Strage alla centrale
3 morti e 4 dispersi nell'impianto Enel di Bargi: l'esplosione otto piani sotto terra. Mistero sulle cause. Pronta l'invasione di Rafah, Israele compra le tende. Def con il Pil a +1%. Addio a Higgs
Tragedia sul lavoro nella centrale idroelettrica di Enel Green Power di Bargi, sul lago di Suviana, vicino a Bologna. Il primo bilancio è quello di una strage: tre morti, quattro dispersi e cinque feriti. L’incidente sarebbe coinciso con il collaudo di una turbina all’ottavo piano sottoterra del sofisticato impianto. Le esplosioni e il black out avrebbero reso molto difficili i soccorsi. La squadra impegnata nella centrale idroelettrica era composta da dodici operai, tutti dipendenti di ditte esterne. Due delle quali sarebbero società, che costruiscono centrali in tutto il mondo. Sergio Mattarella ha chiamato il presidente della Regione Stefano Bonaccini per il cordoglio della nazione e perché “sia fatta piena luce” sulle cause della strage. Anche il governo segue la vicenda con apprensione. In un’intervista al Manifesto il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri fa notare che in Italia ci sono in media tre morti al giorno per incidenti sul lavoro. Una cifra altissima e inaccettabile.
Le notizie dal Medio Oriente. Nonostante le insistenze degli Usa, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha assicurato che “nessuna forza al mondo” potrà impedire all’esercito israeliano di entrare a Rafah, dove sono ammassati un milione e mezzo di profughi palestinesi. Tel Aviv avrebbe già comprato 40 mila tende, che potrebbero essere utilizzate in un piano di evacuazione. Stasera c’è la festa per l’inizio del Ramadan (vedi Foto del Giorno), ma sarà difficile che nella Striscia qualcuno possa permettersi una cena speciale.
Emmanuel Macron ha scritto una lettera, pubblicata da Le Monde e dal Washington Post, insieme al presidente egiziano Al Sisi e a al Re di Giordania Abdallah, per chiedere il cessate-il-fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi, avvertendo Israele che un’offensiva terrestre a Rafah «porterebbe ulteriore morte e distruzione, alimentando il rischio di una escalation regionale».
Tornando in Italia, il Consiglio dei Ministri ha varato Il Documento di economia e finanza. In esso la previsione di crescita del Pil è all’1 per cento. Come preannunciato, il nuovo Def non entra nelle cifre del prossimo bilancio, in attesa che l’Europa faccia partire la procedura d’infrazione, sulla base del nuovo Patto di stabilità della Ue. Anche Oxford Economics intanto critica il superbonus che avrebbe creato una voragine nei conti pubblici italiani.
A proposito di 5 Stelle, Elly Schlein e Giuseppe Conte ieri si sono dati la mano alla Camera con una certa freddezza, nel ruolo dei leader costretti a convivere. Di fatto a Firenze e in Puglia si va comunque verso la scelta dei candidati preferita da Conte, la segretaria del Pd appare sempre più a rimorchio dell’ex premier.
Arriva in libreria la tesi di dottorato in teologia di don Luigi Giussani su Reinhold Niebuhr. La Verità ne pubblica un brano mentre Avvenire anticipa la prefazione al volume scritta dall’arcivescovo di Milano Mario Delpini.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae una famiglia palestinese tornata ieri a Khan Younis. Stasera anche nella Striscia di Gaza ci sarà l’Eid Al-Fitr, la festa che celebra la fine del Ramadan. In Egitto e in altri Paesi arabi iniziano sei giorni di vacanza.
Foto: France Presse - Getty Images
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il gravissimo incidente alla centrale Enel, vicino a Bologna, domina le aperture dei quotidiani. Il Corriere della Sera: Strage nella centrale idroelettrica. Per La Repubblica è stato un: Collaudo con strage. La Stampa evoca la Thyssen: Bruciati vivi trenta metri sotto il lago. Avvenire punta sulla profondità: La strage sommersa. Anche Il Giornale punta sulla difficoltà dei soccorsi: La strage sotto terra. Per Il Messaggero: Strage alla centrale. Il Quotidiano Nazionale, giornale di casa nell’edizione del Carlino, commenta: Trappola mortale. Tragico il gioco di parole del Manifesto: Lavoro sommerso. Il Fatto polemizza con Salvini: Il ponte e il mistero del progettista ignoto. Libero è sul caso Careggi: Così cambiano il sesso ai bambini. Mentre La Verità è sempre sulla frontiera del No Vax: Speranza: «Sapevo che il 20 per cento degli effetti avversi era gravissimo». Il Domani attacca l’esecutivo sull’economia: Conti e Pil, il governo dà i numeri. Giorgetti inventa un Def elettorale. Mentre Il Sole 24 Ore presenta le nuove misure fiscali: Successioni e aziende, ecco le novità.
MORTE A 40 METRI SOTTO IL LAGO
Incidente all’impianto Enel Green Power di Bargi, vicino a Bologna. L’esplosione a 40 metri sotto il lago. Il bilancio è per ora di tre morti, quattro dispersi e cinque feriti. Mattarella: sia fatta piena luce. Alfio Sciacca e Marco Merlini per il Corriere della Sera.
«Due dei feriti non gravi si sono fatti velocemente medicare, ma a tarda sera sono ancora oltre i cancelli della centrale idroelettrica di Enel Green Power di Bargi, sul lago di Suviana. Attendono con angoscia, ma vogliono anche dare una mano ai soccorritori che stanno cercando i loro compagni ancora intrappolati quaranta metri sotto il livello del lago. Sono i testimoni oculari dell’inferno di acqua e fuoco scoppiato ieri tra l’ottavo e il nono piano sotto terra, probabilmente per lo scoppio di una turbina. «Ho sentito uno strano rumore provenire dalla turbina, poi è stato il buio», avrebbe raccontato uno dei due feriti. Il bilancio, provvisorio, è drammatico: tre morti accertati e cinque feriti ricoverati in diversi ospedali di Emilia-Romagna e Toscana. Ma nella pancia della centrale ci sono altri quattro operai dispersi che si sta tentando di salvare, aggrappandosi all’esile speranza che siano riusciti a trovare un anfratto dove ripararsi. LA DINAMICA Stando a quello che fino ad ora sono riusciti a ricostruire i Vigili del fuoco intorno alle 14,30 c’è stata una violenta esplosione al piano -8 della centrale. Il boato è stato avvertito anche a distanza, mentre una nuvola di fumo si è alzata in cielo. «Ho sentito nettamente il botto e poi ho visto la colonna di fumo, anche l’aria si è fatta irrespirabile — racconta Simone Cappi, titolare del ristorante a trecento metri dal luogo dell’incidente —. Li conosco tutti quelli che lavorano nella centrale, vengono sempre qui da me. Anche oggi (ieri, ndr ) sono venuti, prima che succedesse il finimondo». Qualche ora dopo, mentre sul posto arrivavano decine di ambulanze e mezzi delle forze dell’ordine, sono state le parole di uno dei primi soccorritori a dare la dimensione della tragedia. «Ragazzi è un disastro — ha raccontato ancora con fiatone —. C’è stata l’esplosione all’ottavo piano. Sono arrivato fino al settimo ma non sono più riuscito a scendere più giù. Sotto ci sono ancora delle persone e non si riesce ad andare. Ci sono continue esplosioni. È terribile. Impressionante. Mi tremano ancora le gambe». A provocare l’esplosione sarebbe dunque stato lo scoppio di una turbina che era in fase di collaudo dopo la manutenzione. A confermarlo nel pomeriggio è stato anche il prefetto di Bologna Attilio Visconti: «Erano in corso dei lavori di adeguamento della centrale, ma ad un tratto una turbina è esplosa». A seguire è collassato il solaio tra l’ottavo e il nono piano, provocando la rottura dei condotti di refrigerazione. Per questo si è allagato l’intero nono piano. Proprio qui i sommozzatori dei Vigili del fuoco hanno cercato i dispersi fino a notte. Con una residua speranza espressa dal direttore regionale dei Vigili del fuoco, Francesco Notaro. «Nonostante lo scoppio abbia determinato un allagamento — spiega —, potrebbero aver trovato ricovero da qualche altra parte della piastra». I soccorritori hanno raggiunto il nono piano attraverso le scale, che fino ad un certo punto sono ancora agibili. Ma devono comunque procedere con molta cautela, equipaggiati con tute e bombole d’ossigeno. DITTE ESTERNE La squadra impegnata nella centrale idroelettrica era composta da dodici operai, tutti dipendenti di ditte esterne. Due delle quali sarebbero società come ABB e Siemens, che costruiscono centrali in tutto il mondo. Tra i componenti del gruppo anche un ex dipendente di Enel Green Power che faceva da consulente per le imprese incaricate di eseguire i lavori. Si trattava comunque di un intervento programmato da un anno e affidato a personale considerato esperto. In sostanza avrebbero dovuto collaudare una turbina, dopo un precedente lavoro di manutenzione. Resta da capire perché ad un certo punto sia esplosa. L’INCHIESTA Sarà probabilmente questo uno dei primi nodi dell’inchiesta della magistratura. Il capo della Procura Giuseppe Amato ieri è stato tra i primi a arrivare sul luogo della tragedia. «Adesso — ha detto — è il momento delle ricerche, poi sarà il momento di capire cos’è successo». Inevitabile l’apertura di un fascicolo: «In questa fase faremo un’iscrizione tecnica per eseguire gli accertamenti urgenti sulle salme e verificheremo se è necessario o no procedere alle autopsie». Sul posto anche prefetto e il sindaco di Bologna. E nel pomeriggio è arrivato anche l’amministratore delegato di Enel Green Power Salvatore Bernabei. «La società — si legge in una nota — sta collaborando con tutte le autorità ed esprime cordoglio e vicinanza al personale coinvolto e alle famiglie, che rappresentano la priorità per l’azienda». I due feriti più gravi sono stati ricoverati all’ospedale Bufalini di Cesena. Uno dei due è in prognosi riservata nel reparto grandi ustionati. Gli altri feriti sono stati ricoverati negli ospedali di Parma, Forlì e Pisa. Immediata la reazione delle massime cariche dello Stato. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è messo in contatto con il presidente della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Nella telefonata ha espresso «il suo cordoglio per gli operai deceduti e solidarietà ai feriti, alle famiglie e ai colleghi di lavoro delle vittime, auspicando che sia fatta piena luce sulla dinamica dell’incidente». LA CENTRALE SPENTA Anche la premier Giorgia Meloni ha detto di seguire «con apprensione la terribile notizia riguardante l’esplosione verificatasi nella centrale idroelettrica». «Tutta la mia vicinanza e quella del Governo ai familiari delle vittime e ai feriti rimasti coinvolti — ha aggiunto —. Un ringraziamento ai Vigili del fuoco prontamente intervenuti, ai soccorritori e a quanti stanno lavorando in queste ore nella ricerca dei dispersi». Per il presidente della regione Bonaccini «adesso è il momento dei soccorsi poi però pretendiamo di sapere le cause, cosa è successo: davvero non è tollerabile che si possa morire così sul lavoro». La centrale di Enel Green Power di Bargi è la più grande dell’Emilia-Romagna ed anche l’orgoglio di questo comprensorio sull’Appennino Bolognese, a cavallo con la Toscana. Dopo l’incidente è stata spenta e non si può escludere che si verifichino contraccolpi per le forniture di energia elettrica».
“È UNA GUERRA CIVILE, 3 MORTI OGNI GIORNO”
Il Manifesto intervista il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri. Insieme alla Cgil il sindacato ha indetto uno sciopero di 4 ore, domani, per i morti sul lavoro.
«Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della Uil, domani voi e la Cgil avete indetto uno sciopero generale di quattro ore che l’ennesima strage sul lavoro al bacino di Suviana rende ancora più appropriato.
Dopo Firenze e dopo Brandizzo, l’ennesima strage. Siamo davanti a una guerra civile che ogni giorno conta tre morti. Una guerra che ha responsabilità chiare, nel caso di Suviana evidenti. La nostra categoria aveva denunciato con lettere formali la mancanza di manutenzione in particolare sulla diga di Suviana. La ragione di questa mancanza sta anche nel passaggio di competenze sulle centrali idroelettriche: dallo stato alle Regioni, in nome dell’autonomia.
Come Uil avete da poco portato in piazza le bare di tutti i morti sul lavoro del 2023. Come fermare la striscia di sangue? Il governo ci sta provando?
Fino ad oggi il governo ha dato solo risposte parziali alle nostre richieste. Si continua a morire, gli interventi fatti non sono serviti a nulla: siamo esattamente nella situazione identica a un mese fa. Noi testardamente continuiamo a pensare che anche una sola vittima sul lavoro sia inaccettabile. Lo sciopero generale di quattro ore è l’ulteriore testimonianza di quanto tutti i lavoratori sono sensibili al tema della sicurezza e lo ritengano centrale.
Il governo Meloni con la ministra Calderone è intervenuto con norme in un decreto omnibus rivendendosi come epocale l’introduzione della «patente a crediti» per le imprese e, in sede di conversione, accettando alcune delle modifiche dai voi richieste. Un’operazione per cercare di dimostrare all’opinione pubblica di intervenire più sul piano mediatico che sulla sostanza del problema.
Noi da anni abbiamo chiesto unitariamente con Cisl e Cgil la patente a punti, che è cosa ben diversa dalla patente a crediti. A parte il fatto che i crediti si recuperano con semplici corsi di formazione, nell’impianto del governo c’è un problema ancora più grave: le aziende che non rispettano le norme sulla sicurezza verrebbero sanzionate solo alla fine dell’esito di un procedimento giudiziario. E anche nel caso di condanna in primo grado, bisognerebbe attendere il verdetto definitivo con un forte rischio di prescrizione del reato: a causa degli effetti della riforma Cartabia, infatti, in appello i processi per reati che non prevedono l’arresto - come gran parte di quelli per violazioni di sicurezza sul lavoro - vengono messi da parte, anche per anni.
Rischio prescrizione a parte, cosa servirebbe per cambiare la situazione?
Noi chiediamo una norma semplice e intuitiva: lo stato escluda le aziende che non rispettano la sicurezza da tutti gli appalti pubblici. Ma il governo non ci ascolta. Per fortuna lo fanno altre istituzioni: i sindaci di Roma, Firenze e Bologna hanno sottoscritto con noi Protocolli sulla legalità che eliminano i sub appalti e allargano ai privati le norme che sono previste nel settore pubblico».
ZUPPI: PRONTI A QUALSIASI AIUTO
Vicinanza alle famiglie delle vittime e cordoglio sono stati espressi dall’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi. La notizia è dal Corriere della Sera.
«L’arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi, ha appreso la notizia della tragedia di Suviana mentre si trovava a Roma. Tuttavia ha voluto esprimere subito «vicinanza e cordoglio alle famiglie delle vittime, alla comunità di Camugnano» e la sua preghiera «per i morti, per i feriti e per i dispersi» a seguito dell’esplosione nella centrale idroelettrica di Bargi, sul lago di Suviana. A comunicarlo è stata ieri sera la stessa arcidiocesi bolognese. Il cardinale Zuppi ha manifestato la sua vicinanza «anche attraverso le telefonate che il vicario generale per la sinodalità, monsignor Stefano Ottani, ha fatto a Marco Masinara, il sindaco di Camugnano, e a don Emanuele Benuzzi, il parroco di Castel di Casio». Il cardinale, 68 anni, dal 27 ottobre 2015 è arcivescovo metropolita di Bologna. Scelto da papa Francesco, è succeduto al cardinale Carlo Caffarra, che si è dimesso per raggiunti limiti di età. Zuppi, che dal 24 maggio 2022 è presidente della Cei, ha espresso alla comunità colpita dalla tragedia la sua «partecipazione offrendo la disponibilità per qualsiasi tipo di bisogno, sostegno e necessità».
LA GRANDE FUGA DA RAFAH
Israele prepara l’evacuazione dei palestinesi dalla città in vista dell'operazione militare, che è ancora confermata. E compra 40mila tende da campo. Tony Blinken dice: “Non ci è stata comunicata nessuna data. Siamo preoccupati per i civili”. Fabiana Magrì per La Stampa.
«Israele si appresta ad acquistare 40 mila tende da campo. Il bando di gara è comparso sul sito web del ministero della Difesa e una fonte governativa anonima ha confermato alla France Press che l'appalto è destinato alla Striscia di Gaza. Manovre che lasciano intendere che Israele si sta preparando a evacuare la popolazione civile da Rafah, prima di entrare con le sue forze speciali nella città-valico al confine con l'Egitto. Del resto, il mese sacro del Ramadan sta terminando. Oggi è il primo giorno di Eid Al-Fitr, la coda della festività musulmana che si concluderà venerdì. I progressi nei colloqui sembrano poco più di «un esercizio di pensiero positivo collettivo», come li ha definiti l'analista politico e militare di Haaretz Amos Harel. Il premier Benjamin Netanyahu, dopo aver detto lunedì che «c'è una data per l'operazione militare di terra a Rafah», ieri ha ribadito che «nessuna forza al mondo ci fermerà» dal completare l'eliminazione dei battaglioni di Hamas, anche nell'ultima roccaforte meridionale. La "data" non è necessariamente una casella precisa del calendario. Il messaggio di Netanyahu aveva una funzione anche interna alla coalizione. Rispondeva alla mossa del leader della destra radicale Itamar Ben Gvir che il giorno stesso aveva minacciato di abbandonare "Bibi" (come è chiamato il premier) se avesse posto fine alla guerra a Gaza. Lo stesso segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha sottolineato che gli Stati Uniti non sono stati informati sulla "data". E un funzionario israeliano alla Kirya ha detto a La Stampa che nel colloquio telefonico di lunedì notte tra il ministro Yoav Gallant e l'omologo americano Lloyd Austin si è parlato di tempistiche, ma non si è entrati nel merito di una scadenza precisa. Israele e gli Stati Uniti stanno ancora discutendo. Gli Usa puntano a individuare una convincente soluzione alternativa all'invasione armata massiccia. Su questo tema, ha ricordato Blinken, ci sono colloqui bilaterali in agenda per la prossima settimana. In ogni caso, l'evacuazione dei civili palestinesi da Rafah potrebbe richiedere da uno a quattro mesi. Ed è facile immaginare che Israele punti ad accorciare i tempi. In base ai calcoli, ciascuna tenda da campo può ospitare fino a 12 persone. Il lotto delle prime 40 mila basterà a offrire rifugio a un totale di 480 mila persone. Non certo a tutti i rifugiati palestinesi concentrati a Rafah. Nemmeno dopo che molti di loro si saranno spontaneamente spostati dal confine con il Sinai, ora che i combattenti di Tsahal hanno abbandonato il campo. Anche chi è diretto a Khan Yunis – e più su, fin dove si può arrivare entro la cintura del corridoio Netzarim, presidiato dalle truppe Nahal dell'esercito israeliano – sta tornando a macerie di abitazioni. I preparativi lasciano anche intendere che il gabinetto di guerra presieduto da Netanyahu non riponga fiducia nell'esito positivo delle trattative per il rilascio degli ostaggi. Oppure, con l'acquisto delle tende, Israele potrebbe voler inviare un ultimatum ad Hamas. Il capo della diplomazia Usa considera «seria» la più recente proposta sul tavolo e ritiene che la fazione palestinese a Gaza «dovrebbe accettarla». Secondo il Wall Street Journal, Israele avrebbe acconsentito alla nuova proposta americana che prevede il rientro nel nord dell'enclave di 150 mila palestinesi (in precedenza, aveva acconsentito ad autorizzare meno della metà delle persone). Ma finora le reazioni di Hamas sono state, nella migliore delle interpretazioni, ambigue, mentre il gruppo sembra prendere tempo. Se a Gaza l'esercito ha iniziato una provvisoria smobilitazione, è sul confine nord con il Libano che Israele ha alzato l'allerta. Forze di terra, della Marina, dell'Aeronautica, della Polizia e di Pronto Soccorso hanno completato una estesa esercitazione per prepararsi a vari scenari, «dalla difesa dell'area, all'evacuazione dei feriti sotto il fuoco a quelli di assalto e attacco», ha spiegato il portavoce militare. Tsahal sta prendendo sul serio le crescenti minacce nemiche, dall'Iran e dai suoi alleati, che promettono un'imminente risposta all'attacco aereo – attribuito a Israele – che ha ucciso vari pasdaran, tra cui uno l'ufficiale Mohammad Reza Zahedi, uno dei comandanti più anziani delle Forze Quds iraniane in Siria. Il comandante della Marina delle Guardie rivoluzionarie iraniane, Alireza Tangsiri, ha invocato «una coalizione di eserciti islamici» contro Israele. Secondo fonti vicine all'intelligence americana citate dalla Cnn, Teheran non attaccherà direttamente Israele, ma colpirà attraverso le sue forze alleate nella regione. Uno degli scenari prefigurati è un'aggressione simultanea su larga scala, con droni e missili che potrebbero entrare in azione questa settimana».
GAZA È UN DESERTO DI MACERIE, MA I CAPI DI HAMAS SONO ANCORA LIBERI
Dopo sei mesi la Striscia di Gaza è completamente rasa al suolo, ma Sinwar e Haniyeh guidano ancora il gruppo terroristico di Hamas. Cosimo Caridi sul Fatto.
«In sei mesi di guerra, Israele ha lanciato sulla Striscia oltre 25 mila tonnellate di bombe uccidendo quasi 34 mila persone, ma la leader ship di Hamas è rimasta al suo posto, quasi intatta. “Distruggeremo e sradicheremo Hamas, arriveremo alla vittoria”: poco dopo gli attacchi del 7 ottobre, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è apparso alla nazione ponendo un unico obiettivo alle operazioni dell’esercito Idf a Gaza. I numeri sembrano, però, mostrare che le forze armate siano incapaci di colpire i vertici del movimento islamista o forse, semplicemente, non è quello l’obiettivo prioritario. Al momento nessuno dei tre leader di Hamas all ’interno della Striscia risulta essere stato ucciso dai raid israeliani. Secondo i dati rilasciati dall’Idf sono morti nei combattimenti circa 12 mila miliziani di Hamas. Il numero non può essere verificato. Israele non permette a nessun giornalista internazionale di raccogliere informazioni sul campo e anche la conta dei morti fatta dai palestinesi è sempre più incompleta. Il sistema informatico degli obitori viene – veniva – aggiornato dagli otto principali ospedali della Striscia. Negli anni, e durante le numerose operazioni militari israeliane, i dati raccolti dal ministero della Sanità, sotto il controllo di Hamas, sono sempre risultati attendibili. Le Nazioni Unite consideravano i numeri comunicati dal movimento islamista corretti, con un margine di errore del 4%. Oggi degli otto ospedali che raccolgono i dati solo tre sono ancora in grado di fornire questo servizio, gli altri sono stati attaccati dall’Idf e hanno subito diversi gradi di distruzione. Il risultato è che non solo non si può più essere certi del numero dei morti, main molti casi, con una percentuale che si avvicina pericolosamente al 50%, i cadaveri vengono sepolti senza essere identificati. Dalle valutazioni israeliane, all’inizio del conflitto Hamas poteva contare su 30 mila miliziani. Considerando attendibile il numero comunicato dall ’ufficio stampa dell’Idf, tre miliziani su cinque sarebbero ancora in attività. Dalle attività di guerriglia in corso è evidente che gli uomini di Hamas combattono in modo coordinato rispondendo a ordini precisi. “Non preoccupatevi, gli israeliani sono esattamente dove li vogliamo”, ha comunicato a fine febbraio Yahya Sinwar, il capo di Hamas nella Striscia, agli altri funzionari del movimento che si trovano in esilio. Sinwar è il leader politico a Gaza, secondo Tel Aviv è il responsabile degli attacchi del 7 ottobre e per questo è considerato l’obiettivo numero uno dall’Idf. Le sue tracce si perdono mesi fa, alcune fonti di intelligence lo hanno posizionato prima sotto l’ospedale al Shifa, poi a Khan Yunis, in Egitto, e infine nei tunnel sotto Rafah. Il numero due di Hamasa Gaza è Mohammed Deif, capo delle brigate al-Qassam, il braccio militare del gruppo. Gli israeliani lo chiamano il “gatto dalle nove vite”, come Sinwar è stato per anni nelle carceri di Tel Aviv. Dopo essere stato rilasciato è tornato a Gaza e ha sovrinteso alla costruzione del sistema di tunnel. Arrestato una secondavolta, è fuggito nel 2000 e da allora si sono perse le sue tracce. L’Idf ha tentato di ucciderlo più volte, in uno di questi raid avrebbe perso un occhio. Nel 2014 Israele ha ucciso sua moglie e due dei suoi figli. Anche lui si troverebbe nascosto sottoterra. La settimana scorsa l’Idf ha comunicato di aver neutralizzato Marwan Issa, il braccio destro di Deif. Hamas non ne ha confermato la morte. La terza figura di grande rilevanza nella Striscia, che Israele non riesce a colpire, è Mahmoud Zahar uno dei fondatori del movimento. Quasi ottantenne non dovrebbe essere coinvolto nella catena decisionale quotidiana, ma è considerato l’islamista più radicale nel gruppo di comando nella Striscia. Nella lista dei ricercati di Israele, con una taglia da 300 mila dollari, c’è anche Mohammed Sinwar, il fratello minore di Yahya. Molto vicino a Deif e Issa si pensava fosse stato ucciso nel 2014. Durante questo conflitto è stato pubblicato un video in cui lo si vede in un tunnel. La leadership politica di Hamas vive principalmente in esilio: nel Golfo, in Siria e in Libano. Proprio a Beirut a inizio anno Israele ha ucciso Saleh al-Arouri, reggente militare di Hamas in Cisgiordania. Il capo del movimento, Ismail Haniyeh, vive a Doha ed è lui a guidare la negoziazione per il cessate il fuoco. Passano da Haniyeh i rapporti di Hamas con Iran e Qatar».
LA LETTERA DI MACRON, AL SISI ED ABDALLAH
La Francia abbandona i partner europei e sulla crisi di Gaza si allea con Giordania ed Egitto. Emmanuel Macron ha scritto con gli omologhi degli altri Paesi una lettera a Washington Post e Le Monde in cui chiede a Israele il cessate-il-fuoco. La cronaca.
«Con una lettera al Washington Post e a Le Monde , il presidente francese Macron, il monarca giordano Abdallah e il presidente egiziano Al-Sisi lanciano un appello per un immediato cessate il fuoco a Gaza e per la liberazione degli ostaggi, avvertendo Israele che un’offensiva terrestre a Rafah «porterebbe ulteriore morte e distruzione, alimentando il rischio di una escalation regionale». Non è la prima volta che Macron lo dice, però il gruppo dei tre leader è inedito. Nella lettera ripropongono la soluzione dei due Stati, due popoli, che ieri il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz, nell’intervista a Repubblica , ha definito «impossibile». Un messaggio dunque significativo, soprattutto considerando che entro la fine di aprile è attesa la decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul seggio permanente per la Palestina all’Onu. I Territori godono solo di un seggio in qualità di osservatore permanente, mentre una precedente richiesta di seggio per lo Stato di Palestina era stata rapidamente respinta nel 2011. Il regolamento prevede una sessione dei 15 Stati membri a porte chiuse. Segue poi il voto: per passare, la mozione ha bisogno del sostegno di nove Stati e di non incorrere in alcun veto da parte dei cinque Stati con seggio permanente. È il vero ostacolo al progetto, dal momento che Stati Uniti e Regno Unito sono storici alleati di Israele. Anche sulla questione Rafah l’appello rischia di rimanere inascoltato. Il premier Netanyahu infatti dice di avere già una data fissata sul calendario per l’ingresso dell’Idf nella città più a Sud della Striscia e prepara l’evacuazione: Israele sta acquistando 40mila tende dove ospitare gli sfollati. Una goccia nel mare rispetto al milione e mezzo di persone che popolano attualmente Rafah. Gli americani, tuttavia, non sono stati avvertiti di questa presunta data di inizio operazioni. «Continuiamo ad avere un dialogo con Israele — ha commentato il segretario di Stato Usa Antony Blinken — e siamo profondamente preoccupati per la sicurezza dei civili». L’unica possibilità di far slittare l’operazione di terra è un’intesa su una tregua al negoziato in corso al Cairo. Gli Usa stanno spingendo per sei settimane di cessate il fuoco in cambio di 40 ostaggi israeliani, la liberazione di 900 detenuti palestinesi e il rientro al Nord di Gaza di una parte degli sfollati. Ma le notizie che arrivano dalla capitale egiziana sia da parte di Hamas sia da parte di Israele non sono incoraggianti: le posizioni sono distanti, soprattutto sulla tregua temporanea e il ritiro dell’Idf da tutta la Striscia come pretende Hamas».
CONTINUANO LE AGITAZIONI NEGLI ATENEI
Siena, Pisa, Bologna e il Politecnico di Torino: dilaga la protesta contro Israele. La ministra Bernini parla di “episodi inaccettabili”. Viola Giannoli per Repubblica.
«Alla fine anche Bari, come Torino e la Normale di Pisa, ferma il bando Maeci, l’accordo ministeriale, oggi in scadenza, per progetti di collaborazione scientifica tra atenei italiani ed israeliani. «Solo la lotta paga, Intifada fino alla vittoria», urlano in un azzardato parallelismo gli studenti al presidio. Uno dei tanti. Perché tutto quello che si è visto a staffetta nelle università italiane per mesi — cortei selvaggi, occupazioni, irruzioni in Senato accademico, contro-lezioni, assemblee — ieri è andato in onda a reti unificate in 25 città, in un’azione prestabilita e concordata dagli studenti per la Palestina riuniti sotto gli stessi simboli: gli striscioni del collettivo comunista Cambiare rotta, le bandiere di Potere al Popolo e dell’Usb che ha proclamato lo sciopero universitario, le bandiere rosse nere bianche e verdi, la kefiah al collo, i fumogeni rossi come la vernice con cui hanno imbrattato giganti fac simile del bando. Episodi «inaccettabili » per la ministra dell’Università Anna Maria Bernini che nei prossimi giorni vedrà il responsabile del Viminale Piantedosi in un confronto allargato ai rettori e agli enti di ricerca. Il fronte più caldo, a dispetto del sole romano, è Padova: l’ateneo blindato, gli studenti che chiedono un incontro alla rettrice Daniela Mapelli, ogni ingresso presidiato dagli agenti in assetto anti-sommossa, i ragazzi che provano una via di accesso, poi una seconda, poi una terza, e quando la polizia gli sbarra la strada ancora una volta, a mani nude cominciano a spingere contro gli scudi. E il copione è sempre lo stesso: quando la spinta diventa pressione, gli agenti rispondono con cariche di alleggerimento, spingono anche loro con gli scudi sulla folla, poi alzano i manganelli. «Ha ragione Mattarella — commenta il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick — il manganello non educa, ma sono preoccupato dalla rinascita di un antisemitismo che confonde un governo che sbaglia e la scienza che deve restare invece strumento di dialogo». Così non la pensano gli universitari. E pure al Politecnico di Milano l’assemblea si trasforma in corteo, il rettorato viene occupato per qualche ora. E ancora occupato è quello della Federico II di Napoli. Gli studenti gridano “Palestina libera”, “Non ci arruoliamo”, “Non siamo menti per le vostre guerre”. A Siena riesce l’irruzione al Senato accademico, al Politecnico di Torino, all’Alma Mater di Bologna, a Siena e davanti alla Normale di Pisa i ragazzi si riuniscono in sit-in, sfilano nei corridoi, si spargono in città. Alla Sapienza le biblioteche chiudono: è sciopero. E ora che il bando è scaduto? Alle 17 davanti alla Farnesina, mentre una docente e uno studente salgono nelle stanze del ministero, ricevuti e ascoltati dal segretario generale da cui attendono una risposta nel giro di 24 ore, un giovane comunista prende il microfono: «Il ministro degli Esteri israeliano Katz ha detto a Repubblica che è disposto a incontrare gli studenti. Vergogna! Offende la nostra dignità se pensa che abbiamo voglia di dialogare con un governo genocidario». È il segno che la protesta cerca un dialogo solo con il fronte interno, quello italiano. «Contro Israele la battaglia deve continuare»: la lettera sottoscritta da giovani ricercatori, assegnisti, prof è arrivata a 4mila firme. E un’assemblea nazionale il 17 aprile servirà a «rilanciare — scrivono gli organizzatori — la mobilitazione contro tutti gli accordi con gli atenei israeliani e a costruire ponti di sostegno con il popolo palestinese».
ZELENSKY: DATECI I PATRIOT O PERDIAMO
Volodymyr Zelensky dice: «Dateci i Patriot e le munizioni oppure perdiamo la guerra». Josep Borrell, alto rappresentante Ue giudica «inconcepibile» il mancato invio. Sabato Angieri per Il Manifesto.
«Patriots e munizioni sono le due nuove parole d’ordine della guerra in Ucraina per il governo di Kiev. Il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha recentemente dichiarato al Financial Times: «I soldati ucraini vengono attaccati in modo massiccio e quasi costante da bombe aeree guidate che spazzano via le nostre posizioni. Non è possibile bloccarle, non ci si può nascondere, l’unico modo per proteggersi è abbattere il bombardiere che le trasporta». E dunque: «Ci serve assolutamente il sistema missilistico di contraerea Patriot». Domenica il presidente Zelensky era stato addirittura più perentorio: «La difesa aerea si sta esaurendo, se i russi continuano a colpire l'Ucraina ogni giorno come hanno fatto nell'ultimo mese, potremmo rimanere senza missili» e senza aiuti «l’Ucraina perderà la guerra». È una delle prime volte che il capo di stato lo dice così chiaramente, ma come ha evidenziato durante la visita alle truppe nella regione di Kharkiv ieri, «la situazione è tremenda». Alle richieste di Kuleba ha risposto indirettamente l’Alto rappresentante per gli Affari Esteri dell’Ue, Josep Borrell: «È inconcepibile che non siamo in grado di fornirgli i sistemi Patriot, dato che gli eserciti occidentali ne hanno circa 100 batterie. Ho parlato con Kuleba alcuni giorni fa e lui chiede disperatamente 7 batterie, eppure non siamo in grado di fornirgliele». Borrell ha lasciato l’uditorio in silenzio quando ha ribadito che «la possibilità di una guerra convenzionale ad alta intensità in Europa non è più una fantasia». Ancora una volta l’Alto rappresentante è tornato sulla necessità per i Paesi europei di dotarsi di eserciti «adeguati alle nuove minacce», riferendosi evidentemente alla Russia, anche se ha ammesso che «al momento la prospettiva di un esercito comune europeo è molto lontana». «Dall'inizio della guerra in Ucraina» ha spiegato Borrell «l’80% di tutte le armi acquistate in Europa è stato comprato da fornitori che producono fuori dai nostri confini. E l'80% di questo 80% viene dagli Usa. Non possiamo permetterci questa forte dipendenza se vogliamo davvero essere responsabili». Ma essere responsabili in questo caso significa essere pronti a una guerra. E, stando alle indiscrezioni pubblicate sul Foglio rispetto alle stime europee delle forze in campo in un ipotetico confronto con la Russia, l’Ue è significativamente inferiore (almeno 1 milione in meno) rispetto al numero di soldati a disposizione. C’è da sottolineare che il livello di avanzamento tecnologico e le potenzialità degli armamenti Nato sono generalmente superiori a quelle russe, ma da qualche tempo a questa parte siamo nella psicosi da guerra imminente e i distinguo sembrano retaggi del tempo di pace. Tra l’altro, nonostante l’imponente incremento di utili degli ultimi due anni, si parla di 50% in più negli ultimi 12 mesi e 25% da inizio anno, l’agenzia di rating Goldman Sachs avrebbe pubblicato un report che affossa tutto il comparto Aerospaziale e Difesa. L’indice che afferisce a questo campo, chiamato Stoxx600, sta infatti perdendo il 3,3% e tutte le grandi industrie che si occupano di produzione militare ne soffrono di conseguenza. Per citare solo alcuni casi eclatanti: l’italiano Leonardo perde il 7,8%, la tedesca Rheinmetall (la famosa industria dei tank Leopard) cede il 9%, Thales in Francia lascia il 5,4% e Bae Systems in Gb il 4,5%. Difficile pensare a una crisi delle armi in tempi del genere ma ieri è questo il messaggio che le borse hanno inviato. Probabilmente la preoccupazione è più per le intenzioni dei vari stati di investire ancora nel settore militare che per la reale capacità del comparto Difesa di vendere. Intanto sul campo Kiev e Mosca continuano a scambiarsi accuse reciproche sui droni che hanno «scalfito», per la prima volta dall’inizio del conflitto, gli edifici centrali dell’impianto atomico di Zaporizhzhia. Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha chiesto «una sessione straordinaria dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica» per fare luce sugli attacchi recenti di cui il Cremlino ha incolpato l’Ucraina. Ma da oltreoceano, il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Matthew Miller, ha definito il comportamento russo a Zaporizhzhia «un gioco pericoloso». In attesa di chiarezza i bombardamenti non si fermano e gli ucraini sarebbero riusciti a colpire un centro di addestramento per piloti dell’aeronautica nella regione di Voronezh con tre droni, di cui due a segno, anche se Mosca per ora smentisce. Dall’altro lato del fronte le bombe russe hanno lasciato al suolo almeno 6 civili in bombardamenti diffusi su tutto il territorio, da Leopoli all’est. Nelle alte sfere dell’esercito, invece, il presidente Zelensky ha rimosso altri due generali: si tratta dei capi dei comandi sud e ovest Kovalchuk e Litvinov che sarebbero stati sostituiti con Gennadii Shapovalov e Volodymyr Shvedyuk».
LA CORSA AL RIARMO DEI PAESI G7
La corsa al riarmo: dai Paesi G7 una spesa per 10mila miliardi di dollari. Stati Uniti e Paesi alleati nel prossimo decennio sono chiamati ad aumentare di molto gli investimenti per contrastare Russia e Cina. Roberto Bongiorni per Il Sole 24 Ore.
«Le guerre hanno effetti diretti, immediati, drammatici. Ed effetti indiretti, non necessariamente meno importanti, a volte catastrofici anche per le finanze di Paesi che non sono coinvolti. I due grandi conflitti che stanno scuotendo il mondo - la guerra in Israele e quella in Ucraina - hanno accelerato una corsa agli armamenti che, per spese e numero di Paesi coinvolti, ricorda i tempi della Guerra Fredda. Dagli Stati Uniti, passando per il Medio Oriente ed Europa, fino all’Asia, la nuova era del riarmo globale è già iniziata. Il trend è in costante crescita. Il 2023 si è concluso con una spesa mondiale senza precedenti: 2.200 miliardi di dollari. Ma non è finita. I bilanci del 2024 indicano spese ancor più rilevanti. Ci si chiede cosa possa aver realmente provocato questa accelerazione in un periodo in cui l’economia globale, tanto meno quella europea, sta vivendo un periodo già difficile, minacciato da ulteriori rialzi del costo del denaro. Le motivazioni sono tante e diverse, a seconda degli Stati e dei continenti coinvolti. In Europa ora è senz’altro la paura di ritrovarsi vulnerabili davanti alle politiche aggressive e ambiziose della Russia di Vladimir Putin ad aver spinto i diversi Governi, molti dei quali hanno comunque ridotto i loro arsenali per fornire armamenti all’esercito ucraino, a correre ai ripari e rafforzare la loro Difesa. Per adeguarsi ai nuovi obiettivi della Nato, i Paesi membri dell’Alleanza atlantica hanno dovuto portare la quota destinata alla Difesa al 2% del Prodotto interno Lordo. Obiettivo accettato, non senza molte resistenze, polemiche e sacrifici, ma non raggiunto ancora da tutti. Eppure, già si profila un nuovo, ambiziosissimo traguardo (per quanto non ancora ufficiale). Il mondo è sempre più insicuro, ed i funzionari dei vari apparati militari ritengono ora che sia necessario allinearsi sugli esorbitanti livelli di spesa militare adottati durante i periodi più difficili della Guerra Fredda, quando diversi Paesi destinarono alla Difesa il 4% del Pil. Non sarà facile, ma se questo è il trend di lungo periodo, sarà comunque difficile sottrarvisi. Se questo fosse realmente il nuovo tetto richiesto per adeguarsi a nuovi parametri Nato, l’agenzia Bloomberg ha calcolato che i Paesi del G7 dovrebbero erogare 10mila miliardi di dollari in «impegni aggiuntivi» per la Difesa nel prossimo decennio. L’Europa si è riscoperta vulnerabile. Non ha ancora un esercito europeo, e forse non l’avrà presto, ma i suoi Governi sono decisi a recuperare terreno. Un rapporto diffuso lo scorso 11 marzo dall’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (Sipri) indica che il processo è già in corso da anni. Rispetto al periodo 2014-2018 i Paesi europei hanno quasi raddoppiato le spese destinati agli armamenti (+94%) nei cinque anni successivi (2019-2023). Non che gli altri Paesi spendano di meno. Anzi. Chi si era illuso che le sanzioni internazionali potessero piegare l’economia russa, e ridimensionare l’impeto bellico di Vladimir Putin, ha fatto male i conti. Il budget per la Difesa 2024 è cresciuto ulteriormente del 60 per cento. Oggi un terzo della spesa complessiva della Russia riguarda gli armamenti, mentre la Difesa ora rappresenta circa il 7,5% del Pil. Per ora, l’economia di guerra decisa da Putin, sta reggendo. La colossale previsione di spesa militare dei Paesi occidentali trova la sue motivazioni da un cocktail di fattori; da un lato spaventa la minaccia russa alle porte dell’Europa. Nello stesso tempo le ambizioni territoriali della Cina, che peraltro ha rafforzato i rapporti economici e le cooperazioni militari con la Russia, non lasciano dormire sonni tranquilli, soprattutto nei corridoi della Casa Bianca. Le ambizioni del presidente cinese Xi Jinping non sono un segreto: annettere territorialmente Taiwan alla Cina. Se necessario anche ricorrendo alla forza. A ciò si aggiungono le altre rivendicazioni territoriali della Cina - sempre manifestate da Xi Jinping -anche in altre aree nella regione asiatica dell’Oceano Asia Pacifico. Rispetto al bipolarismo della guerra fredda, questa nuova corsa al riarmo vede tanti antagonisti. Oltre alla potenza cinese, vi sono l’India, il Paese che lo scorso anno ha acquistato più armi nel mondo. E che dire dei Paesi del Golfo? Sui primi 10 acquirenti mondiali di armi, ben nove provengono proprio da quest’ area turbolenta. La nuova veste bellica del Vecchio Continente potrebbe tuttavia essere così costosa da creare problemi su vari fronti; sulla tenuta dei Governi, sull’opinione pubblica, sull’etica di certe scelta a discapito di altre. Se i Governi si fermassero alla soglia del 2% del Pil per le spese militari, quella insomma prevista dall’Alleanza atlantica, il processo di consolidamento del debito dell’Unione europea successivo alla pandemia vivrebbe una fase di stallo. Se fosse davvero perseguito l’obiettivo del 4% del Pil per la Difesa, diversi Paesi si troverebbero in grandi difficoltà. Insomma, la coperta è la stessa, non si può allungare. In nome del riarmo, occorrerebbe fare scelte radicali, dolorose e discutibili. Ovvero tagliare il budget destinato ad altri settori, tra cui quelli socialmente indispensabili, come Sanità e Istruzione. Oppure indebitarsi ancora. Con tutte le conseguenze del caso. «Francia, Italia e Spagna sarebbero particolarmente esposte se la spesa aggiuntiva venisse finanziata attraverso i mercati obbligazionari», ha segnalato Bloomberg, che ha calcolato come il debito pubblico italiano salirebbe in questo caso dal 144% al 179% del Pil entro il 2034. Sei si aumentasse il budget militare al 4%, anche per gli Stati Uniti, che già stanziano il 3,3% del loro Pil, non sarebbe facile; il debito passerebbe dal 99% al 134 per cento. La Casa Bianca potrebbe presto chiedere un aumento dell’1% del bilancio per la Difesa. Qualunque sia la decisione presa dai Governi dei Paesi occidentali, su entrambe le sponde dell’Atlantico la nuova corsa al riarmo è ormai un processo irreversibile. Come sarà pagato lo si vedrà col tempo. Sicuramente con dei sacrifici».
DEF, PIL RIVISTO ALL’1 PER CENTO DI CRESCITA
Arriva il Def al Consiglio dei Ministri. La crescita del Pil viene rivista all’1% nel 2024. Il ministro dell’Economia ipotizza nuovi interventi sul superbonus. Pnrr, serve una proroga al 2026. Mario Sensini per il Corriere.
«Occorrerà aspettare l’estate, quando la Ue indicherà la «traiettoria tecnica» di riduzione di debito e deficit, per capire quali margini di bilancio il governo avrà di fronte nei prossimi anni. Il Documento di economia e finanza approvato ieri si limita a confermare gli obiettivi di settembre, deficit al 4,3% quest’anno, poi al 3,7% e al 3% nel 2026, debito in crescita dal 137,8 di quest’anno fino al 139,8% del 2026, nonostante una revisione a ribasso della crescita. Il Pil salirà dell’1% quest’anno (a settembre si prevedeva l’1,2%), dell’1,2% nel prossimo, dell’1,1% nel 2026, con l’inflazione già all’1,6% quest’anno, sotto la media Ue. Deficit confermato In attesa delle nuove regole Ue sulle finanze pubbliche, secondo il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non era utile o necessario fare di più. Per Giorgetti, che professa «prudenza e realismo», tuttavia, gli obiettivi di deficit già indicati restano «vincolanti». Messaggio chiaro ai mercati, alle agenzie di rating (il 19 è atteso il giudizio di S&P) e agli alleati di governo: non ci saranno sforamenti e se dovesse essere necessario «si interverrà nuovamente sul Superbonus». L’impatto «devastante», così lo definisce il ministro, dei bonus sui conti pubblici è una delle poche certezze che emergono dal Def. Il conto è arrivato a 219 miliardi di euro, dei quali 160 relativi al solo Superbonus. Tolti «16 miliardi di crediti sequestrati a seguito delle verifiche che — assicura — continueranno e saranno prioritarie», e tolti 40 miliardi già compensati (di cui 20 nel 2023), restano 163 miliardi di crediti da compensare nei prossimi anni. Nuova stretta sul 110% Sono circa 40 miliardi l’anno, due punti di Pil, che rischiano di essere «incompatibili» con le disponibilità di cassa e l’obiettivo di tenere il deficit. Per questo Giorgetti minaccia una nuova stretta utilizzando il decreto già al Senato che blocca sconti in fattura e cessione del credito. Si farà una nuova verifica e se necessario si interverrà, ha detto il ministro, per garantire «una dinamica dei flussi di cassa» utile a rispettare gli obiettivi di deficit del ’25 e del ’26. Per ridurre l’importo dei crediti che scadono nei prossimi anni non ci sono molte strade: o si taglia il valore della detrazione (improbabile) o se ne allunga il termine di fruizione (oggi tra quattro e cinque anni). Comunque un provvedimento da ultima ratio. Sempre che Eurostat non decida di rivedere i criteri contabili. Di certo, il ministro non vuole che il 110% comprometta il taglio del cuneo fiscale nel 2025, che «resta la priorità numero uno». Servono 11 miliardi, che devono ancora essere trovati nel bilancio. Meno problemi ci sono per la conferma delle tre aliquote Irpef, che costa circa 4 miliardi, e per la quale sono già accantonate parte delle risorse, «da integrare con il gettito del concordato preventivo biennale» dice il viceministro, Maurizio Leo. Al conseguimento dell’obiettivo potranno contribuire anche nuovi tagli di spesa e le privatizzazioni, che il ministro ha confermato in 20 miliardi nel biennio ’24-’25, ammettendo tuttavia che «il problema del debito non si risolve con le privatizzazioni» (mentre Matteo Salvini pensa a una concessionaria unica per le quattro autostrade pubbliche). Per tagliare il rapporto tra il debito e il Pil, oltre al rigore sui conti, serve più crescita, proprio nel momento in cui viene meno il Superbonus che, bene o male, in questi tre anni ha trainato l’economia. Non resta che il Pnrr. «Insisto nella proroga del termine del 2026 per i lavori» dice Giorgetti».
IL GOVERNO PRENDE TEMPO PER IL “DISAVANZO ECCESSIVO”
Il commento di Dino Pesole per Il Sole 24 Ore: l’esecutivo prende tempo sulle cifre perché deve valutare l’impatto della procedura d’infrazione dell’Unione Europea.
«La decisione del Governo di limitare l’orizzonte del Def al solo quadro tendenziale aggiornato senza indicare lo scenario programmatico serve senz’altro a prendere tempo, alla luce dell’intreccio di impegni e scadenze che, una volta celebrate le elezioni europee, vedranno i nostri conti pubblici alle prese con il nuovo Patto di stabilità. A fine giugno verrà definita la “traiettoria tecnica” che la Commissione indicherà per ogni Paese spalmata su un quadriennio estendibile a sette anni, secondo lo schema definito dal nuovo impianto di governance. In parallelo partirà la procedura di infrazione per disavanzo eccessivo. Il tutto si chiuderà entro il 20 settembre quando il Governo dovrà presentare il piano pluriennale di spesa. La trattativa politica verrà impostata a ridosso di queste scadenze ma entrerà nel vivo solo quando si sarà insediata la nuova Commissione. Con quali margini? Intanto il Governo potrà far conto sul fatto che in procedura di infrazione verrà meno l’obbligo di ridurre il debito dell’1% già dal prossimo anno. Resterebbe in piedi la richiesta di correzione pari allo 0,5% in termini strutturali, ma qui entrano in campo alcune circostanze attenuanti che il Governo si appresta a far valere in sede di trattativa. Si procederà a un complesso calcolo per definire il possibile “sconto” nel periodo 2025-2027 da porre in relazione all’incremento della spesa per interessi sostenuta in seguito all’impennata dell’inflazione e all’aumento dei tassi da parte della Bce. Alla fine del triennio (o comunque quando l’Italia uscirà dalla procedura) l’obiettivo di deficit sarà l’1,5 per cento. Potrebbe aprirsi inoltre qualche ulteriore margine per gli investimenti pubblici già avviati nelle aree prioritarie europee (transizione climatica e digitale, sicurezza energetica e difesa) con annesso lo scorporo della spesa nazionale relativa al cofinanziamento dei progetti UE. In pendenza della trattativa, e nell’aspettativa che sia possibile ottenere quasi tutta la flessibilità consentita dalle nuove regole, resterà comunque in piedi l’incognita maggiore: dove reperire le risorse per confermare per un altro anno alcune delle misure portanti della manovra 2024, finanziate solo per un anno: 10 miliardi per il taglio del cuneo contributivo, 4,3 miliardi per la nuova Irpef, che è passata da quattro a tre aliquote. Nell’elenco dovranno poi rientrare anche le risorse per le imprese, le famiglie e la natalità, il canone Rai ridotto da 90 a 70 euro (con integrazione del finanziamento alla Rai per 430 milioni), le spese indifferibili tra cui quelle per le missioni internazionali la base di partenza supera i 20 miliardi. Nel conto andrà inserita anche la correzione richiesta, ancorché ridotta grazie alla flessibilità che si riuscirà a spuntare, sfruttando il margine che sarà possibile ricavare tra la stima del deficit tendenziale del 2025 (3,7%) e il programmatico. Per il resto, almeno stando a quel che è lecito prevedere fin d’ora, occorrerà affidarsi a un mix di tagli alla spesa e maggiori entrate».
OXFORD ECONOMICS BOCCIA IL SUPERBONUS
Anche Oxford Economics boccia il superbonus. Per gli esperti il 110% doveva essere usato solo nel periodo post-Covid, ma non oltre. Ecco perché si tratta della «peggior misura di politica fiscale adottata in Italia». Ignazio Stagno per Libero.
«La peggiore misura di politica fiscale adottata in Italia negli ultimi dieci anni». L’osservatorio dell’Oxford Economics, leader nelle previsioni economiche globali e nelle analisi econometriche, non usa giri di parole e smonta in modo chiaro il Superbonus che sta mettendo a rischio le casse dello Stato. In un report pubblicato recentemente, il giudizio sull’incentivo per il settore edilizio varato da Giuseppe Conte non è tenero: «Inizialmente questa tipologia di bonus sono stati implementati come misura anticiclica dopo la pandemia ma sono continuati durante un periodo in cui l’economia è cresciuta in modo piuttosto forte», si legge nel dossier. Poi l’analisi di Oxford Economics spiega cosa accadrà in un futuro nemmeno troppo lontano: «Si prevede che il moltiplicatore fiscale di queste misure sarà piuttosto contenuto, mentre l’impatto sulla produzione potenziale sarà prossimo allo zero. Inoltre, il piano si è rivelato molto più costoso rispetto alle stime iniziali e i suoi effetti sul debito pubblico si faranno sentire nei prossimi anni». E qui arriva una proiezione da brividi: il debito pubblico italiano si porterà dietro circa 200 miliardi di euro per gli sgravi fiscali che «si tradurranno in maggiori esigenze di finanziamento» pari al 2 per cento del Pil nel periodo tra il 2024 e il 2026. E Nicola Nobile, Chief Italy Economist di Oxford Economics, ci spiega quali saranno i prossimi scenari di cassa: «Le principali conseguenze sono in relazione all’andamento del debito pubblico. Nei numeri del deficit infatti i crediti edilizi, tra cui il superbonus, non appaiono come un problema. Ma per come viene contabilizzato la vera questione rimane quale è l’impatto di queste misure sul debito. E in questo quadro il debito non scenderà nei prossimi anni». Dalla metà del 2021 fino a marzo di quest’anno, il Superbonus, va ricordato, è costato al governo 122 miliardi di euro, ovvero il 5,8% del Pil del 2023. Il report di Oxford Economics accende un faro anche sui mercati: «Rimangono calmi, dal momento che l’economia italiana ha mostrato una certa resilienza con una performance dopo la pandemia leggermente migliore della media dell’Eurozona. A nostro avviso, tuttavia, esiste il rischio evidente che i mercati finanziari non abbiano ancora colto l’impatto negativo che tali misure avranno sulle future dinamiche del debito». Insomma il «disastro» firmato Conte non lascia ben sperare. E le parole usate dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non sono affatto confortanti: «Il quadro tendenziale, aggiornato rispetto alle dinamiche delle nuove previsioni di politica economica e all’impatto, ahimè devastante, del Superbonus e simili, fa sì che, a parte il consolidato indebitamento netto del 7,2% del 2023, le previsioni ci dicono 4,3 per il 2024, 3,7 per il 2025, 3 nel 2026 e 2,2 nel 2027». Insomma ci porteremo questo fardello dell’uomo in pochette ancora a lungo. «Quando questa enorme massa dei 219 miliardi di crediti edilizi scenderanno in forma di compensazione, quindi di minori versamenti nei prossimi anni e, quindi, diventeranno a tutti gli effetti debito pubblico, anche ai fini contabili, oltre a essere già oggi, di fatto, questo in termini di impegni assunti dai cittadini italiani», ha ricordato Giorgetti. E da Fdi arriva la stoccata del capogruppo alla Camera, Tommaso Foti: «Qualcuno avvisi Conte. Anche autorevoli enti internazionali intervengono per stroncare la misura tanto cara alle sinistre di Pd e M5s, protagoniste del fu “campo largo”. Chissà la cricca a Cinque Stelle quali argomentazioni troverà per difendere ancora l’indifendibile: da “Provaci ancora, Sam” a “Provaci ancora, Giuseppe”».
SCHLEIN E CONTE, AMICI PER FORZA
A una conferenza alla Camera l’occasione per una stretta di mano a favore delle telecamere, fra Elly Schlein e Giuseppe Conte. Per la leader dei dem va tutto bene. M5s auspica convergenze. Matteo Marcelli per Avvenire.
«La scena è piuttosto cringe, l’imbarazzo palpabile, mal celato dai (mezzi) sorrisi dei protagonisti. Ma nonostante questo, la stretta di mano tra Elly Schlein e Giuseppe Conte alla conferenza sul clima tenuta ieri alla Camera palesa la volontà (o comunque la necessità) di evitare la rottura definitiva, anche se ormai è chiaro che la distanza sarà preservata fino alle Europee. Le laconiche risposte degli interessati alle provocazioni dei cronisti confermano la difficoltà. «Come va con Conte? Sempre bene, come vedete», si limita a dire la segretaria dem. E l’ex premier non è meno rigido: «C’è stata la stretta di mano». La tensione, insomma, resta alta, dopo la mossa del presidente grillino sulle primarie baresi e i reiterati richiami alla “questione morale” dentro il Pd. Proprio le amministrative nel capoluogo pugliese continuano a tenere teso il filo che lega i due partiti: sempre ieri, è arrivata anche la decisione di Michele Laforgia di rimettere la sua candidatura a sindaco ai partiti che lo sostengono (M5s, Avs, +Europa e Socialisti). «Credo sia arrivato il momento, liberando definitivamente il campo da ogni sospetto di personalismo, di rimettere la mia disponibilità – ha detto l’avvocato –. Nelle ultime ore da più parti è stato chiesto ai due candidati di incontrarci, di fare un passo indietro e, magari, di individuare un terzo uomo che eviti la spaccatura del centrosinistra. Mi sembra una sesquipedale sciocchezza, ennesimo sintomo del tramonto della politica. Di certo non sono io – ha proseguito –, bollato come divisivo sin dal primo momento, a poter ricomporre, d'incanto, il campo largo, o giusto o comunque unito. È compito delle forze politiche, le stesse forze politiche che ci hanno candidato e che in questi giorni ci chiedono di compiere passi di danza, non si capisce verso dove, né come». Non è dato sapere se la decisione sia stata o meno concordata con i vertici del Movimento, che in ogni caso insiste «convintamente», alla luce del fatto che un terzo nome non si scorge, nel sostenere Laforgia, come ha fatto sapere il deputato e coordinatore regionale grillino Leonardo Donno; e, anzi, ora chiede al Pd di convergere su di lui. L’ennesima grana per la leader democrat, che oltre alla questione Bari deve fare i conti con un nutrito fronte interno, non proprio entusiasta della proposta sul nuovo codice etico, ritenendola una resa alla retorica pentastellata. Anche per questo l’uomo scelto da Schlein per dare una scossa al partito in Campania, Antonio Misiani, si è affrettato a precisare che quello da lui messo a punto in qualità di commissario regionale (il modello che la leader vorrebbe rendere nazionale) è semplicemente un “pacchetto” di «nuove regole» per le candidature e «non un codice etico». Una risposta alla vicepresidente dem del Parlamento Europeo, Pina Picierno, tra gli esponenti più infastiditi dalla decisione di Schlein, tanto da ricordare pubblicamente che un regolamento interno del partito «esiste già dal 2008». Neanche a Misiani, però, è piaciuto l’atteggiamento di Conte e lo ha fatto capire chiaramente: «Nessuno può ergersi in una cattedra e dare lezioni di moralità agli altri, nemmeno i nostri potenziali alleati. Detto questo – ha proseguito –, tutti devono fare la loro parte. Vogliamo continuare a lavorare per unire le forze alternative alla destra». Nel frattempo resta ancora in bilico il destino dei pentastellati in Puglia, dopo le parole di Conte sulla possibilità di un’uscita dalla giunta Emiliano, che però non si è ancora concretizzata. Ma a conferma dell’inevitabile necessità di mantenere il dialogo e del fatto che le liti siano solo funzionali alla corsa per Bruxelles, sempre ieri c’è stato un incontro informale alla Camera fra gli esponenti toscani delle due forze per valutare la possibilità presentarsi assieme alle elezioni amministrative di Firenze. Un vertice al quale hanno partecipato, tra gli altri, i membri della segreteria dem Davide Baruffi e Igor Taruffi e la big grillina Paola Taverna».
FERRARA: “AVERNE DI CACICCHI”
Commento controcorrente di Giuliano Ferrara sul Foglio a proposito della polemica sul Pd “partito di cacicchi”. Osserva fra l’altro: “Si è arrivati a eleggere un segretario di partito, Schlein, in opposizione alla gente che è la base organizzata di quel partito, nel nome della lotta alle turpi correnti”.
«Cacicchi, capibastone, ras: il disprezzo per la gente di partito, che organizza un sistema di voti e di consenso anche mediante lo scambio di interessi popolari legalmente rappresentati, è al suo culmine nell’Italia di questi anni. Eppure gli stessi che demoliscono moralmente il ceto accusato in blocco, codice penale alla mano, di voto di scambio e di traffico di influenze, tra questi gli amministratori che coalizzano consensi territoriali e per questo sono sempre in sospetto di scambio contiguo alla corruzione e alla mafia, non sopportano i sondaggi come strumento di indirizzo dell’opinione, non amano la cosiddetta personalizzazione plebiscitaria di politica e leadership, dannano le aziende-partito e i partiti-azienda, identificano nel berlusconismo e poi nel grillismo fenomeni di natura eversiva, mutamenti genetici del sistema democratico, veicoli di incompetenza e arrivismo che destabilizzano le istituzioni. Non vogliono i partiti, ma detestano l’antipolitica o le nuove forme d’opinione mediate dalla tv e dai social come vettori della politica. La nostra Costituzione prevede i partiti, dunque la loro gente, i loro capi, gli amministratori e gli eletti da questi espressi, per non dire della piccola minoranza sopravvissuta di funzionari e attivisti. Ci si contraddice palesemente quando si fa appello alla Costituzione contro la politica spettacolarizzata, i meet-up, i club, i partiti di plastica, i conflitti di interesse e le guerre mediatiche e al tempo stesso si rigettano le basi e i protagonisti della vita di partito, che ruotano intorno a uno scambio e rappresentanza di istanze popolari, di comunità, di gruppi, di settori della società, di bisogni diffusi nell’ambito del territorio, dei servizi, del lavoro, della vita familiare. Se cala la cappa del giudizio criminalizzante sulle tessere, le affiliazioni sociali, i signori degli apparati, le primarie, i sindaci e i governatori con un sistema di consenso affermato e trasversale, se tutto diventa profilo penale, voto di scambio e traffico di influenze procacciati da malfattori della politica clientelare, da controllare con le manette o con il codice etico, allora non ha senso lamentarsi per la democrazia fragile dell’opinione, dove l’appartenenza e la solidarietà di partito sono sostituite da risorse campagne controllo dei media culti personali e trovate di scena che si rincorrono e amplificano. Una volta c’erano le ideologie, i confessionalismi, le tradizioni, i congressi e le forme tipiche dell’aggregazione dei partiti, della loro vita interna, più o meno credibile sotto il profilo democratico. Ma era qualcosa. E qualcosa che non ritornerà più, probabilmente, certo non in quelle modalità. A parte giganteschi mutamenti di cultura sociale, salti generazionali decisivi nei costumi, nella tecnologia e nel suo uso pubblico e privato, basti pensare alle supplenze togate, alle retate di intere classi dirigenti, alle marce e fiaccolate, al popolo dei fax, alle campagne corrive dell’irruzione antipartito della magistratura da trent’anni a questa parte, non ultima la diffusa accusa di corruzione e mafia come complemento quasi necessario della definizione di ciò che era politica e partito. Compresa la fine delle salvaguardie costituzionali della divisione dei poteri che hanno fatto di chiunque amministri o sia eletto un giustiziabile più o meno come gli altri, senza riguardo al suo status particolare, concedendo un potere assoluto sulla politica alle procure della Repubblica. Però bisogna decidersi. Tra un’inchiesta e l’altra, una denuncia e l’altra, la gente di partito, specie se popolare e radicata nelle amministrazioni, è condannata alla reputazione del cacicco dal potere losco e insindacabile, progettato e esercitato nel segno della corruzione e dei reati similari di criminalità organizzata. Si è arrivati a eleggere un segretario di partito, Schlein, in opposizione alla gente che è la base organizzata di quel partito, nel nome della lotta alle turpi correnti. Poi, contro l’antipolitica, ci si appella alla Costituzione che in un suo celebre articolo mai applicato prevedeva la formalizzazione legale del ruolo dei partiti e delle loro strutture, anche in funzione di un controllo del rapporto tra individuo, società e potere. Altro che capibastone.».
LUPI SI PRESENTA INSIEME A FORZA ITALIA
Intesa tra Forza Italia e Noi Moderati: si presenteranno con una lista comune alle Europee. Obiettivo: il 10 per cento dei consensi. Paola di Caro intervista per il Corriere Maurizio Lupi.
«Non è una fusione e non è un semplice contributo». L’intesa tra Forza Italia e Noi moderati siglata ufficialmente ieri per la presentazione di liste comuni alle Europee sotto lo stesso simbolo che mette assieme i due partiti nel nome di «Berlusconi presidente» è, secondo Maurizio Lupi, l’ambizioso progetto di riportare il centro moderato, se non ai fasti del Pdl nell’immediato, a «contare in Europa e rappresentare una vasta area di elettori che non hanno trovato rappresentanza». Dopo mesi di trattative, si è arrivati alla fine all’accordo tra le due forze del Ppe e del centrodestra, visto anche che le recenti prove elettorali le hanno entrambe premiate e i sondaggi fanno ben sperare.
Se non è una fusione, il simbolo unico alle Europee serve a superare il 10%, come è sicuro Tajani?
«Certamente puntiamo a un risultato a due cifre, ma il nostro obiettivo non è solo sommare i voti di un partito all’altro. Noi speriamo che l’unione di due forze che provengono dalla stessa storia, che rappresentano il popolarismo — determinante in Europa ma sottorappresentato oggi in Italia —, che guardano al futuro ispirandosi a persona al centro, libertà e sussidiarietà, possa essere un moltiplicatore di consensi».
A chi pensate di prendere questi voti? Forse a una Lega in crisi?
«Tutto ci interessa tranne fare la corsa al voto in più rispetto ad alleati. Certo, queste sono elezioni proporzionali e ognuno cercherà legittimamente i propri consensi, noi per esempio non pensiamo che parole d’ordine sovraniste e nazionaliste siano attuali in un’Europa che non è più quella del 2019, ma che anzi dopo il Covid ha dimostrato che solo con l’unità si possono raggiungere risultati, come i fondi comuni per il Pnrr».
Quindi, se non alla Lega, a chi?
«Tutti i sondaggi danno un’area cosiddetta di centro che va dal 20 al 25%, ma mai nessuno è riuscito a farne un partito terzo dai due schieramenti, semplicemente perché questo spazio politicamente non c’è. Anche il Terzo polo che pure ha ottenuto alle Politiche l’8%, si è sfaldato subito dopo perché in un sistema bipolare o stai al governo o stai all’opposizione. Anche Renzi, alla fine ,si è alleato con Bonino in vista delle Europee, guardando a sinistra ritornando al suo schieramento. E noi vogliamo farlo nel centrodestra. Vogliamo rappresentare una forza tranquilla, citando Mitterrand, in un mondo che ha bisogno di punti fermi e idee chiare, di serietà e concretezza».
Ma se alle elezioni gli italiani vi premiassero, si può immaginare la nascita di un partito comune, che magari si apra anche ad altre forze?
«Un passo alla volta. Adesso ci presentiamo insieme, per contare di più in Europa e per essere forza di equilibrio in Italia nel governo, in leale collaborazione con la Meloni che da premier è punto di riferimento autorevole e di unione della coalizione. Poi vedremo. In Piemonte andremo in accordo con Cirio con liste separate, ma la nostra intenzione è rafforzare il centro, oggi e in futuro».
Presenterete candidature eccellenti?
«Stiamo definendo le liste, il 20 aprile faremo il consiglio nazionale come lo farà Forza Italia e sì, pensiamo di presentare candidati autorevoli. Non dico ancora i nomi, ma saranno simboli anche di temi come la Sanità, che tanto ha caratterizzato l’evoluzione dell’Europa durante e dopo il Covid. Con una visione europeista, senza additare presunti nemici come è successo con il caso Speranza, con un attacco che io ritengo scriteriato perché chiunque si fosse trovato nella sua situazione avrebbe avuto delle difficoltà. Siamo una forza popolare e moderata, seria. E seriamente ci comporteremo».
L’ANTIMAFIA CONVOCA DECARO ED EMILIANO
La commissione parlamentare Antimafia convocherà ufficialmente in audizione Antonio Decaro e Michele Emiliano. Ai magistrati chiesti gli atti delle indagini di Torino, Bari e Palermo. In vista delle elezioni baresi Laforgia passa la palla a Conte: “Chi mi ha scelto decida cosa devo fare”. Niccolò Carratelli per La Stampa.
«Bari, Torino, Palermo. La commissione parlamentare Antimafia non fa distinzioni e chiede alla magistratura le carte relative alle tre inchieste che hanno infiammato la politica italiana nell'ultima settimana. Saranno avviate istruttorie, previste eventuali audizioni, anche con l'obiettivo di cavalcare politicamente le vicende giudiziarie. Pare che la presidente, la deputata di Fratelli d'Italia Chiara Colosimo, abbia ricevuto diverse richieste da parte di componenti della commissione, variabili in base al colore politico: dal centrodestra si sollecitano approfondimenti sui casi di Bari e Torino, dove le indagini riguardano esponenti del Pd, dal centrosinistra si guarda con attenzione a Palermo, dove è stato arrestato un ex consigliere comunale di Fratelli d'Italia. In tutte e tre le vicende si parla di presunto voto di scambio, voti comprati e corruzione elettorale. Ma c'è una differenza sostanziale: su Bari il ministero dell'Interno ha istituito una commissione di accesso per valutare eventuali infiltrazioni mafiose nel Comune. Una procedura che potrebbe portare allo scioglimento del Consiglio comunale. Mentre a Torino, ha ragionato la stessa Colosimo con i suoi collaboratori, al momento questo scenario non appare plausibile, perché le indagini non hanno evidenziato la presenza della criminalità organizzata all'interno di aziende municipalizzate, come avvenuto nel capoluogo pugliese per la società dei trasporti controllata dal Comune. «Non c'è nessun elemento che può far ipotizzare un intervento analogo del Viminale», spiegano fonti dem. Questo non significa che i componenti dell'antimafia di centrodestra, ma anche dei 5 stelle, non chiederanno di esaminare con cura le carte dell'inchiesta del pm torinesi, chiedendo magari di ascoltare in audizione i dirigenti del partito nel capoluogo piemontese. Bari, però, è un'altra storia, tanto che la commissione Antimafia a breve convocherà ufficialmente in audizione il sindaco, Antonio Decaro, e il presidente della Puglia Michele Emiliano. D'altra parte, è a Bari che si sono già viste le conseguenze politiche dello scandalo, con lo strappo del Movimento 5 stelle, la rottura del patto nel centrosinistra e l'annullamento delle primarie di coalizione per la scelta del candidato sindaco. Lo spazio per una corsa unitaria di Pd e M5s sembra definitivamente chiuso, anche se per la prima volta, infatti, l'avvocato Michele Laforgia lascia intendere di poter valutare un suo passo indietro: «Rimetto la mia disponibilità a candidarmi alle stesse forze politiche che me l'hanno chiesta – spiega –. Saranno loro a decidere cosa fare da oggi in poi, come e con chi». Quindi, passa la palla a Giuseppe Conte, suo principale sponsor, a Nicola Fratoianni e agli altri partiti che lo hanno sostenuto fin qui. Uno modo per togliersi di dosso la pressione, visto che negli ultimi giorni il dibattito si era avvitato sulla necessità di un accordo tra lui e il candidato del Pd Vito Leccese. «Non siamo noi a dover trovare una soluzione, men che meno un terzo nome, che è una sesquipedale sciocchezza», aggiunge Laforgia. Parole che sembrano aprire uno spiraglio, ma dal Movimento si preoccupano subito di richiuderlo: «Confermiamo convintamente il nostro sostegno alla candidatura di Laforgia. Auspichiamo che ci possa essere una convergenza sul suo nome», dice Leonardo Donno, deputato M5S e coordinatore regionale Puglia. Stesso invito formulato giovedì scorso da Conte in trasferta a Bari, quando aveva affossato i gazebo a tre giorni dalla consultazione. Una settimana dopo, non a caso, non c'è nessun terzo nome sul tavolo. Lo stesso Leccese non sembra prendere molto sul serio questa mossa del suo avversario: «Spero che rimettersi nelle mani delle forze politiche che hanno fatto saltare le primarie di domenica non sia una ennesima perdita di tempo». Per Conte, in ogni caso, è strategico tenere accese le luci su Bari, dove il Pd è in chiara difficoltà. Tanto da tornarci domani, per tenere l'annunciata conferenza stampa e sciogliere il nodo della permanenza o meno dei 5 stelle nella giunta regionale pugliese di Emiliano. I rapporti tra l'ex premier e il governatore sono buoni, ma le accuse di trasformismo e l'immagine di cacicco cucita addosso al governatore li hanno resi meno solidi. A Bari si scommette sull'uscita dalla maggioranza dei quattro assessori M5s, compresa l'assessora al welfare Rosa Barone, che però non sarebbero tutti convinti della scelta».
PATTO UE SUI MIGRANTI. I DUBBI DI CARITAS EUROPA
Sui migranti, timori di Caritas Europa sul patto Ue. L’arcivescovo Michel Landau dice: «C’è il diritto alla sicurezza, ma chi fugge ha bisogno di luoghi sicuri. Un errore la mancata riforma del regolamento di Dublino». Paolo Lambruschi per Avvenire.
«Caritas Europa esprime preoccupazione per il nuovo Patto europeo su migrazione asilo in discussione oggi al Parlamento di Strasburgo e chiede che venga realizzata subito una missione europea congiunta di salvataggio nel Mediterraneo. Lo ha ribadito ieri a Grado monsignor Michel Landau, presidente di Caritas Europa, durante la seconda giornata del 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane in corso fino all’11 aprile dedicato al tema “Confini, zone di contatto e non di separazione”. La rete ecclesiale, composta da 48 Caritas europee, ritiene importante il raggiungimento di un accordo. « Ma ci sono molte questioni aperte – ha osservato Landau -. L’inadeguatezza del sistema politico è particolarmente drammatica. In fin dei conti, deve essere possibile proteggere le persone e proteggere i confini. Da una parte c’è il diritto di tutti alla sicurezza. Ma anche chi fugge dalle guerre ha bisogno di trovare luoghi sicuri e la tendenza ad esternalizzare l’accoglienza è una sfida perché vanno garantiti i diritti ai migranti, specie ai più vulnerabili. Dobbiamo essere attenti e implementare l’accordo Ue alla luce della tutela della dignità umana». Pesa, però, la mancata riforma del Regolamento Dublino, che prevede da 30 anni che i richiedenti asilo restino nel Paese di primo approdo. « Mi dispiace – ha aggiunto Landau -che non sia stato cambiato perché è disfunzionale. È ora poi che l’Ue affronti la questione delle morti in mare sulla rotta del Mediterraneo, dove dal 2014 almeno 20.000 persone sono morte e i numeri aumentano giorno dopo giorno, mentre nel mondo 108 milioni di persone sono costrette a lasciare le loro case a causa di guerre, persecuzioni, violenze, violazioni dei diritti umani. La questione sta prendendo sempre meno spazio sui media, ma non può essere accettato e deve finire. L’Europa deve parlare di nuovo di una missione congiunta europea di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo come aveva chiesto David Sassoli. La comunità internazionale non ha ancora trovato il modo di riconoscere e attuare in modo completo e indispensabile la protezione dei rifugiati e non combatte le cause alla radice, come guerre, persecuzioni e mutamento climatici, con la necessaria determinazione». Il presidente di Caritas Europa ha evidenziato che «in molti Paesi europei si riscontrano diverse carenze nella gestione dei rifugiati, ad esempio nelle sfide per gli sfollati dall’Ucraina, ma spesso anche nel sistema di assistenza di base in generale o nell’integrazione nel mercato del lavoro. Eppure ci troviamo di fronte a una grave carenza di manodopera, che non riguarda più solo i lavoratori qualificati, ad esempio nel settore infermieristico. È urgente un ripensamento». La conferma della necessità di un passo avanti nella politica migratoria europea viene da Stella Foskolou presidente di Caritas Grecia anche alla luce dei numeri degli arrivi e della nuova rotta aperta a Creta. «Sembra che l’Ue chiuda gli occhi e pensi di potersi permettere di ignorare le migrazioni di massa. Da inizio anno fino alla fine di marzo sono arrivati 10mila profughi, la maggior parte da Siria, Afghanistan, Somalia ed Eritrea. Un numero considerevole arriva a Creta aprendo una nuova rotta oltre a quelle già esistenti da Turchia, Egitto e Libia». Le elezioni Ue possono essere un’occasione. Landau ha ricordato il memorandum di Caritas Europa basato su cinque priorità rivolte a coloro che saranno eletti come membri del Parlamento a Strasburgo. Tra le richieste, « promuovere una direttiva europea sul reddito minimo», difendere i diritti dell’infanzia perché un bambino su quattro nell’Unione Europea è a rischio povertà o esclusione sociale oltre alla richiesta di tutelare « diritti umani e la dignità nelle politiche di migrazione e di asilo». Inoltre, che l’Europa «lavori per politiche globali più eque per lo sviluppo sostenibile, affrontando questioni come la necessità di sistemi alimentari equi e la finanza per il clima». A chi non apprezza che la Chiesa difenda gli emarginati replica: « Ma se la Chiesa non parla più per loro, chi altro lo farà? Dobbiamo cooperare il più possibile e parlare il più possibile».
RUSSIA-CINA: ALLEANZA RAFFORZATA
Il presidente cinese Xi Jinping riceve a Pechino il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Il vertice rafforza l’alleanza in chiave anti-occidentale. Xi difende Putin e dice: “Con lui un futuro luminoso”. E sulla guerra in Ucraina: “Non si tratta senza Mosca”. Lorenzo Lamperti per La Stampa.
«Futili». È l'etichetta posta da Cina e Russia agli incontri internazionali sulla guerra in Ucraina che non tengono conto degli interessi di Mosca. Quelle «legittime preoccupazioni di sicurezza» sin dall'inizio al centro della posizione di Pechino. È la presa di posizione forse più concreta che emerge dalla visita in Cina di Sergej Lavrov. Il ministro degli Esteri russo è stato ricevuto dall'omologo Wang Yi e dal presidente Xi Jinping, 48 ore dopo che sempre da Pechino la segretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen aveva paventato «conseguenze significative» nel caso di sostegno cinese all'industria militare di Mosca. Con un Occidente che continua a chiederle di premere per fermare la guerra, Pechino fa capire che non parteciperà a negoziati o conferenze di pace senza la presenza russa. Sostenendo che la rielezione di Vladimir Putin garantisce ai russi un «futuro luminoso», dice anche che se si vuole trattare bisogna farlo con lui. Lavrov ha poi definito «illegali» le sanzioni occidentali. Per la Cina, schierarsi contro le sanzioni serve anche a criticare le restrizioni subite in ambito tecnologico e i sempre più probabili dazi di Usa e Ue sulla sua industria verde, auto elettriche comprese. Sono stati ricordati i 240 miliardi di interscambio del 2023, record a cui ha contribuito il netto aumento di importazioni cinesi di petrolio. Nessun aggiornamento sul Forza della Siberia 2, il nuovo gasdotto che moltiplicherà le forniture energetiche russe alla Cina. Sul progetto sembra avere più fretta il Cremlino, mentre Xi guarda anche ad altri progetti in Asia centrale. Ma potrebbero esserci novità nel faccia a faccia tra leader di maggio, di cui si è parlato nel dettaglio ieri. Sarà la terza visita a Pechino di Putin in poco più di due anni, la prima all'estero dopo la rielezione. Ribadito poi più volte l'obiettivo del rafforzamento della partnership strategica. Vero che si tratta di una formula utilizzata in tutti gli incontri bilaterali, ma stavolta sembra avere maggiore solidità, anche perché a Pechino c'è la sensazione che l'Occidente sia destinato a delle divisioni interne. A commento della visita di Lavrov, il tabloid nazionalista Global Times ha scritto che sempre piu Paesi della Nato sono destinati ad avvicinarsi alle posizioni dell'Ungheria, rivedendo dunque il supporto a Kiev. Cina e Russia si raccontano invece come impegnate nella creazione di un sistema internazionale più «giusto» e privo di logiche di «confronto tra blocchi», in cui Xi vede i due Paesi come forza in grado di «unire il Sud globale». Il tutto in un rapporto bilaterale basato su «non alleanza, non confronto e non presa di mira di terzi». Si dicono invece intenzionate a coordinare maggiormente la propria azione nelle piattaforme multilaterali, tra Nazioni Unite e i Brics allargati, visti sempre più come una sorta di anti G7. Ieri, intanto, Lavrov e Wang hanno chiesto il cessate il fuoco a Gaza e la creazione di uno Stato palestinese. La vicinanza politica alla Russia è funzionale alla Cina anche per i suoi interessi in Asia-Pacifico. Non è un caso che la visita di Lavrov sia avvenuta 24 ore prima di quella del premier giapponese Fumio Kishida alla Casa Bianca, a cui domani si aggregherà il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr per un inedito summit trilaterale da cui usciranno nuovi accordi in materia di difesa. Il Giappone pare destinato a partecipare al patto di sicurezza Aukus (Australia, Regno Unito e Stati Uniti) che, a quel punto, per Pechino diventerebbe una sorta di Nato asiatica col compito di contenerla o «soffocarla». La stessa cosa che, nella prospettiva russa, avrebbe fatto l'Alleanza Atlantica nei suoi confronti in Europa orientale».
VINCONO LE NONNE DEL CLIMA
A Strasburgo la Svizzera perde la causa contro le «nonne del clima», alle quali dà ragione la Corte dei Diritti dell’Uomo. Il governo elvetico è considerato inadempiente contro il riscaldamento globale. Sara Gandolfi per il Corriere.
«Si autodefiniscono, con molto humour, «le esperte in vampate di calore» e ieri, a Strasburgo, hanno fatto la storia. La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato contro la Svizzera dall’associazione «KlimaSeniorinnen» — in tedesco, le Anziane del clima — e per la prima volta ha stabilito un nesso fra cambiamento climatico e diritti umani. La sentenza crea un precedente giuridico cruciale e apre una fase nuova nell’attivismo: quella del «climate litigation», o contenzioso climatico, con una probabile ondata di cause contro gli Stati inadempienti rispetto agli accordi di Parigi sul clima del 2015. Come ha detto la svedese Greta Thunberg, all’uscita dall’aula: «In tutto il mondo, sempre più persone stanno portando i loro governi in tribunale. È l’inizio di una nuova lotta». Le «nonne del clima» — oltre 2.500 associate, età media 73 anni — accusavano la Svizzera di non averle protette dagli effetti negativi del riscaldamento terrestre. «Dopo la prima estate molto calda del 2003, tante persone anziane sono decedute o hanno avuto importanti problemi di salute, e diversi studi scientifici hanno confermato che le donne sono più vulnerabili al cambiamento climatico rispetto agli uomini», spiega al Corriere Norma Bargetzi, portavoce per la Svizzera italiana delle KlimaSeniorinnen. I giudici hanno dato loro ragione, riconoscendo che il governo elvetico non si è impegnato a sufficienza nelle politiche climatiche, ad esempio nel calcolo del limite massimo per le emissioni di gas serra, e per questo ha violato l’articolo 8 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, sul diritto al «rispetto della vita privata e familiare». La Corte non ha invece riconosciuto la violazione del più ampio articolo 2 sul diritto alla vita. La sentenza, inappellabile, obbliga la Svizzera ad adeguare le proprie leggi e politiche in materia ma segna anche un precedente per tutti i 46 Paesi membri del Consiglio d’Europa, Italia compresa. Tra l’altro, sarà compito del comitato dei ministri del Consiglio verificare il rispetto del verdetto. Quella di ieri, però, è una vittoria dimezzata per gli attivisti del clima. La Corte infatti ha respinto come «irricevibile» il ricorso più importante, presentato da sei ragazzi portoghesi contro ben 32 Paesi europei per l’inefficacia delle loro politiche. «Per la Corte, non è possibile stabilire che la Convenzione imponga obblighi “extraterritoriali” agli Stati per proteggere persone che vivono altrove», spiega al Corriere Catherine Higham della London School of Economics. «Decisione molto deludente, data la natura transfrontaliera del cambiamento climatico». Più diretto Gerry Liston, avvocato del Global Legal Action Network: «La sentenza contro la Svizzera vale per tutti i Paesi europei. Significa che tutti i governi devono rivedere urgentemente i propri obiettivi in modo che siano basati sulla scienza e allineati al target di 1,5°C (limite massimo di riscaldamento stabilito dagli accordi di Parigi, ndr )». Tocca ora ai giovani ereditare la battaglia dalle nonne. «Siamo delusi dal verdetto sul nostro caso, dice il portoghese Martim Duarte Agostinho, 21 anni «ma i giudici hanno riconosciuto che il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale per l’umanità, una sfida intergenerazionale».
È NATA UNA STELLA DI NOME CAITLIN
Caitlin Clark è una fenomenale giocatrice di basket 22enne, che si è messa in luce nella squadra dell’Università dell’Iowa. Nata da mamma italoamericana, ha già bruciato tutti i record a livello universitario. Ammirata dai giganti della Nba, gioca e diverte trovando pace e forza nella sua fede cattolica. Antonio Giuliano per Avvenire.
«Tutti pazzi per Caitlin Clark. È lei la nuova stella del basket a stelle e strisce. Non uno dei superuomini della famosa Nba, ma una ragazza di 22 anni che sta impressionando anche LeBron James e compagni. È ancora solo una studentessa ma presto sbarcherà nel mondo professionistico come prima scelta ( al draft 2024). I numeri sono tutti dalla sua parte. Con quasi 4mila punti realizzati in quattro anni, Caitlin ha già superato il record di un giocatore o giocatrice nella storia della Division I della Ncaa, la massima serie di basket universitario negli Stati Uniti. La fuoriclasse delle Iowa Hawkeyes, ha trascinato di nuovo la squadra delle cestiste dell’Università dell’Iowa (l’ateneo del suo stato di nascita) alla finale del torneo dei college. E poco importa se anche questa volta non sono riuscite a vincere il titolo. Clark ha messo in mostra tutto il suo repertorio fatto di canestri improbabili, anche da otto metri, e assist meravigliosi. Alta 1 metro e 83 centimetri, è una fuoriclasse in tutti i fondamentali del gioco, un vero spettacolo da vedere dal vivo ma anche in Tv. Non a caso già prima dell’inizio di questa stagione le Iowa Hawkeyes hanno battuto il record di pubblico di tutti i tempi nel basket femminile: c’erano 61mila spettatori per la partita di esibizione contro le DePaul Blue Demons, disputata nello stadio della squadra di football per accogliere più persone. Il palazzetto di casa in questa stagione è sempre stato sold out, in trasferta le squadre che hanno ospitato Iowa hanno avuto un aumento di pubblico di oltre il 150 per cento rispetto alle altre partite (cioè due volte e mezzo il pubblico consueto). Così come il prezzo dei biglietti è cresciuto del 224 per cento. La stessa Ncaa ha parlato a tal proposito di “effetto Caitlin Clark”. Anche in televisione: la finale del torneo femminile persa contro South Carolina è stata vista da 18.7 milioni di spettatori, il numero più alto per una partita di basket (sia maschile che femminile, sia Nba che Ncaa) trasmessa dall’emittente sportiva Espn dal 2019 ad oggi. Se prendiamo invece solo le partite del campionato femminile dei college, è il dato più alto dal 1992. Gli assi della Nba si dicono estasiati nel vederla giocare: da Luka Doncic a Steph Curry a cui è stata paragonata per i canestri balistici dalla lunga distanza. Tutti strabiliati dalla ragazza nata a Des Moines, ma il cui sangue è anche italiano: sua madre si chiama Anne ma di cognome fa Nizzi, perché i suoi avi erano siciliani. E la mamma di Caitlin non ha dimenticato le sue origini visto che si diletta spesso nella preparazione di cannoli per tutta la squadra. Anne ha sposato Brent Clark, ex giocatore di basket e baseball, ma hanno trasmesso la passione per lo sport anche ai loro tre figli: Catlin ha un fratello maggiore (Blake) e uno minore (Colin) entrambi ex giocatori di football e basket. Ma certo la sorella è la fuoriclasse di famiglia. Catlin sta portando la pallacanestro femminile a rubare la scena a quella maschile. E la sua popolarità sta andando ben oltre i campi da basket. Tutti parlano oggi di lei, ma solo chi la conosce bene sa da dove derivi la sua forza. La famiglia Clark è cresciuta nella chiesa cattolica di San Francesco d’Assisi a West Des Moines. Caitlin frequentato le scuole elementari della parrocchia e la Dowling Catholic High School alle superiori. Parlando proprio del suo liceo nel 2018 a un giornale locale Caitlin disse che era una scuola speciale perché poteva vivere la sua fede quotidianamente. «Alla Dowling si inizia ogni giorno con la preghiera e si finisce ogni giorno con la preghiera». Chi le sta vicino racconta che non è cambiata. Padre Joseph Pins il parroco, ha spiegato di recente al giornale Crux, come tutta la comunità sia molto orgogliosa per il suo successo e per la sua vita nella fede che la rendono un modello in campo e fuori anche per i più piccoli. E anche il vescovo William Joensen si è detto non sorpreso dai suoi record, ricordando la testimonianza di Caitlin, dei suoi genitori e dei suoi fratelli, alla giornata diocesana dell’educazione cattolica dello scorso anno: «Hanno parlato della centralità della fede nella loro vita familiare… Caitlin ha testimoniato che fino ad oggi continua a trarre forza, visione e pace dalla sua presenza alla Messa e dai valori del Vangelo che le sono stati instillati».
ADDIO A PETER HIGGS, IL NOBEL DELLA PARTICELLA DI DIO
È morto Peter Higgs, il fisico inglese che vinse il Premio Nobel per aver svelato al mondo la forza della “particella di dio”: il bosone che porta il suo nome. Una scoperta fondamentale per capire le leggi che governano tutta la materia. Giordano Tedoldi per Libero.
«Ieri è stata diffusa la notizia della morte avvenuta lunedì, all’età di 94 anni, nella sua casa di Edimburgo, del fisico britannico Peter Higgs, che nel 1964 predisse l’esistenza della cosiddetta “particella di Dio”: il bosone di Higgs. La scoperta della particella venne clamorosamente annunciata decenni dopo la sua teorizzazione, il 4 luglio del 2012, grazie agli esperimenti al CERN di Ginevra. La portata della scoperta era tale che, anche dopo l’annuncio, si continuò a dubitare che la nuova particella fosse proprio il bosone concepito da Higgs (e da altri fisici) ma, cinque anni dopo, in seguito a ulteriori esperimenti e analisi, ogni incertezza fu dissipata. Peter Higgs diventò immediatamente un nome noto in tutto il mondo, e la particella battezzata in suo onore superò in popolarità, presso i profani, persino il quark. Ma perché tanto clamore? Nel corso degli anni erano state scoperte altre particelle elementari, ma nessuna suscitò altrettanto entusiasmo. Cos’è dunque questa “particella di Dio”? In prima approssimazione, il bosone di Higgs spiega come tutte le altre particelle elementari abbiano la massa che hanno. Entrando un po’ più nel dettaglio, tutte le particelle elementari che conosciamo, e le forze che esercitano, sono teorizzate dal cosiddetto Modello Standard della fisica. Il Modello ha una caratteristica molto importante: la simmetria di due delle forze, quella elettromagnetica, derivante o “mediata”, come dicono i fisici, dai fotoni, e quella nucleare debole (una forza fondamentale che è alla base delle reazioni a catena che forniscono al sole la sua energia), derivante o mediata dai bosoni W e Z. Affinché queste ultime particelle abbiano una massa, è necessario però che tale simmetria si spezzi, altrimenti, proprio come i fotoni, non ne avrebbero alcuna. Anzi, se la simmetria non si rompesse, non solo i bosoni W e Z, come i fotoni, non avrebbero massa, ma nessun’altra particella elementare. In altre parole, vivremmo in un universo senza massa. Naturalmente, come sappiamo sperimentalmente, la maggior parte delle particelle elementari ha una massa. Ad esempio, le particelle W e Z hanno quasi 100 volte la massa di un atomo di idrogeno. Ma cos’è che dunque spezza la “simmetria elettrodebole” (cioè la simmetria tra elettromagnetismo e forza nucleare debole, due forze che nel Modello Standard sono state unificate)? Il lettore avrà capito che è qui che entra in gioco il bosone di Higgs. Il bosone di Higgs è la forma con cui ci appare il meccanismo che la natura usa per distinguere le due forze simmetriche, e che dà alle particelle elementari la loro massa. Questa forma è quella di una particella elementare elettricamente neutra e instabile. E che ha una caratteristica unica: a differenza di tutte le altre particelle elementari conosciute, non dovrebbe avere spin (una particolare proprietà delle particelle elementari, che le classifica e ne descrive il comportamento). Quando si chiama il bosone di Higgs “la particella di Dio”, semplificando molto, si vuol dire che è grazie ad essa se il mondo, per noi, esiste e lo possiamo vedere, toccare, abitare, e se esistiamo noi stessi. Di fronte a questa semplificazione, giustamente i fisici storcono il naso, e si limitano a ricordare che la sua predizione e poi scoperta non fanno che riempire un vuoto nella comprensione delle leggi naturali che governano tutta la materia, oltre a gettare luce su ciò che avvenne quando l’universo era alle prime fasi del suo sviluppo. Ma sono poi ben contenti che anche le moltitudini profane si entusiasmino, perché sennò difficilmente potrebbero ricevere gli ingenti finanziamenti di cui hanno bisogno. Anche di ciò va dato atto a Peter Higgs».
IN LIBRERIA LA TESI DI GIUSSANI SU NIEBUHR
La ricerca di Dio tra dramma e ironia: così è cresciuto il pensiero di Luigi Giussani. Arriva oggi in libreria il volume che ripropone la tesi di dottorato del fondatore di Comunione e Liberazione dedicata al teologo Reinhold Niebuhr. Avvenire anticipa la prefazione al volume, firmata dall’arcivescovo di Milano Mario Delpini.
«La critica alla teologia accademica e l’avvio di nuovi percorsi trovano argomenti anche nell’umiliazione insopportabile e indifendibile dell’uomo. La teologia liberale, interpretata negli Stati Uniti dal Social Gospel, viveva dell’ottimismo prometeico del mito americano. Dava fondamento teologico all’euforia dello sviluppo industriale e suggeriva di acclamare al successo economico come a un segno del Regno di Dio. Niebuhr, negli anni 1915-1928, incontra le condizioni drammatiche, l’umiliazione dell’umanità dell’uomo, degli operai che lavorano nelle grandi fabbriche di Detroit. L’industrializzazione e lo sviluppo economico mostrano al giovane pastore della Bethel Evangelical Church il prezzo che gli operai devono pagare per arricchire gli altri. Il dramma di cui è testimone diventa per Niebuhr una obiezione alla teologia liberale. Diventa una ragione per intraprendere una riflessione che assuma il dramma del vivere come punto di partenza. Si comprende come la vicenda personale di Niebuhr possa aver attratto l’attenzione di don Giussani e aver motivato di scegliere questo autore per la sua tesi di dottorato, discussa nel seminario di Venegono Inferiore, il 23 giugno 1954 avendo come relatori don Carlo Colombo, monsignor Carlo Figini, don Giovanni Battista Guzzetti. Le pretese dell’autorealizzazione, la compiacenza per i risultati ottenuti come fossero un segno del Regno di Dio sono oggetto dell’ironia del saggio. «Tutto il dramma della storia umana è sotto l’esame di un giudice divino che ride delle pretese umane senza essere ostile alle umane aspirazioni. Il riso di fronte alle pretese è il giudizio divino» (Niebuhr). Anche questa funzione dell’ironia come principio critico verso una certa teologia accademica è un fattore di sintonia tra Giussani e Niebuhr. La riflessione teologica, segnata dalla sua origine drammatica, dall’ironia che scalfisce la presunzione, si sviluppa per ardui percorsi speculativi e sistematici sui quali don Giussani si accompagna con attenzione coinvolgente perché i temi di Niebuhr non sono privi di particolari risonanze nella sensibilità di don Giussani: la vocazione impossibile all’autotrascendimento dell’io, la libertà che s’arrischia nella decisione inevitabilmente rovinosa, la sovrabbondanza della grazia che si rivela come perdono, l’inaccessibile verità che si offre nella rivelazione accolta nell’esperienza credente. Tutti i temi elencati sono presenti in Niebuhr e riscuotono interesse in don Giussani, ma richiedono una rilettura critica anche molto severa. La ricerca che don Giussani ha condotto sul suo autore, in particolare sulla sua opera principale, The Nature and Destiny of Man (1939-1940) è uno studio analitico scrupoloso e documentato. Ma è interessante l’ampio “Sguardo critico” che don Giussani offre nella parte III della ricerca. Qui infatti è documentata sia la sensibilità corrente nella teologia cattolica del tempo e in particolare nella Facoltà teologica di Venegono, sia la sensibilità personale di don Luigi Giussani. Una tesi di dottorato è sempre un po’ noiosa. È un adempimento accademico che richiede analisi precise, documentazione sovrabbondante, criteri di compilazione scolastici. Ma poiché si tratta di don Giussani la pubblicazione della sua tesi è una impresa coraggiosa e opportuna per documentare i suoi interessi e un fattore rilevante per la formazione del suo pensiero».
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