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Tornano Draghi e Sanremo

alessandrobanfi.substack.com

Tornano Draghi e Sanremo

Prima riunione del Governo dopo la scelta sul Colle: Covid, doppio scritto alla Maturità, Pil mai così dal 1976. Il premier dà i compiti ai Ministri sul Pnrr. Caos nei partiti. Attesa per l'Ucraina

Alessandro Banfi
Feb 1, 2022
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Tornano Draghi e Sanremo

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Ritorno alla normalità. Prima riunione del Governo con Mario Draghi che chiede ai suoi Ministri di accelerare concretamente sul Pnrr e portare i “compiti” in 48 ore. Il premier è molto confortato da un dato in crescita del Pil, +6,5%, mai così in alto dal 1976, l’obiettivo è di continuare a correre e quest’anno fare almeno un + 4 per cento. Maturità che sarà quasi come quella prima dell’era Covid, con il tema d’italiano e il secondo scritto. Pandemia che da oggi potrebbe prevedere date di fine divieti e i cui numeri migliorano ogni giorno. Ieri i decessi sono scesi a 349, metà dei quali di persone non vaccinate. Stasera poi comincia la kermesse canora del Festival di Sanremo, momento collettivo di svago, per i più pessimisti di distrazione di massa.

La politica sta elaborando con grande fatica il doppio mandato di Sergio Mattarella. Nel centro destra, c’è uno strappo serio fra Giorgia Meloni e gli altri alleati. Silvio Berlusconi, uscito da otto giorni di ospedale, ha incontrato “affettuosamente” Matteo Salvini, che ha lanciato l’idea di un partito repubblicano all’americana. Nel centro intanto ci sono molti contatti e movimenti fra i vari Renzi, Toti e c. Non a caso torna con grande forza l’ipotesi di adottare una nuova legge elettorale proporzionale e non più maggioritaria. Nel Pd, nei 5 Stelle, in Forza Italia stessa… A proposito di 5 Stelle, lo scontro fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio è quasi parossistico. Oggi l’ex premier parla dalle colonne amiche del Fatto per attaccare frontalmente il Ministro degli Esteri. Ieri Di Maio era stato oggetto di un attacco sui social, organizzato da migliaia di account fasulli, che risultano basati negli Usa.

La crisi sull’Ucraina è approdata al Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove la Russia è stata difesa solo dalla Cina. Colpisce però che il governo di Kiev critichi ora apertamente la “propaganda americana” di Joe Biden, descrivendo così con più realismo la situazione militare sul campo. Oggi è previsto un nuovo colloquio diplomatico fra il segretario di Stato americano Blinken e il ministro degli Esteri russo Lavrov. Intanto comincia a circolare sulla stampa internazionale la notizia che Vladimir Putin voglia comunque osservare la tregua olimpica in occasione dei Giochi invernali che iniziano a Pechino alla fine di questa settimana. Invasione ancora rimandata?

È disponibile da questa mattina il terzo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa.

In questo terzo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Flavia Piccoli, deputata del Partito democratico e presidente della Commissione Cultura della Camera, figlia di Flaminio. Flaminio Piccoli era nato in Austria, nel 1915, dove la sua famiglia originaria di Borgo Valsugana era stata evacuata dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria. Nella Seconda guerra mondiale, Piccoli è stato arruolato come alpino e riuscì all’ultimo a salvarsi dall’internamento in un campo di concentramento. Nel dopoguerra inizia la sua carriera politica, che parte dall’Azione cattolica trentina per poi passare alla Dc lo porta ad essere segretario del partito nel 1969 e poi di nuovo tra il 1980 e l’82, mentre tra il 1970 e il 1972 ricoprì l’incarico di ministro delle Partecipazioni statali. Più volte deputato e senatore. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco il link per il terzo episodio.

L'episodio con Flavia Piccoli

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

MENO 10 AL NUOVO INIZIO

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Si avvicina il giorno, l’11 febbraio 2022, in cui La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. Nei prossimi giorni vi dirò bene il costo e le modalità dell’abbonamento. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Si torna alla normalità. Da ieri Consiglio dei Ministri, stasera Sanremo. Il Corriere della Sera punta sul Pnrr: Fondi Ue, Draghi spinge i ministri. Il Mattino è simile: Draghi striglia i ministri: progetti Pnrr entro 48 ore. La Repubblica sembra soddisfatta: È tornato Draghi. Il Manifesto le fa un controcanto ironico, su foto del premier: Ci risono. La Stampa sottolinea il cambio di passo: Recovery, la svolta di Draghi. Il Sole 24 Ore festeggia i buoni dati: Nel 2021 gran rimbalzo del Pil (+ 6,5%). Sei imprese su dieci a caccia di addetti. Ma ieri il governo ha cominciato a discutere anche sulla pandemia. Il Messaggero: Emergenza Covid verso lo stop. La Verità è sempre critica: In vigore le regole da matti. Avvenire usa la metafora scolastica: Esami per tutti. A proposito di manifestazioni studentesche, Selvaggia Lucarelli ispira il Domani: C’è una “strategia del manganello” per spaventare gli studenti in piazza. Anche Quotidiano Nazionale va sugli esami a scuola: Dopo tre anni torna la vera maturità. Sul dopo bis a Mattarella, Il Fatto intervista l’amato Giuseppe Conte inversione crociata anti Di Maio: “Basta bugie, ecco chi ha stoppato la Belloni”. Il Giornale celebra la sterzata al centro del Cav, che ha visto Salvini: Berlusconi svolta. Libero sottolinea il divorzio nella coalizione: Salvini alla guerra contro Giorgia.

PRONTI VIA, IL GOVERNO RIPARTE: PANDEMIA E PNRR

Mario Draghi si presenta al Consiglio dei Ministri dopo lo stop dovuto alla scelta sul Quirinale, con una serie richieste per i Ministri: Pandemia e Pnrr le priorità. La cronaca di Galluzzo e Marro per il Corriere.

«Nel primo Consiglio dei ministri dopo l'elezione del capo dello Stato, Mario Draghi volta pagina, si lascia alle spalle le giornate di trattative convulse sfociate nella riconferma di Mattarella e invita tutti i ministri a tornare a concentrarsi sull'attività dell'esecutivo. La lunga partita del Quirinale ha certamente rallentato l'azione del governo, ora bisogna ricominciare a correre, è il senso del messaggio del presidente del Consiglio. La soddisfazione per la riconferma del capo dello Stato è solo un attimo di compiacimento generale in apertura della riunione, che dura pochissimo, e che politicamente ha un dato centrale. Non ci sono echi relativi all'ultima settimana, nessuna considerazione viene fatta dai presenti né dal capo del governo, Draghi sovrintende l'approvazione di alcune leggi regionali, attività quasi protocollare, poi si rivolge ai ministri e di fatto li richiama a rispettare tutte le scadenze - con orizzonte giugno 2023, quindi anche oltre la fine della legislatura - del Piano di ripresa che nei prossimi 17 mesi dovrebbe convogliare nel nostro Paese ben 64,3 miliardi di euro. Insomma bisogna rimettersi al lavoro e se possibile anche con più lena e dedizione di prima: «L'erogazione della seconda rata, in scadenza al 30 giugno 2022, presuppone il conseguimento di 45 traguardi e obiettivi per un contributo finanziario e di prestiti pari a 24,1 miliardi di euro», ricorda Draghi ai colleghi di governo, rimarcando il lavoro dei prossimi cinque mesi e anche per questo il prossimo Consiglio dei ministri, domani, «sarà dedicato a una puntuale ricognizione della situazione relativa ai principali obiettivi del Pnrr del primo semestre dell'anno». Per questo motivo, aggiunge il premier, sarà chiesto ad ogni ministero «di indicare lo stato di attuazione degli investimenti e delle riforme di competenza, segnalando l'eventuale necessità di interventi normativi e correttivi connessi alla realizzazione dei 45 obiettivi e traguardi». Non è la prima volta che il capo del governo fa questo tipo di discorso, si dice pronto anche a fare dei cambiamenti normativi se qualcosa non fila liscio. Probabilmente non sarà nemmeno l'ultima, visto che l'attuazione del Pnrr richiede scadenze e monitoraggi molto stringenti. Draghi ha anche espresso soddisfazione per le stime sul prodotto interno lordo, diffusi dall'Istat: 6,5% di crescita nel 2021, insieme ad una rivendicazione per il lavoro svolto dall'esecutivo: «Il dato del Pil è il frutto della ripresa globale, ma anche delle misure messe in campo dal governo, a partire dalla campagna di vaccinazione e dalle politiche di sostegno all'economia». Tornando al Pnrr, Palazzo Chigi e il Tesoro comunque affermano che nei vari organismi di verifica e monitoraggio del piano non sono emerse finora criticità evidenti e che il dato di fatto è che tutti i 51 obiettivi previsti per il 2021 sono stati centrati. È indubbio però che nel 2022 bisogna accelerare. Dopo aver ricevuto 25 miliardi nel 2021 come anticipo sul totale delle risorse destinate all'Italia (191,5 miliardi fino al 2026), il nostro Paese attende ora la prima rata da 24,1 miliardi (la Commissione europea sta verificando il conseguimento dei 51 obiettivi previsti dal Pnrr per il 2021) mentre dovrà centrare ben 45 fra traguardi e obiettivi entro il 30 giugno 2022 per ottenere la seconda rata, sempre da 24,1 miliardi, e altri 55 «milestone e target» entro il 31 dicembre per ricevere la terza tranche da 21,8 miliardi. I compiti a casa di quest' anno sono più complicati perché bisogna cominciare ad aprire nuovi cantieri e non solo avviare riforme. Sul fronte delle opere pubbliche sono emersi alcuni problemi. Innanzitutto, la necessità di aggiornare i prezzi a base d'asta, in seguito all'inflazione, e le prime misure in questo senso sono state adottate col decreto legge Sostegni ter la scorsa settimana. C'è poi la preoccupazione diffusa sulla capacità di Regioni ed enti locali di bandire i lavori. L'Ance, associazione dei costruttori, ha più volte lamentato ritardi su questo fronte. Inoltre permane la difficoltà di tutte le amministrazioni, centrali e locali, di trovare le professionalità necessarie, nonostante siano state semplificate le procedure concorsuali e di assunzione. Dal lato delle riforme ci sono invece nodi politici da sciogliere, a partire dal disegno di legge sulla concorrenza, che ancora non ha cominciato l'iter in Senato e dove restano da sciogliere le questioni riguardanti le concessioni balneari e idroelettriche. Al momento, dunque, nonostante secondo Palazzo Chigi e il Tesoro, non siano emerse criticità evidenti sul Pnrr, bisogna serrare i ranghi. Altrimenti queste emergeranno presto».

La road map del governo per uscire dalla pandemia: se i contagi continuano a scendere dal 31 marzo finirà lo stato di emergenza. Domani la svolta. Michele Bocci per Repubblica.

«Un piccolo segnale, che fa capire come l'Italia si trovi alla vigilia di un probabile cambiamento significativo delle politiche anti pandemia. Ieri il Consiglio dei ministri ha deciso di prolungare di appena 10 giorni sia l'obbligo di utilizzo delle mascherine all'aperto sia quello di chiusura delle discoteche. Omicron colpisce ancora duramente, ma le previsioni degli esperti sembrano essere rispettate: la curva è in discesa. In una settimana, quella conclusa domenica scorsa, i casi sono stati il 16% in meno rispetto alla precedente e anche i ricoveri, in particolare quelli in terapia intensiva, sono in diminuzione. Così, probabilmente all'inizio di marzo, il numero dei contagiati giornalieri sarà tornato a livelli accettabili, quelli che permettono di riprendere il tracciamento, saltato ormai da tempo. Il governo ci crede e, anche per questo, ha deciso di allungare di pochi giorni l'obbligo di indossare la mascherina quando si è fuori. Bisogna osservare attentamente come andrà febbraio e tenere pronti diversi scenari, riflettono al ministero della Salute. Se tutto fila liscio, lo stato di emergenza, che scade il 31 marzo, non verrà più prorogato. Il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, è ottimista: ieri, intervenendo al podcast di Gerardo Greco Metropolis, ha prospettato la fine delle misure straordinarie. Il ministro alla Salute, Roberto Speranza, continua a predicare cautela e aspetta di capire come si evolverà la situazione nelle prossime settimane. Anche uno dei suoi consulenti più ascoltati, Walter Ricciardi, dice comunque che ormai sembra certo che la primavera e l'estate (salvo sorprese, cioè l'arrivo di nuove varianti) saranno tranquille. Bisogna però essere preparati per un eventuale ritorno di fiamma della pandemia a ottobre. Per cambiare veramente le cose nella strategie di lotta al virus bisogna risolvere la situazione nelle scuole, sulle quali nel tempo si sono sovrapposte norme che hanno creato regole talvolta inestricabili, per le famiglie e per gli istituti stessi. Oltretutto, le Regioni hanno da tempo ammesso di non essere in grado di assicurare tamponi e tracciamento nelle classi, in questa fase epidemica durante la quale proprio sono i giovani i più colpiti. Così domani il governo scriverà nuove norme per la Dad, che da 10 giorni dovrebbe passare a 5. Verranno previste regole uguali per i vari cicli di studio - ora sono per lo più regolati in modo diverso - indicando che fino a tre casi si va tutti a scuola. Poi ci saranno differenze tra i vaccinati con tre dosi o da meno di 120 giorni e gli altri. Le Regioni vorrebbero che comunque chi è in regola con i vaccini segua le lezioni in classe, rispettando le indicazioni dell'auto sorveglianza. Per i positivi, sempre se vaccinati, il periodo di isolamento durerà 7 giorni e non più 10, periodo di stop che dovranno invece rispettare coloro che non hanno ricevuto somministrazioni. In questo modo, spariranno anche i due tamponi alle elementari (i famigerati e difficilmente ottenibili T0 e T5). La partita, comunque, non è ancora chiusa, tanto che alla fine del Consiglio dei ministri di ieri il premier Mario Draghi si è fermato con Speranza e il ministro all'Istruzione, Patrizio Bianchi, proprio per parlare di quarantena. Sempre riguardo al cambiamento di regole in vista del calo dell'incidenza, si va verso l'abolizione delle zone colore (resterà solo quella rossa) e comunque non si conteranno più, come indicatore della situazione delle Regioni, i ricoveri di chi è in ospedale per altre patologie ma è infettato dal Covid. Inoltre, probabilmente la durata del Green Pass per chi ha fatto il booster non sarà più di 6 mesi ma illimitata oppure di 10 mesi. E più avanti, se appunto la curva continuerà a scendere, si ragionerà di capienze, per riportarle al massimo in tutti gli eventi. Quello che non cambierà sarà la spinta alla vaccinazione, in particolare dei bambini tra i 5 e gli 11 anni, cioè l'ultima categoria coinvolta nella campagna, degli over 50, coloro per i quali è stato introdotto l'obbligo e che rischiano di più se vengono infettati. Anche il Green Pass, giudicato uno degli strumenti che ha permesso all'Italia di non fare, al contrario di altri Paesi, un lockdown nei momenti più duri della circolazione di Omicron, verrà mantenuto».

Il retroscena di Tommaso Ciriaco su Repubblica descrive gli umori e i nuovi rapporti nel Governo, dopo gli intensi giorni del Quirinale.

«Tavolone circolare della sala riunioni del governo. Nessun ministro sfida la sorte presentandosi in ritardo. I grillini sono inchiodati alla sedia. Dario Franceschini sistema penna e taccuino. Qualcuno si perde occhi negli occhi con il suo iPhone, oppure sussurra a Siri. Come fosse teatro, spunta da una porticina Mario Draghi. Piomba alle spalle. Gira seguendo le nuche dei presenti. Allunga una mano e sfiora schiene rigide. Vibrazioni impercettibili. Saluta tutti, ricambiato. Sorride. Amici e avversari. Sommersi e salvati. Sceneggiatura perfetta, dopo pochi minuti farà il giro delle segreterie di partito. Tutti a bordo e si riparte, comunica il premier affidandosi alla prossemica. Guido io e conosco i passeggeri. Vi conosco bene, uno per uno, adesso per davvero. Draghi siede al suo posto. Chi rompe il ghiaccio? Ci pensa lui, che voleva andare al Quirinale e ha ricevuto ostilità da almeno cinque o sei ministri della squadra. Ricorda l'elezione di Sergio Mattarella e chiede a tutti un applauso per il bis. Sbatte i palmi lentamente. Per un attimo i ministri tentennano - oppure temono di esagerare, chissà - poi tutti seguono l'esempio. Con un solo gesto, il premier scrive il punto numero uno del nuovo programma di governo: sono forte del rapporto con Sergio Mattarella, andiamo avanti e chi intende strappare se ne assumerà la responsabilità davanti al Colle e ai cittadini. Con un secondo gesto, poi, chiude la questione della fallita scalata al Colle: «Vorrei esprimere soddisfazione per gli ultimi dati sulla crescita al 6,5%. Sono superiori anche alla media dell'Unione». Tradotto: occupiamoci d'altro, l'esecutivo va a mille e voglio vedere chi tenterà di fermarci mettendo a rischio il Paese. Teatro, ancora, condensato in poche decine di minuti di alto livello del capo dell'esecutivo e dei suoi ministri. Occupazione dello spazio e melodramma: quello di Giancarlo Giorgetti, sopra tutti. Malmostoso, voce roca, barba abbandonata al suo destino. Non fa nulla per mostrarsi diverso, nervoso e insieme deluso, arrabbiato e prezioso per gli equilibri futuri. Ascolta Roberto Speranza illustrare le misure da prorogare fino al 14 febbraio: mascherine all'aperto e discoteche ancora chiuse. Tutto liscio, sembra. No, proprio no: «E bastaaa - si arrabbia il leghista - Come lo spieghiamo alle categorie, non dobbiamo spiegare che li teniamo chiusi? E poi c'è San Valentino!». I presenti tacciono, come a dire: lasciamolo sfogare. Il ministro riprende anche la questione dei fragili, legata ai risarcimenti per eventuali danni della vaccinazione. «Come si fa a non occuparsene?». Segnali, metamessaggi gastronomici: non c'è nulla da mangiare, un panino al salmone, una focaccina, neanche mezzo pasticcino. Manca il caffè, pare, solo acqua. A pensar male, significa: ricreazione finita. E poi i silenzi, soprattutto i silenzi. Tace Franceschini, che tutti conoscono per aver lavorato a scenari diversi dall'elezione di Draghi. Zitto Stefano Patuanelli, il più contiano: muto e corrucciato. Luigi Di Maio, invece, cammina col mento alto e la sensazione di aver scalato altre posizioni, l'abito perfetto che non conosce piega, come fosse uscito di casa dieci minuti prima. Lorenzo Guerini sembra tranquillo, ma lui ha rafforzato il rapporto con il premier. Calmi e pacati anche Elena Bonetti e Federico D'Incà. Guardano tutti altrove, oggi. Tutti tranne Renato Brunetta. È vulcanico, si sa. Chiede di affrontare la questione dell'anagrafe dei dipendenti pubblici, «ma insomma, lo dico da tempo, cosa aspettiamo?», se la prende con qualcosa che ha a che fare con la Ragioneria. Non è il copione della giornata, proprio no: «Renato - fa a un certo punto sbrigativo Draghi - abbiamo capito, ne parliamo mercoledì». Stronca per due o tre volte chi tira lungo, mostra che il timone è di nuovo in mano. Fuori da Palazzo Chigi i partiti sembrano impazziti. Piazzano soldatini e si preparano alla resa dei conti interna. Draghi non vuole farsi risucchiare nel vortice, la sua galassia conia slogan che vogliono essere promessa di quel che sarà: il Paese dei due Presidenti, il governo che adesso governa per davvero. E quindi se anche Salvini insisterà col rimpasto, riceverà una porta in faccia. Per far capire che nulla cambia nella squadra, il premier affida a tutti il compito di portare già domani in un nuovo consiglio dei ministri lo stato dei progetti del Pnrr: è una conferma implicita che la squadra non si tocca. Lo capiscono subito i tecnici, colgono il raggio di sole. Con il premier al Colle sarebbero stati i primi a saltare. Il volto disteso di Patrizio Bianchi dice proprio questo, si va avanti. Vale anche per Vittorio Colao. Il quale a un certo punto si becca una risposta sbrigativa, ma non importa: va bene così, domani è un altro giorno di governo».

SERGIO MATTARELLA PREPARA IL SUO DISCORSO

Il Presidente della Repubblica sta già lavorando al discorso in Aula per il suo reinsediamento, che è previsto per giovedì. Marzio Breda sul Corriere anticipa che non sarà duro con il Parlamento.

«Il suo messaggio non sarà sintetizzabile nella formula «la mia rielezione è la vostra crisi», come disse - anche se non alla lettera - Giorgio Napolitano il 23 aprile 2013, denunciando l'impotenza del sistema politico. Avrà altri contenuti, perché non crede che stavolta ci sia bisogno di censurare con dure parole, dopo quelle liquidatorie già rimbalzate su social e media, quanto è andato in scena sotto gli occhi degli italiani la scorsa settimana in Parlamento. Altrimenti si sfiorerebbe il sadismo, cifra espressiva che non gli appartiene. Nel proprio discorso di reinsediamento, giovedì pomeriggio, Sergio Mattarella non dovrebbe dunque formulare un nuovo inventario di «ritardi, omissioni, chiusure, sordità, tatticismi, guasti e inconcludenze», come quello pronunciato dall'allora capo dello Stato, che si ritrovò oggetto di trenta surreali e lunghi applausi dopo quel punitivo j' accuse . Certo, giovedì pomeriggio a Montecitorio qualche critica il presidente la farà echeggiare. Ma secondo il proprio stile, che non contempla toni melodrammatici e che tende a non calcare troppo la mano sulla denuncia, preferendo semmai scivolare sul piano dell'incoraggiamento e della responsabilizzazione costruttiva. Tanto più che in questo caso il Parlamento ha risolto, chiedendo due votazioni al giorno e imponendosi sulle leadership politiche - loro sì incartate come raramente si era visto - con il risultato di impedire un blocco istituzionale dato da tutti come probabile. Per chi ama cimentarsi nei paragoni, ci sono poi altri elementi di notevole diversità tra l'avvio del bis al Quirinale di Napolitano e quello che ora Mattarella si prepara a inaugurare. Il suo predecessore si trovava nelle fasi iniziali di una legislatura difficile, e perciò si sentiva legittimato a dettare un vero e proprio programma di governo. Mentre il presidente appena riconfermato vorrà ragionare su un arco lungo, e infatti di qui al 2029, quando il suo incarico scadrà, avrà attraversato ben tre legislature. Ciò che lo spingerà a concentrarsi meno sull'attualità e più sulle prospettive a medio-lungo termine del Paese, proiettandosi così inevitabilmente su un futuro appunto non breve. Un'altra cosa che non dovremmo aspettarci, nel testo programmatico che sarà letto dall'appena confermato capo dello Stato davanti ai 1.009 grandi elettori prima del suo rientro al Colle, è una forte pressione sulle riforme. La esercitò Napolitano, investendo addirittura un comitato di saggi del compito di studiarle e prepararne un profilo di fattibilità, ciò che indusse alcuni costituzionalisti a storcere il naso, perché le riforme, si sa, sono stretta competenza delle Camere. Questo tema Mattarella lo affrontò al momento della sua prima elezione, sette anni or sono, ma soltanto perché un processo riformatore era stato da tempo avviato e gli sembrava opportuno che fosse portato a termine (e tutti ricordiamo che quel percorso in effetti si completò con il tentativo di modifica costituzionale fatto approvare da Matteo Renzi e in seguito bocciato da un perentorio no al referendum). Per il resto, il modo con cui ha interpretato il ruolo testimonia che Mattarella non si è mai permesso - al pari di Carlo Azeglio Ciampi, per esempio - di suggerire ad altri organi costituzionali che cosa dovessero fare, e come. Non lo ha fatto per la semplice ragione che non è compito suo, mentre invece gli compete «segnalare» le attese della gente. E indicare sulle cose concrete qualche linea di «alto indirizzo», di sicuro non delle scelte di merito. Indicazioni che valgono pure per il connesso tema dell'elezione diretta dei presidenti, questione tornata in auge proprio a causa di com' è stata condotta questa elezione, tra manovre, intrighi e veti incrociati. Ne discutono ormai tutti e senza più considerarlo un tabù: opinione pubblica, giuristi e politici, specie del centrodestra. Mattarella ne è consapevole, anche se è difficile che se ne senta toccato. Da studioso della nostra Magna Charta sa che sarebbe un'impresa impervia affrontare tale problema, anche se i tempi paiono maturi a molta gente. Implicherebbe infatti un ripensamento profondo degli organi dello Stato e dei pesi e contrappesi che li regolano. Una partita che sconfina con certe azzardate e maliziose teorie secondo le quali già ora si starebbe realizzando una sorta di «presidenzialismo di fatto», con Mattarella al Quirinale e un suo avatar, cioè Draghi, a Palazzo Chigi. Meglio non parlarne neppure, sul Colle».

ANCORA REAZIONI SUL SECONDO MANDATO

Il direttore Marco Tarquinio risponde stamattina ai suoi lettori su Avvenire, mettendo insieme i più critici della rielezione di Sergio Mattarella.

«Stavolta ho scelto solo lettere di lettori amareggiati per il modo con cui si è arrivati alla rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Interessante, però, che in ognuna di esse sia limpida e forte la stima per il Capo dello Stato. Potevo selezionarne molte di più tra le tante altre dei nostri lettori che stanno dando voce alla gioia per la conclusione della piccola maratona quirinalizia con la conferma di una personalità in principio conosciuta ma non troppo e che negli ultimi sette anni si è fatta conoscere, stimare e amare dai nostri concittadini. Lo speravo, anni ne ero certo quando commentai la sua prima elezione esattamente sette anni fa (era il 1 febbraio 2015: «Da dove si comincia»). Anche allora non a tutti erano piaciute le modalità della sua elezione alla suprema magistratura della Repubblica. Preferisco, però, dialogare con la signora Cavicchi e con i signori Rizzo, Dessupoiu e Marconato perché mi consentono di tornare su un punto per me cruciale nella vicenda politica a cui abbiamo assistito. Alla vigilia delle votazioni avevo previsto (domenica 23 gennaio «Tutte le spine delle rose») che, di quel passo, in fondo a una serie di errori, di sottovalutazioni e di presunzioni si sarebbe dovuto bussare di nuovo alla porta del Presidente uscente. Così è stato. E il Presidente ha fatto prevalere l'indicazione che veniva da una grandissima maggioranza di parlamentari e delegati regionali sulle sue opinioni e aspirazioni. Quello che non avevo previsto è che a questo risultato avrebbe spinto un'iniziativa nata nell'Assemblea dei grandi elettori, dove si è cominciato a votare "Mattarella", raddoppiando i consensi per lui a ogni "chiama" utile. Voti che venivano soprattutto dal centrosinistra, ma che cominciavano ad arrivare anche dal centrodestra. Insomma, mentre nei negoziati tra i leader di partiti e movimenti continuava il "valzer stonato dei veti", si stava profilando la possibilità che Sergio Mattarella venisse rieletto per così dire "dal basso", senza intesa al vertice. Non a caso, a mio parere, i gruppi che facevano riferimento al vecchio centrodestra hanno deciso, a un certo punto, di astenersi e, dunque, di non partecipare alle votazioni... Per questo, ho detto grazie al Parlamento, per il ruolo propulsivo che ha svolto, mettendolo accanto al presidente Mattarella che ha saputo darci, con la generosità e la sobrietà che lo caratterizzano, un nuovo esempio di rispetto per le Istituzioni e di dedizione all'interesse generale. E non è un caso che Sergio Mattarella abbia ricevuto prima della votazione decisiva non i segretari politici dei partiti e dei movimenti, ma i presidenti dei gruppi presenti in Assemblea e decisi a rieleggerlo. Per questo penso che, nonostante tutto, il 29 gennaio 2022 sia stato «un gran bel giorno». Non bisogna mai confondere il giudizio sugli errori e sulle insufficienze di questo o quel partito (e delle rispettive guide), con il giudizio sul Parlamento che è e resta il cuore del nostro sistema democratico. Naturalmente la mia lettura dei fatti, come quella di qualunque altro osservatore, può non piacere o non convincere, in tutto o in parte. Ma i lettori di "Avvenire" (e non solo loro) sanno che scrivo e dico solo quel che penso, così come che li ascolto per davvero. E in questo caso prendo molto sul serio la loro amarezza e persino lo sdegno per lo "spettacolo" di certa politica. Sono anche miei, soprattutto di fronte ad arroganze e volgarità. E purtroppo nei giorni del Quirinale non sono state lesinate né le une né le altre».

Articolo invettiva del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky per Repubblica. Zagrebelsky sottolinea polemicamente la virtù del silenzio del Presidente Mattarella a contrasto con il politicantismo di questi giorni.

«Se le parole hanno un senso, e il senso deve essere rispettato, Sergio Mattarella è stato eletto nel 2015, ma non è stato ri-eletto nel 2022. È stato "votato", ma non eletto di nuovo. Eleggere significa scegliere di propria volontà fra più opzioni quella che si ritiene migliore. Così il vocabolario. Se non ci sono più opzioni, se la scelta è apparente perché è tra il disastro e la salvezza, la salvezza non è un'opzione, è una necessità. Molti sono stati chiamati o, più o meno pateticamente, si sono proposti ma tutti inutilmente. Una barca di disperati sta per fare naufragio e compare la ciambella di salvataggio cui riescono ad aggrapparsi: diremmo che hanno scelto, hanno "eletto" il salvagente? Onore, dunque al presidente Mattarella che si è prestato al salvataggio, ma la facciano finita. Lasciamo perdere le fantasie come, per esempio, quella di chi parla di segno di vitalità dal basso del Parlamento che si sarebbe ribellato ai giochi di palazzo. Non è stata un'elezione ma il fallimento di coloro che avrebbero dovuto rappresentarela Nazione, come dice la Costituzione. Rispettiamo, dunque, le parole e forse potremo vedere più chiara la realtà, al di là delle recriminazioni, accuse reciproche e perfino incredibili rivendicazioni di vittoria. La realtà sta tutta in una parola: "intestarsi". Tutti i possibili candidatisono stati, comesi usa dire, "bruciati" nel momento in cui sonoapparsi sulla scena. Possiamo dire: proposta e bruciatura hanno fatto un tutt' uno. Ciò perché la posta in gioco della partita quirinalizia s' è dimostrata essere l'intestazione dell'elezione. I nomi, in fondo, contavano menoe, perciò, se n'è fatta unagirandola, una quarantina tra quelli espliciti e quelli "coperti" che si sarebbero potuti tirare fuori dal cilindro al momento opportuno. Forse, anche se ci fosse stata in Parlamento una chiara maggioranza, il conflitto delle intestazioni ci sarebbe stato ugualmente, tra le sue componenti. Ma, siccome una tale maggioranza non c'era, il caos totale è stato inevitabile. Altro che "sintesi", "percorso condiviso", "punti di equilibrio", "tavoli", "altissimi profili", "king maker" e altri simili specchietti (per le allodole) e spacconate. L'intestatario, in caso di successo, avrebbe vinto un premio politico che gli altri nongli avrebbero potuto contestare. Un enorme plus-valore. Proprio per questo doveva fallire e così è stato. Egli avrebbe dimostrato la sua centralità in Parlamento, nel governo, nella coalizione e nello stesso suo partito. Il voto a favore della rielezione del presidente Mattarella, invece, ha scontentato (quasi) nessuno perché ha evitato ogni altrui intestazione. Affinché nessuno vinca, meglio che perdano tutti: questa è stata la morale e, se è stata questa, nessuno avrebbe motivo di gioire. Per esempio, che cosa sono state le congratulazioni al momento della votazione, e il giubilo che abbiamo visto ec he vedremo di nuovo tra qualche giorno, a Camere riunite plaudenti, sul volto di chi temeva di naufragare? Che cosa sono mai i sorrisi di soddisfazione durante la processione al Colle, svoltasi quasi come in un rito d'auto-umiliazione. Stavano deponendo la propria impotenza ai piedi di chi generosamente, per spirito di servizio, ha assunto il peso del loro fallimento. In fondo, era largamente prevedibile. Politicantismo invece di politica. Se c'è politica, se cioè ci sono programmi, progetti, ideali, perfino ideologie; se cioè c'è qualcosa che va al di là dell'autoreferenzialità e che tiene a bada l'ego personale o di gruppo, allora sì, si può mediare, cercare insieme il meglio tra ciò che è possibile. In una parola, si può guardare in alto trovandovi soddisfazione anche, anzi perfino di più,quando si rinuncia a qualcosa di sé in vista di qualcosa di buono che può riguardare tutti o, almeno, molti. Nel politicantismo prevalgono gli interessi particolari meschini che difficilmente aggregano consensi, soprattutto quando c'è un solo "bene "da assegnare (il Quirinale), senza beni di consolazione da distribuire: se tutto a uno, niente agli altri. Il politicante non sa che farsene della politica, anzi la evita. Tutto, per lui, è tattica del giorno per giorno. Ma, viene il momento della verità in cui inevitabilmente ci si trova di fronte alla realtà. Questo giorno è già venuto due volte. Se la prima volta, la rielezione del precedente presidente Napolitano, si poteva far finta di non vedere e considerarla un'eccezione, questa volta non può più essere così. Due volte dimostranoun malessere di fondo che testimonia un cambiamento della "costituzione materiale". Un cambiamento, questo sì, davvero antipolitico. Le grandi decisioni sfuggono al Parlamento che ne è incapace. La sua incapacità finirà per sembrare inutilità. Perché partecipare anche solo con il voto a rituali lontani, per nulla attrattivi e privi di sostanza? Ma, nei regimi in cui il Parlamento non c'è, è sospeso o è impotente, la democrazia se la svigna dalle parti di oligarchie e di tecnocrazie. Non c'è bisogno d'essere linci per accorgersi che è ciò che avviene sotto i nostri occhi. Succede dappertutto, dicono coloro che vogliono minimizzare il nostroproblema e consolarsi guardando gli altri. Ma non è affatto così. Certamente non è così nella misura nostrana. A conclusione d'una settimana quirinalizia degna almeno d'un paragrafo di diritto costituzionale dedicato all'implosione della democrazia, abbiamo udito tante invocazioni al ritorno della politica come antidoto al disincanto (per non usare più forti espressioni) dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti e della (non) politica ch' essi hanno messo in scena. Giusto! Ma, la malattia non si cura con tante parole, parole su parole, parole in polemica con altre parole. Scatole vuote. Tutti sono capaci di parlare, per esempio, di Europa, atlantismo, solidarietà e uguaglianza, donne, disagio sociale, crisi occupazionale, crisi demografica, emergenza ambientale, evasione fiscale per non dire niente e, magari, per scansare i problemi concreti perché ci sarebbe sempre un "ben altro". Per rianimare la democrazia e rendere possibili convergenze, accordi, alleanze, in altre parole politiche produttive di effetti, in questo momento la prima cosa da fare è tacere un poco.Tutti sono, più o meno, capaci solo a parlare. Difficile è riempire le scatole vuote con qualcosa che faccia dire: guarda, guarda, c'è qualcuno che sa e vuole fare! E da lì partire per riannodare i fili, per riporre speranze nella democrazia. Più si parla e meno si fa, più cresce il distacco, la noia, l'avversione. L'eccesso di pseudo-informazione in mano ai soliti esperti di cose quirinalizie e ai soliti "opinionisti" che hanno riempito fino alla noia i media in questi giorni ha mostrato, con la nausea che ha provocato, il male che s' annida nelle troppe parole. Sarete giudicati, dice il Siracide, in base alle parole superflue che avrete pronunciato. Ma la più dura è la sentenza del Cristo rivolta ai farisei:"Ogni parola inutile che gli uomini diranno, ne renderanno conto nel giorno del giudizio, poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato". Ora,un poco di silenzio, di concentrazione e serietà. Il modello siano le poche, perfette, asciutte parole tanto estranee al vociare di questi giorni, che il presidente Mattarella ha pronunciato nel momento solenne e inconsueto in cui, in solitudine davanti al popolo italiano, ha chiarito perché, contro le sue personali intenzioni e per senso di responsabilità, ha ritenuto di doversi piegare alla cogenza d'una situazione che non consentiva alcuna scelta. Impariamo da questa sostanza e da questo stile.».

IL TERREMOTO NEL CENTRO DESTRA E IL DIVORZIO DELLA MELONI

Silvio Berlusconi esce dall’ospedale, incontra Matteo Salvini e dice: il partito unico è una mia idea ma va rimodulata. Resta la freddezza con la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni e con Giovanni Toti di Coraggio Italia. Anna Maria Greco per il Giornale.

«Matteo Salvini torna sull'offerta di una federazione con Forza Italia in un intervento su Il Giornale, nello stesso giorno in cui Silvio Berlusconi viene dimesso dopo 8 giorni dall'ospedale San Raffaele e ad Arcore torna pienamente operativo. Intorno alle 18 il Capitano della Lega è già a Villa San Martino e dopo le due ore d'incontro una nota riafferma «la vicinanza umana e politica» tra i due leader. «Una visita affettuosa» di Salvini, per riallacciare i rapporti con il Cavaliere dopo che Fi si è sottratta alla sua leadership nelle ultime trattative per il Colle e Giorgia Meloni ha annunciato la fine e la «rifondazione» del centrodestra. Il leader del Carroccio, in difficoltà, cerca di rilanciare sugli alleati, di riprendersi la posizione centrale e di offrire prospettive future. Che stringono i legami con Fi. Il Cavaliere sorride e va cauto. Non sente Salvini da quando ha cercato di portare al Quirinale Elisabetta Belloni, mentre lui spingeva Pier Ferdinando Casini e poi è andato sul Mattarella bis per non far saltare tutto. L'idea della federazione modello repubblicano Usa, rivendica al suo ospite, gli piace perché è sua e da 7 anni ne va parlando, ma bisogna rimodularla, darle nuovo spazio e vigore. Ora molte cose sono cambiate e il terremoto del Quirinale ha scosso i rapporti di coalizione, bisogna valutare vantaggi e rischi. Se l'ex premier pensava a tutta la coalizione unita, ora il Capitano si rivolge all'alleato di governo Fi, con la possibilità solo in futuro di allargarsi a Fdi. Un po' la sua mossa sembra intempestiva e azzardata, un po' sembra tardiva e sospetta. Il Cav adesso lavora ad aggregare attorno a Fi le formazioni di centro con valori comuni. E con Salvini è freddo verso la Meloni e il leader di Coraggio Italia Giovanni Toti. Il Capitano spiega che vuole impegnarsi per dare un nuovo passo al governo, con una forte impronta di centrodestra. Alla fine, i due decidono di riaggiornarsi. Già all'uscita dall'ospedale, con la compagna Marta Fascina e la sua più stretta collaboratrice Licia Ronzulli, Berlusconi saluta tutti ma si guarda bene dal fare commenti sul progetto salviniano. Nè si pronuncia il vicepresidente e coordinatore nazionale Antonio Tajani, mentre dichiarazioni bonarie ma attendiste le fanno altri. «Le proposte che arrivano dalla Lega e da Salvini saranno vagliate attentamente, noi siamo nel centrodestra e faremo le valutazioni appropriate al momento opportuno», dice al Tg2 il presidente dei deputati azzurri, Paolo Barelli, ricordando che Berlusconi e Fi «hanno determinato la scelta del Capo dello Stato». La capogruppo al Senato Anna Maria Bernini sottolinea che il Cav è stato «il primo a ipotizzare una federazione del centrodestra sul modello del partito repubblicano americano, proposta lungimirante, che richiede però un percorso non improvvisato, e il cui approdo non può che essere una comune e piena adesione ai valori del popolarismo europeo». Il primo stop è questo: la posizione comune in Europa che per Fi e Lega ora non c'è. Anche l'ex presidente del Senato Renato Schifani dice che è «condivisibile il manifesto di Salvini», ricorda l'esperienza del Pdl che ha «dato spazio e rappresentanza negli incarichi direttivi alle diverse sensibilità dei partiti fondatori» Fi e An. Ma, avverte, «il tema centrale resta quello della collocazione europea della nuova forza politica, che non può essere che quella del popolarismo europeo». Ricorda il sottosegretario alla Difesa azzurro Giorgio Mulè: «La prima volta che si ipotizzò un Partito repubblicano modello Stati Uniti risale al 22 aprile 2015 e ne parlò Berlusconi, all'epoca del campo largo del Pd di Renzi che valeva oltre il 40%. La stessa proposta fu rilanciata a giugno 2021 dopo le amministrative e Berlusconi parlò di Centrodestra unito che richiama la Cdu tedesca». Per il senatore azzurro Francesco Giro «Fi non può che andare in questa direzione».

Ma Alessandro Sallusti, direttore di Libero, vede un futuro nella leader dei Fratelli d’Italia.

«Sono giorni difficili per il Centrodestra uscito stordito, per un verso o per l'altro, dalla prova quirinalizia, e non mi riferisco solo ai tre leader e ai loro generali e colonnelli bensì ai loro elettori. Matteo Salvini va da una parte e lancia un nuovo "cartello repubblicano" presumibilmente aperto ai centristi, Giorgia Meloni si candida a prendere la guida della coalizione "ma senza nessun inciucio" con i nemici interni ed esterni, Silvio Berlusconi si guarda in giro pronto a esplorare anche nuovi scenari. Quanto può durare una situazione del genere, e soprattutto è possibile rimettere insieme i cocci dopo che ieri autorevoli esponenti leghisti hanno dato della traditrice estremista alla Meloni? Dobbiamo essere onesti. Il centrodestra, così come lo abbiamo conosciuto e percepito da quasi trent' anni non esiste più, in realtà è morto domenica 4 marzo 2018 quando il risultato delle elezioni politiche ha sentenziato la fine della leadership di Silvio Berlusconi. Quel Centrodestra non poteva sopravvivere all'impasse del suo fondatore che lo aveva costruito a sua immagine e somiglianza su un modello che prevedeva un partito egemone, il suo di centro, e due partiti di minoranza alla sua destra. Da allora e per quattro anni abbiamo fatto finta che così non fosse, abbiamo minimizzato le divergenze, le contraddizioni e pure le liti ma oggi non ha più senso continuare a farlo. Il campanello di allarme delle ultime amministrative - con i casi imbarazzanti di Roma e Milano - è diventato alla prova del Quirinale una campana di quelle grosse e assordanti e non sarà certo una eventuale tregua (magari in occasione delle elezioni amministrative di questa primavera) a risolvere il problema. In altre parole il teorico passaggio di consegne tra Berlusconi e Salvini per tenere insieme la coalizione è fallito, anche perché nel frattempo Giorgia Meloni è schizzata là dove nessuno aveva previsto potesse arrivare. Inutile cercare soluzioni ordinarie per un problema straordinario. Non si può stare un po' al governo e un po' all'opposizione, non si possono avere tre linee diverse in politica estera perché da fuori ci prendono per matti. Berlusconi ci era riuscito ma alla lunga si è logorato, Salvini ci ha provato ma forse non c'erano più le condizioni. Tocca ora a Giorgia Meloni inventarsi qualche cosa di nuovo che vada oltre il suo florido feudo. Per lei è la partita della vita».

Antonio Polito commenta sul Corriere: la formula sul modello del partito repubblicano americano, usata ieri da Matteo Salvini è una trovata frettolosa per riprendersi la leadership.

«La fretta è cattiva consigliera. E non c'è dubbio che Salvini abbia fretta di far dimenticare la «débâcle» cui ha condotto il centrodestra nella battaglia per il Quirinale. Così, un po' come è capitato tante volte alla sinistra, che a ogni sconfitta cercava conforto in un modello straniero, da Blair a Jospin, da Zapatero a Macron, eccolo riscoprire il Partito repubblicano all'americana, presentato come «contenitore» da imitare per costruire una «federazione di centrodestra» in Italia. Ma l'idea sembra avere più i caratteri di una trovata che di una proposta: come certi nomi di candidati al Quirinale tirati fuori uno dopo l'altro per stupire il pubblico e mimare un'iniziativa politica che in realtà non c'era. Sono infatti due i punti deboli della proposta «repubblicana». Il primo è che Salvini la propone, almeno inizialmente, come federazione di quella parte del centrodestra che ora sta al governo. Sembra quasi un addio alla Meloni, o nella migliore delle ipotesi un arrivederci a un futuro post-elettorale. Così però la formula del Partito repubblicano, plurale ma pigliatutto e a vocazione maggioritaria, perde tutta la sua forza. Perché non comprenderebbe al suo interno tutte le correnti del centrodestra, anzi lascerebbe fuori la destra, e non potrebbe così esaurire il campo di un sistema bipolare. I partiti federativi possono nascere o per ragioni identitarie (il gollismo e la «grandeur» della Francia, il popolarismo della Cdu con l'economia sociale di mercato); o per vincoli esterni (la Dc e la guerra fredda); o perché unificati da figure carismatiche (il Pdl di Berlusconi era più vasto e onnicomprensivo del modello che propone oggi Salvini); o infine perché sagomati su sistemi istituzionali presidenziali o semi, in cui l'esecutivo è sganciato dal legislativo, e il partito serve sostanzialmente a scegliere il candidato presidente e a sostenerne la campagna. Nessuno di questi casi può applicarsi ai «republicains à la Salvini». Ma c'è un secondo problema meno teorico e più attuale. Appena venerdì scorso, Salvini si è trovato a dover scegliere tra le forze del centrodestra che sostengono il governo e quelle che ne sono fuori. Da un lato 217 grandi elettori che proponevano Casini (Forza Italia, Coraggio Italia e Noi per l'Italia); dall'altra 63 grandi elettori di Fratelli d'Italia che dicevano no a Casini. Quella sera Salvini non ha scelto gli alleati che stavano al governo, con cui vuole ora federarsi, ma l'alleata che ne stava fuori, che vuol tenere ora fuori dalla porta. Poi qualche ora dopo ha mollato anche lei, costringendo Giorgia Meloni a riflettere su una frase di Eleanor Roosevelt: «Se qualcuno ti tradisce una volta è un suo errore; se ti tradisce due volte è un tuo errore». È molto probabile che non abbia voglia di provare la terza. Messa così, la proposta di Salvini sembra dunque più che altro un modo di riprendersi in fretta una leadership persa nella settimana del Quirinale, mettendosi in scia di Berlusconi che aveva per primo lanciato questa idea. Ma potrebbe finire con lo spaccare Forza Italia, tra coloro che sperano di conservare un seggio in Parlamento con la sua benevolenza e coloro che invece puntano a conquistarsi uno spazio nel nuovo Centro in gestazione».

LE MANOVRE PER UN NUOVO CENTRO

Ma esiste davvero un “Centro in gestazione”, come sostiene Polito? Gianluca Roselli per Il Fatto sembra crederci.

«Fino a una settimana fa erano appestati. Nel centrodestra si dimenticavano di invitarli ai vertici e nel Pd venivano guardati con gelido distacco. E invece oggi eccoli rivalutati, nel bel mezzo della scena, a dare le carte. Parliamo dei centristi, ovvero quella galassia di sigle, partitini e spezzoni che, anche per incapacità altrui, sono stati tra i protagonisti della rielezione al Quirinale di Sergio Mattarella. "Stanno venendo tutti a Canossa, a baciare la pantofola scudocrociata. Ci chiamano, ci blandiscono, chiedono consigli. E noi qua stiamo!", sogghigna un deputato di vecchia fede diccì. Cambiamo di Giovanni Toti, Noi con l'Italia di Maurizio Lupi, Italia Viva di Matteo Renzi, l'Udc di Lorenzo Cesa, il Centro democratico di Bruno Tabacci, gli ex M5S : quelli che, partiti con in testa Mario Draghi e Pier Ferdinando Casini, sono stati abili a scivolare veloci sul Mattarella-bis. Con l'aiuto delle sponde centriste degli altri partiti. L'area di Luigi Di Maio nei 5 Stelle; tre quarti del Pd; la corrente "ministeriale" di FI ; i "giorgettiani" e i governatori nella Lega. Sullo sfondo anche Carlo Calenda. Questa galassia ora guarda a un nuovo grande centro, una federazione di partiti che punta al 10%. Qualcuno vuole Casini come "federatore", ma lui (per ora) si fa da parte: "Ho già dato". "Ci saranno diversi primus inter pares", dice Paolo Romani. Matteo Salvini, intanto, per uccidere il neonato in culla lancia l'idea di una federazione di centrodestra. Per avere chance il progetto centrista prevede, però, il ritorno al proporzionale. Su cui ormai, come affetto da una sindrome di Stoccolma, sta virando il Pd, ma pure FI e Lega. Sono già fissati incontri, come quello tra Toti e Renzi. Possibile anche già un vertice d'area, con tutti quanti. "Si apre un periodo molto interessante", dice Renzi. "Le coalizioni non ci sono più, ci sono i partiti", il sunto di Osvaldo Napoli. "Questa è la vittoria dell'onda lunga dell'eternità democristiana", gongola Paolo Cirino Pomicino».

CONTE ANCORA SU BELLONI (E DI MAIO)

Luca De Carolis sul Fatto intervista Giuseppe Conte. L’ex premier ricostruisce i fatti e dipinge Luigi Di Maio come il Nemico assoluto da combattere. O da espellere.

«Giura di non avere nulla da rimproverarsi, anzi: "Abbiamo centrato il primo obiettivo, assicurare la piena continuità dell'azione di governo ed evitare il rischio di un cambio di esecutivo. Abbiamo indotto al ritiro Silvio Berlusconi e abbiamo evitato che sul Colle si arrivasse a compromessi al ribasso". Ma la partita del Quirinale è valsa a Giuseppe Conte strascichi politici in serie. Così vale la pena farsela raccontare, dal suo punto di vista.

Partiamo da sabato 22 gennaio, il giorno del ritiro di Berlusconi dalla corsa al Colle.

Il ritiro di Berlusconi, e contestualmente il suo invito al premier Draghi a proseguire nell'azione di governo, ha costituito un primo punto di chiarezza delle trattative. Il M5S , con il suo no a quella candidatura, ha scongiurato che il Parlamento e il Paese si spaccassero. Non poteva garantire l'unità nazionale.

Come ha inciso sulle trattative?

Ha offerto un oggettivo vantaggio a noi e al fronte progressista. Venendo meno la candidatura più rappresentativa del centrodestra, qualsiasi altro nome riferibile a quell'area sarebbe stato meno forte. Ciò ha permesso di evitare di scontrarci su candidati di bandiera o di parte.

Lei è stato contattato da Berlusconi? Non abbiamo avuto occasione di parlare. Sostiene che volevate evitare candidature di bandiera.

Ma quella di Andrea Riccardi, da lei proposta domenica 23 gennaio, cos' era?

La candidatura di Riccardi è nata da riflessioni di settimane prima con Enrico Letta e Roberto Speranza. Volevamo offrire subito ai partiti di centrodestra un profilo autorevole e super partes. Non era certo un candidato di bandiera.

Che ne pensava il centrodestra?

Il loro è stato un no immotivato.

Lunedì 24, primo giorno delle votazioni, voi del M5S , Pd e LeU avete indicato scheda bianca.

Visto che Riccardi non era un nome di bandiera, non lo abbiamo messo in votazione. Però abbiamo proseguito il confronto con i partiti di centrodestra, sollecitandoli a valutare altri profili. Ma loro martedì hanno presentato una propria rosa: Marcello Pera, Letizia Moratti e Carlo Nordio. Anche noi del fronte progressista avevamo una rosa di nomi, presentata al centrodestra. Ma non l'abbiamo formalizzata per cercare un accordo su personalità super partes.

Per Letta Draghi era super partes?

Tra le ipotesi c'era anche quella del premier. Ma su questo il M5S ha subito assunto una posizione molto chiara. Dovevamo evitare che il premier entrasse nel gioco delle varie candidature. E abbiamo subito cercato di fermare il piano trasversale di spostare l'attuale premier al Colle. Se fosse riuscito, oggi staremmo parlando di nuovi governi e caselle di ministeri da decidere.

Mercoledì c'era un accordo quasi chiuso su Pier Ferdinando Casini: conferma?

Il nome di Casini è sempre stato sul tavolo, ma ho chiarito subito che non rappresentava il candidato ideale del M5S .

Era un no trattabile…

Ho apprezzato il suo comportamento, non ha insistito quando ha saputo della nostra posizione. Anche se aveva un autorevole affidamento anche nelle nostre fila.

Lei ha provato ad accordarsi con la Lega su Franco Frattini e su Maria Elisabetta Casellati.

Sciocchezze. Con Letta e Speranza ci siamo sempre puntualmente aggiornati. Anche quando ho avuto incontri bilaterali, ho sempre riferito. E comunque Casellati è stata una candidatura messa in votazione all'improvviso, la mattina di venerdì.

E Frattini?

È uno dei nomi circolati, non concretamente formalizzato.

Il Pd era furioso perché lei trattava con la Lega…  

Assolutamente no. Anche Letta ha avuto scambi bilaterali. E nella fase più calda lui e Speranza mi hanno dato mandato di portare avanti la trattativa con Salvini.

Come nasce la candidatura di Elisabetta Belloni?

Quelle di Belloni e di Paola Severino erano candidature di cui avevamo discusso, sia nel fronte progressista che con il centrodestra. Apparivano molto solide e affidabili, e offrivano l'occasione storica di portare una donna al Quirinale.

Pd e LeU non le hanno subito obiettato che Belloni dirigeva il Dis?

Nella rosa ciascuno poteva avere le sue preferenze, ma quel nome non è mai stato eliminato.

Venerdì Casellati viene bocciata dall'Aula.

Dopo quella votazione il centrodestra è andato in difficoltà, e ciò ci ha consentito di condurre un affondo. Io e Letta abbiamo incontrato Salvini, riproponendogli Belloni e Severino. Sullo sfondo c'era anche quella di Casini. Ma abbiamo aggiunto l'opzione di garanzia di un Mattarella bis: anche in base alle votazioni in Aula, si stava rivelando una concreta possibilità. Salvini si è preso del tempo per valutare i nomi femminili. Ma ci ha subito riferito della disponibilità di Fratelli d'Italia su Belloni.

La sera lei e Salvini annunciate che si lavora a una donna.

Nel tardo pomeriggio Salvini aveva sciolto positivamente la riserva su Belloni, confermando la disponibilità di Giorgia Meloni.

Secondo Letta, lei e Salvini avete dato vita a "un cortocircuito mediatico" su Belloni. Eravate usciti in modo concordato?

Assolutamente no. Ho rivisto le dichiarazioni. Né io né Salvini, né ancor prima Letta a Sky, avevamo fatto il nome della Belloni. Anche se era già ampiamente circolato sulla stampa.

Il tweet di venerdì sera di Beppe Grillo però la citava: glielo avete chiesto voi?

Con Beppe ho parlato io e abbiamo convenuto che la direttrice del Dis sarebbe stata un'ottima figura per la Presidenza della Repubblica. Ma bando all'ipocrisia, questa uscita non ha avuto influenza su una partita giocata da vari politici. Penso a a Matteo Renzi. Ma non solo.

Ha parlato anche Luigi Di Maio, quella sera. Voleva "bruciare" Belloni?

Di Maio dovrà rendere conto di diverse condotte, molto gravi. Ai nostri iscritti e alla nostra comunità.

Il tavolo serale con Pd e LeU pareva un inferno. Nel Pd non c'era più la disponibilità su Belloni. Perché?

Non entro nelle motivazioni del Pd. C'è stato un blocco trasversale.

Come arrivate a sabato mattina?

Ho preso atto della posizione del Pd. Ma visto l'accordo con i dem e con LeU, non ho mai pensato di rompere quell'asse politico per avventurarmi in una votazione che si presentava problematica anche nei numeri. Così, al vertice dei partiti di maggioranza di sabato mattina, ho invitato tutti a valutare, ancora, i nomi Belloni e Severino.

Ma nulla…  

C'è stato un estremo tentativo di alcuni leader per la candidatura di Marta Cartabia. E io ho spiegato che era un nome su cui dovevo riservarmi un approfondimento interno. Quasi contemporaneamente si è appreso dell'atto di generosità di Mattarella. Poco prima Salvini aveva aperto al suo secondo mandato. Così abbiamo concordato tutti su quella opzione.

Il M5S rischia davvero una scissione?

Non ho mai lavorato per procurare scissioni. È evidente che questo è il momento di un chiarimento. Una comunità di donne e uomini, anche nella diversità di opinioni, deve perseguire un'azione politica in modo coerente e compatto.

 Come avverrà questo chiarimento?

Stabiliremo tempi e modi per un confronto trasparente.

Lei si fida ancora di Letta?

Io mi fido di Letta.».

IL TWEET BOMBING CONTRO DI MAIO, TARGATO USA

Nei 5 Stelle non c’è solo l’esplicita dichiarazione di guerra di Conte contro Di Maio. Siamo alla guerriglia o alla guerra dei nervi, che coinvolge i social. Colpi bassi compresi. Ne scrive anche Michele Serra su Repubblica.

«Ieri dai tre ai quattro milioni di italiani sono stati raggiunti dall'hashtag # DiMaioOut . Un'onda d'urto che farebbe pensare a una gigantesca folla che chiede la testa di una persona. A un movimento di massa. Ma un analista, Pietro Raffa, si è preso la briga di verificare. E dentro il gigante ha trovato un nano. Riassumendo: "promotori" dell'assalto sono 289 profili Twitter. Di questi i primi dieci, diciamo così i motori della campagna, sono fake. In italiano: fasulli. Non persone, dunque, o associazioni, ma alias , fantasmi, finte presenze. In termini di malavita tradizionale potremmo definirli prestanome. E non è tutto: 125 account (quasi la metà del totale) sono americani: Di Maio nemmeno sanno chi è, hanno meccanicamente eseguito un compito per conto terzi. Macchine. Quanto costa comperare il software che produce, a dozzine, falsi account? Duemilacinquecento euro. Più o meno il costo di un killer in Messico. Prezzi stracciati. Quanto costa comperare mille follower (finti) su Twitter? Cento euro. Non fidandomi del mio giudizio, passibile di essere "novecentesco", affido il commento finale di questa vicenda, disgustosa e impunita come centinaia di analoghe bastonature online, al giovane deputato cinquestelle Sergio Battelli: «È incredibile che un movimento che ha fatto della democrazia il proprio mantra usi le picconate social, con tweet che lanciano hashtag gestiti da profili fake». Postilla: non è incredibile solo per quel movimento. È incredibile che almeno la metà degli esseri viventi sia in costante ostaggio di questo fetido imbroglio».

5 stelle in ebollizione: ecco il retroscena della sfida tra Conte e «Gigi» con minacce varie. È uno scontro finale per Emanuele Buzzi del Corriere della Sera.

«Il duello e la paralisi. La guerra nel Movimento sembra giunta a uno scontro finale, quasi ineludibile a sentire le opposte fazioni. I contiani minacciano sanzioni nei confronti di Luigi Di Maio - non è chiaro se per le posizioni assunte in questi giorni o se perché ha dalla sua un'area di fedelissimi. I dimaiani a loro volta evocano l'idea di sfilare il partito a Giuseppe Conte anche ricorrendo alla sfiducia nei confronti del presidente se necessario. A sentire le opposte tifoserie nei Cinque Stelle, il confronto tra i due sarà a giorni, probabilmente in settimana. Quello che appare certo, al di là delle votazioni evocate da entrambi (con tanto di ricorso immancabile alla base) è che nessuno potrà forzare la mano e che i tempi della crisi interna al Movimento rischiano di essere molto lunghi, con un possibile conseguente logoramento dell'appeal dei pentastellati. «Ne resterà soltanto uno» è il mantra da Highlander che circola in Transatlantico. Peccato che gli atti di forza suonino più come un bluff. Sanzionare Di Maio appare al momento come una strada lunga e tortuosa. Il collegio dei probiviri non è al momento operativo e quindi non può deliberare nulla. Tra accusa e controdeduzioni l'iter comunque avrà tempi lunghi. Non solo: i probiviri sono un organo di garanzia composto da volti storici del M5S, esattamente come il ministro degli Esteri: difficile non tenerne conto. In più anche le eventuali accuse potrebbero presentare punti deboli. «Ognuno evoca una sorta di impeachment contro l'altro ma irrealizzabile», dice Lorenzo Borrè. L'avvocato storico legale degli espulsi M5S - che domani sarà occupato con il reclamo degli attivisti di Napoli sulla legittimità del voto sullo statuto - chiarisce: «Le condotte di entrambi rientrano nella discrezionalità politica, che è legittima, non essendoci stato un passaggio assembleare che certificasse la linea». Oltretutto - ricorda Borrè - «il Movimento sta cercando di aderire al registro dei partiti politici per il due per mille, un registro che tutela le minoranze: attaccare Di Maio per una sua eventuale corrente creerebbe problemi su questo fronte». Se i contiani sono bloccati (Conte, senza il placet di Grillo, non può sfiduciare Di Maio), anche i dimaiani non possono ridere. Una eventuale sfiducia all'attuale presidente dovrebbe essere concordata - come da statuto - con gli altri componenti del comitato di garanzia. Di Maio da solo non ha il potere di indire il voto, ma serve il placet di Virginia Raggi e di Roberto Fico, che ha sempre spalleggiato Conte. In questo garbuglio di norme pende come una spada di Damocle il reclamo di Napoli, che potrebbe azzerare tutte le cariche. Ecco perché i Cinque Stelle rischiano uno stallo alla messicana che potrebbe durare a lungo: settimane, forse mesi. Il braccio di ferro può creare un impasse su altri fronti politici, che i vertici devono considerare. «Conte non può permettersi strascichi di settimane - commenta un pentastellato -. Il Movimento deve affrontare le Comunali in primavera, quelle dei dieci anni dalla conquista di Parma. Il leader deve anche darci un indirizzo sui referendum». Non solo. Gli attacchi ai vice di Conte proseguono e la guerra intestina potrebbe mietere altre «vittime». Proprio per evitare un dissanguamento si stanno muovendo nell'ombra dei mediatori. C'è chi si propone in veste di paciere come Dino Giarrusso. Ci sono soprattutto le parole del capogruppo alla Camera Davide Crippa. «La dialettica, anche quella accesa, è fondamentale nella vita di un movimento politico. È normale che, in passaggi fondamentali come quello che abbiamo vissuto nei giorni scorsi, con l'elezione del capo dello Stato possa nascere qualche incomprensione», dice Crippa. Che poi prova a spegnere le tensioni: «Ora è giusto superare tutto, fermarsi un attimo a riflettere, a dialogare per chiarirsi e guardare oltre».

TORNA L’OPZIONE DI UNA LEGGE ELETTORALE PROPORZIONALE

La nuova legge elettorale proporzionale segnerebbe la fine del voto per coalizioni in vigore con varie formule dal 1994. Giorgia Meloni e Matteo Renzi sono contrari, la Lega è divisa, sì di Pd e M5S. Giovanna Casadio su Repubblica.

«Ferma da due anni, con una proposta già fatta e finita congelata in Parlamento (il Germanicum), la legge elettorale torna al centro del dibattito politico. La macchina dei partiti riparte da qui, guardando alle macerie delle coalizioni che l'elezione per il Quirinale ha lasciato sul campo. La conseguenza dell'adozione di un modello proporzionale, come quello che c'è stato fino alle elezioni del 1992, comporterebbe la fine del voto per coalizioni. Non essendoci più il meccanismo dei collegi unimoninali, dove viene eletto il candidato che prende un voto in più degli avversari, cade l'incentivo a cercare intese prima del voto e ogni formazione si presenta per conto suo, eleggendo una quota di parlamentari appunto proporzionale ai consensi ricevuti. Gli eventuali accordi si farebbero solo dopo, in Parlamento, qualora nessuna delle forze avesse - com' è probabile - una maggioranza autosufficiente. Un modello proporzionale sancirebbe la fine del centrodestra, nella forma che si è vista finora. Matteo Salvini lo sa bene. Se vorrà consumare il divorzio verso Giorgia Meloni, basta che apra a una legge proporzionale. Ma Roberto Calderoli garantisce: «Il Rosatellum non si tocca, presenterei 100 milioni di emendamenti ». I leghisti intanto rilanciano un'idea antica: creare una federazione che porti a una sorta di partito repubblicano all'americana. Per chi volesse leggere tra le righe c'è il tentativo di agganciare FI e sganciare FdI. Salvini salverebbe capra e cavoli: la leadership e l'affaccio al centro. Furente è Meloni per tutto il chiacchiericcio sul proporzionale, che boccia senza appello: «È un sistema per turlupinare gli italiani». Ignazio La Russa attacca sulla federazione: «Salvini si prenda una bella pausa». Sulla strada che vuole imboccare Forza Italia poi, non c'è certezza. Silvio Berlusconi ha ribadito poche settimane fa di essere sempre a favore del maggioritario e Antonio Tajani, il coordinatore forzista, ha assicurato che da lì nessuno si muove. Ma nelle file di Forza Italia cresce la voglia di proporzionale, per riprendersi la centralità perduta e sganciarsi dalla "sudditanza" alla Lega. E sono propri i centristi i principali sostenitori del modello proporzionale, a cominciare da Giovanni Toti di "Coraggio Italia", che vorrebbe un matrimonio con i renziani. Ma Renzi, da sempre pro maggioritario, è tutt' altro che convinto. Sostiene che neppure ai centristi serve il proporzionale e che lui vuole tenersi il Rosatellum. C'è un retropensiero: la ritrovata sintonia con il segretario del Pd, Enrico Letta potrebbe rendere conveniente ai renziani rientrare in una coalizione larga progressista, immaginando la dissoluzione del Movimento 5Stelle. Intanto Marco Di Maio, capogruppo di Iv in commissione Affari costituzionali della Camera, dove il Germanicum è fermo, stoppa: «La riforma della legge elettorale non è una priorità, questo confronto rischia di mettere in difficoltà Draghi. Si può fare una riforma proporzionale solo se tiene unita la maggioranza di governo». Ma a non volere più insabbiare il dossier legge elettorale è il Pd. È stato il segretario Letta a sollevare la questione e lo conferma oggi su Repubblica il vicesegretario Peppe Provenzano. Emanuele Fiano, relatore del Germanicum, assicura: «Siamo pronti a farlo ripartire» e rilancia il proporzionale con sbarramento al 5%. In un partito in cui i fondatori avevano legato il dna politico al maggioritario è una svolta. Andrea Giorgis, responsabile riforme dice che se ne parlerà nella prossima Direzione e che «al Pd preme rendere meglio funzionante la nostra democrazia rappresentativa: non stiamo parlando di cosa ci avvantaggerebbe, ma di come ricostruire la fiducia con i cittadini». Sintonia con Leu. La sinistra è a favore del proporzionale. Federico Fornaro indica i tre nodi da sciogliere: sbarramento (meglio al 4%), basta liste bloccate e trovare un modo per selezionare i candidati. Per i grillini, il proporzionale è il cavallo di battaglia. Giuseppe Brescia, il presidente 5S della commissione Affari costituzionale di Montecitorio, invita a passare dalle parole ai fatti: «Il dibattito deve riprendere in Parlamento, non solo sui giornali ». Il Germanicum è il "suo" testo, sua è stata la sintesi, tanto che è chiamato anche Brescellum».

RECORD DEL PIL, MAI COSÌ ALTO DAL 1976

Il Prodotto interno italiano è cresciuto del 6,5% nel 2021, un incremento annuo mai così alto dal 1976. Ora l’ obiettivo è superare quest' anno il +4%. Carlo Marroni per il Sole 24 Ore.

«L'economia italiana nel 2021 è cresciuta del 6,5%, un incremento che non si registrava da 45 anni, esattamente dal 1976 quando era stato del +6,6% (nel 1973 la crescita era stata del 6,7%). L'Istat nella stima preliminare del Pil conferma la crescita record dell'anno appena chiuso, rispetto al -8,9% del 2020, l'anno orribile del lockdown, che invece si è confrontato con gli anni bui della guerra, 1940-45. La spinta decisiva per la crescita è venuta dai due trimestri centrali dell'anno, +2,7 e 2,6% nel secondo e terzo, mentre il quarto (che ha avuto due giornate lavorative in meno sul terzo) ha segnato una dinamica più modesta, +0,6% rispetto al trimestre precedente (+6,4% tendenziale a fine anno). In particolare nell'ultima parte dell'anno è rallentata l'agricoltura mentre industria e servizi sono cresciti ma in misura più moderata. È stata comunque la domanda interna (al lordo delle scorte) a trainare l'economia, mentre le esportazioni hanno frenato. La variazione acquisita per il 2022 - cioè la crescita già realizzata anche se per tutto l'anno il pil non crescesse affatto - è pari a +2,4%. Da tenere presente che per il momento le stime per il 2022 sono state riviste un po' al ribasso rispetto alle prospettive dell'autunno scorso: Bankitalia scrive +3,8% nel Bollettino, e il ministro dell'Economia, Daniele Franco, nei giorni scorsi ha parlato di un aumento superiore al 4% (nella Nadef di fine settembre era indicato 4,7%). L'Istat non formula previsioni in questo momento (lo fa due volte l'anno, giugno e dicembre) e spiega che rispetto a dicembre, quando aveva stimato +4,7%, ci sono cambiamenti importanti nelle informazioni disponibili, fra cui quelle relative alle restrizioni sanitarie. «Non ci sentiamo in questo stadio di confermare o meno - ha spiegato Giovanni Savio, direttore centrale della contabilità nazionale - vedremo nei prossimi dati. Per ora non abbiamo informazioni congiunturali forti e consolidate rispetto al 2022». In ogni caso con questo quadro di crescita emerso nell'ultimo trimestre è ipotizzabile che già alla fine del primo trimestre (specie se in febbraio-marzo il quadro sanitario migliori, come sembra far sperare) si possa tornare ai livelli pre-Covid di fine 2019. Qualcosa di più preciso ci sarà con la diffusione dei conti nazionali annuali per il 2021 il prossimo 1° marzo, mentre quelli trimestrali coerenti con i nuovi dati annuali verranno presentati il 4 marzo. «Voglio esprimere la mia soddisfazione per i dati sulla crescita che sono usciti oggi, +6,5% nel 2021. Sono il prodotto della ripresa globale, ma anche delle misure messe in campo dal governo, a partire dalla campagna di vaccinazione e dalle politiche di sostegno all'economia» ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi in apertura del Consiglio dei ministri di ieri. Il ministero dell'Economia e delle Finanze in una nota commenta che la crescita del 6,5% comunicata dall'Istat sull'anno appena concluso fa recuperare all'economia italiana «gran parte della caduta registrata nel 2020 ed è dovuta anche alle misure di sostegno a imprese e famiglie attuate dal Governo, al successo della campagna di vaccinazione e alle altre misure di controllo dell'epidemia da Covid-19». Certo, aggiunge il Mef, «la recrudescenza della pandemia sta causando un temporaneo rallentamento dell'attività di alcuni settori economici e il caro energia è un indubbio fattore di rischio». Tuttavia «il quadro epidemico nazionale è in fase di miglioramento e il Governo è già ripetutamente intervenuto per attutire il rialzo dei prezzi di gas ed elettricità su imprese e famiglie. Ulteriori interventi sono in esame». Insomma, «pur non sottovalutando i fattori di incertezza che sussistono a livello internazionale l'obiettivo del Governo resta quello di conseguire nel 2022 una crescita del Pil superiore al 4%».

MATURITÀ QUASI NORMALE, DUE ESAMI SCRITTI

Ritorno alla normalità per la Maturità in presenza, ci saranno due prove scritte. L'esame, come ai tempi pre-Covid, parte il 22 giugno. Niccolò Carratelli per la Stampa.

«Una Maturità pre-Covid, o quasi. Tornano gli scritti, non c'è più la tesina e l'esame sarà tutto in presenza: solo per il colloquio orale è prevista la possibilità della videoconferenza per i candidati impossibilitati a lasciare il domicilio (condizione che andrà, comunque, documentata). Il ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, parla di un «percorso di progressivo ritorno alla normalità». Ma gli studenti non ci stanno e annunciano una mobilitazione nazionale per venerdì, con manifestazione sotto al ministero. «L'esame così rischia di essere una condanna per tutti noi - accusano le associazioni studentesche -, bisogna tenere conto degli ultimi tre anni di scuola a singhiozzo, tra didattica mista e a distanza». Lo stesso Bianchi, in un primo momento, sembrava intenzionato a replicare gli esami dello scorso anno, che prevedevano solo un colloquio orale con tesina. Aveva promesso una decisione entro la fine di gennaio e si è preso fino all'ultimo giorno utile per valutare i pro e i contro, visto il complicato inizio di 2022, sul fronte dei contagi e delle classi in quarantena. «Non siamo ancora fuori dalla pandemia - spiega il ministro - ma già quest' anno, grazie ai vaccini e alle misure di sicurezza decise dal governo, abbiamo garantito una maggiore continuità della scuola in presenza, fin dal primo giorno». Insomma, ci sono le condizioni per assicurare il regolare svolgimento dell'esame di Stato, obiettivo di circa mezzo milione di studenti (l'anno scorso erano 540 mila). C'è una data da segnare sul calendario: 22 giugno 2022, ore 8,30. Questo l'appuntamento per il tema di italiano, uguale per tutti a livello nazionale, con sette tracce e tre diverse tipologie: «Analisi e interpretazione del testo letterario, analisi e produzione di un testo argomentativo, riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità». Il giorno dopo si proseguirà con la seconda prova scritta, diversa per ciascun indirizzo, che verterà su una sola disciplina tra quelle che hanno caratterizzato il percorso di studi (le materie saranno comunicate nelle prossime settimane). Questa prova sarà predisposta dalle singole commissioni d'esame, per consentire una maggiore aderenza a quanto effettivamente svolto dalla classe e considerando il percorso seguito dagli studenti in questi anni segnati dalla pandemia. «Abbiamo tenuto conto degli ultimi due anni vissuti dai nostri ragazzi - sottolinea Bianchi -. Per questo affidiamo la seconda prova scritta alle commissioni interne, che conoscono i percorsi personali degli studenti». Poi si arriverà all'esame orale, per il quale lo studente non dovrà più preparare una tesina, negli anni passati usata come base di partenza del colloquio. Quest' anno si comincerà con l'analisi di materiale scelto dalla commissione (sei commissari interni e un presidente esterno): un testo, un documento, un problema, un progetto che sarà sottoposto al candidato. Il ministero spiega che «il candidato dovrà dimostrare di aver acquisito i contenuti e i metodi propri delle singole discipline e di aver maturato le competenze di educazione civica». Oltre a presentare un resoconto dei progetti di alternanza scuola-lavoro, analizzando, «con una breve relazione o un lavoro multimediale, le esperienze fatte nell'ambito dei percorsi per le competenze trasversali e l'orientamento». La valutazione finale resta in centesimi. Il credito scolastico sarà attribuito per un totale massimo di 40 punti (12 per il terzo anno, 13 per il quarto, 15 per il quinto). Le prove scritte consentiranno di ottenere fino a 40 punti, il colloquio fino a 20. Chi arriva a 100 potrà aspirare alla lode, che sarà assegnata con deliberazione all'unanimità della Commissione. Come già gli anni scorsi, in deroga a quanto previsto dalle norme, la partecipazione alle prove nazionali Invalsi, che comunque saranno svolte, e il completamento dei percorsi di alternanza scuola-lavoro, non costituiranno requisito di accesso alle prove. Con un'altra ordinanza il ministero ha definito le modalità d'esame per il primo ciclo, sempre in presenza. Anche per gli studenti delle medie due prove scritte, una di italiano e una relativa alle competenze logico-matematiche. Poi un colloquio, nel corso del quale sarà verificata anche la conoscenza della lingua inglese e della seconda lingua comunitaria prevista, oltre all'apprendimento dell'educazione civica. La votazione finale resta in decimi».

UCRAINA, LA CRISI ARRIVA ALL’ONU

La Russia è isolata all'Onu, solo la Cina è con Mosca. L'Occidente minaccia sanzioni anche contro gli oligarchi di Putin. Oggi previsto un colloquio fra Blinken e Lavrov. Paolo Mastrolilli da New York per Repubblica.

«Isolare la Russia all'Onu, e mettere sul tavolo sanzioni senza precedenti che colpiscano gli oligarchi più vicini a Putin, se non lui stesso. Sono i due fronti su cui ieri si sono mossi gli Usa per evitare l'invasione dell'Ucraina, mentre Mosca ha annunciato il ritorno nelle caserme di un numero limitato di soldati mobilitati a sud e il premier britannico Johnson andrà in visita oggi a Kiev per incontrare il presidente Zelensky e «supportare la sovranità dell'Ucraina». Secondo Financial Times e Reuters , Washington ha preparato la lista degli oligarchi che intende colpire, così come Unione Europea e Gran Bretagna. I nomi non sono stati indicati, anche perché l'interesse degli americani è che tutti i collaboratori più stretti di Putin si sentano nel mirino, affinché facciano pressione per evitare l'attacco. Gli obiettivi però vengono da una lista segreta basata sulla Section 241 del Countering America' s Adversaries Through Sanctions Act, che viene costantemente aggiornata. In passato erano finite nel mirino compagnie come Polyus e PhosAgro della famiglia Guriev e Vladimir Litvinenko, non sarebbe una sorpresa se ora ci fossero personaggi come Igor Sechin di Rosneft, Oleg Deripaska e altri. Biden ha detto che sarebbe pronto a sanzionare anche Putin, e quindi tutto è sul tavolo per fermare l'invasione. Anche il Congresso ha quasi raggiunto l'accordo su un pacchetto definito «la madre di tutte le sanzioni». Poco dopo all'Onu si è riunito il Consiglio di Sicurezza su richiesta degli Usa, per mostrare al mondo l'isolamento della Russia. Mosca ha cercato di impedire la seduta sollevando una questione procedurale, ma solo la Cina l'ha appoggiata. Siccome in questo genere di votazioni il potere di veto non si applica, la sessione è andata avanti. L'ambasciatrice americana Linda Thomas-Greenfield ha denunciato l'aumento della pressione militare in Bielorussia, dove il Cremlino aveva già spostato 5.000 soldati: «Abbiamo prove che Mosca intende espandere quella presenza a più di 30.000 soldati vicino al confine ». Quindi ha chiarito che lo scopo della riunione non era imbarazzare Putin, ma difendere un Paese membro dell'Onu e garantire la stabilità dell'Europa: «Come si sentirebbe la Russia, se oltre centomila soldati si ammassassero ai suoi confini?». Uno dopo l'altro, tutti gli ambasciatori hanno condannato le mosse del Cremlino, tranne il cinese, dicendo che «in questo momento non serve la diplomazia del megafono, ma quella silenziosa». Quindi il russo Vassily Nebenzia ha ripetuto che «non vogliamo invadere, ma abbiamo il diritto di muovere le truppe nei nostri confini ». Poi ha accusato gli Usa di «isteria » perché si augurano che l'attacco avvenga, e di aver portato al potere a Kiev «nazisti puri», che in passato si erano schierati con Hitler. Thomas-Greenfield gli ha risposto così: «Questa era un'occasione per chiarire, l'avete rifiutata ». Il collega ucraino Kyslytsya ha replicato ai giornalisti che gli chiedevano se la riunione era servita: «Moltissimo, per far conoscere al mondo la verità. Il Cremlino deve sapere che l'Ucraina è pronta a difendersi. Supportiamo l'apertura diplomatica, ma se la Russia è seria e non vuole una nuova guerra, deve ritirare le truppe dai confini ». Biden poco dopo ha commentato che nella riunione all'Onu «il mondo ha preso posizione con una sola voce. Continuiamo a cercare la soluzione diplomatica, ma siamo pronti a tutto». Il collega francese Macron ieri ha parlato con Putin e il britannico Johnson andrà oggi a Kiev, mentre un gruppo navale russo attraversava il canale di Sicilia per esercitazioni annunciate. Oggi il segretario di Stato Blinken sentirà il ministro russo Lavrov, per capire se c'è ancora margine per una soluzione diplomatica».

Tommaso Di Francesco sul Manifesto paragona la lunga diatriba sull’Ucraina ad una serie tv:

«A che puntata eravamo rimasti della "serie ucraina" che è tutto meno che una fiction? Di sicuro è disattesa dalla politica italiana e dal "governo di tutti". Draghi, convocato dalla Nato ha dato, nei giorni quirinalizi, la «disponibilità dell'Italia» e ieri il ministro Guerrini si è detto «pronto a tutto». A che cosa ancora non è chiaro. L'Italia dovrebbe svolgere la sua «neutralità attiva» come chiede l'articolo 11 della Costituzione, invece finora siamo navi militari nel Mar Nero e la difesa aerea del fianco est della Nato nel Baltico. Insomma «disponibili» alla guerra. Siamo vicini al precipizio. Anche se l'annunciata invasione russa non c'è. Dalla Casa Bianca la davano sicura per dicembre, poi hanno precisato che sarebbe accaduta a gennaio, ora l'ultima versione è «per metà febbraio»... L'Europa appare divisa. Una parte - Germania e Francia - azzarda una mediazione per rilanciare gli accordi di Minsk del 2015. Che vennero siglati di fronte ad una guerra civile nata dopo l'oscura rivolta di piazza Maidan, dove un ruolo centrale venne assunto dall'estrema destra ucraina, che fomentò un clima antirusso contro una parte russa e russofona della stessa popolazione ucraina purtroppo anche dai molti leader americani accorsero su quella piazza a fare comizi antirussi, compreso lo stesso Biden. Ora il Paese è spaccato in due con tre regioni che hanno dichiarato l'indipendenza. Ma negli accordi di Minsk emerge con chiarezza che la Russia vuole una autonomia amministrativa di quei territori all'interno della nazione Ucraina, e che non considera il Donbass russo, come la Crimea che «per sua scelta con referendum popolare» - scrisse Rossana Rossanda in un saggio sulla crisi di Maidan, ora in un prezioso e-book edito da Sbilanciamoci che lo pubblicò già nel 2014 decise di tornare alla storica appartenenza alla Russia. Ma la guerra civile è continuata con 14mila vittime e due milioni di profughi. Un'altra parte d'Europa, i Paesi baltici e la Polonia sostenuti dalla Gran Bretagna di uno spregiudicato Boris Johnson alle prese con il Partygate, soffia sul fuoco, con invio di armi e consiglieri militari - come si rifiuta di fare la Germania alimentando con gli Stati Uniti un vero e proprio clima di guerra con false notizie. A denunciarlo è lo stesso governo ucraino e il presidente Zelensky ripetutamente: «Basta creare panico» «non è amichevole quello che fate», «l'intelligence americana fa propaganda», dicono le autorità di Kiev. E ora siamo all'assurdo che, di fronte all'invasione che non c'è, per salvare la credibilità transatlantica siamo passati da un Biden che dichiara il 20 gennaio: «Con una incursione limitata la risposta degli Stati uniti sarebbe minore»,, al segretario della Nato Stoltenberg che ora ammette: «Se la Russia invade l'Ucraina la Nato non interverrà...perché non è un Paese Alleato». Siamo ad una autorizzazione all'invasione, o alla messa in chiaro delle regole del Patto atlantico inapplicabili per ora per Kiev, e quindi un implicito invito all'Ucraina ad entrare al più presto in questo gioco di guerra? «Create solo panico», insiste Zelensky, preoccupato del fronte russo ma anche di quello interno, dove i settori dell'estrema destra sono entrati con le loro milizie nella Guardia nazionale e nell'esercito e pesano nel governo - l'ex presidente Poroshenko, eroe dell'Occidente fino a poco fa, è ora accusato di alto tradimento, e arrivano rumors su arresti di un «gruppo» non meglio specificato che preparava proteste. Biden è in difficoltà, al punto che in chiave «nixoniana» ha chiesto una pressione su Putin nientemeno che della Cina, l'avversario vero dell'America. Siamo alla farsa, perché magari avrebbe potuto chiedere a Putin di mettere una buona parola per la crisi di Taiwan che a ben vedere è speculare, se non simile, a quella ucraina. E Putin che mosse farà ora? In realtà Putin non si è mai mosso. Lo ricorda lo stesso presidente ucraino Zelensky e lo stato maggiore di Kiev: le cose alla frontiera stanno così dal 2014, le truppe russe ammassate che «non accerchiano la Nato ma è il contrario», dice il generale Leonardo Tricarico in una intervista Rai - non sono pronte a nessuna invasione. Partecipa a manovre in Bielorussia, e perfino a pattugliamenti nel Mediterraneo, ma le truppe russe minacciose alla frontiera ucraina sono una pressione, rischiosa certo, per ribadire che l'ingresso del Paese nella Nato sarebbe inaccettabile. Perché dal Baltico al Mar Nero, dopo che è stato favorito l'ingresso nella Nato di tutti gli ex Paesi del Patto di Varsavia, si trova un minaccioso schieramento armato alle proprie frontiere, fatto di basi militari, rampe di missili anti-missile, truppe, stormi di aerei che insidiano la propria sicurezza. La Russia in fondo ha reagito - ha scritto Franco Venturini in un editoriale sul Corriere della Sera come fece Kennedy di fronte all'installazione di missili a Cuba nella famosa crisi del 1962. E come non vedere poi che l'accerchiamento atlantico serve indirettamente a sostenere proprio la tanto giustamente deprecabile autocrazia di Putin? E ora? Che nessuno pensi di risolvere questa crisi con una iniziativa «umanitaria» di bombardamenti aerei come sull'ex Jugoslavia nel 1999: dall'altra parte stavolta c'è una potenza atomica. Ma tutto è possibile, finché ci sarà, a surrogare l'inesistente politica estera dell'Unione europea la Nato, ora nel cul-de-sac. Un vecchio arnese della guerra fredda, ma riarmato fino ai denti e in cerca di nemici, mentre ora dall'altra parte ci sono competitor economici: vuol dire che ogni sanzione è un boomerang, come dimostra il caso Nord Stream: non è americano ma Biden vuole bloccarlo per vendere all'Europa il suo Gpl? Tutto è possibile».

JOHNSON E I PARTY PROIBITI: RESA DEI CONTI A LONDRA

Il rapporto della Polizia sui party a Londra durante il lockdown accusa il premier Boris Johnson, che si scusa ma non si dimette. Per il Corriere della Sera il punto di Luigi Ippolito.

«A capo chino, Boris Johnson ha recitato ieri il suo mea culpa davanti ai deputati di Westminster: «Mi dispiace - ha scandito il premier - per le cose che non abbiamo fatto giuste e per il modo in cui abbiamo gestito la faccenda». Ed era il minimo che potesse dire, dopo che sono state rese pubbliche le prime conclusioni dell'indagine sulle feste a Downing Street tenute in pieno lockdown. «Mancanza di leadership e di giudizio» ai vertici del governo, è l'accusa lanciata in quelle pagine da Sue Gray, l'alta funzionaria che ha condotto l'inchiesta. «Alcuni degli eventi non dovrebbero essere stati autorizzati a svolgersi», ha scritto Sue Gray, mentre «altri eventi non dovrebbero essere stati autorizzati a svilupparsi come è avvenuto». In altre parole, quei party negli uffici del governo violavano i regolamenti sul Covid: e dunque adesso su 12 di essi indaga Scotland Yard. Ma il rapporto Gray appena pubblicato è soltanto un «aggiornamento» sull'inchiesta, non è la relazione conclusiva: perché la polizia ha chiesto e ottenuto di evitare dettagli che possano compromettere l'indagine in corso. E dunque in quelle poche pagine mancano riferimenti diretti a fatti e persone: insomma, non c'è il colpo del ko contro Boris Johnson. Ed è per questo che il premier si è presentato con spirito contrito ma combattivo davanti ai deputati: «Dire che mi dispiace non è abbastanza - ha aggiunto - questo è il momento in cui dobbiamo guardarci allo specchio e imparare». E quindi Johnson ha promesso di riformare «immediatamente» le procedure di governo: «Ho capito e aggiusterò le cose», ha concluso. Ovviamente, tutto ciò non è bastato all'opposizione laburista: il leader Keir Starmer ha accusato Johnson di essere «un uomo senza vergogna», che «ci ha preso tutti per scemi». E ne ha chiesto di nuovo le dimissioni immediate. Boris, però, non ha nessuna intenzione di farsi da parte: e ha rivendicato ancora una volta i suoi successi nel portare a termine la Brexit e nel condurre la più rapida campagna di vaccinazione in Europa. Il suo destino, però, è nelle mani dei deputati conservatori: che nelle prossime ora dovranno decidere se rinnovargli la fiducia o procedere alla sua rimozione. Ma in mancanza di un successore chiaro, per Johnson potrebbe non essere ancora arrivata la fine».

I GIOCHI PER LA PROPAGANDA DI XI

Così la Cina userà le Olimpiadi invernali, che iniziano il 4 febbraio. L’analisi di Federico Rampini per il Corriere della Sera.

«Alla vigilia delle sue Olimpiadi invernali, Pechino si propone come il centro di un universo alternativo. È un mondo rovesciato rispetto alle rappresentazioni occidentali. Cominciando dallo sport. Lo scandalo dell'aggressione sessuale alla tennista Peng Shuai - che ebbe una visibilità brevissima sui social media cinesi - è stato cancellato da una nuova eroina nazionale, la sciatrice adolescente Eileen Gu. Il fascino della sua storia è questo: la Gu, diciottenne, è nata negli Stati Uniti ed è sulle montagne sopra il lago Tahoe (California-Nevada) che ha iniziato la sua splendida carriera nella specialità del trampolino acrobatico o freestyle. Di recente però ha scelto di competere per la nazione di sua madre, che è cinese. Il suo «patriottismo Han» riempie di orgoglio i connazionali. Tanto più che da teenager americana la Gu è allineata con i dogmi del politically correct della sua generazione. Ha preso posizione in favore del movimento anti-razzista Black Lives Matter, e ha condiviso la teoria per cui gli asiatici-americani sono anch' essi vittime di xenofobia e discriminazioni. La realtà è agli antipodi: proprio in California la minoranza asiatica, che eccelle a tutti i livelli scolastici ed è sovra-rappresentata nelle élite accademiche o professionali, si batte contro le «quote etniche» che dovrebbero favorire i Black. Non importa: la Gu ha detto le cose giuste per piacere a Xi. Se conquisterà una medaglia avrà molti significati. È il simbolo di una diaspora cinese che sente di appartenere alla superpotenza in ascesa. Sul fronte geopolitico, Vladimir Putin sarà a Pechino per omaggiare Xi. Questo significa che il leader russo quasi sicuramente rispetterà la tregua olimpica, astenendosi da mosse militari in Ucraina. Se l'Europa e gli Stati Uniti possono guadagnare tempo, lo si deve al calendario cinese. Anche questo viene presentato come un segnale simbolico che il centro del mondo si sta spostando. La Russia non ebbe altrettanti riguardi nel 2008 quando «sporcò» l'inaugurazione delle Olimpiadi estive di Pechino con il conflitto in Georgia. Una volta che la tregua olimpica sarà conclusa, Putin sa che a fronte di eventuali sanzioni occidentali avrebbe un rifugio. Cina e Russia stanno costruendo un sistema finanziario alternativo a quello imperniato sul dollaro. L'uso del renminbi cinese continua a crescere, nelle transazioni commerciali con tutti i partner della Repubblica popolare. Altri Paesi, dall'Iran al Venezuela, hanno già dimostrato di poter attutire l'impatto delle sanzioni americane spostandosi verso il nuovo mondo che ha il suo centro a Pechino. Xi ha approfittato della vigilia dei Giochi per un discorso ideologico di alto profilo. Ha affermato che la vera democrazia è la sua, non la nostra. Ha coniato un nuovo slogan per descrivere il suo sistema politico: «Democrazia dal processo integrale, olistico». Sostiene cioè che la Repubblica popolare ha una democrazia partecipativa, mentre l'Occidente è fissato sul ciclo elettorale come se contasse solo quello. Xi confronta i due mondi sulla base della «performance», del risultato: per lui è evidente che la Cina è governata molto meglio, con effetti visibili sul benessere della popolazione, mentre l'America e l'Europa si avvitano in un caotico declino. Ora vuole portarci via anche l'ultima bandiera, il termine «democrazia». Non che corra grandi rischi di vedersi guastare i Giochi dalle campagne sui diritti umani. Qualche Ong occidentale insiste a voler richiamare l'attenzione sugli abusi subiti dalle minoranze nello Xinjiang (uiguri musulmani) o nel Tibet, oppure sulla distruzione dello Stato di diritto a Hong Kong. Sono voci nel deserto, nessuno dei grandi sponsor americani ha ritirato il proprio marchio da questi Giochi. La battaglia per «azzerare il Covid» nasconde difficoltà reali per Xi, a cominciare dalla mediocre efficacia dei vaccini made in China , e dall'arretratezza del sistema sanitario, che non lasciano molte alternative al Paese: ogni focolaio di contagio, anche minuscolo, viene affrontato con restrizioni tremende. Per il secondo anno consecutivo i migranti interni non potranno tornare nelle campagne a ricongiungersi con i familiari per le feste del Capodanno lunare. Questi controlli estremi in vigore da due anni offrono un effetto collaterale: il regime usa le app sanitarie per perfezionare il controllo digitale sulla popolazione e così intende «azzerare il dissenso». È sempre rischioso prendere per buona la facciata esterna dei regimi autoritari. Censura e propaganda cinesi hanno raggiunto un'efficienza tecnologica notevoli, e gli intralci al lavoro della stampa internazionale riducono le fuoriuscite delle cattive notizie. I problemi dell'economia cinese sono notevoli: non riesce a emanciparsi dalla sua dipendenza dai mercati esteri, i consumi interni soffrono per il Covid, il settore immobiliare sprofonda sotto una montagna di debiti. Il fatto che la Germania stia scivolando verso una recessione, è in parte legato alla debolezza del mercato cinese. Ma durante i Giochi la narrazione dominante farà dimenticare queste ombre».

APPELLO PER IL MYANMAR

Appello su Avvenire per la liberazione di Aung San Suu Kyi. Lo firmano Sandra Zampa e Albertina Soliani, entrambe sono state presidenti dell'Associazione parlamentare Amici della Birmania.

«Caro direttore, di fronte al popolo del Myanmar che da un anno resiste, a mani nude e con tutte le sue forze, al colpo di stato dei militari, noi ci inchiniamo. Il popolo afferma la democrazia, afferma la vita, il futuro, mentre i militari golpisti intensificano la repressione, seminano la morte, chiudono ogni prospettiva. I capi dell'Esercito del Myanmar conoscono solo il linguaggio della forza, considerano il popolo un nemico. Migliaia sono le vittime, migliaia gli arresti, la popolazione civile si rifugia nelle foreste perseguitata dai bombardamenti, dalla incontrollata pandemia di Covid, dalla fame. La vita quotidiana in Myanmar è attraversata dalla paura, dall'insicurezza, dalle violenze arbitrarie. Tutti travolti: i giovani, gli anziani, le donne, i bambini come gli adulti. Torniamo a denunciare la violazione di tutti i diritti umani universali in Myanmar. È inaccettabile quello che è accaduto e sta accadendo. La resistenza del popolo ha dato vita a un Governo di unità nazionale (Nug), con i suoi membri alla macchia, che comprende il partito di Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), la società civile, i gruppi etnici autoctoni e una rappresentanza dei Rohingya. L'unità del Paese è oggi rappresentata dalla Resistenza, che comprende anche gruppi di difesa del popolo (Pdf). È intorno alla resistenza di oggi che nascerà il futuro democratico del Myanmar. Noi sosteniamo la Resistenza del popolo del Myanmar, che ha preso nelle sue mani il proprio destino. Nella fase di transizione che necessariamente si aprirà con l'indebolimento dei militari, bisogna sostenere ogni sforzo per il dialogo interno inclusivo, la riconciliazione e la pace, la ripresa del cammino democratico. A un anno dal colpo di stato, è evidente che la strategia dei militari è fallita. Non governano il Paese, non sono riconosciuti dalla comunità internazionale. L'economia è crollata, i grandi gruppi economici e dell'energia stanno lasciando il Myanmar. Cresce il commercio delle armi, fornite soprattutto dalla Russia. Per questo chiediamo una più efficace azione politica internazionale, che comprenda l'embargo delle armi, la cessazione delle violenze, l'apertura del dialogo interno inclusivo. Chiediamo, insomma, che la comunità internazionale difenda il destino democratico del popolo birmano. E chiediamo l'impegno dell'Onu, della Ue, degli Usa, della Cina, dell'Asean, del Giappone, dell'India, dell'Australia e della Russia per favorire il ritiro dal potere dei militari, il ripristino del governo civile in Myanmar, l'apertura immediata di canali umanitari indipendenti dai militari, la difesa dei diritti umani universali. Per tutto ciò è necessaria l'immediata liberazione di Aung San Suu Kyi e dei prigionieri politici, sottoposti a processi politici privi di verità, la sospensione della pena di morte già inflitta ad alcuni di essi, la restituzione al popolo della sua sovranità. Aung San Suu Kyi è indispensabile, come sostengono alcuni Paesi dell'Asean, a cominciare dalle Filippine, e con il favore della Cina, per aprire il dialogo interno. Di fronte all'immane tragedia che sta vivendo, spesso nel silenzio internazionale, il popolo del Myanmar, le coscienze democratiche del mondo non possono tacere. Non possono tacere le religioni, la cultura, il diritto internazionale, la società civile. Nel tempo che vede nel mondo le democrazie sottoposte a grandi pressioni, gli interessi economici e militari prevalere sul cammino pacifico dei popoli, i colpi di stato militari e gli autoritarismi aprirsi le vie del potere, non possiamo e non dobbiamo rinunciare a condividere il sogno universale della libertà e della dignità umana. Noi condividiamo il sogno della democrazia del popolo del Myanmar, il suo sogno è il nostro sogno. Chiediamo al governo italiano di sostenere il popolo del Myanmar e i suoi rappresentanti, e di interrompere ogni traffico commerciale tra l'Italia e il Paese controllato oggi dai militari. Alle donne del Myanmar, che sono parte così attiva dell'opposizione al regime militare, vanno tutto il nostro sostegno e la nostra ammirazione. Esse resistono in ogni angolo della Birmania, nelle carceri, nei villaggi, nelle foreste, sulla rete. Noi siamo con loro, noi camminiamo con loro. Oggi la storia del Myanmar ha la forza della profezia: denuncia il male, annuncia cose nuove, produce cambiamento. Una profezia vissuta da un popolo intero. Una storia di passione e di risurrezione».

«#SEGUIMI», L’INCONTRO DEI GIOVANI AD APRILE

La Chiesa italiana si prepara al grande incontro dei giovani adolescenti con Papa Francesco in piazza San Pietro in programma il 18 aprile, lunedì di Pasquetta. L'incontro è intitolato «#seguimi» ed è dedicato a giovani e giovanissimi. Matteo Liut per Avvenire.

«Gli adolescenti - assieme a tutti quelli che nella comunità cristiana si spendono per loro - riportano il Papa in piazza San Pietro per vivere assieme un'esperienza in cui la presenza diventa speranza. Va letto con la filigrana del momento storico che stiamo vivendo, infatti, l'incontro di Francesco con i ragazzi che si terrà il prossimo 18 aprile, Lunedì dell'Angelo. Un evento promosso dalla Chiesa italiana con l'intento di ricordare che le conseguenze della pandemia pesano soprattutto sulle nuove generazioni e che da loro bisogna ripartire, condividendo il loro cammino. Ieri, proprio nel giorno in cui si celebrava la memoria liturgica di san Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani, patrono dei giovani, il Servizio nazionale per la pastorale giovanile ha pubblicato sul proprio sito le prime indicazioni per partecipare all'appuntamento pasquale in Vaticano. «L'incontro - spiegano gli organizzatori - avrà il suo momento clou nel dialogo tra gli adolescenti e il Pontefice, seguito da una Veglia di preghiera con l'ascolto e la meditazione del capitolo 21 del Vangelo di Giovanni». «Dopo questi mesi di vita incerta, sarà il primo ritorno di un incontro del Papa in piazza San Pietro - sottolinea da parte sua il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei - e mi sembra particolarmente bello che questo possa avvenire con i ragazzi di quella fascia d'età che molto hanno patito. Abbiamo bisogno di segni di speranza». E sulla stessa linea si pone il responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile, don Michele Falabretti: «Desideriamo incoraggiare e dare segni di speranza a chi si spende per la crescita dei ragazzi e a chi guarda alla comunità cristiana come custode di un futuro di vita che nasce dalla fede in Gesù risorto», sottolinea da Torino il sacerdote, che punta poi i riflettori sull'ampio progetto lanciato la scorsa estate dalla Chiesa italiana e dedicato proprio agli adolescenti, simbolicamente nominato «Seme divento». E quasi come una risposta allo slogan indicato per questo percorso nazionale, il titolo scelto per l'incontro con il Papa, «#seguimi», intende proprio richiamare il senso della ricerca tipica di questa età, cui fa eco il richiamo alla sequela, che appartiene al patrimonio umano e spirituale di tutta la Chiesa. Ecco perché, spiegano ancora gli organizzatori, «il pellegrinaggio degli adolescenti italiani vuole essere un'esperienza di comunione fraterna: con i compagni di viaggio, attraverso la condivisioni di piccoli e grandi bisogni quotidiani; con i coetanei che si incontreranno, per la sorpresa di una prossimità che rende presente tutta l'Italia; con la Chiesa, che è "solo" comunione, una comunione tra Terra e Cielo, tra donne e uomini testimoni della fede nel Signore risorto di tutti i tempi». Quella cui si vorrebbe dare una nuova vitalità con l'incontro di aprile, quindi, sarà una speranza 'duplice': da un lato quella che dovrebbe animare l'età adolescenziale, per sua natura aperta al futuro, e dall'altro quella che la Chiesa è chiamata a custodire e a testimoniare in ogni tempo. Una speranza 'doppia', doppiamente ferita dalla pandemia. Non a caso il logo scelto per l'iniziativa è un pesce formato da tanti cerchi azzurri disposti intorno alla croce occhio. Un'immagine appartenente alla tradizionale simbologia cristiana, da sempre icona di un annuncio, quello del Risorto, che è portatore di vita e di fiducia».

Leggi qui tutti gli articoli di martedì 1 febbraio:

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