ulteriori mezzi militari, che potrebbero essere lunghi, alle modalità con cui si prevede di agire, in particolare se ci si limiterà a neutralizzare droni e missili o se sono ipotizzabili anche azioni più rischiose, come colpire basi degli Houthi. Non è chiaro nemmeno fino a che punto i Paesi dell’area si lasceranno coinvolgere, fosse anche solo in termini di appoggio esterno. Le potenze arabe, Arabia Saudita in primis, per ora sembrano restie ad esporsi, anche se a vigilare sulla sicurezza della navigazione nel Mar Rosso – in base a diversi accordi internazionali – dovrebbero essere proprio i Paesi che lo costeggiano. A riflettere il rischio geopolitico – che si sta accentuando anziché diminuire – e il timore per le ricadute sulle catene di rifornimento, le quotazioni del petrolio sono intanto salite anche ieri, di circa il 2%: il Brent è ormai a un soffio da 80 dollari al barile. Il gas, d’altra parte, ha cancellato il rialzo di lunedì, tornando a scambiare intorno a 33 euro/Megawattora al Ttf. Tra le navi che hanno cambiato rotta c’è anche qualche metaniera, ma gli analisti giudicano che l’impatto sulle forniture di Gnl sia limitato».
CHI SONO GLI HOUTHI. CONTRO ISRAELE E CONTRO L’ARABIA SAUDITA
Le milizie Houthi nascono per difendere l’islam zaidita contro gli arabi sunniti. Ma non disdegnano legami con Al Qaeda. Stefano Piazza per La Verità.
«I ribelli Houthi dello Yemen, sostenuti militarmente dall’Iran, stanno intensificando gli attacchi contro le navi nel Mar Rosso per «vendetta contro Israele», dall’inizio della sua campagna militare a Gaza. L’ostilità a Israele non è sorprendente dato che il motto degli Houthi che gravitano nell’orbita di Al Qaeda nella penisola arabica è «Dio è sommo, morte all’America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei, vittoria per l’Islam». È provato che gli Houthi siano stati armati e addestrati dall’Iran e ora si teme che i loro attacchi possano trasformare la guerra di Israele contro Hamas in un conflitto regionale più ampio. Secondo Ahmed Nagi, analista senior dello Yemen presso l’International Crisis Group, «l’Arabia Saudita ha attualmente bisogno di stabilità al suo confine meridionale e di eliminare le minacce da parte degli Huthi e di altri», aggiungendo che Riad trasformerà il suo ruolo nello Yemen «da militare a soft power», e il denaro per farlo non manca di sicuro. Ma chi sono gli Houthi, conosciuti anche come Gioventù credente o Partigiani di Dio? Il movimento è nato dalla guerra civile yemenita che infuria almeno dal 1994 quando il suo leader, Hussein Al Houthi, diede vita a Believing Youth, un movimento di rinascita religiosa di una sotto setta secolare dell’islam sciita chiamata zaidismo. Gli zaidi hanno governato lo Yemen per secoli, ma sono stati emarginati sotto il regime sunnita salito al potere dopo la guerra civile del 1962. Il movimento di Al Houthi è stato fondato per rappresentare gli zaiditi in contrasto al sunnismo radicale, in particolare quello wahhabita dell’Arabia Saudita. Ali Abdullah Saleh, il primo presidente dello Yemen dopo l’unificazione dello Yemen del Nord e del Sud nel 1990, inizialmente sostenne la Gioventù credente ma dopo che la popolarità del movimento cresceva e la retorica antigovernativa si intensificava, esso divenne una minaccia per Saleh. La situazione è poi precipitata nel 2003, quando Saleh sostenne l’invasione americana dell’Iraq, alla quale molti yemeniti si opposero. Per Al Houthi, la spaccatura era un’opportunità e così approfittando dell’indignazione pubblica, organizzò manifestazioni di massa ma dopo mesi di disordini, venne ucciso nel settembre 2004 dalle forze yemenite. La sua creatura però è sopravvissuta e l’ala militare Houthi è cresciuta man mano che sempre più combattenti si sono uniti alla causa. Incoraggiati dalle prime proteste della primavera araba del 2011, hanno preso il controllo della provincia settentrionale di Saada e hanno chiesto la fine del regime di Saleh. Saleh accettò nel 2011 di cedere il potere al suo vicepresidente Abd-Rabbu Mansour Hadi, ma l’operazione non funzionò. Gli Houthi hanno colpito nuovamente nel 2014, prendendo il controllo di alcune parti di Sana’a, la capitale dello Yemen, prima di prendere d’assalto il palazzo presidenziale all’inizio dell’anno successivo. Hadi è fuggito in Arabia Saudita, che non a caso ha lanciato una guerra contro gli Houthi su sua esplicita richiesta nel marzo 2015. Quella che Mohammed Bin Salman prevedeva fosse una rapida e vittoriosa campagna militare - all’epoca preferiva le soluzioni di forza - è stata un disastro ed è durata anni prima del cessate il fuoco firmato nel 2022. È scaduto dopo sei mesi ma le parti in guerra non sono poi tornate ai combattimenti su larga scala. Le Nazioni Unite hanno affermato che la guerra nello Yemen si è trasformata nella peggiore crisi umanitaria del mondo: quasi un quarto di milione di persone è stato ucciso durante il conflitto. Dopo il cessate il fuoco gli Houthi hanno consolidato il loro controllo su gran parte dello Yemen settentrionale. Quanti sono? Secondo l’esperto del movimento Ahmed Al Bahri, gli Houthi sarebbero 100-120.000 (tra combattenti armati e non), ma si tratta di numeri difficilmente verificabili. L’Iran ha iniziato ad aumentare i suoi aiuti al gruppo nel 2014 con l’escalation della guerra civile e l’intensificarsi della sua rivalità con l’Arabia Saudita e oggi gli Houthi fanno parte del cosiddetto «Asse di Resistenza», un’alleanza antisraeliana e anti-occidentale di milizie regionali guidata e sostenuta dalla Repubblica islamica. Anche se gli Houthi potrebbero non essere in grado di rappresentare una minaccia per Israele, la loro tecnologia può comunque provocare caos nel Mar Rosso e spingere Al Qaeda nella penisola arabica ad azioni anche fuori dallo Yemen».
GERMANIA E FRANCIA OTTIMISTE SUL NUOVO PATTO
Asse Berlino-Parigi sul nuovo Patto? Cena di lavoro ieri sera tra i ministri delle Finanze di Germania e Francia per limare i dettagli. Lindner e Le Maire a colloquio ieri con Giorgetti assicurano: siamo anche allineati con l’Italia. Ma Roma è prudente. Beda Romano e Gianni Trovati per Il Sole 24 Ore.
«I Ventisette sono vicini a un accordo sull’annosa riforma del Patto di Stabilità e di Crescita, secondo quanto affermato ieri dai ministri delle Finanze di Francia e Germania. Bruno Le Maire e Christian Lindner si sono incontrati nella serata di ieri a Parigi per trovare una intesa definitiva tra loro, da proporre successivamente agli altri partner in una riunione straordinaria dei ministri delle Finanze dell’Unione europea prevista per oggi qui a Bruxelles. «Siamo vicini a un accordo tra noi sul 100% del testo», ha detto il ministro Le Maire, prima di incontrare per una cena di lavoro la sua controparte tedesca. «Abbiamo compiuto molto lavoro in questi giorni, anche con l’Italia, con la quale siamo pienamente allineati (…) C’è stato un grande sforzo da parte di tutti i ministri». Ha aggiunto al suo fianco il ministro Lindner: «Sono fiducioso che un accordo politico a 27 domani (oggi per chi legge, ndr) sia possibile». Interpellati a Roma, esponenti del ministero dell’Economia e delle Finanze confermavano i colloqui di ieri tra il ministro Giancarlo Giorgetti e i suoi omologhi di Francia e Germania, ma preferivano mantenere il riserbo sul contenuto delle conversazioni. È presumibile che la posizione italiana sia prettamente negoziale, ma lascia presupporre che non ci sia atteggiamento di chiusura da parte del governo Meloni sui passi avanti compiuti in questi ultimi giorni. La riunione ministeriale di oggi giunge dopo che il 7-8 dicembre i ministri delle Finanze non erano riusciti a chiudere il negoziato su una delicatissima riforma del Patto di Stabilità (si veda Il Sole 24 Ore del 9 dicembre). Mancava all’appello il 5-10% del testo legislativo. Gli ultimi dieci giorni sono stati dedicati a un acceso negoziato tra i principali Paesi dell’Unione, nel tentativo di chiudere la partita e iniziare la fase successiva, ossia il negoziato con il Parlamento. Secondo il testo di compromesso pubblicato l’8 dicembre, i Paesi con un debito superiore al 90% del Pil saranno chiamati a perseguire un aggiustamento annuo pari ad almeno l’1,0% del Pil. Nel caso di deficit eccessivo, l’aggiustamento strutturale dovrà essere di almeno lo 0,5% del Pil. Nel periodo 2025-2027, tuttavia, circostanze attenuanti, quali il costo del servizio del debito, permetteranno di limitare l’onere dell’aggiustamento. Secondo il ministro Lindner, le questioni ancora aperte ieri sera riguardavano principalmente il braccio preventivo del Patto di Stabilità, ossia quello che regolamenta le finanze pubbliche quando il disavanzo nazionale è sotto al 3,0% del prodotto interno lordo. Sappiamo che la Germania ha chiesto salvaguardie di bilancio che impongano deficit di un massimo dell’1,5% del Pil in termini strutturali, in modo da avere spazio di manovra nel caso di shock economico. Diplomatici europei spiegavano ieri che da decidere sarebbero ancora la velocità con la quale i singoli Paesi dovranno avvicinarsi alla soglia di salvaguardia e la deviazione massima dell’andamento della spesa pubblica nazionale rispetto all’evoluzione concordata con i partner. La speranza del ministro Le Maire è che un accordo tra Parigi e Berlino possa essere fatto proprio dagli altri Paesi membri: «Crediamo che la nostra intesa rispecchierà un giusto equilibrio, accettabile per tutti». L’incontro di oggi pomeriggio si terrà in videoconferenza, un aspetto criticato dal governo italiano. Ieri la presidenza spagnola ha spiegato che non tutti i ministri avrebbero potuto essere a Bruxelles, e che ha quindi preferito organizzare una riunione in videoconferenza in modo da assicurare la partecipazione del maggior numero di dirigenti politici. Come detto, una volta trovato un accordo tra i Ventisette, il testo del nuovo Patto di Stabilità andrà negoziato con il Parlamento. Intanto, già ieri sera il ministro Le Maire si voleva ottimista e celebrativo: «Per la prima volta nella storia avremo un Patto che garantisca al tempo stesso la sostenibilità delle finanze pubbliche e il sostegno all’economia». Nel riformare le regole di bilancio il tentativo dei Ventisette è stato di associare risanamento del debito con la promozione degli investimenti».
OGGI ALL’ECOFIN STRAORDINARIO FORSE L’ACCORDO
Francesca Basso per il Corriere spiega la partita intrecciata che si apre oggi alla riunione dell’Ecofin su Patto, Pnrr e Mes.
«Riforma del patto di Stabilità, Pnrr e Mes: tre dossier europei con l’Italia al centro, i primi due avanzano e il terzo è ancora in stallo. Oggi all’Ecofin straordinario potrebbe arrivare l’accordo dopo che ieri sera a Parigi il francese Bruno Le Maire e il tedesco Christian Lindner hanno cercato di superare le ultime divergenze. E ieri l’Italia ha annunciato di avere raggiunto i 52 obiettivi necessari per richiedere il pagamento della quinta rata da 10,5 miliardi del Pnrr entro fine anno. Inoltre, sono attesi in questi giorni i 16,5 miliardi della quarta rata, che farà «salire complessivamente la quota già incassata a circa 102 miliardi, più della metà dell’intero Piano di ripresa e resilienza», ha osservato la premier Giorgia Meloni, sottolineando che l’Italia è stata il primo Paese Ue a farne richiesta. La Camera ieri ha anche approvato in via definitiva il Ddl sulla concorrenza 2022, che concorre all’attuazione del Pnrr. Resta invece ancora in sospeso la ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità: manca solo l’Italia dei 20 Paesi che lo hanno sottoscritto. Il governo ha rinviato il parere sul Mes e le opposizioni hanno abbandonato la commissione Bilancio alla Camera per protesta. La maggioranza starebbe valutando un ritorno in commissione o una nuova sospensiva per votare la ratifica a gennaio. L’attenzione è però sulla riforma del patto di Stabilità, che condizionerà le scelte di politica economica dei Paesi Ue nei prossimi anni e il margine di manovra. Ieri il ministro dell’Economia francese Le Maire in conferenza stampa con e il collega delle Finanze tedesco Lindner ha spiegato che per raggiungere un’intesa restano da risolvere «piccole difficoltà tecniche sul braccio preventivo». E Lindner ha confermato che «dobbiamo ancora concordare alcuni numeri», aggiungendo di avere avuto «un colloquio con il nostro collega italiano. Sono fiducioso che sarà possibile raggiungere un’intesa politica nella riunione straordinaria di domani». Le Maire ha detto che «è una notizia eccellente avere la Germania, la Francia e l’Italia allineate sulle nuove regole del Patto». Il ministro Giorgetti è prudente e tace, rinviando tutto alla discussione di oggi. Nei nuovi testi legislativi proposti dalla presidenza spagnola, visionati dal Corriere , viene confermata la salvaguardia sul debito: i Paesi con un rapporto debito/Pil superiore al 90% (l’Italia) dovranno ridurre il debito di 1% all’anno, i Paesi sotto quella soglia dello 0,5% all’anno. Cambia l’ancora sul deficit che ora ha solo una soglia: i Paesi Ue non potranno limitarsi a un rapporto deficit/Pil al 3%, ma dovranno garantire un cuscinetto per le situazioni di crisi e scendere all’1,5%. Un alto funzionario Ue ha spiegato che resta da determinare la velocità alla quale i Paesi devono convergere verso la salvaguardia e l’ipotesi sul testo è fra parentesi quadre (cioè ancora in discussione): «Il miglioramento annuale del saldo primario strutturale per raggiungere il margine richiesto è pari allo [0,4]% del Pil, ridotto allo [0,25]% del Pil in caso di proroga del periodo di aggiustamento», quindi a seconda che sia in 4 o 7 anni. Restano da definire anche le soglie del conto di controllo, ovvero la massima deviazione consentita rispetto al percorso di spesa netta annua. È passata invece la flessibilità temporanea, definita però solo in un considerando (24bis): nel valutare la procedura per deficit eccessivo la Commissione può nel 2025, 2026 e 2027 «al fine di non compromettere gli effetti positivi del Pnrr», adeguare il parametro di riferimento, che è dello 0,5%, per tenere conto dell’aumento dei pagamenti di interessi e gli investimenti per la transizione verde e digitale e la difesa».
LIMITATA LA DIVULGAZIONE DI ATTI GIUDIZIARI
Con un emendamento di Enrico Costa di Azione, la Camera mette un limite alla divulgazione delle ordinanze di custodia cautelare da parte della stampa. I giornalisti dovranno attendere il termine dell’udienza preliminare per pubblicare le ordinanze. Per le opposizioni è una “legge bavaglio”. Esulta Carlo Calenda: “Una battaglia di civiltà per i principi del garantismo”.
«I giornali non potranno più pubblicare, «integrale o per estratto», il testo di un'ordinanza di custodia cautelare fino al termine dell'udienza preliminare. Con 160 favorevoli e 70 contrari la Camera ha approvato ieri sera l'emendamento di Enrico Costa (Azione) alla legge di delegazione europea che modifica la normativa sulla divulgazione di atti e immagini del processo. Si sono opposti Movimento 5 stelle, Partito democratico e Alleanza Verdi e Sinistra Italiana che parlano di «nuova legge bavaglio». Con la maggioranza hanno votato gli ex alleati del Terzo polo, Azione e Italia viva. Per una questione tecnica, l'approvazione è avvenuta con voto palese (il deputato Costa ha accettato una riformulazione del governo). Il testo modifica la legge Orlando del 2019 sulle intercettazioni, che permetteva la pubblicazione di stralci delle ordinanze. Insorge il M5s, secondo cui «l'emendamento di Azione che intende impedire la pubblicazione integrale o per estratto del testo dell'ordinanza di custodia cautelare fino alla conclusione delle indagini preliminari è un altro vergognoso bavaglio che colpisce e umilia il diritto dei cittadini ad essere informati». Il partito di Giuseppe Conte accusa il «governo Meloni e la sua maggioranza allargata ad Azione e Italia viva» di voler «nascondere o lasciare impunite le malefatte della borghesia mafiosa, dei corrotti, dei comitati d'affari». L'attacco è frontale: «La giustizia classista del governo Meloni – scrivono i rappresentanti del Movimento 5 Stelle in commissione Giustizia alla Camera Stefania Ascari, Federico Cafiero De Raho, Valentina D'Orso e Carla Giuliano – procede a passo spedito portando l'Italia in un medioevo dei diritti». Secondo Angelo Bonelli e Devis Dori, deputati di Avs, «l'emendamento a firma Costa riformulato sulla legge delegazione europea, approvato oggi dalla Camera, in mano a questo Governo può diventare un nuovo bavaglio alla libertà di stampa. Non possiamo certo ritenere che questo Ministero della Giustizia che alterna annunci garantisti e panpenalismo di fatto possa avere il giusto equilibrio per trattare un tema così delicato». Esulta il leader di Azione Carlo Calenda: «Un grande servizio di Enrico Costa, che si è battuto duramente per questa battaglia di civiltà e che risponde ai principi di garantismo e giusto processo previsti in Costituzione». Già lunedì il Comitato Esecutivo del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti aveva espresso «grande preoccupazione» per l'emendamento Costa, denunciando il rischio di «un black out totale sulle notizie di cronaca giudiziaria» con «un duro colpo al diritto di cronaca». Il governo celebra per voce della sottosegretaria azzurra ai Rapporti con il Parlamento Matilde Siracusano «un risultato positivo, un buon traguardo per ribadire ancora una volta l'importanza, per Forza Italia e per il governo, del garantismo e della presunzione di innocenza, cardini chiave sui quali si fonda la nostra Costituzione».
RENZI: MELONI È UN’INFLUENCER, NON UN DITTATORE
Matteo Renzi scrive su Libero e si rivolge ai compagni della sinistra. L’accusa al governo di compiere una svolta autoritaria con la legge sul premierato è “ridicola”.
«Non ho mai fatto sconti a Giorgia Meloni. Non più tardi di ieri su Il Riformista abbiamo scritto che è un’influencer, non una statista. Sulla giustizia siamo delusi dai ritardi delle riforme e dal giustizialismo strisciante che emerge nella cultura politica di Fratelli d’Italia. Sull’economia vediamo tante chiacchiere e pochi cambiamenti. Sulla politica internazionale la Premier ha cambiato idea su tutto ma non ha portato risultati a casa su nulla. Dunque, nessun dubbio sul giudizio negativo sul governo. Ma proprio per questo oggi dobbiamo difendere il centrodestra dall’accusa più ridicola che viene rivolta a reti unificate dal resto dell’opposizione e da alcuni, editorialisti di sinistra. L’accusa è semplice: deriva autoritaria, svolta antidemocratica. Perché? Perché con la riforma costituzionale la destra riduce i poteri del Presidente della Repubblica. È vero che vengono ridotti i poteri del Colle ma questo non vuol dire che ci sia una svolta autoritaria. Si possono ridurre o aumentare i poteri del Quirinale senza per forza dover evocare ogni piè sospinto il fascismo. Del resto, l’unico modo per mantenere intatti i poteri del presidente è non fare niente. Mentre il modo per aumentare i poteri sostanziali del presidente è eleggerlo direttamente. L’elezione diretta del premier, invece, toglie giocoforza poteri al Presidente della Repubblica. Con una riforma del genere (che tanto non si farà mai perché la Meloni scrive le riforme su Twitter ma non in Gazzetta Ufficiale) non saranno mai più possibili i governi tecnici e i ribaltoni e il Capo dello Stato non potrà più trovare soluzioni “creative” alle crisi di governo. Chi scrive ha contribuito a qualche crisi di governo ed è stato insultato sia a destra quando abbiamo mandato a casa Salvini, sia a sinistra quando abbiamo mandato a casa Conte. Bene, io per primo ammetto che con la riforma certe manovre di palazzo non saranno più possibili. Ma sostenere che questo sia l’annullamento del ruolo del Presidente della Repubblica figlio della destra autoritaria è falso. E nessuno ha il coraggio di dire che anche la proposta della sinistra – il cancellierato con la sfiducia costruttiva – toglie poteri al presidente. Esattamente allo stesso modo. I poteri tolti al Colle vanno nel primo caso ai cittadini che eleggono il premier direttamente, nel secondo caso ai parlamentari che possono aprire una crisi solo se hanno già individuato un’alternativa. Non fate di Mattarella il capo dell’opposizione, per favore. Non fatene il federatore dei vostri sogni. Non lo merita (e non lo accetterà mai, ovviamente) il nostro presidente, non lo meritano le nostre istituzioni. Chi ha lavorato per avere Mattarella al Quirinale nel 2015 e chi ha lavorato per non avere la Belloni nel 2022 conosce bene il valore del Capo dello Stato. Per questo nessuno si può permettere di fare l’opposizione a Meloni strumentalizzando il ruolo del presidente. Che è l’arbitro, non un giocatore».
CROSETTO: NON SONO CONTRO I GIUDICI
Informativa urgente di buon mattino in un’Aula semivuota del ministro Guido Crosetto. Che dice: «Non attacco i giudici, ma non fanno loro le regole». L’Anm commenta: allarme rientrato. Arturo Celletti per Avvenire.
«Guido Crosetto non indietreggia. Anzi, di buon mattino in una Camera poco affollata, torna a mettere in fila tutte le sue preoccupazioni. «Mi era stato riferito che in varie riunioni ufficiali della magistratura venivano dette delle cose che dovevano sollevare preoccupazioni istituzionali, un dibattito. Il mio non è stato un attacco alla magistratura, le mie sono state riflessioni e preoccupazioni riguardo ad alcune tendenze che vedo emergere non in modo carbonaro, ma in modo molto evidente». Siamo al capitolo due, all’informativa urgente dopo l’intervista rilasciata al Corriere della sera il 26 novembre. Insomma, per capire bisogna tornare indietro di un mese. «A me raccontano di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a fermare la “deriva antidemocratica” a cui ci porta Meloni. Siccome ne abbiamo viste fare di tutti i colori in passato, se conosco bene questo Paese mi aspetto che si apra presto questa stagione, prima delle Europee... ». Parole nette, polemica inevitabile. Crosetto prova a spiegare. Il 6 dicembre viene anche ascoltato in Procura a Roma, come persona informata sui fatti, in merito ai suoi timori. Poi, venerdì scorso incontra al ministero il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia. E nell’incontro definito cordiale ci sarebbe stato un chiarimento sulla questione. Tanto che ieri sera lo stesso Santalucia ha parlato di «allarme rientrato». Alla Camera, dunque, va in scena l’atto secondo: l’informativa urgente. «Nessun potere o organo dello Stato deve sentirsi sotto attacco, potendo operare in libertà», dice Crosetto. «Alcune cose lette - spiega tornando a riferirsi a conversazioni interne alla magistratura - sono qualcosa su cui la Camera dovrebbe riflettere». Al suo fianco c’è il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Come se l’intenzione del governo e di Giorgia Meloni fosse mostrare che le parole del ministro della Difesa sono di tutto l’esecutivo. Crosetto insiste: «Che senso ha in una democrazia avere 3/4 persone al giorno che finiscono ingiustamente in carcere? Non i potenti, che raramente ci finiscono. Parlo di migliaia di persone, sconosciute, che vanno ogni giorno in carcere senza alcuna motivazione». Parole ancora una volta dure, ma dietro le quali prende forma la volontà di cambiare passo. «Penso sia importante - per uscire dallo stallo in cui la politica italiana è da quasi 30 anni - uscire da questo scontro pregiudiziale tra politica e magistratura, definendo le regole entro le quali si muovono il potere esecutivo, legislativo e giudiziario. La volontà popolare risiede qui. La rappresentanza non appartiene alla magistratura e neppure all’esecutivo», ma «al Parlamento». Però c’è la volontà di riavvicinare politica e magistratura, costruendo «un tavolo di pace nel quale si definiscono le regole per la convivenza nei prossimi anni». Più tardi, via social, Crosetto interviene anche per replicare a un articolo del Fatto quotidiano sull’affitto non pagato nella sua nuova casa di Roma: «Come mai mi sono trasferito da 2 mesi in un appartamento (non utilizzando l’alloggio di servizio a disposizione, gratuitamente, alla Difesa) e pagherò da gennaio? Semplicemente perché i lavori (a carico a locatore) sono a questo punto ». Quindi pubblica le foto dei lavori di ristrutturazione in corso nell’appartamento, di proprietà di Carmine Saladino, imprenditore nel settore della cybersicurezza».
FERRAGNI, DOPO I PANDORO LE UOVA DI PASQUA
Selvaggia Lucarelli sul Fatto e la newsletter “Appunti” di Stefano Feltri (su substack, come questa Versione, da non perdere) hanno ieri rivelato altri guai per l’influencer Chiara Ferragni. Avrebbe fatto per le uova di Pasqua un’operazione molto simile ai Pandoro. Paolo Bracalini sul Giornale.
«La finta beneficenza usata per il proprio tornaconto e come marketing di autopromozione. Quello che emerge dal pandoro-gate di Chiara Ferragni non è affatto un «errore in buona fede», come sostiene lei, ma una spregiudicata pratica commerciale già utilizzata in passato per ottenere un doppio vantaggio: un megacompenso e poi il ritorno di immagine facendosi passare per benefattrice. Come per il pandoro Balocco che le ha fruttato 1 milione di euro senza dare un centesimo all’ospedale Regina Margherita di Torino (50mila euro erano stati donati solo dalla Balocco, mesi prima), la stessa cosa è successa per le uova di Pasqua della Dolci Preziosi, nel 2021 e 2022. Come ha scoperto Selvaggia Lucarelli sul Fatto, la Ferragni anche per quella campagna ha venduto a peso d’oro l’utilizzo della propria immagine, per brandizzare l’uovo di cioccolato della ditta dolciaria pugliese. Anche quello rosa, con in grande il nome Chiara Ferragni e sotto «Sosteniamo i Bambini delle Fate», un’associazione che aiuta i bambini autistici. Un messaggio che, come nel caso del pandoro, lasciava intendere che i proventi delle vendite avrebbero contribuito alla beneficenza. Invece, anche in questo caso, i soldi veri sono finiti nelle tasche della influencer. Mezzo milione di euro nel 2021, 700mila euro nel 2022, mentre nel 2023 la Dolci Preziosi ha rinunciato alla terza edizione perché la Ferragni avrebbe chiesto «una cifra esorbitante». Dunque siamo a 1,2 milioni di euro di cachet solo per prestare il nome e pubblicare qualche post sui social, dando ad intendere che il ricavato avrebbe aiutato i malati («Troppo fiera di sostenere i Bambini delle fate», scriveva in uno dei post). All’associazione, invece, quanto è andato? Una miseria, solo 12mila euro il primo anno e 24mila euro il secondo, ovviamente dalla Dolci Preziosi, nemmeno un centesimo dalla Ferragni. La quale, nel frattempo, ha fatto sparire i vecchi post in cui pubblicizzava l’uovo pasquale benefico (sì, per lei). «Mi stupisce che abbiano dato 700.000 euro per il testimonial e 12.000 euro per il sociale, è una vergogna» dice al Fatto Franco Antonello de Bambini delle Fate. Preciso che per l’operazione uova non abbiamo mai avuto contatti con Ferragni, ho provato a contattarla e parlarle, ma non è stato possibile». Un’operazione identica a quella del pandoro, che alla influencer ha fruttato una multa di 1 milione di euro dell’Antitrust ma soprattutto una terribile figuraccia, per lei che vive di immagine. Ci sarà una seconda multa? Il Codacons ha presentato un esposto all’Antitrust anche per le finte uova benefiche, la procura ha aperto un fascicolo sul caso pandoro, mentre Fdi chiede il ritiro dell’Ambrogino d’oro. Un danno di immagine anche per le due aziende che hanno profumatamente pagato i servigi della Ferragni e si trovano in mezzo alla bufera. «Dolci Preziosi», precisa in una nota che non c’era alcuna volontà di collegare espressamente le vendite delle uova alle donazioni. L’ambiguità, almeno da parte della Ferragni, è però evidente, per non dire voluta. Anche il marito Fedez gioca al buon samaritano, con una sua fondazione, che però - come racconta Stefano Feltri nella sua newsletter «Appunti» - finora ha raccolto poco e fruttato soprattutto pubblicità per Fedez oltre ad un vantaggio fiscale di 30mila euro sempre per lui. Fare del bene (soprattutto a sé stessi) è una specialità di famiglia».
NUOVE ACCUSE DELL’ONU A TRIPOLI SUI MIGRANTI
Nuovo documento delle Nazioni Unite sulla gestione dei migranti da parte delle autorità libiche. Il segretario Guterres dice: istituzioni complici della deportazione nei campi clandestini. Per la prima volta l’Onu accusa. Nello Scavo per Avvenire.
«Mentre il segretario generale dell’Onu si apprestava a consegnare il suo rapporto annuale sulla Libia, nella capitale i clan armati affiliati al presidente Dbeibah aprivano il fuoco sui tifosi di una squadra ospite. Perché fosse chiaro neanche nel calcio c’è spazio per chi fa il tifo contro i padroni di Tripoli. Anche di questo parla il dossier di Antonio Guterres, che già nei mesi scorsi era riuscito a ottenere con un voto all’unanimità del Consiglio di sicurezza l’inasprimento delle sanzioni per i boss dei traffici libici. E sono ancora loro i protagonisti del nuovo atto d’accusa. Che compie un doppio salto in avanti, nella direzione indicata dalle indagini della Corte penale internazionale e degli ispettori Onu a Tripoli. Per la prima volta Guterres accusa le istituzioni libiche di essere complici della deportazione di migranti e profughi nei campi di prigionia clandestini: «I diritti umani e la situazione umanitaria dei migranti e dei ri-fugiati rimangono una grave preoccupazione». Succede quando la cosiddetta guardia costiera libica compie interventi in mare. «Molte delle persone intercettate - accusa Guterres - sono state successivamente trasferite in centri di detenzione ufficiali, ai quali le Nazioni Unite hanno accesso limitato, e altre in centri di detenzione non ufficiali, ai quali le Nazioni Unite e gli attori umanitari non hanno accesso». Sono le autorità a consegnare i sopravvissuti alle traversate direttamente nelle mani dei trafficanti. Molti dei quali rispondono direttamente agli ufficiali della guardia costiera e ai capo delle milizie affiliate a vari ministeri del governo centrale. A ottobre il “Panel of experts”, la commissione di investigatori internazionali incaricati dal Consiglio di sicurezza, aveva ricostruito l’intera filiera, ottenendo dal Consiglio di sicurezza l’ordine di congelamento dei beni e il blocco del passaporto di una dozzina di esponenti libici, tutti però rimasti regolarmente al proprio posto di comando. I meccanismi criminali permettono di massimizzare i profitti ottenendo fondi ed equipaggiamento da Paesi come l’Italia e dall’Ue, oltre che il denaro dai prigionieri per venire liberati nuovamente liberati e rimessi sui barconi. Dopo che le denunce avevano fatto il giro del mondo e in seguito alle pressanti richieste dell’Onu per ispezionare il campo di prigionia ufficiale di Zawyah, una delle principali piattaforme logistiche del traffico internazionale di persone, armi, petrolio e droga, i clan hanno pensato di nascondere i crimini, come aveva scoperto e denunciato il gruppo di ispettori internazionali a ottobre, replicando «lo stesso schema di atti violenti commessi in una struttura di detenzione segreta per migranti, vale a dire il centro di detenzione di Al-Zahra, noto come “Prigione 55”, a Warshafanah », nell’entroterra di Zawyah, non lontano dalla principale raffineria libica, e sotto il controllo diretto di alcuni ufficiali della Marina militare libica. Ma è nelle pieghe del linguaggio che si trovano i segni di tutta l’irritazione della segreteria generale Onu. Fino a pochi mesi fa gli interventi delle milizie marittime libiche (almeno tre raggruppamenti di guardiacoste affiliati a diversi ministeri, in contrapposizione tra loro), nei documenti Onu erano riportati con l’indicazione «rescued/intercepted », a indicare che le operazioni erano contemporaneamente di soccorso e intercettazione. Una definizione fin troppo benevola, per chi è accusato d’essere parte dell’industria del traffico di esseri umani. Ma con il nuovo dossier Guterres ha stabilito il nuovo standard nel linguaggio ufficiale: «intercepted/ returned». In altre parole, «intercettati e riportati a terra», non più «soccorsi», proprio perché le operazioni in mare finalizzate alla deportazione in centri di detenzione ufficiali e altri completamente illegali, non possono essere annoverati tra i «salvataggi», per come li definisce il diritto internazionale umanitario. «Dall’inizio dell’anno al 25 novembre 15.057 persone, tra cui donne e bambini, sono state intercettate e riportate in Libia. Nello stesso periodo - si legge ancora - sono stati segnalati altri 939 morti e 1.248 dispersi in mare». Chi sopravvive spesso viene sottratto a qualsiasi possibilità di contatto con le agenzie umanitarie. Le statistiche ufficiali non tengono conto dei «centri di detenzione per migranti sotto l’autorità del Ministero dell’Interno o nei centri di detenzione non ufficiali per immigrati sotto il controllo di gruppi armati», segnala ancora Guterres. Impossibile sapere quanti siano in prigionia. E questo nonostante «la Libia continua a essere sia un Paese di destinazione che di transito per i migranti e i richiedenti asilo diretti in Europa. Secondo l’Oim, il numero di migranti in Libia era di 704.369 a novembre», riporta il segretario generale. Copione inverso, ma con uguali ricadute, sulle rotte di terra. «Proseguono le espulsioni collettive di migranti e rifugiati in Libia e dalla Libia verso i paesi vicini (Tunisia, Egitto, Sudan, ndr), mentre le condizioni nei centri di detenzione diventano sempre più terribili», insiste il dossier nel quale viene ricordato che «le espulsioni forzate sono severamente vietate dal diritto internazionale umanitario e devono cessare». Da giugno 5.610 migranti e rifugiati sono stati intercettati dalle guardie di frontiera libiche, dai funzionari doganali e dalla Direzione per la lotta alla migrazione illegale al confine con la Tunisia. «In totale - spiega il rapporto Onu - sono stati segnalati 29 decessi e oltre 80 persone risultano disperse. Al 30 novembre, 352 migranti e rifugiati di 16 diverse nazionalità provenienti dalla Tunisia erano rinchiusi nel centro di detenzione di Al Assa (323 uomini, 21 donne e 8 bambini) sul lato libico del confine, e le persone sono state trasferite in centri di detenzione» nei quali ancora una volta «la missione Unsmil né i partner umanitari hanno accesso». Cosa accade nelle prigioni è fin troppo noto: «Durante una visita al centro di detenzione femminile di Judaydah, a Tripoli, il 13 agosto, Unsmil - riferisce Guterres - ha incontrato detenute che hanno riferito di essere state sottoposte a torture e maltrattamenti, violenza sessuale, isolamento e separazione dai figli».
ANCHE LA FRANCIA DI MACRON CONTRO I MIGRANTI
Stop ai migranti anche in Francia coi voti di Le Pen. Inasprite le regole su accoglienza e asilo. Esulta la destra: «Una nostra vittoria ideologica». Francesco de Remigis per Il Giornale.
«L’ora della verità si è materializzata ieri pomeriggio. Dopo giorni di stop and go, la «Macronie» ha dovuto cedere alla stretta legislativa sull’immigrazione. La destra francese canta vittoria. E non solo quella neogollista, che si è vista accogliere larga parte delle sue proposte dalla commissione parlamentare mista incaricata di trovare una quadra al testo del governo respinto la settimana scorsa dall’aula. Ma pure il Rassemblement national di Marine Le Pen: che parlando di «vittoria ideologica del RN» (e con sondaggi al 31%) ieri si è detta pronta a votare la legge (riscritta) del pur detestato ministro dell’Interno Gérald Darmanin. Il testo indica il nuovo corso sull'accoglienza in Francia; inasprisce le regole sull'asilo come deterrente per altri arrivi e facilita le espulsioni di immigrati con nuovi criteri, accettando di regolarizzare parte dei lavoratori sans-papier solo «caso per caso» e non in modo generalizzato. Soprattutto, ius soli non più automatico e norme più stringenti per i ricongiungimenti. Dopo giorni di No alle istanze lepeniste, accordo a destra e crisi della maggioranza. Il governo aveva tentato di far passare il suo testo originale in aula, andando a sbattere con le opposizioni: tutte. Destre e sinistra. Dopo la bocciatura dell’Assemblée, ora siamo alla maggioranza presidenziale contro il suo stesso governo. Un inedito assoluto per la Macronie, che ieri ha costretto il presidente a un vertice d’urgenza all’Eliseo con ministro dell’Interno e premier, mentre 6 ministri dell’ala gauche in un'altra riunione minacciavano le dimissioni se il testo a trazione Darmanin, diventato marchio neogollista e un po’ lepenista, sarebbe stato votato: «Non corrisponde al nostro Dna, va ritirato». Darmanin si felicitava invece per il compromesso. D’altronde la precedente disfatta aveva costretto lui a dar le dimissioni, respinte da Macron; la premier Borne aveva affidato la stesura di un nuovo testo a 7 deputati e 7 senatori bipartisan per dare risposte ai francesi sull’immigrazione, perché governo e maggioranza relativa, da sole, non sono in grado. Alla fine, anche alcune istanze delle destre sono state accolte, obtorto collo, altrimenti il governo rischiava di non avere neppure un testo da sottoporre all’aula. L’ala sinistra del partito di Macron ha detto No. Maggioranza implosa. Accordo trovato, ma con le destre. La gauche macroniana si è rifiutata di bere l’amaro calice: votare cioè una legge con i lepenisti. Darmanin in Senato tira dritto: «Il testo non rimpiazza quello del governo, lo completa. Serve per proteggere i francesi, a espellere tra le altre cose quei delinquenti stranieri che oggi non possiamo espellere, votatelo».
SPAGNA, CRESCE IL SUSSIDIO DI DISOCCUPAZIONE
In Spagna accordo per l’aumento del sussidio di disoccupazione a 570 euro al mese. Elena Marisol Brandolini per il Manifesto.
«Il governo spagnolo ha approvato ieri la prima riforma della legislatura in materia di politica sociale, relativa al sussidio di disoccupazione. Dopo lo scontro pubblico tra i ministeri del Lavoro diretto da Yolanda Díaz e quello dell’Economia guidato da Nadia Calviño, il compromesso raggiunto propone un aumento del sussidio a scalare, senza tagli rispetto alla situazione attuale e un ampliamento della platea dei beneficiari. «Siamo il governo delle politiche utili», sottolineava con orgoglio Díaz, presentando il provvedimento. L’accordo tra i due ministeri è arrivato nelle prime ore del mattino di ieri, giusto in tempo per rispettare uno degli impegni contratti con Bruxelles per aspirare alla totalità di nuovi fondi europei per 10 miliardi di euro. La riforma del sussidio si articola su sei punti. Il primo e il secondo si riferiscono all’aumento della quantità, decrescente nel tempo: 570 euro nei primi sei mesi, che rappresenta la durata massima di buona parte dei sussidi per disoccupazione; 540 euro nei sei mesi successivi e 480 euro, che costituisce l’attuale ammontare, negli ulteriori mesi di sussidio, la cui durata cambia in funzione delle circostanze. La terza modifica riguarda l’ampliamento della platea dei beneficiari, che include anche le persone minori di 45 anni, senza necessità di avere carichi di famiglia come invece previsto finora. In quarto luogo, la prestazione sarà compatibile con un reddito da lavoro per 180 giorni, evitando così l’alternativa che può presentarsi tra mantenere il sussidio o rinunciare a un lavoro occasionale. Inoltre, si elimina il mese di attesa per godere del sussidio. Infine, il sussidio si presenta secondo due modalità: quella ordinaria, erogata dopo l’esaurimento della prestazione di disoccupazione contributiva, o quando la contribuzione risulti insufficiente e l’altra, per le persone di età superiore ai 52 anni. Sono poco meno di un milione le persone che si avvalgono del diritto al sussidio di disoccupazione, persone vulnerabili in cerca di lavoro che non hanno più diritto a una prestazione contributiva. In Spagna ci sono 2 milioni e settecentomila disoccupati; un milione e settecentomila circa sono tutelati dalle diverse forme di sostegno alla disoccupazione, parte del restante milione è sostenuto dal reddito minimo vitale, ma il resto è fuori dal sistema di protezione sociale. Il 59% dei beneficiari del sussidio è fatto di donne (oltre 570.000 persone). La maggioranza dei fruitori ha un’età di 50 o più anni; il sussidio più comune è quello destinato ai disoccupati con oltre 52 anni che hanno esaurito la prestazione contributiva. La ministra Calviño, che presto lascerà il governo per andare a presiedere la Bei, Banca europea degli investimenti, avrebbe voluto operare un taglio della prestazione, convinta che una sua riduzione favorirebbe la crescita di posti di lavoro. Il ministero di Economia insisteva perciò in una prestazione decrescente con cifre inferiori al livello attuale per incentivare il ritorno al lavoro. Mentre il ministero del Lavoro voleva aumentare la quantità iniziale della prestazione (in principio a 660 euro), considerando che una sua riduzione comporterebbe solo la perdita di protezione sociale. I sindacati confederali hanno valutato positivamente la misura, per quanto la considerino insufficiente, specie per quanto riguarda i lavoratori con contratto a tempo parziale. Unai Sordo, segretario di Ccoo, assicurava che 480 euro non sono un fattore che disincentivi la ricerca di lavoro».
ARMI ITALIANE ALL’UCRAINA PER TUTTO IL 2024
Lo ha deciso ieri il Consiglio dei Ministri: rinforzi militari a Kiev anche per tutto il 2024. Basterà un solo voto del Parlamento per ratificare il decreto. Il dem Guerini, ex Copasir dice: «Bene la continuità negli aiuti militari». Giuliano Santoro per il Manifesto.
«Il Consiglio dei Ministri ieri ha deciso la proroga per tutto il 2024 «alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti alle autorità governative dell’Ucraina». Dal ministero della difesa sostengono che «il prolungamento del conflitto russo-ucraino, in uno scenario internazionale aggravato dalla crisi mediorientale e dalla guerra tra Israele e Hamas, impone al governo Meloni una scelta di coerenza, di sostegno e, dunque, di proroga degli aiuti all’Ucraina, in linea con gli impegni internazionali assunti dall’Italia in sede Ue e Nato». Lo scopo del decreto, proseguono, è quello di «supportare la popolazione Ucraina, impegnata a difendere la libertà e sovranità della sua Nazione, mettendo loro a disposizione, come è stato fatto finora, non solo armi, ma anche equipaggiamenti, gruppi elettrogeni e quanto necessario a sostenere le operazioni militari a difesa di civili inermi». Se già era stato considerato anomalo il decreto con il quale il governo Draghi, fin dal primo giorno di conflitto, garantiva l'invio di armi e attrezzatura ad oltranza, adesso ci limita a disporre una proroga, che dovrà passare una volta sola al vaglio del parlamento. L’ombrello predisposto dal governo Draghi, intanto, vale fino alla fine dell'anno. È ancora in virtù di quel dispositivo che proprio ieri il comitato parlamentare di controllo dei servizi di sicurezza ha audito Crosetto, il quale per un’ora e mezza ha illustrato l’ottavo elenco secretato dei materiali, che pare questa volta contenga anche sistemi contraerei e antidrone. È questo l'espediente che consente di coinvolgere formalmente il parlamento senza affrontare a ogni invio una discussione in aula e un voto alla Camera e al Senato. Non è un caso che il primo a esprimere apprezzamento sia il dem ed ex presidente del Copasir Lorenzo Guerini: «Bene la continuità negli aiuti militari all'Ucraina decisa oggi in Consiglio dei Ministri per il 2024 - afferma Guerini - Il sostegno all'Ucraina è necessario per giungere a una pace giusta e rispettosa della sovranità territoriale e della libertà del popolo ucraino». Crosetto si mostra un po' preoccupato sulle prospettive future: «I paesi occidentali non pensavano alla guerra e quindi le loro riserve non sono infinite - spiega prima di entrare al Copasir - L'Ucraina sta pagando questo, da una parte, e il fatto che non abbiamo economie di guerra. Non abbiamo trasformato le nostre produzioni in produzioni di armi, cosa che ha fatto la Russia. È uno dei temi che dovremmo porci nei prossimi incontri alla Nato e all’Unione europea». Secondo i dati del Kiel Institute, il paese che ha investito di più in armi per Kiev sono gli Stati uniti, con 44 miliardi di euro, seguiti dalla Germania (17,1) e dal Regno Unito (6,6). L'Italia, che ha speso 700 milioni, occupa il tredicesimo posto. Ma Roma è ancora più in basso nella graduatoria sulla trasparenza in relazione ai dati disponibili in quest’ambito: ha un indice di 2.2 rispetto a quello massimo di 4.9 raggiunto da Commissione europea, Germania e Islanda: è ventottesima su quarantadue paesi. La partita è anche politica. Dentro la Lega ci sono alcuni mal di pancia sull'invio di armi. Se davvero il partito di Salvini dovesse votare in blocco si andrebbe a una crisi di governo: lo schieramento atlantico è considerato vitale da Meloni per l’esistenza stessa dell’esecutivo. Però ci sono alcuni indizi che fanno pensare a delle piccole forme di precauzione da parte. Il primo è che all’inizio l'ordine del giorno del consiglio dei ministri non contemplava la questione delle armi. Il progetto iniziale pare fosse quello di infilare il testo sul sostegno all'Ucraina dentro il Milleproroghe. Poi però sono subentrate questioni di opportunità politica (una misura talmente importante avrebbe fatto più rumore se nascosta nel gran calderone di inizio anno) e di tattica parlamentare (quella collocazione non forniva comunque sufficienti garanzie). E allora, anche spinti dalle sollecitazioni del Pentagono a «mandare segnali» di sostegno a Kiev, si è scelto per il decreto di ieri, che finirà in aula entro febbraio e che porta anche una firma che assomiglia a un sigillo di garanzia per la coerenza della politica estera meloniana: quella del ministro dell'economia leghista Giancarlo Giorgetti».
UN EX ISTRUTTORE DELLA WAGNER ALL’AIA CONTRO PUTIN
Ad Amsterdam si è consegnato Igor Salikov, un ex colonnello russo, poi capo della Wagner: vuole portare all’Aia le prove dei crimini di guerra. Gli ordini arrivavano diretti dall’ufficio di Putin per rapire i bambini ucraini. Marta Serafini per il Corriere.
«Voglio testimoniare all’Aia sui crimini guerra russi». È con queste parole che Igor Salikov, russo, si è presentato lunedì, una settimana prima di Natale, all’aeroporto Schipol di Amsterdam con il volo KLM 598 da Cape Town. Il caso ha provocato parecchia fibrillazione tra gli esperti di intelligence. Salikov afferma di essere un ex colonnello russo del Gru ed ex membro del gruppo paramilitare Wagner, nel quale ha operato come istruttore. Sostiene di aver disertato e di essere stato testimone di crimini di guerra e rapimenti di bambini. Una settimana prima del suo arrivo in Olanda, Salikov ha scritto un affidavit indirizzato al procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan raccolta da Gulagu, gruppo che afferma di aiutare e sostenere i disertori russi. Salikov non chiede l’immunità alla Corte in cambio della sua testimonianza ma fa domanda di asilo politico. Oltre ad aver rilasciato una lunga intervista pubblicata su YouTube, ha scritto un libro dal titolo «No War!» sulla guerra in Donbass nel 2014-15 e ora ne sta scrivendo un secondo sulla Wagner. All’emittente pubblica olandese NPO1, ha dichiarato: «Ho assistito ad atrocità contro i civili». Aggiungendo di aver visto prigionieri di guerra maltrattati e giustiziati e bambini rapiti, ha affermato: «Ho visto persone dei servizi segreti portare un gran numero di bambini senza genitori oltre il confine con la Bielorussia». Secondo l’ex colonnello chi ha commesso questi presunti crimini di guerra lo ha fatto su ordine del ministero della Difesa russo, ma anche su ordine diretto dell’ufficio del presidente Vladimir Putin. Parole che, se confermate, potrebbero renderlo in un testimone chiave davanti alla Corte penale dell’Aia. L’ex militare dice anche di avere informazioni sull’abbattimento del volo della Malaysia Airlines nel 2014. A marzo, la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto internazionale nei confronti di Putin per il trasferimento forzato di bambini in Russia. Salikov sostiene di aver disertato dopo aver rifiutato l’ordine di giustiziare dei civili, e che ora vuole riferire ciò che ha visto alla Corte penale internazionale perché ha «perso la fiducia nella causa russa». L’ex ufficiale del Gru racconta poi di essere riuscito a lasciare la Russia nel giugno 2022 insieme alla sua famiglia e di essersi stabilito per un certo periodo a Cipro. Poi la fuga nel Paesi Bassi, attraverso la Serbia e altri Paesi. Fino a ieri, quando è atterrato all’aeroporto Schiphol di Amsterdam. Al momento non è dato sapere dove si trovi esattamente Salikov, dato che è stato arrestato dalla polizia all’aeroporto, o se la Corte penale internazionale sia stata informata della sua richiesta. Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina ci sono stati altri casi di disertori che si sono detti disposti a testimoniare. Ad esempio, nel corso del 2023, Dmitry Mishov, pilota dell’aeronautica russa, e Ivan Korolyov, un tenente russo, arrivarono in Lituania e cercarono asilo politico. Lo scorso inverno, Andrei Medvedev, ex comandante del Gruppo Wagner, fuggì in Norvegia, ma in seguito cambiò idea e affermò che voleva tornare in Russia. Profili da vagliare con molta attenzione, soprattutto alla luce delle campagne di infiltrazione e di spionaggio condotte da Mosca in Occidente.».
ELON MUSK CONDIZIONA LE DEMOCRAZIE
Massimo Gaggi e Milena Gabanelli scrivono per il Corriere una lunga analisi su Elon Musk. Dopo l’acquisto di Twitter esplodono razzismo e fake news. Con Starlink entra nei conflitti: dà o toglie la connessione. L’ombra del suo impero è ora sulle prossime elezioni in Europa e negli Usa.
«Elon Musk ha saputo creare dal nulla imprese automobilistiche e missilistiche che hanno costretto tutte le industrie americane del trasporto e dello spazio a cambiare rotta e a seguirlo. Fino a quando è rimasto nelle praterie dell’industria manifatturiera e digitale — auto, astronavi, intelligenza artificiale — Musk era solo un imprenditore geniale e visionario. Le cose sono cambiate col suo sbarco nel mondo della comunicazione e dell’informazione, a partire dalla creazione della rete di satelliti Starlink coi quali un privato può dare o togliere la connessione digitale a intere aree del Pianeta prive, in genere a causa di conflitti, di altre reti di telecomunicazione. Così l’uomo più ricco del mondo è diventato anche quello più potente. A fine febbraio del 2022, dopo l’invasione russa e la distruzione dell’intera rete ucraina di telecomunicazioni, Musk, con la rete dei suoi satelliti, ha consentito a Kiev di ripristinare i collegamenti civili e militari. Mesi dopo, spaventato dalle reazioni del Cremlino, ha disattivato senza preavviso le comunicazioni sulla Crimea rendendo cieche le forze ucraine che stavano operando in quell’area. Dopo l’attacco terroristico di Hamas, quando gli israeliani hanno spento la rete su Gaza per impedire a Hamas di comunicare durante l’attacco, Musk ha offerto ai palestinesi connessioni via satellite, provocando minacce di rappresaglia israeliane. Il 27 ottobre 2022 compra per 44 miliardi Twitter, gli cambia nome (X.com) e lo stravolge. Un social che da molti anni era il perno del sistema d’informazione degli Usa e anche di molti altri Paesi, capace di filtrare, attraverso il lavoro di migliaia di moderatori, molti dei contenuti violenti o falsi immessi in rete, esce a pezzi. In pochi mesi licenzia 6.000 addetti, il taglio più grosso riguarda i moderatori che gestiscono il sistema di filtraggio dei contenuti. Lui l’ha smantellato quasi del tutto considerandolo uno strumento illiberale e politicamente orientato poiché il 98% delle donazioni elettorali dei dipendenti di Twitter va al partito democratico. Ma, privata dei filtri, la rete si riempie rapidamente di messaggi d’odio, invettive dei suprematisti bianchi, fake news e teorie cospirative. Elon trasforma poi la «spunta blu», un sistema di certificazione dell’identità degli utenti più influenti, in una corsia preferenziale a disposizione di chiunque sia disposto a pagare. A ottobre scorso il commissario europeo Thierry Breton accusa X di essere diventata una piazza digitale aperta all’antisemitismo e un megafono della propaganda terrorista di Hamas, e contesta a Musk di non aver agito tempestivamente alle segnalazioni sui contenuti illegali come previsto dal Digital Service Act per i gestori di piattaforme social. Il 19 novembre il New York Times scrive: «La Casa Bianca ha denunciato Elon Musk per ripugnante promozione dell’odio antisemita e razzista. Tutto ciò potrebbe far pensare che l’amministrazione Biden smetterà di fare affari con lui. Ma non può: i missili di Musk mettono in orbita anche i segretissimi satelliti di spionaggio, comando e controllo del Pentagono, le sue astronavi sono l’unico veicolo per mandare astronauti sulla Stazione spaziale internazionale, e i satelliti di Starlink hanno un grande valore geostrategico. Una dipendenza così elevata del governo degli Stati Uniti da un unico produttore di tecnologia non ha precedenti: bisogna tollerare il «ripugnante» Musk. Musk giustifica i contenuti infami su X con la sua idea dell’assoluta libertà di parola». Poi è andato in visita a Tel Aviv e ha detto che X censurerà non l’antisemitismo ma slogan filopalestinesi come «dal fiume al mare» e la parola «decolonizzazione». Alla faccia dell’assoluta libertà d’espressione. In compenso, dopo un sondaggio tra gli utenti, ha riammesso Alex Jones, un cospirazionista pluricondannato, in particolare, per aver sostenuto che la strage di Sandy Hook, dove furono uccisi 20 bambini, è un’invenzione. Il 18 dicembre la Commissione ha aperto la procedura formale di infrazione per violazione degli obblighi di trasparenza. Se X è diventata più permeabile alla disinformazione, anche le altre reti sociali, che complessivamente raggiungono oltre 4 miliardi di persone, hanno pesato molto sui cambiamenti in atto: la modifica dei rapporti sociali, i modi di apprendere e anche la percezione della violenza verbale e fisica. Tutto ciò ha indebolito le democrazie: la rivoluzione di Bolsonaro in Brasile è figlia di un uso spregiudicato e capillare di YouTube. Così come Twitter, dove Trump era arrivato ad avere 88 milioni di follower, è stato essenziale per la sua ascesa. Per non parlare dell’uso «sottobanco» nel 2016 dei dati personali di 80 milioni di cittadini Usa ottenuti attraverso Facebook per mandare messaggi elettorali tarati su specifici gruppi di votanti, o anche su singoli individui. Il 10 ottobre 2023 il commissario europeo ha messo in guardia Meta (Facebook, Instagram) sull’aumento delle informazioni false sulle sue piattaforme e ha concesso a Mark Zuckerberg 24 ore per comunicare le sue misure per porvi rimedio. A differenza di tutte le altre rivoluzioni tecniche degli ultimi secoli, questa si è sviluppata nella totale assenza di regole e controlli. Il tema, ricorrente e insoluto, della regolamentazione delle reti sociali è diventato ancora più urgente nell’ultimo anno con la diffusione di ChatGpt e di altri strumenti di intelligenza artificiale generativa come quello di Stable Diffusion, in grado di creare immagini realistiche partendo da un testo scritto. Finora non c’è stato il massiccio uso dell’intelligenza artificiale per diffondere deep fake (dove è impossibile distinguere una dichiarazione video-audio falsa da una vera) e interferire nei processi politici, ma il 2024 sarà un anno cruciale: dalle elezioni europee alle presidenziali americane passando per India, Indonesia, Taiwan, Corea del Sud e molti altri Paesi, andranno alle urne miliardi di cittadini. Come si stanno organizzando per contrastare una possibile disinformazione di massa? Taiwan, il primo a votare, il prossimo 13 gennaio: qui c’è un ministero specificamente dedicato agli affari digitali ed è attiva una comunità di volontari civic hacking che individua e contrasta la disinformazione alimentata da Pechino. Gli Usa, oltre agli strumenti di intelligence, hanno creato un Cyber Command che prima era una divisione della Nsa, ora è un dipartimento autonomo del Pentagono. È una struttura che lavora tanto sulla difesa quanto sull’attacco informatico, e l’intercettazione delle interferenze politiche di Mosca, Teheran, o Pechino. La Ue ha messo in campo il Digital Service Act : entro febbraio 2024 ogni stato membro deve avere un organismo regolatore che segnali i contenuti illegali alle piattaforme, che devono rimuoverli entro 24 ore, altrimenti rischiano sanzioni fino al 6% del fatturato annuo globale. Per l’Italia dovrà pensarci Agcom. A fine ottobre l’agenzia europea per la sicurezza informatica ha avvertito: rischio concreto di manipolazione dell’informazione attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale da parte di attori ostili. Ma l’ Artificial Intelligence Act che con una norma imporrà alle piattaforme di individuare contenuti illegali come i deep fake e segnalarli all’utente come video falsi, non sarà ancora in vigore per le elezioni europee. C’è anche un’attività di intelligence per contrastare campagne di disinformazione dei gruppi whatsapp, ma l’ingresso passa dall’oscuramento dei contenuti, e fare questo in una democrazia è molto complesso. Gli Usa stanno provando ora a regolare le reti sociali, ma anche qui l’ordine esecutivo della Casa Bianca non entrerà in vigore prima delle prossime presidenziali».
CONGO, IL VOTO AL BUIO
Il gigante fragile dell’Africa elegge il suo leader, ma molti non sanno se avranno i documenti per andare alle urne. Il Paese, ricco di risorse minerarie, è preda di milizie ribelli e povertà. La cronaca del Corriere è di Michele Farina.
«Espérance Mazika, 50 anni e nove figli, non sa se potrà votare: il documento elettorale di questa venditrice di mais risulta illeggibile e il duplicato «non è arrivato», racconta alla France Press in una strada affollata di Goma. Come lei altre centinaia di migliaia di elettori: la Repubblica Democratica del Congo, il Paese più vasto e meno collegato dell’Africa subsahariana (2,3 milioni di km quadrati) anche questa volta è arrivato all’appuntamento delle urne in grande affanno: negli ultimi giorni Kinshasa aveva chiesto all’Angola (uno dei suoi 13 vicini) aerei per il trasporto dei documenti, ma Luanda ha declinato. Così il governo del presidente uscente Felix Tshisekedi alla ricerca di un secondo mandato (numero 20 nella lista dei ventidue candidati) ha bussato alle basi della missione dell’Onu, la Minusco, per chiedere una mano in extremis. Ironia della sorte proprio ieri, giornata di silenzio alla vigilia elettorale, a New York il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha accettato la richiesta congolese di cominciare il ritiro anzi tempo dei propri Caschi Blu che sono basati nell’Est del Paese, nella regione del Nord Kivu, forse il principale focolare di guerra in un Paese che vanta 100 milioni di abitanti e 100 gruppi armati. A Goma, dove fu ucciso il nostro ambasciatore Luca Attanasio e dove le milizie dell’M23 legate al Ruanda minacciano di occupare la città, Tshsisekedi detto Fatshi non è affatto popolare, e forse per questo i duplicati dei documenti non sono arrivati? Il fantasma dei brogli è evocato ovunque, tranne che al quartier generale di Fatshi nella capitale Kinshasa. Ci scommettono i candidati di un’opposizione sfiduciata e divisa: Moise Katumbi, ricco uomo d’affari ed ex governatore della provincia del Katanga; Martin Fayulu, considerato il vero vincitore delle «elezioni rubate» del 2018; Denis Mukwege, il medico chirurgo che ricuce i corpi e le anime: nel 2018 ha ricevuto il Nobel per la Pace per il suo lavoro con le donne vittime di violenza. I loro timori per un esito falsato del voto (turno unico, vince chi ottiene più consensi) sono condivisi dalla Chiesa cattolica locale guidata dal cardinale Fridolin Ambongo, coraggioso fustigatore della corruzione delle istituzioni, mentre l’Unione europea ha espresso preoccupazioni per le violenze della campagna elettorale. Questa volta non ci saranno osservatori Ue alle urne, perché il governo congolese non ha permesso loro (addirittura!) l’uso di apparecchiature satellitari. L’Europa alla finestra, l’Onu che se ne va perché il Paese ospite ritiene i Caschi Blu un peso più che una risorsa (e il capo della Minusco conferma che la missione non è stata all’altezza). In quest’aria di apparente smobilitazione, l’attenzione del mondo in realtà è grande: il cuore di tenebra e di cobalto dell’Africa interessa eccome. Le sue risorse minerarie (il 70% delle riserve globali del coltan usato nei telefonini, il 30% dei diamanti, il 50% del cobalto per le batterie delle auto elettriche) saranno sempre più centrali nell’economia verde. Durante il suo mandato, Fatshi ha cercato di smarcarsi dall’abbraccio soffocante della Cina rinegoziando contratti svantaggiosi e avvicinandosi all’orbita degli Stati Uniti. Certo i numeri negativi del gigante africano sono impressionanti: il 60% dei congolesi sotto la soglia di povertà, circa 6 milioni sfollati per conflitti interni che ancora bruciano, il pil cresciuto del 9% con l’inflazione che però ha toccato il 20. Il cobalto e il coltan fanno gola ai gruppi armati e alle cricche dei potenti. Le tensioni con il vicino Ruanda non sono calate: il presidente ha appena paragonato il leader ruandese Paul Kagame ad Adolf Hitler («farà la stessa fine»). E un sacco di gente come la venditrice di mais Espérance Mazika di Goma oggi andrà alle urne senza sapere se potrà votare. Ma anche questa volta, se in un modo o nell’altro dovesse vincere il numero 20, il mondo ne prenderà atto».
LE DONNE NELLA CHIESA SECONDO FRANCESCO
Avvenire pubblica un’anticipazione del libro, a cura del vaticanista Ignazio Ingrao, Cinque domande che agitano la Chiesa. Lo stralcio riguarda il potere e il ruolo delle donne nella comunità ecclesiale. Ecco l’anticipazione.
«Prima ancora che al ruolo della donna nella Chiesa, l’attenzione e la sensibilità del Pontefice è rivolta alla situazione della donna nella società e nel mondo di oggi: le sue fragilità e le sue potenzialità, la violenza di cui è spesso vittima, le discriminazioni cui è soggetta, la sua importanza nel tessuto sociale e ciò che potrebbe offrire anche nella sfera della politica e dell’economia. (...) Papa Francesco non esita a definire spesso le donne delle “eroine”: «La donna tende sempre a nascondere la debolezza, a salvare la vita. C’è un’immagine che mi è rimasta particolarmente impressa: la fila delle madri o delle mogli che vedo sempre, quando arrivo in un carcere, in attesa di entrare per vedere i figli o i mariti in prigione. E tutte le umiliazioni che devono sopportare per riuscire a farlo. Stanno in strada. Passano gli autobus, la gente le vede. Ma a loro non importa. “Il mio amore è lì dentro”, pensano. Fantastiche e lottatrici. Ricordo sempre il caso del Paraguay. Sono state le donne più gloriose dell’America perché sono rimaste otto a uno dopo quella guerra tanto ingiusta: hanno difeso la patria, la cultura, la fede e la lingua, senza prostituirsi e continuando a fare figli. Fantastico!». (...) Nell’Esortazione post-sinodale Christus vivit del 2019, Bergoglio auspica una Chiesa viva e giovane che sappia prestare attenzione «alle legittime rivendicazioni delle donne che chiedono maggiore giustizia e uguaglianza». E rivolgendosi alla Plenaria del dicastero per i laici, la famiglia e la vita, il 16 novembre 2019, chiede di avere il coraggio di superare i confini tracciati: «Il ruolo della donna nell’organizzazione ecclesiale, nella Chiesa va oltre, e dobbiamo lavorare su questo oltre, perché la donna è l’immagine della Chiesa madre, perché la Chiesa è donna; non è “il” Chiesa, è “la” Chiesa. La Chiesa è madre. È quel principio mariano proprio della donna; una donna nella Chiesa è l’immagine della Chiesa sposa e della Madonna». Le donne per papa Francesco hanno «un punto di vista privilegiato» dal quale guardano le cose, che aiuta a rendere tutto più umano: «La donna è colei che fa bello il mondo, che lo custodisce e mantiene in vita. Vi porta la grazia che fa nuove le cose, l’abbraccio che include, il coraggio di donarsi. La pace è donna. Nasce e rinasce dalla tenerezza delle madri. Perciò il sogno della pace si realizza guardando alla donna. Non è un caso che nel racconto della Genesi la donna sia tratta dalla costola dell’uomo mentre questi dorme. La donna, cioè, ha origine vicino al cuore e nel sonno, durante i sogni. Perciò porta nel mondo il sogno dell’amore. Se abbiamo a cuore l’avvenire, se sogniamo un futuro di pace, occorre dare spazio alla donna», dice l’8 marzo 2019 in occasione di un’udienza a una delegazione dell’American Jewish Committee. Non sono rimaste solo parole e buone intenzioni. Papa Francesco con la costituzione apostolica Praedicate Evangelium, che ha riformato la Curia Romana, apre alla possibilità che anche i laici e le donne possano guidare dei dicasteri pontifici: «Il Papa, i Vescovi e gli altri ministri ordinati non sono gli unici evangelizzatori nella Chiesa. Essi “sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo”. Ogni cristiano, in virtù del Battesimo, è un discepolo-missionario “nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù”. Non si può non tenerne conto nell’aggiornamento della Curia, la cui riforma, pertanto, deve prevedere il coinvolgimento di laiche e laici, anche in ruoli di governo e di responsabilità. La loro presenza e partecipazione è, inoltre, imprescindibile, perché essi cooperano al bene di tutta la Chiesa e, per la loro vita familiare, per la loro conoscenza delle realtà sociali e per la loro fede che li porta a scoprire i cammini di Dio nel mondo, possono apportare validi contributi, soprattutto quando si tratta della promozione della famiglia e del rispetto dei valori della vita e del creato, del Vangelo come fermento delle realtà temporali e del discernimento dei segni dei tempi». Si tratta di un passaggio importante nella direzione della lotta contro il “clericalismo”, intrapresa dal Papa argentino. Non è stato indolore perché non sono mancate resistenze e contestazioni, anche di natura teologica ed ecclesiologica a questa scelta del pontefice. Ma Bergoglio ha dato seguito a questa riforma: ha nominato per la prima volta una donna, suor Raffaella Petrini, segretaria generale del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. Suor Petrini appartiene all’Istituto delle Suore Francescane dell’Eucarestia, docente universitaria, si è laureata in Scienze Politiche in un’università laica, la Luiss, la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli a Roma, poi ha conseguito un dottorato e si è specializzata negli Stati Uniti. Bergoglio l’ha nominata anche membro dell’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Ci sono poi tante altre donne chiamate dal Papa a ricoprire posti di grande responsabilità nella Curia Romana, nella Santa Sede e nello Stato della Città del Vaticano. Senza voler essere esaustivi e dimenticando certamente qualcuna, ci sono suor Alessandra Smerilli, salesiana, anche lei docente universitaria, specializzatasi negli Stati Uniti, segretaria del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Una carica che “parla da sola” quanto a competenza e prestigio nell’organigramma della Curia. Non ci sono solo religiose nei posti di responsabilità in Vaticano. Ci sono tante laiche, mogli e madri di famiglia. Si possono enumerare, solo per fare alcuni esempi: Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani, sposata con tre figli; Cristiane Murray, brasiliana, sposata con due figli, vicedirettrice della Sala stampa della Santa Sede; Linda Ghisoni, sposata e madre di due figlie e Gabriella Gambino, sposata con cinque figli, entrambe sottosegretarie del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. Anche il segretario del dicastero è un laico: Gleison De Paula Souza, brasiliano, sposato con due figlie. E l’elenco potrebbe continuare a lungo con la sottosegretaria del Dicastero per la cultura e l’educazione, Antonella Sciarrone Alibrandi, docente ordinaria all’Università Cattolica del Sacro Cuore, la direttrice della direzione teologico-pastorale del Dicastero per la Comunicazione, la slovena Nataša Govekar e quella della preziosa Filmoteca Vaticana, Claudia Di Giovanni. Emilce Cuda, docente presso la Pontificia Università Cattolica argentina e segretaria della Pontificia Commissione per l’America latina. Attualmente sono settantacinque “posizioni dirigenziali” in Vaticano affidate a donne, pari a circa il 21,8 per cento dei posti disponibili. Bastano questi nomi e questi numeri per indicare un’inversione di tendenza nella Chiesa? Un cambio di mentalità? Probabilmente no. Ma va anche detto che nelle parrocchie e nelle comunità, a livello di Chiesa di base c’è una sensibilità e una domanda diffusa di maggiore coinvolgimento e responsabilità da affidare alle donne. Ma da qui a lasciare concretamente spazio e ruoli effettivi di governo nelle parrocchie, nelle diocesi e nella Curia purtroppo c’è ancora tanta strada da fare. Per Lucetta Scaraffia, storica, già direttrice dell’inserto “Donne Chiesa Mondo” dell’Osservatore Romano, c’è una “questione donna” sempre aperta: «Servizio non vuol dire servitù, c’è una mentalità maschilista nella Chiesa, le donne non hanno voce». Nonostante le dichiarazioni di principio, secondo Scaraffia, la strada da percorrere per un reale riconoscimento e una concreta valorizzazione delle donne nella Chiesa è ancora molto lunga».
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