La Versione di Banfi

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Stretta per i No Vax

alessandrobanfi.substack.com

Stretta per i No Vax

Quarantena breve per i vaccinati. Nuovi obblighi per mezzi pubblici e locali per chi non ha il super pass. Rinviata la decisione sul lavoro. Corsa al Colle: il Pd richiama i 5S. Il Papa sui migranti

Alessandro Banfi
Dec 30, 2021
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Stretta per i No Vax

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La tempesta Omicron si è abbattuta sull’Italia: quasi 100 mila contagi nelle ultime 24 ore, caos tamponi, allarme in diverse regioni per l’affollamento delle terapie intensive. Ieri il consiglio dei Ministri ha preso solo alcune delle misure che erano allo studio. Prima si sono divisi gli scienziati del Cts, poi i ministri del Governo. Il punto di caduta per ora è una decisione che prevede forti restrizioni di movimento per i non vaccinati. E una decisa semplificazione delle quarantene per i vaccinati. Calano le capienze di stadi e locali chiusi. Solo ai primi di gennaio sarà esaminata la questione del Green pass per tutti i lavoratori, misura cui si sono opposti Lega e 5 Stelle. Questa è la mediazione prodotta da Mario Draghi.

Anche il resto del mondo è in difficoltà. 208mila i contagiati ieri in Francia. La Spagna ha tagliato da dieci a sette giorni la quarantena per chi è positivo al Covid. Ridotto a una settimana anche il periodo di isolamento per chi non è vaccinato ed è entrato in contatto diretto con un infetto. Ieri la Polonia ha registrato 794 morti a causa del coronavirus, il 75% dei quali, over 60, non erano vaccinati. È il più alto numero registrato finora nella quarta ondata. Il Sudafrica, uno degli epicentri di Omicron, ha invece fatto segnare un calo di circa il 40% nei nuovi casi di infezione, confermando che la nuova variante potrebbe essere meno grave di Delta.

Corsa al Quirinale. C’è attesa per il discorso di domani sera di Mattarella. Mentre il Pd produce un’offensiva nei confronti degli alleati 5 Stelle. Parlano oggi il segretario Letta a Repubblica, il vicesegretario Provenzano al Corriere e la Bindi ad Avvenire. Il messaggio è molto chiaro: sostegno a Draghi e insieme richiesta di lealtà e unità a Conte.

Dall’estero, Avvenire torna sul Natale rosso dei cristiani, perseguitati in India e Myanmar. Angoscia per la libertà di stampa negata ad Hong Kong: ieri nuova retata di giornalisti. Impressiona il revisionismo storico a favore del periodo staliniano e dei Gulag da parte del regime di Putin. Oggi i presidenti russo e americano dovrebbero parlarsi della crisi ucraina, sarà anche toccato il tema della condanna a “Memorial”, l’Ong creata da Sacharov?  

Ieri il Papa, nella tradizionale udienza del mercoledì, ha parlato dei migranti “scandalo sociale dell’umanità”, ricordando che Giuseppe fu “migrante perseguitato”. Reportage del Manifesto dalla frontiera alpina fra Italia e Francia.

Qual è il significato del Natale? Comunque la pensiate, è la memoria di un dono, di una nascita, di una vita data per gli altri. L’invito che vi faccio è allora tornare ad ascoltare, in questi giorni più tranquilli e familiari di festa e di riposo, il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Simone Weil nel suo libro La persona e il sacro scrive: “Dalla prima infanzia sino alla tomba, qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini, compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”. Il Natale conta su questo cuore. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

Trovate questa VERSIONE di nuovo nella vostra casella di posta. Anche domani, ultimo dell’anno, l’appuntamento orario resta intorno alle 9. Guadagno un’ora di sonno in giornate che, anche se feriali, spero siano più rilassate per tutti voi. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Le nuove misure anti Covid dominano le prime pagine. Corriere della Sera: Green pass, più divieti per i no vax. Il Giornale si riferisce ai nuovi obblighi sui mezzi pubblici dal 10 gennaio: I no vax restano a piedi. Il Quotidiano Nazionale sintetizza: Cambiano quarantena e Super pass. Il Manifesto gioca con le parole fra “trambusto” e terza dose richiesta sui mezzi pubblici: Trambooster. Il Mattino punta sul certificato verde rafforzato: SuperPass, via alla nuova stretta. Anche il Messaggero è sulla stessa linea: Super pass per autobus e treni. Per Il Fatto: Governo in delirio, non si capisce nulla. Per La Repubblica invece è chiaro il senso: Stretta sui No Vax. La Stampa ancora più esplicita: Trasporti pubblici vietati ai No Vax. La Verità prende in giro l’esecutivo: L’Italia sfiora 100.00 contagi. Il Governo gioca al Sudoku. Libero invece appare soddisfatto: No Vax spalle al muro.  Per Avvenire sono: Misure anti-paralisi. Il Sole 24 Ore sottolinea l’approvazione finale della legge di Bilancio: Fiducia alla manovra da 36,5 miliardi. Ma Domani è critico: Su fisco, povertà e disuguaglianze Draghi non rispetta le promesse.

LE NUOVE MISURE APPROVATE DAL GOVERNO

Quarantena breve per i vaccinati, super green pass richiesto dal 10 gennaio sui mezzi pubblici e in altre situazioni. Diminuiscono anche i numeri delle capienze di stadi e locali. La cronaca di Adriana Logroscino per il Corriere della Sera.

«Passa la quarantena breve per evitare che l'aumento esponenziale di contagi paralizzi il Paese: i contatti dei positivi, purché abbiano completato il primo ciclo vaccinale non più di quattro mesi prima o abbiano ricevuto la terza dose e naturalmente in assenza di sintomi, non saranno più costretti all'isolamento. Il Consiglio dei ministri ha approvato un primo blocco di misure. Ad esso ne seguirà un altro che sarà discusso già nei primi giorni del 2022. Oltre al nodo della quarantena, un'altra decisione già presa allarga il numero di situazioni in cui sarà obbligatorio esibire il supergreen pass, cioè il certificato che si ottiene solo se guariti o immunizzati da non più di sei mesi: sarà richiesto non solo per accedere a cinema, ristoranti, bar e locali, ma anche, dal 10 gennaio, per viaggiare a bordo dei mezzi di trasporto a lunga percorrenza e su bus e metropolitane urbane, per visitare fiere e utilizzare gli impianti da sci, per partecipare ai matrimoni e per entrare negli alberghi. Oggetto di una serrata trattativa tra le forze politiche, e poi momentaneamente accantonata, su pressioni di Lega e M5S, l'ipotesi di estendere l'obbligo di supergreen pass anche a tutti i lavoratori. Il decreto inoltre taglia la capienza di stadi e impianti sportivi al chiuso: i posti che gli spettatori potranno occupare scendono rispettivamente dal 75 al 50 per cento e dal 60 al 35 per cento. L'esplosione dei contagi negli ultimi giorni, con la cifra record di 98 mila nuovi positivi rilevati ieri, ha spinto il governo a riconsiderare le regole in vigore. Con alcune strette e almeno un allentamento: quello relativo all'isolamento di chi si imbatta in un positivo: ormai una schiera quantificabile in qualche milione di italiani. La rimodulazione della quarantena era stata richiesta in modo pressante dalle Regioni. E il ministro della Salute, Roberto Speranza aveva chiesto al comitato tecnico scientifico di esprimersi. Il parere degli esperti si orientava verso un'esenzione per i contatti stretti purché vaccinati e non sintomatici, ma conteneva la raccomandazione a evitare occasioni di contagio come concerti, stadi e feste. Sarà nel decreto, infine, la disposizione, sollecitata in cabina di regia da Stefano Patuanelli del Movimento Cinque stelle, di disporre un prezzo calmierato per le mascherine Ffp2. Già obbligatorie, in base al decreto approvato subito prima di Natale, in tantissimi luoghi al chiuso, ora dovranno essere indossate anche da quei contatti dei positivi vaccinati e asintomatici, che non devono più osservare la quarantena. Riguardo alla quarantena è stata prevista anche una condizione intermedia: i contatti dei positivi che abbiano completato il ciclo vaccinale da più di quattro mesi e non abbiano ancora ricevuto la terza dose, osserveranno una quarantena breve, di cinque giorni, conclusa con un tampone rapido o molecolare negativo. Per i non vaccinati, infine, l'isolamento resta di 10 giorni con tampone o di 14 senza».

SCONTRO NEL GOVERNO SUL GREEN PASS AL LAVORO

Emanuele Lauria per Repubblica racconta le divisioni che hanno segnato la giornata di ieri. Prima fra i tecnici del Cts, poi fra i ministri del Governo. Draghi media e rinvia la decisione sui lavoratori ai primi giorni dell’anno prossimo.

«Rinviamo il provvedimento. Ma lo approviamo nella prossima riunione del Consiglio dei ministri». Alle nove della sera Mario Draghi, preso atto dello scontro nella maggioranza, decide di accantonare, ma solo per ora, il tema del Super Green Pass per tutti i lavoratori. Espone un rischio, quello dell'improvviso stop alle imprese che deriverebbe dai forfait di addetti non vaccinati, ed esprime l'esigenza di dare un preavviso ai destinatari di questa svolta. Risolvendo, con una dilazione dei tempi ma indicando una data certa per il via libera (il 5 gennaio), la contrapposizione che si era creata nel governo. La misura, che in pratica impone a tutti i lavoratori di immunizzarsi, era stata fortemente sponsorizzata dal titolare forzista della Pubblica amministrazione Renato Brunetta. E ieri mattina, a sorpresa, seppur con qualche distinguo interno, aveva trovato il sostegno esplicito della Conferenza della Regioni, guidata dal leghista Massimiliano Fedriga. Ma un altro leghista, il capodelegazione Giancarlo Giorgetti, ha fatto poi muro nel corso della cabina di regia che ha preceduto il cdm serale, esprimendo perplessità non ideologiche ma «pragmatiche». Va bene il Super Green Pass per chi lavora, è il suo messaggio, ma si predisponga prima un elenco delle categorie fragili da rendere esenti e un fondo per indennizzare chi subisse gravi conseguenze dalla vaccinazione. E, dalla parte opposta della maggioranza, sono giunti anche i dubbi dei 5Stelle. Il ministro Stefano Patuanelli ha sottolineato che finora si è sempre ragionato per funzioni: forze dell'ordine, docenti, sanitari, lavoratori a contatto con le persone. «Quale sarebbe la ratio di una distinzione tra lavoratori e disoccupati?», il succo del suo pensiero. Forza Italia ha rilanciato proponendo direttamente l'obbligo vaccinale, mentre attorno a Chigi si diffondeva l'ipotesi di un'estensione del "2G" (Green Pass a vaccinati o guariti, escludendo chi fa il tampone) solo ad alcune categorie di lavoratori, come quelli impegnati nella ristorazione. Non è passata neanche questa versione soft del provvedimento, rimasto stretto nella tenaglia delle due forze agli antipodi della maggioranza di Draghi. Brunetta, a tarda ora, dissimula la delusione: «L'Italia, nella lotta al Covid, ha assunto un vantaggio rispetto agli altri Paesi che rischiamo di perdere con provvedimenti parziali. Sì, ci sono stati dei veti e capisco perfettamente - dice il ministro - la posizione di Draghi. Alla prossima riunione questa misura ineludibile vedrà la luce». Il premier ha capito ben presto, ieri, che non sarebbe stata una giornata facile. Ha dovuto prendere una decisione, quella sull'abolizione della quarantena per i vaccinati, che aveva diviso il Comitato tecnico scientifico. Qualcuno, fra gli esperti, aveva rimarcato come questo provvedimento potesse rappresentare un rischio, davanti a numeri ancora incerti: Omicron si sta sviluppando rapidamente ma l'ultimo report, della scorsa settimana, ne calcolava l'incidenza al 28 per cento. Ciò comporterebbe, potenzialmente, il pericolo di "liberare" persone in grado di trasmettere la variante Delta, che determina conseguenze più gravi rispetto all'ultima giunta dal Sudafrica. Mentre i tecnici sviluppavano questi ragionamenti, però, i governatori portavano avanti con forza l'esigenza di non tenere a casa una rilevante massa di asintomatici, e di non bloccare anche lavoratori dei servizi essenziali. Basti pensare che, nella sola Toscana, sono 400 gli autisti dei bus in pausa forzata. La conferenza delle Regioni, prima di pranzo, si concludeva con la richiesta esplicita di un deciso taglio delle quarantene. E Fedriga cominciava un discreto ma deciso pressing su Palazzo Chigi, facendo notare che, con il ritmo attuale di crescita dei contagi, «di qui ai primi giorni di gennaio potrebbe fermarsi il 10 per cento del Paese». Draghi, a metà pomeriggio, ha dovuto tener conto di questa posizione, sostenuta da amministratori locali e datori di lavoro. Assumendosi l'onere della decisione, con una serie di mediazioni e di paletti che non hanno soddisfatto del tutto la "controparte". «Sicuramente il senso delle nostre istanze è stato compreso - dice il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti - ma non si è risolto il problema di ridurre il numero dei tamponi, anche se è stato previsto l'uso degli antigenici ». E un altro governatore di peso quale Nicola Zingaretti, con il Consiglio dei ministri in corso, aveva additato la difficile attuazione del decreto in cantiere: «Spero che il governo faccia scelte semplici». Una perplessità che, nella maggioranza, avevano manifestato anche i renziani, da tempo in guerra con il ministro Speranza. Prima che, a tarda ora, le nuove regole vedessero la luce».

La situazione del Covid nei Paesi esteri: nella Ue è caccia alle pillole anti-virus. Dopo la commessa di Israele, Berlino compra un milione di cicli Pfizer. Ma il rischio è che gli antivirali diventino disponibili solo quando il picco sarà già passato. Elena Dusi per Repubblica.

«A due anni dalla comparsa del coronavirus, il mondo registra il nuovo record di contagi. Sars-Cov-2 galoppa a una velocità mai raggiunta prima: 900mila casi al giorno, con Europa e Nord America in prima linea a causa di Omicron. Nel tentativo di costruire un argine ulteriore, oltre ai vaccini, molti Paesi si affrettano a comprare le pillole antivirali. Sia Molnupiravir della Merck (azienda nota fuori dagli Usa come Msd) che Paxlovid di Pfizer agiscono tentando di bloccare i meccanismi di replicazione del virus, che restano conservati anche nelle varianti. Il primo ha un'efficacia stimata del 30% (all'inizio era stata calcolata al 90%, ma poi si è rivelata molto più bassa), il secondo dell'89% nell'evitare sintomi gravi e ricoveri. Israele ha appena comprato 100mila cicli di Pfizer, la Germania un milione: in questo caso ogni Stato europeo si è mosso per conto proprio, non c'è stato l'acquisto congiunto della Commissione. «Il farmaco è molto promettente», ha detto il ministro della Salute tedesco Karl Lauterbach, riferendosi a Paxlovid. «Può impedire in misura significativa il decorso grave della malattia se usato tempestivamente. Spero che riusciremo a evitare numerosi casi nelle terapie intensive». La Francia, dopo il ridimensionamento dell'efficacia di Molnupiravir, ha deciso di rinunciare ai suoi 50mila cicli. Punterà tutto su Paxlovid. L'Italia dovrebbe cominciare a usare la pillola di Merck entro fine gennaio: ne ha acquistati 50mila cicli, ma all'inizio ne arriverà solo una piccola quota. Pfizer, con 200mila cicli, dovrebbe arrivare a marzo. In una prima fase gli antivirali saranno limitati ai pazienti contagiati con fattori di rischio, che possono degenerare nella forma grave di malattia. Entrambi i farmaci al momento sono in corso di valutazione all'Ema, l'Agenzia europea per i medicinali, ma possono essere usati in una situazione d'emergenza. Gran Bretagna e Danimarca hanno già autorizzato Merck, negli Usa sono stati approvati entrambi. La Casa Bianca ha acquistato 10 milioni di cicli di Pfizer e 5 milioni di Merck, al prezzo di circa 700 dollari ciascuno. Gli antivirali hanno il vantaggio di restare efficaci nonostante le mutazioni del virus. Gli anticorpi monoclonali invece, un altro trattamento da usare subito dopo il contagio, ma che richiede la somministrazione in ospedale, si ritrovano spiazzati da Omicron. Ne abbiamo una ventina, ma solo un paio restano efficaci. Le pillole di Merck e Pfizer vanno prese immediatamente dopo l'infezione, al massimo entro 5 giorni. Agiscono frenando la replicazione del virus all'interno dell'organismo e vanno assunte per 5 giorni, per dare il tempo agli anticorpi di attivarsi contro l'infezione. Diventano invece inutili nella seconda fase della malattia, quando non è il virus, ma la risposta immunitaria aberrante a provocare la polmonite e gli altri sintomi gravi. Con questi limiti, e con la rapidità di Omicron, non è chiaro quanto i farmaci possano essere davvero utili. «C'è il rischio che il picco sia già stato superato, quando diventeranno disponibili», ragiona Guido Rasi, ex direttore dell'Ema, microbiologo all'università Tor Vergata e consulente del Commissario Figliuolo. «L'assunzione deve essere il più precoce possibile, subito dopo il risultato positivo del tampone. Con i tempi lunghi che abbiamo per processare i test, in questo momento ci troveremmo in difficoltà». Anche i criteri di sicurezza sono più stringenti rispetto ai vaccini. Le pillole non possono essere assunte in gravidanza o durante la ricerca di un concepimento. Pfizer deve essere evitato se si assume un lungo elenco di altri medicinali e se si hanno problemi a fegato o reni. Sarà poi tutta da valutare la decisione se darle in via prioritaria ai No Vax, visto che con Omicron sono soprattutto loro ad ammalarsi in modo grave».

CAOS TAMPONI E POSTI LETTO IN LOMBARDIA

Continua il tormento della sanità in Lombardia, di nuovo sotto stress. Andrea Sparaciari per Il Fatto.

«"Nonostante il boom di contagi in Lombardia, la situazione è ben diversa da un anno fa", parole di Guido Bertolaso ieri al Corriere. Per il consulente della Regione Lombardia negli ospedali "i reparti non sono chiusi, si fanno gli ambulatori, gli interventi. Un anno fa tutto era molto diverso. Per questo nonostante il record cambia poco, per fortuna". Non importa che ieri i positivi siano stati 32.696, i morti 28, i ricoverati in terapia intensiva 191 e 1.831 quelli in non intensiva. "Va tutto bene". Tuttavia, mentre lui pontificava, la dg Welfare del Pirellone diramava a tutti gli ospedali la nota con la quale la Regione ordina a tutti di aumentare i posti di terapia intensiva, portandoli dagli attuali 185 a 263. "Ad oggi risultano attivi n. 185 posti letto dedicati a pazienti Covid-19 con un aumento delle richieste negli ultimi giorni. Appare pertanto necessario procedere con l'ampliamento dei posti letto dei Centri già attivi e attivare nuovi Centri", si legge. Con la stessa nota si avverte che "quando sarà prossima la saturazione dei posti letto sopra indicati, saranno gradualmente attivati n. 3 moduli da 15 posti letto ciascuno nella struttura temporanea allestita presso Fiera Milano City". Infine ordina a 13 ospedali di dare i sanitari all'Astronave: 34 medici e 116 infermieri. Tutti sanitari sottratti alle loro strutture. A testimoniare che non va tutto bene, anche la delibera firmata ieri in gran fretta che aumenta di ulteriori 800 i posti letto per sub-acuti e degenza base. L'assessore Letizia Moratti ha poi stanziato 12 milioni per "la prosecuzione dell'attività dei Covid hotel", che fino a oggi non erano stati attivati. Nulla, invece, sulle Usca, le grandi sconosciute di questa quarta ondata. Va ancora peggio sul fronte tamponi: all'Ospedale San Carlo il software è andato in tilt martedì mattina e fino a ieri pomeriggio ha dato problemi. Risultato: inutili attese anche di 12 ore per centinaia di pazienti, martedì e mercoledì tamponi solo ai prenotati. Al San Paolo nel pomeriggio di ieri erano finiti i tamponi. File e problemi anche al Ptp di Lodi, dove per gestire l'assalto dei pazienti è dovuto scendere in campo l'esercito. Anche i medici di famiglia sono in guerra. Per Paola Pedrini, segretario regionale Fimmg: "C'è un sovraccarico di lavoro perché, oltre a dover visitare i pazienti Covid e non Covid, ci sono tutte le chiamate di quegli assistiti che non sanno cosa fare, hanno il tampone positivo, hanno il Covid, ma non riescono a prenotare il molecolare, non ricevono il certificato di isolamento e non riescono a contattare telefonicamente nessuno in Ats, dove sicuramente sono a loro volta oberati di lavoro e con poco personale. Per certe criticità di tipo organizzativo ci sembra di essere ancora a dicembre 2020". Disagi anche nei trasporti, con Trenord che sopprimerà "100 corse nei prossimi giorni", per le assenze di capitreno e macchinisti. Ma stiano tranquilli, i lombardi, perché "la situazione è ben diversa da un anno fa", lo dice Bertolaso».

LA CAMERA APPROVA LA MANOVRA DA 36,5 MILIARDI

Rush finale della Legge di Bilancio alla Camera, che viene approvata con un voto di fiducia e non più modificata rispetto al testo del Senato. Il meccanismo di esame e approvazione parlamentari di una legge così importante va rivisto. Dino Pesole per il Sole 24 Ore.

«Il rush finale della manovra non è un unicum nella recente cronistoria delle ultime leggi di Bilancio, tanto che si va ormai prefigurando una sorta di "monocameralismo di fatto". Questa volta tuttavia si è raggiunta una soglia limite, con il testo approvato dal Consiglio dei ministri il 29 ottobre, poi sottoposto a diverse riscritture e integrazioni in sede di serrata trattativa tra le variegate forze politiche che compongono l'attuale maggioranza, per approdare all'esame di Palazzo Madama a ridosso della pausa natalizia. La Commissione Bilancio del Senato l'ha esaminato e votato nel breve spazio di poche ore, e infine l'aula di Palazzo Madama ha approvato il testo, così come riformulato e condensato dal Governo nel rituale maxi-emendamento su cui è stata posta la questione di fiducia nella notte del 24 dicembre. Alla Camera il compito di "ratificare" con un nuovo voto di fiducia il testo trasmesso dal Senato. Il problema è che tutto ciò avviene in aperto contrasto con l'ultima legge di riforma della contabilità pubblica e con i più recenti pronunciamenti della Consulta. Devono essere escluse - prevede la riforma del 2016 - norme micro settoriali e "a carattere localistico" estranee al contenuto proprio di un provvedimento che resta pur sempre (nell'interazione Governo-Parlamento) uno dei atti più rilevanti di politica economica. Alla prova dei fatti, parte dei contenuti di quella riforma paiono disattesi, come mostrano le molteplici misure microsettoriali inserite nel testo finale. La compressione dei tempi dell'esame parlamentare è indiscutibile. Eppure la Corte Costituzionale, nel dichiarare inammissibili i ricorsi presentati da 37 senatori dell'opposizione di allora al governo Conte 1, ha ribadito con ordinanza dell'8 febbraio 2019 che comunque deve essere garantita ai parlamentari la facoltà di «collaborare cognita causa alla formazione del testo», contribuendo «alla formazione della volontà legislativa». Quanto alla prassi ormai consolidata del ricorso a uno o più maxi-emendamenti su cui viene apposta la questione di fiducia, se non si prefigurava allora un «abuso del procedimento legislativo» tale da determinare «violazioni manifeste» delle prerogative dei parlamentari, «esiti differenti di simili compressioni della funzione costituzionale dei parlamentari» erano tutt' altro che esclusi per il futuro. Nel 2018 il casus belli era esploso in seguito al braccio di ferro con la Commissione europea. Per scongiurare il rischio di una procedura d'infrazione per disavanzo eccessivo, il governo Conte 1 aveva modificato i saldi della manovra fissando il deficit al 2% rispetto all'iniziale 2,4%. Il testo della legge di Bilancio venne così sottoposto il 19 dicembre all'approvazione del Senato in una nuova formulazione rispetto al testo varato dalla Camera l'8 dicembre. Ai deputati non restò altra scelta che ratificare il testo in terza lettura attraverso il rituale voto di fiducia. L'anno successivo la questione si è riproposta a parti invertite (la Consulta si è espressa in merito il 26 febbraio 2020). Pare urgente a questo punto rimettere nuovamente mano alla disciplina che regola la sessione di Bilancio e rispettare le indicazioni dei giudici costituzionali anche attraverso la modifica dei regolamenti, comunque necessaria in seguito alla riduzione del numero dei parlamentari».

GENTILONI, VISCO E IL PATTO DI STABILITÀ

Importante intervista del Commissario agli affari economici Paolo Gentiloni con il "Frankfurter Allgemeine Zeitung". L'ex premier propone trattative dei singoli Stati per il rientro del deficit. Tonia Mastrobuoni per Repubblica.

«L'Omicron sta inibendo la ripresa: il commissario agli Affari europei Paolo Gentiloni ammette che le stime di una crescita del 5% per l'anno in corso «sono state troppo ottimistiche». Ma l'ex premier italiano ha ricordato in un'intervista al quotidiano conservatore tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung che l'anno venturo sarà cruciale per la ridefinizione delle regole del Patto di stabilità. Una proposta arriverà da Bruxelles non prima della «metà del 2022» - non prima delle elezioni presidenziali francesi - e Gentiloni sta cercando di trovare una mediazione tra i partner Ue sulla ridefinizione delle regole che tengono insieme l'euro. Dopo aver parlato «a lungo» con il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, si è convinto che il tedesco «lavorerà per l'Europa » e non solo per la Germania. Certo, non sarà un compito facile armonizzare tutte le posizioni. Tanto più che su iniziativa austriaca i vecchi "Frugali" contrari a modifiche dei parametri di Maastricht - Austria, Paesi Bassi, Svezia e Danimarca - si sono allargati a Repubblica Ceca, Slovacchia, Finlandia e Lettonia. E l'ex ministro delle Finanze austriaco, Gernot Bluemel, ha ribattezzato la nuova alleanza dei rigoristi "Alleanza dei responsabili". Ma Gentiloni punta soprattutto a tre punti qualificanti che non dovrebbero dispiacere troppo alla Germania, il Paese che ha indossato i panni di mediatore tra le istanze dei "Responsabili" e l'asse Macron-Draghi, apertamente a favore di una riforma incisiva delle regole di bilancio. «L'attuale complesso di regole ha spiegato alla Faz - deve diventare più semplice e comprensibile. La trasformazione verde e digitale richiede una somma gigantesca di investimenti, che non possono essere bloccati dai paletti di Maastricht. Abbiamo bisogno di regole realistiche per abbassare il debito di molti Paesi». Il commissario Ue ha ricordato che la rivoluzione energetica ed ecologica verso un'Europa "a emissioni zero" richiederà - al di là delle risorse messe in campo dal Next Generation Eu - ben 550 miliardi di euro all'anno, come anticipato nei giorni scorsi da Repubblica. Impossibile che si riesca a investire quella cifra senza prevedere eccezioni alla regola sul disavanzo. Gentiloni ammette che di per sé quel 3% «ha funzionato ». Ma vanno trovati margini per spendere al di là di quel paletto. Sul debito, invece, il Commissario Ue è netto. Il limite del 60% non è stato proposto «da un brillante premio Nobel» ma era la media dei debiti europei al momento della firma di Maastricht. E «non ha funzionato». Gentiloni propone dunque di consentire a ogni Paese di negoziare un percorso di taglio del debito autonomamente con Bruxelles. Non ha senso neanche, come proposto dal direttore del fondo salva-Stati Esm Klaus Regling, elevarlo al 100%: «È altrettanto arbitrario». Quanto alla presunta flessibilità nell'applicazione del Patto che avrebbe funzionato posizione della Germania - Gentiloni taglia corto: «Quando non si riesce più a distinguere la flessibilità dalla totale lesione delle regole, qualcosa è andato storto».

Marco Zatterin per La Stampa intervista Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia che sostiene: “Il nostro Paese ha una capacità di crescita che può compensare l'aumento del debito e ridurre le tensioni sociali”. Ecco il passaggio sul patto di stabilità europeo.

«Gli aumenti dei salari e i margini delle imprese minacciano l'inflazione? «In questo momento non si vedono effetti di secondo impatto dai prezzi dell'energia, cui soprattutto si deve l'aumento dell'inflazione, a salari e margini, quindi resto sostanzialmente tranquillo. Io penso che i rischi siano bilanciati e non asimmetrici verso l'alto. In ogni caso, siamo tutti straordinariamente attenti a verificare mese per mese quali sono, come si muovono le determinanti dell'inflazione: mercato del lavoro, domanda, salari». In questo scenario di evoluzione, sarebbe favorevole a rivedere gli obiettivi di politica monetaria? «Non trovo alcun motivo per rivedere l'obiettivo (del 2%, ndr), al quale si è giunti quest' anno dopo una prolungata discussione nell'ambito del Consiglio direttivo. L'indicazione precedente, che era un obiettivo di un'inflazione inferiore ma prossima al 2%, creava incertezza. Per alcuni segnalava una propensione della Bce ad accettare con maggiore facilità un'inflazione al di sotto che non un'inflazione al di sopra del 2 per cento. Non aveva senso. Un obiettivo simmetrico contribuirà a mantenere bene ancorate le aspettative d'inflazione nel medio e lungo periodo». Si discute sulla riforma del Patto di stabilità dell'Eurozona congelato per affrontare il Covid. Se potesse ridisegnarlo, cosa suggerirebbe? «Già prima della pandemia c'erano critiche alla complessità del Patto di stabilità, così come all'insieme di regole di bilancio per gli Stati membri. Il punto fermo è che la sostenibilità delle finanze pubbliche in Europa e nei singoli Paesi è essenziale. Dobbiamo capire che siamo in un'unione monetaria senza essere in uno Stato federale: i singoli Stati restano responsabili per i propri bilanci ma non si deve mettere a rischio la stabilità complessiva». Ha senso abolire i vincoli? «No. Ha senso avere regole di riferimento e che - in determinate circostanze - possano essere discrezionalmente riviste. Non esiste il pilota automatico per risolvere problemi di sostenibilità, o di coerenza, fra i diversi obiettivi di bilancio dei Paesi di un'unione monetaria. Ma non si può non sottolineare che nel nostro caso essa ha un grave difetto: manca di una politica di bilancio comune. Non solo. Manca anche la capacità di dirigere dal centro interventi che sono di interesse per tutta la comunità. Lo sapevamo già all'inizio dell'unione monetaria. È una correzione da cui non si può prescindere». Cosa serve? «Due cose, per essere brevi. Da un lato, uno strumento di stabilizzazione analogo a quello messo in atto nell'emergenza pandemica. Dall'altro, una capacità di rivedere le norme e le regole del gioco alla bisogna, e qui forse occorre passare per i Trattati. Sarebbe utile una entità di finanza pubblica a livello centrale. Un Ministro, se vogliamo, dell'economia pubblica dell'Eurozona, se non della Ue, in grado di essere la controparte della politica monetaria unica».

QUIRINALE 1. IL PD CHIEDE LEALTÀ AI 5 STELLE

Il Pd manda segnali precisi agli alleati del M5S. Sul Corriere è esplicito il vice segretario Provenzano. Dice: “È inimmaginabile un’alleanza politica che si rompa sul Quirinale”. All’Avvenire lo conferma Rosy Bindi che si schiera ora per Mario Draghi: “Ho sempre ritenuto che dovesse restare al governo, ma di fronte al rischio di una spaccatura tifo perché faccia il capo dello Stato. Fondamentale che il mondo per 7 anni abbia la certezza che lui c'è”. Stefano Cappellini intervista per Repubblica il segretario Enrico Letta.

«Glielo chiedo senza giri di parole: il Pd sosterrà la candidatura di Draghi al Quirinale? «Intanto mi lasci dire che io nelle sue parole non ho letto una autocandidatura. Su un'eventuale ipotesi Draghi al Colle, come sugli altri nomi che garantiscono ampio consenso, decideremo tutti insieme e al momento debito, la mia personale opinione non conta. Quel che so per certo è che Draghi va comunque protetto e tutelato per il bene del Paese» . Teme che qualcuno voglia allontanarlo anche da Palazzo Chigi? «Chi ha detto di non volere Draghi al Quirinale ha aggiunto di volerlo ancora a Palazzo Chigi. Ritengo, per essere chiari, che noi dobbiamo tenercelo stretto, in un modo o nell'altro. Quello che Draghi sta portando all'Italia è enorme. Siamo un Paese che ha visto crescere il suo principale handicap, il debito pubblico, del 25% in poco più di un anno. In questo senso Draghi è un'assicurazione sulla vita». Come si fa a eleggere Draghi al Quirinale ed esporre il Paese al rischio di un vuoto di potere? «Il 13 gennaio dirò alla direzione del Pd e ai gruppi parlamentari che la via maestra è la continuità di governo e la stabilità. Il 2022 non può essere un anno elettorale, non possiamo permetterci almeno cinque mesi di interruzione dell'attività di governo. Quindi c'è bisogno di una larghissima maggioranza, un capo dello Stato non divisivo e non eletto sul filo dei voti». Renzi, e con lui il dem Bettini, sostengono che il presidente può essere eletto da una maggiornza diversa da quella che governa. «Il governo è sostenuto dal 90% delle forze parlamentari, sarebbe totalmente contraddittorio restringere il campo. Ci può essere una maggioranza più larga, non più stretta, altrimenti il governo cadrebbe». Ma toccasse a Draghi, chi potrebbe sostituirlo? «Servirebbe una sorta di doppia elezione, un accordo contestuale anche sul nome del sostituto». Berlusconi può farcela? «Non è candidato ufficialmente, quindi per me non è in campo. Certo il profilo che ho delineato per la figura del capo dello Stato non va nella sua direzione». Conte vuole una donna al Quirinale. Molte donne non l'hanno presa bene. «Non aggiungo altro al profilo che ho tracciato. Comunque non mi sembra che Conte abbia detto una cosa per cui scandalizzarsi». Renzi dialoga molto con Salvini, non teme blitz del centrodestra? «Naturale che tutti parlino con tutti, ma l'attuale Parlamento è una somma di debolezze. Nessuno può pensare di trarre vantaggi da questa situazione. Chi pensasse di eleggere il presidente a 505 voti sarebbe privo di senso della realtà. Non credo a forzature, è un momento in cui logica e buon senso possono prevalere».

QUIRINALE 2. IL CENTRO DESTRA FRA MR. B E PIANO B

Centro destra inquieto, stretto fra le promesse a Berlusconi e il realismo politico. Falci e Zapperi per il Corriere.

«Silvio Berlusconi lo ripete a tutti quelli che sta sentendo in questi giorni: «Io sono in campo per il Quirinale. Ci credo e sono convinto che la coalizione mi sosterrà compatta». Dagli altri leader del centrodestra il presidente di Forza Italia ha avuto ampie rassicurazioni. E su queste fa affidamento. Ma sia Matteo Salvini che Giorgia Meloni mentre tengono pronte le truppe per sostenere il cosiddetto piano A, lavorano sottotraccia anche per non farsi trovare impreparati qualora questo non riuscisse o dovesse essere abbandonato anzitempo. Ci si muove lungo binari paralleli. Da un lato, gli alleati vorrebbero arrivare alla vigilia del voto per il Colle (il primo presumibilmente avverrà il 24 gennaio) con l'assicurazione da parte di Berlusconi di poter aggregare ai numeri della coalizione, sulla carta intorno ai 450, altri parlamentari e delegati regionali «in libertà». Se questa ci sarà, al di là di una probabile attesa a far votare il Cavaliere solo dal quarto scrutinio quando il quorum si abbasserà, il centrodestra si schiererà come un sol uomo con colui che, come ha rivendicato ieri Maurizio Gasparri, ha fondato la coalizione. Ma, dall'altro, non si può non lavorare per una ipotesi alternativa da calare sul tavolo, sia che il leader azzurro si schieri ma non riesca ad essere eletto, sia che all'ultimo ritenga di non rischiare (ai suoi lo ripete spesso: «Con la mia storia non posso uscire impallinato come è capitato ad altri...»). Il centrodestra vuole far pesare la sua superiorità numerica rispetto al centrosinistra. È la prima volta che si presenta in vantaggio e vuole sfruttare questa condizione. Come? Individuando una figura con precise caratteristiche: non proveniente dalla sinistra, in grado di ottenere consensi trasversali, non accusabile di aver preso o condiviso provvedimenti divisivi rispetto a figure del centrodestra (Berlusconi in primis) o a temi cari a questo schieramento (ddl Zan, per esempio). Sulla base di queste caratteristiche la rosa dei papabili perde petali: non può essere la ministra Marta Cartabia, per via della riforma della Giustizia non apprezzata dalla Lega, né l'ex ministra Paola Severino, per la legge che porta il suo nome che è costata cara a Berlusconi. Ma non può essere speso nemmeno il nome di Giuliano Amato, a cui molti ancora rimproverano l'intervento sui conti correnti. Poi ciascuno coltiva le sue interlocuzioni. Se il Cavaliere lancia segnali di pace al Movimento 5 Stelle, Salvini dialoga con Matteo Renzi mentre Meloni mantiene un rapporto cordiale con Enrico Letta. Tutte le porte devono rimanere aperte».

QUIRINALE 3. MATTARELLA ALLA VIGILIA DEL CONGEDO

Domani l’ultimo discorso di San Silvestro di Sergio Mattarella. Temi e previsioni del messaggio presidenziale nell’analisi di Concetto Vecchio per Repubblica.

«È la prima volta che il messaggio di fine anno di un presidente della Repubblica coincide di fatto con il termine naturale del settennato. Bilancio e congedo, tutto in una volta. Il mandato di Sergio Mattarella scadrà il 3 febbraio, ma già tra poco più di tre settimane (la data la conosceremo martedì) inizieranno le votazioni del Parlamento in seduta comune per eleggere il successore.
Finisce la Repubblica di Mattarella, il dodicesimo presidente. Proprio mentre la sua popolarità è schizzata nei sondaggi a livelli record. Lo acclamano per strada e nei luoghi del potere. Come a un tenore che ha saputo parlare ai cuori delle persone nei teatri gli chiedono il bis. Ha già ribadito più volte che non si presterà. Ha affittato un appartamento per il dopo, discretamente ha iniziato il trasloco nell'ufficio dei senatori a vita, a palazzo Giustiniani. Quelle invocazioni dai loggioni, "Sergio ripensaci", lo lusingano e allo stesso tempo lo indispettiscono: il doppio mandato è reputato dal Presidente alla stregua di un insulto alla Costituzione, di cui è stato il geloso custode, "l'arbitro", come aveva promesso di fare nel suo discorso di insediamento. Mattarella è sincero quando afferma una cosa. In un tempo in cui gli slogan prevalgono sulle idee l'autenticità è stata la ragione principale del suo prestigio. Sette anni fa non lo conosceva quasi nessuno, passo dopo passo è riuscito a entrare in sintonia con gli italiani, rivelando saldezza morale e solidità istituzionale. Proprio quello che serviva con la nave in tempesta. Sette anni burrascosi. Cinque governi diversi. La minaccia populista. Infine, il virus. Solo che il finale è diverso da come se l'era immaginato soltanto poche settimane fa. La pandemia non è affatto all'angolo, anzi infuria più che mai. In che condizioni sarà l'Italia il 24 gennaio? Omicron rischia di essere il convitato di pietra al momento del voto. Si rischiano moltissime assenze che metteranno a rischio il quorum. Per non dire del clima nel Paese che imporrà un'elezione veloce e meditata, specie se, per precauzione sanitaria, sarà fissata una sola votazione al giorno. Impossibile, con centomila contagi, pensare di tirarla per le lunghe. Questo complicato contesto rende l'elezione più intricata di quanto già non sia. Un rebus la cui soluzione sarà determinata anche dallo stato della pandemia, un po' come accadde nel 1992 con l'elezione di Oscar Luigi Scalfaro eletto con urgenza, sull'onda dell'emozione per la strage di Capaci. Omicron, insomma, può scompaginare tutti i piani. Quindi, seppur remotissima, c'è chi nel Palazzo non esclude del tutto la fantapossibilità che Mario Draghi possa rimanere a palazzo Chigi e Sergio Mattarella al Quirinale. Il messaggio di fine anno è tradizione dal 1949, dai tempi di Luigi Einaudi. Ogni presidente ha avuto il suo stile. Chi si aspetta che Mattarella parlerà di politica, o di chi arriverà dopo di lui, probabilmente rimarrà deluso. Vedremo. È più facile che parlerà agli italiani più che al Palazzo. Come ha sempre fatto nei suoi interventi di fine anno, pensati per tutti, indistintamente, senza allusioni cifrate. L'anno scorso disse che si sarebbe vaccinato, aspettando il proprio turno. E così fece, a marzo; il fotografo lo colse in fila. I suoi appelli a immunizzarsi sono stati reiterati. Durante la pandemia ha mantenuto la barra dritta, contestando culturalmente posizioni antiscientifiche. Prima di Natale ha accusato le tv di dare troppo spazio ai No Vax. Ci tornerà su anche stavolta, con tutta probabilità».

HONG KONG, NUOVO COLPO ALLA LIBERTÀ DI STAMPA

Hong Kong. Retata nel giornale web Stand News, costretto a chiudere dopo l'arresto del direttore e di altri editorialisti. Guido Santevecchi per il Corriere.

«La retata è cominciata alle sei del mattino. Più di 200 agenti della nuova «Sezione sicurezza nazionale» di Hong Kong sono entrati nella sede di Stand News , un sito di informazione che con i suoi 60 redattori e commentatori ancora osava criticare il governo del territorio e quello centrale di Pechino. In un copione sperimentato la scorsa estate per eliminare il quotidiano di opposizione Apple Daily , i poliziotti hanno srotolato in redazione i nastri con la scritta «scena del crimine», hanno sequestrato materiale di archivio, documenti amministrativi e i computer. La polizia ha comunicato di aver arrestato sette persone impegnate nell'attività del giornale online per «cospirazione al fine di pubblicare materiale sedizioso». «Sono mele marce che si celano dietro il giornalismo per fare politica, sono loro che danneggiano la libertà di stampa», ha detto John Lee, numero due del governo di Hong Kong. Lo stesso giro di parole è stato usato nei mesi scorsi per bollare come «sovversiva» l'azione parlamentare dei deputati di opposizione: il senso della manovra è che contestare il potere è un crimine non solo in Cina ma ora anche a Hong Kong, che pure dovrebbe essere retta fino al 2047 dal principio «Un Paese due sistemi» sottoscritto da Pechino per ottenere la restituzione della colonia britannica nel 1997. I pochi che ancora osano sfidare una repressione sempre più minacciosa hanno diffuso le foto in manette, le mani legate dietro la schiena, di Patrick Lam, direttore di Stand News , e di Ronson Chan, caporedattore che è anche presidente dell'Associazione della stampa di Hong Kong. L'altra sera, prima di ricevere la visita della polizia a casa, Ronson Chan aveva tenuto un discorso alla Hong Kong Journalists Association, che conta 500 iscritti. Aveva ricordato la fine di Apple Daily dicendo che ha scosso Hong Kong e la sua tradizione di informazione indipendente e libera, ma aveva concluso promettendo che «nonostante la situazione sempre più difficile, i giornalisti di questa città continueranno a cercare la verità e a raccontarla». Ma ieri, dopo l'incursione dei poliziotti, Stand News ha annunciato la cessazione immediata delle pubblicazioni e ritirato dal web l'archivio. Dopo l'interrogatorio, il presidente dei reporter è stato rilasciato; restano in cella l'ex direttore di Stand News Chung Pui-kuen, che si era dimesso a novembre; e le signore Denise Ho (cantante e attivista), Margaret Ng (ex deputata) e Christine Fang, che facevano parte del consiglio di amministrazione della pubblicazione; agli arresti anche Chow Tat-chi, un altro membro del consiglio editoriale. La polizia ha avuto mandato di congelare i fondi della pubblicazione, 61 milioni di dollari hongkonghesi (circa 7 milioni di euro), raccolti con donazioni di sostenitori: Stand News è (era) un'organizzazione non profit, che recentemente aveva comunque chiesto ai suoi lettori di smettere di versare denaro per evitare di essere tracciati dalle autorità e rischiare l'incriminazione in base alla Legge sulla sicurezza nazionale cinese introdotta in città nel luglio del 2020. Una alla volta, le voci del dissenso a Hong Kong si spengono, perché secondo la legge della Cina criticare l'azione del Partito-Stato e del governo è «sedizione». E con l'opposizione ridotta al silenzio, la parola passa ai tribunali: martedì Jimmy Lai, l'ex editore di Apple Daily in prigione per aver partecipato alle proteste del 2019 e alla veglia in memoria di Tienanmen nel 2020, già condannato a 20 mesi, ha ricevuto in carcere un'altra incriminazione, sempre per sedizione».

RUSSIA, L’INVOLUZIONE REVISIONISTA DI PUTIN

I presidenti Putin e Biden dovrebbero parlarsi di nuovo oggi al telefono della vicenda dell’Ucraina. Ma il mondo è sotto choc per la chiusura della Ong Memorial fondata da Sacharov. La Corte Europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo ha chiesto a Mosca, come «misura ad interim», la «sospensione immediata dell'esecuzione della chiusura di Memorial International e del Centro per i diritti umani Memorial». Marta Dell’Asta ha scritto un bell’articolo per il sito della rivista La Nuova Europa sulla svolta revisionista del regime di Putin. Ecco alcuni passaggi:

«In due giorni due colpi mortali sferrati alla Russia come Paese, come civiltà cara a tutto il mondo, due colpi che si è inferta da sé, mentre nel mondo si finiva di celebrare la grandezza ineguagliabile di Dostoevskij. Il primo colpo è la condanna a 15 anni di lager duro a Jurij Dmitriev, lo storico che ha scoperto le fosse comuni staliniane di Sandarmoch, in Carelia, e ha lavorato 17 anni per dare un nome alle vittime lì sepolte. Il secondo colpo è la sentenza della Corte Suprema russa che, in base alla legge che colpisce i cosiddetti agenti stranieri, ha liquidato l’Associazione internazionale Memorial, vera depositaria dell’immane vissuto del totalitarismo sovietico, e della grandezza umana che le sue vittime hanno testimoniato in lunghi decenni di violenze subite. Liquidare: va notato che sono stati il procuratore e il giudice a usare questo orribile verbo che sa di stalinismo. A evitare questo insulto alla memoria non è bastata neppure la misurata saggezza di Natal’ja Solženicyna, la vedova del grande scrittore, che già a novembre aveva ammonito circa l’uso di certe parole e il pericolo di rimettere in moto con esse determinati meccanismi, fatti di minaccia e di paura. Con Memorial, e con Dmitriev, viene dunque liquidata e dispersa un’immensa, tragica memoria storica raccolta per anni, briciola dopo briciola, con uno sforzo corale di migliaia di persone (sopravvissuti, parenti, studiosi, semplici volontari), che avevano portato, nel caso di Memorial, alla creazione di un’enorme banca dati e di un impressionante archivio, unico al mondo per la sua ricchezza. Tutto ciò era stata raccolto e poi conservato per essere trasmesso con un condiviso senso di responsabilità verso i milioni di vittime mute, che nella documentazione raccolta potevano almeno sperare di restare nella storia, dopo essere state strappate dalla vita. L’opinione pubblica indipendente è rimasta fulminata: «Non mi sono mai vergognata tanto del mio Paese» scrive una ragazza su facebook; molti sono costernati da quella che ritengono una svolta «le cui conseguenze per il presente e il futuro del nostro paese saranno catastrofiche», come ha scritto OVD-Info, dopo di che «non c’è che la caduta libera verso il totalitarismo». Il politico Grigorij Javlinskij ha detto apertamente quello che molti pensano, e cioè che la liquidazione di Memorial è stata una decisione presa in sede politica, che in realtà non aveva niente a che fare col diritto, la legge o la Costituzione. In effetti, negli iter legali di Dmitriev e Memorial sono state calpestate tutte le possibili leggi e norme procedurali; Dmitriev è stato processato tre volte per lo stesso delitto (produzione di materiale pedopornografico) e due volte dichiarato innocente, ma per l’intervento diretto delle superiori istanze giudiziarie ne è uscito ogni volta con pene maggiorate (prima 3 anni e mezzo, poi 13, infine gli attuali 15). Quanto a Memorial, pur essendo legalmente riconosciuta come associazione «internazionale» in base ad atti giuridici sottoscritti dalla Russia che hanno valore prevalente rispetto a quelli federali, è accusata di essere un agente straniero – in pratica una spia al soldo del nemico – e quindi viene trattata come un colpevole di alto tradimento in un Paese in guerra. E la dimostrazione inoppugnabile del fatto di essere prezzolata starebbe nel fatto (la formulazione è del procuratore) che Memorial «ha creato una falsa immagine dell’URSS come Stato terroristico e ha infangato la memoria della Grande guerra patriottica». E questo solo per aver documentato quello che tutti sanno e quello che ogni famiglia ha sperimentato sulla propria pelle: l’immane tragedia dello stalinismo. A parte il revisionismo storico e l’enorme complesso d’inferiorità contenuti in questa formulazione (messa agli atti come una prova ultimativa), c’è però un altro elemento che molti commentatori russi hanno sottolineato e non meno pericoloso per il futuro del loro Paese: quella che si vuol far passare e accreditare come un fatto è la percezione di un Paese in guerra; è così che si vuole far sentire la Russia oggi. E stando così le cose, persino il fatto inaudito che sia un tribunale a intervenire in merito alla verità storica diventa praticamente accettabile. In questo furore di riscrittura del passato è naturalmente coinvolto anche il presente, per cui se Ivan il Terribile si è trasformato in un degno statista e l’aggettivo «Terribile» diventa un’invenzione di storici occidentali, anche ogni altro problema che il Paese deve affrontare è frutto dei nemici esterni e dei loro presunti alleati interni. E intanto il Paese, con persone come Dmitriev e come i collaboratori di Memorial, perde ogni punto di riferimento reale; resta privo di qualsiasi autorità spirituale o morale che gli impedisca di scivolare in un caos irrazionale.

Come si potrà ancora onorare la memoria di Sacharov, che fu tra i fondatori di Memorial? Come potranno ancora leggere i cittadini russi autori come Solženicyn, Grossman e Šalamov, che sullo stalinismo hanno detto le stesse verità denunciate da Memorial? (…) Salvo il fatto che, osservano alcuni, liquidare del tutto una grandezza autentica non è facile come sembra. «Memorial è stata fondata dall’accademico Sacharov. È una delle iniziative più nobili del nostro paese. Memorial vuol dire memoria, e la memoria non si può liquidare… Quest’anno resterà memorabile per molte cose, però i nostri figli non lo ricorderanno per il covid bensì per Dmitriev e Memorial. Li ricorderanno, appunto, di sicuro…», ha detto Njuta Federmesser, la creatrice degli hospice in Russia, in passato accusata di avere un atteggiamento troppo tenero nei confronti del potere. Ma soprattutto, più fondamentale di ogni questione politica, c’è un punto irriducibilmente personale che costituisce la chiave di volta delle speranze che restano: «Memorial non si può liquidare perché Memorial sono le persone che portano in sé la legge, la coscienza e la dignità», ha commentato il giornalista Sergej Parchomenko. E lo ha ribadito, come sempre con grande sensibilità, anche Svetlana Panič: «Certo, in tutto questo non c’è “niente di personale”. E proprio là dove non c’è “niente di personale” comincia il male. Ma Memorial è una questione personale, centinaia di migliaia di volti personali, di “milioni bruciati vivi”. E resta, là dove c’è vita. Non ce la faranno a distruggerla. Perché Memorial siamo noi e non è possibile cancellare la memoria con una sentenza di tribunale. La memoria è una scala che unisce i vivi e i morti, che lega la terra al cielo».

CRISTIANI PERSEGUITATI IN INDIA E MYANMAR

Fulvio Scaglione scrive l’editoriale di Avvenire “Natale rosso sangue”.

«Un altro Natale in trincea. La metafora bellica poco si addice a persone più abituate a subire il martirio che a portare l'offesa, ma questa è la realtà quotidiana per milioni di cristiani (per essere più precisi 309 milioni, ovvero un cristiano su otto secondo la World Watch List per il 2021) in molte parti del mondo. I numeri che lo dimostrano sono abbondanti: 4.761 cristiani uccisi nei cinquanta Paesi più ostili, 4.488 cristiani arrestati e imprigionati, 4.277 chiese o edifici religiosi distrutti. Ci sono i fenomeni nuovi, come l'incremento della persecuzione nell'Africa sub-sahariana: quasi tre volte più numerosi i cristiani uccisi quest' anno rispetto al 2020. E ci sono le tradizioni perverse, come quella della Corea del Nord, che da quasi trent' anni risulta essere il luogo più pericoloso al mondo per i cristiani. Il martirologio degli operatori pastorali uccisi nel 2021, in pubblicazione presso l'Agenzia Fides, darà di tutto questo ulteriore testimonianza. Nel 2021 che si chiude, però, si sono segnalate con particolare asprezza due situazioni. La prima è quella dell'India. Anche in questo caso nessuna sorpresa: già l'anno scorso la Commissione Usa per la Libertà religiosa nel mondo piazzava il grande Stato asiatico nel primo gruppo di Paesi, il peggiore, quello che comprende anche Corea del Nord, Pakistan, Arabia Saudita e Cina. Da lungo tempo, ormai, la Commissione nazionale indiana per le minoranze (sei gruppi sono riconosciuti: musulmani, cristiani, sikh, buddhisti, zoroastriani e Dharma jain, che insieme formano il 19% della popolazione) censisce ogni anno centinaia di attacchi violenti contro i non indù. Con l'arrivo delle festività natalizie, però, si è avuto un ulteriore salto di qualità. Gli attacchi dal basso non sono cessati, anzi: chiese occupate da estremisti religiosi, statue e arredi distrutti (come nella notte di Natale nella chiesa del Santo Redentore ad Ambala, Stato di Haryana), sacerdoti e pastori minacciati. Ma sono stati affiancati dagli attacchi dall'alto, con il caso clamoroso del blocco dei conti delle Missionarie della Carità di santa Teresa di Calcutta, che ha lasciato le religiose, e soprattutto 22mila tra dipendenti e ospiti dei loro centri, in grande difficoltà. Le autorità parlano di presunte 'irregolarità'. Molti però pensano che il clima sia peggiorato da quando in otto dei ventotto Stati dell'India sono state approvate le cosiddette 'leggi anticonversione'. Norme che, con il pretesto di proteggere gli indù dalla 'tentazione' di cambiare religione offrono il destro per un accanimento contro le minoranze, come nel vicino Pakistan sospettabili anche in base a una voce di strada o alle dicerie di una folla. E la pena prevista è di 10 anni di carcere.

L'altro fronte caldo del 2021 è il Myanmar. Anche qui, purtroppo, nessuna novità: basti ricordare il pogrom del 24 dicembre 2019 contro i fedeli nella chiesa di Ann Township, nello Stato di Rakhine. Ma le cose sono molto peggiorate da quando, il 1° febbraio del 2021, i militari guidati dal generale Min Aung Hlaing hanno preso il potere con un colpo di Stato, il terzo dall'indipendenza del 1947, destituendo il presidente Win Myint e la consigliera di Stato, nonché premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. Da allora, la repressione politica (più di 1.500 persone uccise, altre 4 mila imprigionate) ha non solo alimentato le frange estremiste del buddhismo, ma si è accanita contro la minoranza cristiana (4% circa della popolazione, con i cattolici intorno all'1%), colpevole di essersi mobilitata per alleviare le sofferenze di una popolazione che subisce il regime militare, la crisi economica e la pandemia ma anche le crudeltà della guerra civile, visto che ai generali da tempo risponde un tenace movimento di guerriglia armata. Così, alla vigilia di Natale, l'ennesimo massacro: 40 persone sono state uccise nello Stato a maggioranza cristiana del Khaya mentre cercavano di sfuggire agli scontri per rifugiarsi in un campo profughi. Secondo molte fonti, i militari avrebbero fucilato tutti, bambini compresi, e poi bruciato i corpi. Il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali dell'Asia, ha più volte invitato le parti a rinunciare alla violenza e a lavorare per una soluzione condivisa, ma finora il suo messaggio drammaticamente non è stato ascoltato».

15 ANNI DOPO, LO SPETTRO DI SADDAM

Il 30 dicembre 2006 Saddam Hussein, condannato in un processo per crimini contro l'umanità, venne giustiziato per impiccagione. Domenico Quirico per La Stampa ci fa rivivere gli istanti di quell’esecuzione, ripresa e trasmessa in tutto il mondo. Ma l’Irak in quindici anni ha tramutato quella presunta vittoria in una serie di sconfitte per l’Occidente. Fra cui la nascita dell’Isis.

«La morte di Saddam, l'esecuzione di Saddam: anche quindici anni dopo ecco immagini davanti a cui non è giusto chiudere gli occhi. No: bisogna tenerli spalancati e maledirla e ancora maledirla quella morte. Occorrerebbe per lei restaurare il lamento funebre, la cosa più antica che ci resta degli esseri umani: frutto della giudiziosa paura del morto, del terrore che potesse tornare indietro. Lo si tributava non solo agli eroi, ma soprattutto ai reprobi. Serviva a inchiodarli alla dimenticanza come un esorcismo definitivo. E infatti quindici anni dopo lo spettro è ancora qui, ci bracca, non ci dà pace. Non ci siamo liberati di questo Ercole macellaio, di questo pignolo del Male neppure consegnandolo alla umiliante e macabra mediocrità di una impiccagione. I suoi delitti e le complicità che ci hanno per decenni legato a lui non sembrano appartenere alla Storia ma al libro dei canti del demonio. Ci ingarbuglia nelle sottigliezze del rimorso la bugia che è stata usata per farlo cadere, che possedesse cioè micidiali arsenali di armi di distruzione di massa. Ma l'unico delitto non realizzato, rimasto velleitario, è solo la prova della nostra inadeguatezza morale, non un elemento a discarico del sanguinario Saladino di Baghdad. Conosceva troppo bene i nostri limiti e i nostri difetti, lui, ci inchiodava alla nostra esatta figura. Sforziamoci di non dimenticare, mai, evocandolo cosa è scritto nel registro dei peccati di quel regime criminale: popolazioni irrorate di gas, massacri, torture, guerre sciagurate e senza fine, la sicurezza del potere che si ottiene solo al prezzo di innumerevoli ingiustizie. Ora possiamo ripensare a quel 30 dicembre del 2006, allo scorrere del film girato con un telefonino nella prigione dove il tiranno condannato a morte incontrò il suo destino. È davvero una tragedia classica che non consente alcuna distrazione. Perché la morte di un uomo singolo vi acquista tutto il suo peso, omicidio esecuzione punizione vendetta dannazione e sepolcro: tutto è lì, esemplare, nudo e senza fronzoli legulei o sacrali, retorica, mistificazione. Alcuni uomini corpulenti, i volti coperti da cappucci neri, senza divise o simboli, si affannano su una stretta balaustra in ferro attorno a un uomo invece elegante, cappotto nero e camicia bianca, la barba ben curata. Le mani non si vedono strette dietro la schiena dalle manette. Lo sfondo è anonimo, sa di garage, di locale abbandonato recuperato come scenografia provvisoria per non lasciare indizi o prove. Gli officianti il rito della morte si muovono in modo febbrile, scomposto, sembrano loro aver paura. E fretta. Li diresti una banda di sequestratori che temono l'arrivo della polizia più che l'autorità incaricata di una sentenza. Il più grasso, forse il capo, spinge Saddam verso il parapetto della piattaforma, dove si intravede una botola, gli infila al collo un enorme cappio, fa prove, stringe il nodo attorno al collo. L'immagine si allarga. Sotto la pensilina appaiono altri uomini di schiena che insultano, urlano il nome del capo sciita Moqtaba Al Sadr, il cui padre e due fratelli furono assassinati su ordine di Saddam. Il Raiss è incredibilmente calmo. È il personaggio più dignitoso in questa recita umiliante. Per questo bisogna essere attenti, anche ad anni di distanza. La visione dei personaggi, come avviene per le figure di Dante, trae il suo aspetto essenziale dalla loro morte. Restano straordinariamente vivi perché sono morti in un certo modo. È questa la loro più sbalorditiva (e pericolosa) vittoria sulla morte. Quando lo spingono verso la botola pronuncia la "chahada", la professione di fede musulmana. La botola si spalanca. Primo piano di due minuti e 38 secondi di agonia. Uno dei boia urla: «Nessuno lo stacchi, deve restare appeso per otto minuti...». Il giorno dopo un pick up portò il cadavere a Aujia, vicino a Tikrit, in un piccolo mausoleo che era stato trasformato in tomba. Gli americani avevano consentito che vi fossero già sepolti i due figli di Saddam caduti nella battaglia di Baghdad. Speravano, invano, che il padre mosso da pietas funebre uscisse dal suo nascondiglio. Ressa, molti prudentemente a viso coperto con le kefiah, uno sceicco regola il tumulto, invita alla austerità della preghiera. Gli americani erano ovunque ma si tennero nascosti. Con le tenebre risuonarono le raffiche di mitra del saluto funebre, e le grida: Saddam, ti vendicheremo, gli americani la pagheranno. Si diffuse la voce che i parenti dei due generi che il dittatore aveva fatto eliminare avessero trafugato la salma per darla in pasto ai cani. Fu necessaria una smentita governativa. Bush rimproverò agli alleati la mancanza di "dignità" di quella esecuzione così sconciamente filmata. Il premier iracheno Al Maliki replicò: siamo stati anche troppo pietosi, Saddam non aveva diritto neppure a un processo. Era già pomposamente in vigore il dopo Saddam: annunciato come l'avvento dell'evo democratico e del medio oriente americano costruito a misura delle necessità dello Zio Sam, in particolare come scudo contro l'intatto Satana iraniano. Garantivano i due sciagurati ideologi dell'impero non più tanto riluttante, Cheney e Rumsfeld. E invece... disordine da fine del mondo, sommosse settarie e estremiste, Al Qaeda scatenata, guerriglie, imboscate, autobombe e kamikaze, carneficine inaudite di innocenti, la vergogna del lager di Abu Ghraib, cinquemila morti solo tra gli americani La sofferenza e l'odio qui contano su una età dell'oro che continua. L'Iraq come l'Afghanistan è stata una dura lezione di come una vittoria possa essere più pericolosa di una sconfitta: se l'accompagnano una catena di errori grossolani, l'incomprensione della realtà locale e le cattive lezioni tratte dalla storia. Ovvero i piani del dopo Saddam tracciati confidando in modo fideistico sulla presunta attrazione irresistibile della democrazia. Si utilizzarono le informazioni fornite da oppositori incompetenti e corrotti che accudivano ai loro concretissimi interessi, ovvero i 450 miliardi di dollari che hanno rubato. Si pensava che il regime fosse solo Saddam e i suoi accoliti: bastava dunque smantellare il partito Baath e l'esercito. Invece c'erano altre forze a cui il vuoto spalancato dagli americani apriva enormi occasioni. Bastava vezzeggiare le inclinazioni al fanatismo, alla intolleranza e alla vendetta contro gli invasori occidentali. Un ufficiale di Saddam, Haji Bakr, lavorava paziente a un nuovo progetto, costruire, tra la Siria e l'Iraq, su nuove basi, impastando il fanatismo jihadista con competenze militari e criminali dei reduci del regime, la macchina sanguinaria di Saddam. Sì: il califfato è la vendetta di Saddam».

REPORTAGE DAL CONFINE ITALIA-FRANCIA, MIGRANTI NELLA NEVE

Dall'Afghanistan all'Europa: il lungo e tormentato viaggio dei profughi per cercare di attraversare la frontiera Italo-Francese. Il reportage di Laura Fasani per il Manifesto.

«Attraversare il confine tra l'Italia e la Francia non gli sembra una grande impresa, a confronto di quello che ha già passato. Di sicuro, però, è più facile per gli sciatori europei che gli sfrecciano accanto, senza badare a lui e al suo compagno di strada, incuranti dei binocoli della polizia puntati verso i boschi. «Qui funziona così: qualcuno scende felice - commenta Ali Rezaie -, qualcun altro, invece, sale triste». Ali Rezaie non avrebbe dovuto trovarsi con un suo compagno afghano su uno dei tanti sentieri invisibili nella neve alta che, a pochi passi dalle piste da sci, di giorno e di notte i migranti battono per attraversare le Alpi al confine tra l'Italia e la Francia. Succede a Clavière, ultimo comune italiano a una manciata di metri dal cartello blu con la scritta "France" circondata dalle stelle dell'Unione, la frontiera stridente di un'area Schengen accessibile ad alcuni e blindata per altri, che pure percorrono la stessa strada. Per Ali, afghano di Herat che fino a quest' estate lavorava per un'organizzazione internazionale, era stato riservato un posto su uno dei voli che da Kabul portavano in Europa chi aveva collaborato con gli stranieri. Ma gli attacchi suicidi e le sparatorie che il 27 agosto hanno fatto decine di vittime hanno compromesso anche la sua via più sicura per mettersi in salvo. E così è stato costretto a incamminarsi per un viaggio di migliaia di chilometri, quasi tutto a piedi. Più di tre mesi dopo Rezaie, 27 anni, è arrivato a Oulx, un comune dell'Alta Val di Susa a 79 chilometri da Torino, dove lo abbiamo incontrato insieme ai giornalisti di AP. Prima di tentare l'attraversamento dei passi alpini, si è fermato al Rifugio Massi, una struttura che dal 2018 offre ospitalità ai migranti in transito verso altri Paesi europei, Germania in cima. A due passi dalla stazione dei treni, il Rifugio Massi può accogliere 42 persone, fino a ottanta nei momenti di maggiore emergenza. Gestito dagli operatori della onlus Talithà Kum, fondata da don Luigi Chiampo, in stretta collaborazione con la Croce Rossa Italiana e l'associazione Rainbow for Africa, il rifugio è il punto di riferimento per i migranti che provano a passare il confine a Clavière. Per arrivarci prendono il pullman da Oulx fino in paese oppure per Cesana Torinese, sette chilometri più in basso, da dove salgono a piedi sulla statale prima di disperdersi nei boschi. Se fino al 2019 quasi il 90 per cento delle persone in transito era composto da africani, oggi la maggioranza sono iraniani, siriani, iracheni e soprattutto afghani, alcuni fuggiti come Ali Rezaie dopo il ritorno dei talebani e molti altri partiti più di un anno fa, per anticipare quello che vedevano come l'unico esito sicuro di questa guerra. Da inizio anno, raccontano al rifugio, da Oulx sono passati circa 12mila migranti. Non c'è ancora però l'esodo di massa che molti in Europa stanno aspettando, anche se i numeri sono in aumento. Basta provare a percorrere qualche metro delle strade possibili verso la Francia per capire perché. Appena si lascia la strada e si prova a virare verso il confine seguendo il Gps, le gambe affondano nella neve fino al ginocchio. Fa freddo, a Clavière, il vento gelido sferza le parti di viso scoperte anche se c'è il sole, la batteria del telefono si scarica in fretta. Solo i più motivati e i più attrezzati riescono ad affrontare le sei, sette o dieci ore di cammino, senza più mappa e con la paura di essere intercettati dalla polizia francese che pattuglia i promontori. Seguirli è quasi impossibile: appena puntano ai valichi, le loro gambe si muovono molto più veloci delle tue, anche se sei allenato: corrono, cadono nella neve, ma hanno un obiettivo e in poco tempo lasciano te, che non devi salvarti, indietro. Rezaie è fra i pochi riusciti a passare il confine al primo colpo. La gran parte dei migranti viene respinta e riaccompagnata al Rifugio Massi, da dove poi ripartono alla volta di Briançon, cittadina francese a 14 chilometri da Clavière. Quasi tutti, prima o dopo, ce la fanno. «Il nostro obiettivo principale è che nessuno muoia tra le montagne - spiega Luca Guglielmetti, uno dei responsabili del rifugio -. È la regola non scritta che da sempre guida i primi soccorsi sia qui sia dalla parte francese. Gli afghani sono molto sicuri di sé, perché sono abituati alle cime. Solo che questo non aiuta, perché li espone a un pericolo maggiore». A Oulx i volontari hanno indicato i punti pericolosi da evitare lungo il percorso su cartine appese alle pareti del cortile del rifugio. A chi parte vengono dati scarponi, giacche, pantaloni da neve, guanti e berretti. Chi riesce ad arrivare a Briançon restituisce poi l'attrezzatura ai volontari del centro di accoglienza che opera in tandem con il Rifugio Massi, le Terrasses Solidaires, i quali la riportano a Oulx per i prossimi in partenza. Nessuno arriva ai piedi delle Alpi preparato, specie gli africani: sono smarriti davanti alle temperature invernali, la neve è un ostacolo per molti insormontabile. E tanti tornano indietro quando vengono respinti, perché il pensiero di rifare quella salita al gelo è insopportabile. Nemmeno Ali Rezaie è sicuro di come muoversi, partito in fretta con pochi soldi per sfuggire ai talebani che, racconta, lo avrebbero ucciso di sicuro se l'avessero incontrato. Il suo percorso è stato quello di tanti altri connazionali: a piedi in Iran e in Turchia, poi una barca e altri 25 giorni di cammino in Grecia. Da lì, il barcone fino a Bari, i treni a Milano e a Torino. «Non abbiamo scelta, io non sarei voluto partire. Ma ho già preso così tanti rischi in passato, che ormai riprovare non mi costa nulla» dice Abdul Almazai. È un ragazzo di 26 anni di Kunar (Afghanistan), partito sei anni fa e respinto più volte alla frontiera francese. Sul cellulare ha una foto di sé con la parte destra del busto completamente ingessata: «Sono le botte che mi ha dato la polizia bosniaca quando mi ha scoperto al confine, dopo che avevo passato quindici ore immerso nel fiume per riuscire a passare». Non ha un accenno di rancore nello sguardo, Abdul, solo la tristezza dolce degli apolidi che continuano a sperare di trovare una casa da qualche parte. Guglielmetti lo chiama «lo spirito fatalista» dei migranti che passano da Oulx: «Hanno una forza che li spinge al di là di ogni evento». È la stessa spinta che anima anche un sedicenne di Kabul, diretto dalla madre in Germania. Alla fermata del pullman di Oulx, dove tenterà di arrivare a Clavière e lì chiedere di essere accolto in qualità di minore come prevede la legge europea, è solo e senza bagagli. A chiedergli se ha paura di essere respinto, sorride: «Non è questa la frontiera di cui preoccuparsi davvero». Nel piazzale dei pullman c'è la strana atmosfera sospesa prima delle partenze. Tra chi aspetta il bus c'è anche Said Saeeidi, compagno di strada di Ali Rezaie. Lui è reduce da oltre quindici respingimenti al confine croato, sul corpo porta le cicatrici dovute a un attacco bomba suicida per cui ha deciso di andarsene dall'Afghanistan sei anni fa: «Lo sanno tutti, il mio non è mai stato un paese sicuro», dice. Per questo l'idea di scalare una montagna al buio con dieci gradi sotto zero non fa paura a chi è fuggito. «Il peggio è passato - continua Said, gli occhi color mandorla che risplendono per il riflesso della neve -, e se Dio vuole, Inshallah, arriveremo dove vogliamo arrivare». Per tanti quel dove è la Germania, il Paese europeo ritenuto più ricco di opportunità per chi deve ricominciare da zero, ancora sulla scia della storica decisione di Angela Merkel di accogliere un milione di profughi siriani nel 2015. Vuole arrivarci Abdul, che vorrebbe studiare, laurearsi e trovare un lavoro che gli permetta di aiutare chi in futuro dovrà affrontare i Balcani come lui. Vogliono arrivarci Ali e Said, per lasciarsi l'Afghanistan alle spalle, perché sanno che non potranno tornare, e per ritrovare un senso in una vita diversa in cui, magari, ci sarà spazio anche per le loro famiglie, bloccate tra Iran e Turchia. Prima però ci sono le Alpi italo-francesi, la linea di confine aspra e spezzettata dove migliaia di persone diventano ogni giorno invisibili, sotto gli occhi di tutti. Li rendono tali i turisti distratti che non mettono a fuoco quel passaggio rapido e silenzioso di chi cerca di far sparire le proprie tracce lì dove l'Europa chiude le sue porte in sordina, lasciandole aperte a chi ai piedi ha gli attacchi degli sci invece di scarponi da 19 euro della Decathlon usati più volte da individui diversi. «La gente non si accorge dei migranti tranne quando vede i furgoni della Croce Rossa che li riportano a valle o si siede accanto sul treno» commenta Bruna Consolini, sindaca di Bussoleno, comune a mezz' ora di auto da Oulx dove è stato allestito polo logistico in una vecchia scuola per accogliere i migranti quando il Rifugio Massi è pieno. «Pochi arrivano direttamente da noi, la Val di Susa è solo un transito per chi sta cercando di ricominciare una nuova vita» dice Consolini. Sono le 20.15 di domenica quando squilla il telefono. «We are in a safe house, in France, I drink tea now». È Ali, lui e Said ce l'hanno fatta. La chiamata arriva il giorno dopo, appena prima di salire sul treno per Parigi: «Ci hanno lasciato andare. Mi sento bene, molto bene. Sono libero ora, sarà tutto più facile». Forse la discesa di quei «felici pochi» stavolta può davvero iniziare, anche per lui».

IL PAPA: FURONO PROFUGHI ANCHE GIUSEPPE E MARIA

Papa Francesco ha detto ieri che quello dei migranti “è uno scandalo sociale dell’umanità”. Ecco il testo della sua catechesi del mercoledì, così come pubblicato da Avvenire.

«Cari fratelli e sorelle, buogiorno! Oggi vorrei presentarvi San Giuseppe come migrante perseguitato e coraggioso. Così lo descrive l'Evangelista Matteo. Questa particolare vicenda della vita di Gesù, che vede come protagonisti anche Giuseppe e Maria, è conosciuta tradizionalmente come "la fuga in Egitto" (cfr Mt 2,13-23). La famiglia di Nazaret ha subito tale umiliazione e sperimentato in prima persona la precarietà, la paura, il dolore di dover lasciare la propria terra. Ancora oggi tanti nostri fratelli e tante nostre sorelle sono costretti a vivere la medesima ingiustizia e sofferenza. La causa è quasi sempre la prepotenza e la violenza dei potenti. Anche per Gesù è accaduto così. I l re Erode viene a sapere dai Magi della nascita del "re dei Giudei", e la notizia lo sconvolge. Si sente insicuro, si sente minacciato nel suo potere. Così riunisce tutte le autorità di Gerusalemme per informarsi sul luogo della nascita, e prega i Magi di farglielo sapere con precisione, affinché - dice falsamente - anche lui possa andare ad adorarlo. Accorgendosi però che i Magi erano ripartiti per un'altra strada, concepì un proposito scellerato: uccidere tutti i bambini di Betlemme dai due anni in giù in quanto, secondo il calcolo dei Magi, quello era il tempo in cui Gesù era nato. Nel frattempo, un angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò. Erode, infatti, vuole cercare il bambino per ucciderlo » ( Mt 2,13). Pensiamo oggi a tanta gente che sente questa ispirazione dentro: "Fuggiamo, fuggiamo, perché qui c'è pericolo". Il piano di Erode richiama quello del Faraone di gettare nel Nilo tutti i figli maschi del popolo d'Israele (cfr Es 1,22). E la fuga in Egitto evoca tutta la storia d'Israele a partire da Abramo, che pure vi soggiornò (cfr Gen 12,10), fino a Giuseppe, figlio di Giacobbe, venduto dai fratelli (cfr Gen 37,36) e poi divenuto "capo del paese" (cfr Gen 41,37-57); e a Mosè, che liberò il suo popolo dalla schiavitù degli egiziani (cfr Es 1; 18). L a fuga della Santa Famiglia in Egitto salva Gesù, ma purtroppo non impedisce a Erode di compiere la sua strage. Ci troviamo così di fronte a due personalità opposte: da una parte Erode con la sua ferocia e dall'altra parte Giuseppe con la sua premura e il suo coraggio. Erode vuole difendere il proprio potere, la propria "pelle", con una spietata crudeltà, come attestano anche le esecuzioni di una delle sue mogli, di alcuni dei suoi figli e di centinaia di oppositori. Era un uomo crudele: per risolvere dei problemi, aveva una sola ricetta: "fare fuori". Egli è il simbolo di tanti tiranni di ieri e di oggi. E per loro, per questi tiranni, la gente non conta: conta il potere, e se hanno bisogno di spazio di potere, fanno fuori la gente. E questo succede anche oggi: non dobbiamo andare alla storia antica, succede oggi. È l'uomo che diventa "lupo" per gli altri uomini. La storia è piena di personalità che, vivendo in balìa delle loro paure, cercano di vincerle esercitando in maniera dispotica il potere e mettendo in atto disumani propositi di violenza. Ma non dobbiamo pensare che si vive nella prospettiva di Erode solo se si diventa tiranni, no! In realtà è un atteggiamento in cui possiamo cadere tutti noi, ogni volta che cerchiamo di scacciare le nostre paure con la prepotenza, anche se solo verbale o fatta di piccoli soprusi messi in atto per mortificare chi ci è accanto. Anche noi abbiamo nel cuore la possibilità di essere dei piccoli Erode. Giuseppe è l'opposto di Erode: prima di tutto è «un uomo giusto» ( Mt 1,19), mentre Erode è un dittatore; inoltre si dimostra coraggioso nell'eseguire l'ordine dell'Angelo. Si possono immaginare le peripezie che dovette affrontare durante il lungo e pericoloso viaggio e le difficoltà che comportò la permanenza in un paese straniero, con un'altra lingua: tante difficoltà. Il suo coraggio emerge anche al momento del ritorno, quando, rassicurato dall'Angelo, supera i comprensibili timori e con Maria e Gesù si stabilisce a Nazaret (cfr Mt 2,19-23). Erode e Giuseppe sono due personaggi opposti, che rispecchiano le due facce dell'umanità di sempre. È un luogo comune sbagliato considerare il coraggio come virtù esclusiva dell'eroe. In realtà, il vivere quotidiano di ogni persona - il tuo, il mio, di tutti noi - richiede corag- gio: non si può vivere senza coraggio! Il coraggio per affrontare le difficoltà di ogni giorno. In tutti i tempi e in tutte le culture troviamo uomini e donne coraggiosi, che per essere coerenti con il proprio credo hanno superato ogni genere di difficoltà, sopportando ingiustizie, condanne e persino la morte. Il coraggio è sinonimo di fortezza, che insieme alla giustizia, alla prudenza e alla temperanza fa parte del gruppo delle virtù umane, dette "cardinali". La lezione che ci lascia oggi Giuseppe è questa: la vita ci riserva sempre delle avversità, questo è vero, e davanti ad esse possiamo anche sentirci minacciati, impauriti, ma non è tirando fuori il peggio di noi, come fa Erode, che possiamo superare certi momenti, bensì comportandoci come Giuseppe che reagisce alla paura con il coraggio di affidarsi alla Provvidenza di Dio. Oggi credo ci voglia una preghiera per tutti i migranti, tutti i perseguitati e tutti coloro che sono vittime di circostanze avverse: che siano circostanze politiche, storiche o personali. Ma, pensiamo a tanta gente vittima delle guerre che vuole fuggire dalla sua patria e non può; pensiamo ai migranti che incominciano quella strada per essere liberi e tanti finiscono sulla strada o nel mare; pensiamo a Gesù nelle braccia di Giuseppe e Maria, fuggendo, e vediamo in Lui ognuno dei migranti di oggi. È una realtà, questa della migrazione di oggi, davanti alla quale non possiamo chiudere gli occhi. È uno scandalo sociale dell'umanità. San Giuseppe, tu che hai sperimentato la sofferenza di chi deve fuggire tu che sei stato costretto a fuggire per salvare la vita alle persone più care, proteggi tutti coloro che fuggono a causa della guerra, dell'odio, della fame. Sostienili nelle loro difficoltà, rafforzali nella speranza e fa' che incontrino accoglienza e solidarietà. Guida i loro passi e apri i cuori di coloro che possono aiutarli. Amen».

Leggi qui tutti gli articoli di giovedì 30 dicembre:

https://www.dropbox.com/s/u3j9fe3z72maesu/Articoli%20La%20Versione%20del%2030%20dicembre.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Con un’intervista da non perdere.

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