Torniamo a Mare nostrum
Decimo anniversario a Lampedusa della strage dei migranti: il governo non c'è. Domani a Granada riunione Ue. Tragedia a Mestre. Oggi inizia il Sinodo ed arriva la Laudate Deum
La serata di ieri è stata segnata dal terribile incidente dell’autobus di linea, precipitato da un cavalcavia vicino a Mestre. Il mezzo è caduto sulla linea elettrica della ferrovia, incendiandosi. Il tragico bilancio provvisorio è di 21 morti e ci sono feriti gravi. Fra le possibili cause dell’incidente si ipotizza un malore dell’autista, morto sul colpo, che pure era considerato esperto e capace dai colleghi.
Il decimo anniversario della strage dei migranti a Lampedusa è stato un giorno di dolore e di ricordo. Perché quei primi 300 morti sono diventati più di ventimila in questi anni. Morti nostri, morti del Mediterraneo, anche se scuri di pelle, poveri, africani o asiatici, donne, bambini, minori che vorrebbero darsi qualche anno in più… è stato un giorno triste anche per l’atteggiamento dei nostri governanti. Sia quelli italiani (per la prima volta l’esecutivo ha disertato le commemorazioni sull’isola) sia quelli europei che da domani si riuniscono a Granada e che dovrebbero finalmente “superare” Dublino. «Preferiscono occuparsi di una persona sola: un giudice di Catania che ha fatto il suo lavoro», ha commentato l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, riferendosi ai nostri membri dell’esecutivo. L’ossessione di Giorgia Meloni, condivisa va detto anche dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel (intervistato oggi dal Corriere), è la lotta ai trafficanti e anche alle Ong. Ma come nota oggi Paolo Lambruschi su Avvenire: “Il traffico è fatto da pezzi corrotti di apparati degli Stati privi dei minimi requisiti di democraticità sulle rotte migratorie che l’Italia e l’Ue in questi anni con accordi di esternalizzazione delle frontiere hanno continuato a finanziare”. Il tentativo di fare della Tunisia la nuova Libia degli aguzzini di migranti per conto dell’Europa è fallita: il memorandum di Cartagine è già carta straccia. E non si capisce, come scrive anche Francesca Mannocchi sulla Stampa, perché sia stata abbandonata l’unica politica europea che ha funzionato in questi anni: quella di Mare nostrum, non a caso interpretata dalla nostra Marina militare con grande spirito di sacrificio e umanità.
Giorgia Meloni ieri ha partecipato al Festival delle Regioni a Torino, incontrando i governatori nell’aula del primo parlamento italiano. All’esterno ci sono stati scontri tra i manifestanti che protestavano per la presenza della premier e la polizia. Sul merito della spesa sanitaria e in genere regionale, Meloni è tornata a spiegare che non ci sono risorse e che bisogna muoversi con responsabilità.
Inizia proprio in questi minuti il Sinodo dei Vescovi, con la Messa celebrata da papa Francesco. Nelle risposte ai “dubia” presentati da cinque cardinali, il Papa ha messo i paletti, come si dice, della discussione sui temi più controversi. Bella la meditazione della vigilia di padre Timothy Radcliffe che riporta oggi Avvenire. Stasera, oggi è San Francesco (auguri!), Bergoglio presenta in diretta web la Laudate Deum, aggiornamento della Laudato si’, su Youtube qui: alle 20 ora di Roma, le 14 a New York, le 19 a Londra.
La sofferenza degli armeni scappati in 120 mila dal Nagorno Karabakh inquieta il mondo. Il governo di Everan ha deciso di voltare le spalle alla Russia, fino ad ora alleata, provocando l’irritazione del Cremlino. Ma, Francia a parte, anche l’Europa è in imbarazzo, visto la pesante dipendenza dal gas dell’Azerbaigian e dal rapporto con la Turchia, vero sponsor della violenza azera. Un po’ come per la Tunisia di Kais Saied o per la Libia degli aguzzini dei migranti, ancora una volta l’Europa sorvola sui diritti umani in base ai suoi inconfessabili interessi.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae la carcassa dell’autobus con 49 turisti a bordo, che ieri sera è precipitato giù da un cavalcavia di Mestre e ha preso fuoco. Il bilancio provvisorio conta 21 vittime e 20 feriti. Alcuni sono molto gravi. A bordo anche cittadini ucraini e tedeschi. Tra le prime ipotesi sulle cause un malore dell’autista.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
La tragedia dell’autobus di Mestre è in primo piano. Il Corriere della Sera annuncia: Il bus precipita: è una strage. La Repubblica è didascalica: Il pullman della morte. La Stampa tende a drammatizzare: Apocalisse Mestre. Avvenire racconta: Precipita e s’incendia, è strage sull’autobus. Il Messaggero dà la notizia: La tragedia di Mestre. Il Quotidiano Nazionale usa caratteri cubitali per scrivere sull’immagine dell’incidente: La strage. Il Domani riassume le sfide del governo: Guerra ai giudici e tagli alla sanità. Destra divisa sulle scelte di Meloni. Il Manifesto ironizza sulla polizia contro i manifestanti a Torino: Guardia medica. Il Giornale polemizza con i giornali del gruppo Gedi: Taroccano anche Mattarella. Libero torna sull’attacco ad personam alla magistrata di Catania: «Salvini vaff...». E la giudice applaude. Il Sole 24 Ore fa il punto sull’edilizia: Sconti casa, stop a 2 miliardi di crediti. Poste riapre agli acquisti del superbonus. Il Fatto resta manettaro: Forza Mafia: più difficili i sequestri e le confische. La Verità resta No Vax: Pfizer nelle scuole italiane a indottrinare gli studenti.
LA STRAGE DEL CAVALCAVIA DI MESTRE
A Mestre, ieri sera, la strage del cavalcavia: un autobus di linea precipita sulla linea ferroviaria elettrificata e prende fuoco: 21 i morti. A bordo anche turisti stranieri diretti a un campeggio, tra le vittime due bimbi. Il volo del mezzo da 15 metri d’altezza. Decine i feriti. Alessandro Belardetti per il Quotidiano Nazionale.
«L’autobus – pieno di turisti e rifugiati stranieri, tra i quali ucraini, polacchi e tedeschi, che tornavano nel campeggio – ha sfondato il guardrail, precipitando per 15 metri dal cavalcavia della bretella che da Mestre porta a Marghera e all’A4, diventando subito una trappola metallica mortale per almeno ventuno passeggeri. Il prefetto di Venezia, Michele di Bari, in serata ha comunicato un bilancio provvisorio della tragedia: «Già accertati 21 morti, ma temiamo siano di più, 12 feriti e alcuni dispersi, tra i 4 e i 5». Più tardi si è appreso che tra i deceduti ci sono anche due bambini, mentre che, tra i feriti, 5 sono in gravi condizioni. Una piccola di 4 anni, in particolare, ricoverata a Padova, sarebbe in condizioni disperate. «Il bus era nuovo e ibrido - ha detto il prefetto – proveniva da Mestre ed era diretto a Marghera, si è appoggiato al guardrail di destra ed è precipitato. Quindi ha preso fuoco». L’ipotesi dell’incendio precedente alla caduta del pullman sembra da escludere, ma sono in corso accertamenti. Pare che invece l’impatto coi cavi elettrici in prossimità della sottostante ferrovia abbia innescato l’incendio del mezzo (della società La Linea e noleggiato dal camping), che ha smesso di bruciare solo all’arrivo dei pompieri. Nell’area erano operativi centinaia di vigili del fuoco. Nel primo tratto in discesa e rettilineo il pullman ha sfondato il parapetto ed è caduto giù finendo tra un magazzino e i binari della stazione di Mestre, tra le fiamme. Per questo, sembra possibile che vi sia stato un malore da parte dell’autista. Alcune delle vittime recuperate sono state trovate carbonizzate, altri corpi sono stati estratti dai rottami del bus piegato su se stesso. L’ultimo cadavere tirato fuori dal mezzo, dopo due ore dallo schianto, è stato quello dell’autista. La linea ferroviaria tra Venezia e Mestre è stata sospesa per ore. L’Usl 3 di Venezia ha attivato il protocollo delle grandi emergenze, mettendo in allerta tutti i pronto soccorso della zona con il richiamo del personale. Nelle prime fasi dei soccorsi una decina di superstiti sono stati trasferiti a Treviso e Padova. «Una scena apocalittica, non ci sono parole», ha scritto su Facebook il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, che poi è arrivato nel luogo della strage. Sul luogo almeno 50 ambulanze. Dopo le 21,30 il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha telefonato al sindaco di Venezia per esprimere il cordoglio. «È appena caduto un autobus da un ponte, è appena caduto un autobus da un ponte, mamma mia, è un disastro guarda che roba», è la prima reazione di una donna che subito dopo l’incidente ha ripreso col suo telefonino le immagini di quanto avveniva. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, esprime «il più profondo cordoglio per il grave incidente avvenuto a Mestre: il pensiero va alle vittime e ai loro famigliari e amici. Sono in stretto contatto con il sindaco Brugnaro e con il ministro Piantedosi per seguire le notizie su questa tragedia».
LAMPEDUSA, IL GOVERNO NON PARTECIPA AL RICORDO
Cerimonia nell’isola dieci anni dopo la strage. Per la prima volta il governo non partecipa. Giorgia Meloni in una nota sostiene: il nostro impegno per spezzare l’orrendo business della tratta degli esseri umani continuerà incessante, anche nel nome di tutte le vittime che hanno perso la vita in mare. L’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice polemizza: “L’esecutivo? Si è occupato solo di un giudice”. L’Onu ricorda: salvare le persone è un obbligo legale. La cronaca su Avvenire è di Daniela Fassini.
«Basta stragi, mai più morti in mare. Lo ripetono come un mantra studenti, cittadini, associazioni del terzo settore e rappresentanti delle istituzioni, dieci anni dopo la grande strage di Lampedusa. «Quando una barca piena di oltre 500 donne, uomini e bambini affondò al largo dell’isola italiana di Lampedusa 10 anni fa, il mondo disse mai più. Oggi, nel decimo anniversario di quel naufragio, non abbiamo mantenuto questo impegno; Il 2023 ha registrato il primo trimestre più mortale dal 2017 e al 2 ottobre, 2.517 persone erano considerate morte o disperse solo quest’anno nel Mediterraneo. Raramente passa una settimana senza storie di tragedie che sono prevenibili e la necessità di fornire una risposta significativa non può più essere rinviata» affermano la coordinatrice della Rete delle Nazioni Unite sulle migrazioni, Amy E. Pope, e l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi. «Salvare vite umane non è un’opzione. È un obbligo legale. È un imperativo morale. Sollecitiamo ulteriori sforzi - aggiungono - per rafforzare la cooperazione nelle operazioni coordinate di ricerca e salvataggio». In dieci anni, però, nulla è cambiato. Perché si continua a morire. “Dieci anni di indifferenza”, è scritto in alcuni striscioni, ieri mattina, lungo la marcia che portava alla Porta d’Europa dove sono state ricordate le 38 vittime di quel naufragio, Due bambine hanno attraversato la Porta affacciata sul Mediterraneo e sull’Africa, con dei fiori in mano da gettare in acqua per le loro sorelline: sono le figlie di un medico sopravvissuto al naufragio avvenuto una settimana dopo quel 3 ottobre del 2013 e nel quale perse le sue quattro figlie. «Dopo dieci anni non è cambiato nulla ed è calata una coltre di indifferenza. Lo dimostra anche la circostanza che oggi, per la prima volta, a questa Giornata nazionale della memoria, non ci sia nessuno del governo» ha affermato l’ex sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini, alla guida del centro isolano nei giorni del naufragio. Erano le 3.15 di notte, il 3 ottobre di dieci anni fa, quando a poche miglia dalla costa dell’Isola dei Conigli un’imbarcazione con 500 persone a bordo prese fuoco e si capovolse, inabissandosi con bambini, donne, uomini, mettendo la parola fine alla traversata nel Mediterraneo e alla loro speranza di una vita migliore. La tragedia più grave della storia del nostro mare contò alla fine 368 vittime. In seguito al naufragio di Lampedusa, il governo italiano, guidato dall’allora presidente del consiglio Enrico Letta, decise di rafforzare il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando l’Operazione Mare nostrum, una missione militare ed umanitaria la cui finalità è di prestare soccorso alle persone prima che possano ripetersi altri tragici eventi nel Mediterraneo. L’operazione Mare Nostrum dura però solo un anno. L’allora ex ministro degli Interni, Angelino Alfano, incassa quello che è a suo dire un successo: l’operazione Mare Nostrum cessa di vivere, per lasciare posto a un’operazione europea, Frontex plus a partire da Novembre 2014. Col passare degli anni, però e il cambio al vertice dei governi che affacciano sul Mediterraneo, l’attività di ricerca e soccorso si traduce principalmente in controllo delle frontiere esterne. Non esiste cioè un sistema (alla pari delle navi Ong che operano nel Mediterraneo) uno strumento comune per salvare vite umane. Spetta alla buona volontà della Guardia costiera di turno. E intanto le attività delle navi in capo alle organizzazioni non governative vengono criminalizzate e di volta in volta stoppate. L’Italia e l’Europa tornano a costruire “il grande muro” nel Mediterraneo per respingere i migranti, fino al naufragio di Steccato di Cutro. Dopo dieci anni, il 15 aprile 2023, la seconda altra grande tragedia di Cutro con quasi 100 morti. Ma le celebrazioni di quest’anno registrano anche, per la prima volta, la grane assenza del governo. Solo a metà pomeriggio, ieri, la breve nota di Palazzo Chigi. «L’impegno del Governo italiano per spezzare l’orrendo business della tratta degli esseri umani continuerà incessante, anche nel nome di tutte le vittime che hanno perso la vita in mare» ha dichiarato la premier Giorgia Meloni ricordando la strage dei migranti. «Il dolore non è per il ricordo, ancora vivo e inconsolabile, di quei 368 fratelli, ma per tutto ciò che non siamo stati capaci di fare per salvare gli oltre 25.000 fratelli che da quel giorno ad oggi sono annegati in questo mare che si è fatto di pietra: un mare che si è fatto muro anziché ponte tra le sponde, che si è fatto cimitero di vite anziché incontro tra le vite» sottolinea l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice che punta il dito anche contro l’assenza «dei rappresentati del Governo» che «anziché essere a Lampedusa a occuparsi del destino di migliaia di persone » nel cuore del Mediterraneo, «preferiscono occuparsi di una persona sola: un giudice di Catania che ha fatto il suo lavoro».
IL DOLORE PER LE VITE (SPEZZATE) DEGLI ALTRI
Giansandro Merli per il Manifesto racconta la giornata di commemorazione dall’isola, soprattutto dal punto di vista dei parenti delle vittime.
«Si può provare dolore per delle persone mai viste, degli estranei, degli stranieri? A Lampedusa sembra di sì. Alle 3.15 in piazza Piave una piccola folla circonda il memoriale «Nuova speranza», lo scheletro di una barca avvolto da una spirale. Ci sono incisi i nomi delle 368 vittime del naufragio del 3 ottobre, avvenuto esattamente dieci anni prima. Gli sguardi sono calamitati da quelle parole che stanno al posto di chi non ce l’ha fatta, di chi sarebbe potuto essere qui. Il silenzio è rotto dai rintocchi delle campane, il buio dalla luce arancione di piccole candele. I nomi diventano suoni sulle note di La Cura di Franco Battiato. Il pescatore Vito Fiorino, che per primo ha sentito le urla dei naufraghi e ne ha soccorsi 47, ricorda quei momenti terribili, parla del dolore di non essere riuscito a salvare tutti. «Siamo rimasti in mare per molto tempo, tanto tempo, troppo tempo», cantano alcuni ragazzi mentre sullo sfondo suona una versione lenta di Nothing else matters, scritta dai Metallica. Poi torna il silenzio e nel silenzio si sente il rumore di chi tira con il naso, di chi se lo soffia. Le lacrime rigano i volti. Ognuno ha in mano un lumino da depositare ai piedi del monumento, per dargli luce. Su un lato, appoggiati al muro, ci sono i sopravvissuti alla strage e i familiari delle vittime. Eritrei, giovani. Guardano il vuoto con gli occhi gonfi. Singhiozzano. La folla si muove magneticamente verso di loro. Li circonda. Li abbraccia. Piange chi dieci anni fa lottava tra le onde intorno al peschereccio. Piange chi li ha sentiti chiedere aiuto. Piangono gli studenti arrivati da vari paesi europei che quel giorno vivevano come ogni giorno. Si versano lacrime da un lato e dall’altro delle telecamere. Gli stomaci si annodano. A turno si abbraccia chi ha sofferto il naufragio in prima persona. Ragazze e ragazzi stringono forte i sopravvissuti. Passano loro le mani dietro la nuca. Siedono vicini, stretti, per offrire o chiedere una spalla su cui disperarsi insieme. Non si erano mai visti prima. Qualche ora dopo il sole batte già forte sul lembo più meridionale d’Italia. La piccola piazza Castello è gremita. Tanti indossano le magliette del Comitato 3 ottobre: blu con la scritta dietro «10 anni dindifferenza», tutto unito; nere con scritto davanti «Protect people not borders». «Abbiamo fatto una cosa impossibile», dice il presidente Tareke Brhane. In questi giorni non si è fermato un attimo. Presente a tutte le iniziative, sempre pronto a offrire una mano o rispondere a una domanda. «Chiediamo di dare un nome e un cognome a tutte le vittime. Chiediamo di applicare a tutti i migranti la direttiva Ue 55, come fatto per i profughi ucraini. Resteremo qui fino all’ultimo morto in mare», continua. In prima fila le autorità. Tra gli altri: il sindaco di Lampedusa Filippo Mannino, l’arcivescovo di Agrigento monsignor Alessandro Damiano, il prefetto della città siciliana Filippo Romano. L’unica rappresentante nazionale delle istituzioni è Maria Domenica Castellone (5S), vicepresidente del Senato. Il governo non c’è e non stupisce. Da lontano la premier Giorgia Meloni dice che la lotta ai trafficanti è in nome dei morti in mare, il Pd risponde chiedendo una Mare Nostrum europea. «L’accoglienza di chi fugge dai conflitti o dalla fame non è solo un dovere etico, ma anche un obbligo giuridico», afferma Castellone. Lo fa leggendo l’articolo 10 della Costituzione sul diritto di asilo. Sarebbe ordinaria amministrazione se proprio quel passaggio della Carta non fosse il vero obiettivo del fuoco di fila governativo partito dopo le sentenze della giudice Iolanda Apostolico che ha liberato tre richiedenti asilo trattenuti a Modica. Il corteo si muove verso la Porta d’Europa, il monumento a chi non è riuscito ad attraversare il mare. In aria sventolano i cartelli con date e morti di altri naufragi: 29-5-2016, 245 vittime; 23-08-2020, 20 vittime; 18-03-2021, 66 vittime; e via così. «Le testimonianze dei sopravvissuti ci hanno trasmesso un grande dolore. Tutti dovrebbero ascoltarli», dice Francesco, 17 anni. È venuto sull’isola da La Spezia, insieme a dieci compagni dell’istituto superiore Capellini-Sauro. Gaia ha la stessa età e frequenta il liceo artistico Cardarelli nel capoluogo ligure: «La cosa che mi colpisce di più è l’indifferenza rimasta in questi dieci anni». Sfilano anche alcuni abitanti di Lampedusa, ma non sono tantissimi. Due signore vestite di nero, con la borsa scura e gli occhiali da sole si tengono sotto braccio. Non hanno molta voglia di parlare. «Viviamo questo dolore in silenzio», dicono. Ricordano tutto di quel giorno. Poi una aggiunge: «A me fa più male perché anche mio marito è naufragato. Lo hanno ritrovato morto il 26 agosto di tre anni fa». Lei si chiama Maria Flavia Pane Bono. Sotto la Porta d’Europa parlano l’arcivescovo di Agrigento e l’imam di Catania. Il sindaco Mannino punta il dito contro il governo: «Mancano politiche migratorie serie, un cambio di passo. Così Lampedusa rimane qui a fare quello che può: salvare vite. Mentre la politica nazionale ci guarda e non fa niente». Due sopravvissuti, diventati cittadini svedesi, ricordano: «Nessuno rischia la vita se non c’è un motivo forte a spingerlo». Poi le persone si muovono verso il mare. Silenziosamente. Guardano al punto del naufragio. Lanciano in acqua dei fiori gialli. Il nodo allo stomaco ritorna. Sui volti scendono nuove lacrime. Si sente ancora singhiozzare. Sopravvissuti, familiari, attivisti, studenti si stringono a vicenda. Gli altri restano seduti sugli scogli, con lo sguardo e i pensieri persi nel vuoto. Poco più tardi l’ultimo momento: a bordo di motovedette della guardia costiera e di finanza, oltre ad alcuni mezzi privati, si raggiunge il luogo esatto dove il barcone è affondato, per lanciare un’ultima corona di fiori. Sembra di poter toccare la costa allungando la mano. Si distinguono i colori delle case. Dopo un viaggio di migliaia di chilometri le vite di 368 persone si sono infrante a poche centinaia di metri da un porto sicuro. Intanto in direzione contraria arriva un’imbarcazione della guardia costiera: sul ponte ha una ventina di naufraghi. Altri quattro barchini giungono nel corso della giornata. In serata, mentre si attendono nuovi arrivi, all’interno dell’hotspot di Contrada Imbriacola ci sono circa 300 persone, una trentina i minori non accompagnati. Almeno a loro è andata bene».
LAMPEDUSA, DIECI ANNI DOPO NULLA È CAMBIATO
Editoriale di Paolo Lambruschi per Avvenire: dieci anni dopo siamo fermi allo stesso punto.
«Dieci anni dopo la strage di Lampedusa siamo fermi allo stesso punto con 28mila morti in mare in più. A crescere è stata solo l’indifferenza. Nell’ottobre 2013 il mondo almeno si commosse davanti alle 368 bare, ai racconti dei superstiti e alla solidarietà dei lampedusani. Un naufragio spartiacque di un’epoca in veloce cambiamento che forse solo ora iniziamo a comprendere, quella della “Terza guerra mondiale a pezzi”. La memoria dei morti e la promessa che tragedie simili non si dovessero più ripetere sono state tradite dalla politica italiana ed europea. Il cardinale Zuppi ha recentemente sottolineato che «l’errore – non da oggi – è stato politicizzare il fenomeno migratorio, anche condizionati dal consenso e dalle paure». La questione, invece, dovrebbe essere trattata «come una grande questione nazionale, che richiede la cooperazione e il contribuito di tutte le forze politiche. Come ha detto il Papa, siamo di fronte a un bivio: o scegliamo la cultura della fraternità o la cultura dell’indifferenza». E noi abbiamo scelto la seconda che, però, nei fatti non ha fermato né gli sbarchi né le tragedie in mare. Da dove si riparte, allora? Nessuno ha soluzioni in tasca, ma possiamo almeno indicare alcuni punti fermi. Anzitutto è inutile barricarsi dietro una narrazione emergenziale. Questa non è un’emergenza, ma un fenomeno strutturale dal 2013, come su queste colonne ripetiamo da mesi. L’Oim, ente dell’Onu, conferma che i numeri di quest’anno, circa 130mila persone sbarcate, sono quelli del 2015-2016. Allora vennero gestiti perché le persone venivano salvate in mare e portate nei porti siciliani e solo l’8 per cento arrivava a Lampedusa. Quest’anno, invece, con un sistema di soccorso diverso, chi parte dalla Libia e dalla Tunisia arriva direttamente sull’isola. L’emergenza operativa e logistica riguarda dunque Lampedusa, mentre l’emergenza umanitaria è il numero di morti in mare. Dopo il 3 ottobre 2013 venne “Mare nostrum”, operazione di salvataggio dello Stato italiano affondata un anno dopo dall’Unione Europea. Le navi di soccorso delle Ong che hanno colmato il vuoto hanno cominciato a essere ostacolate nel 2016 e il salvataggio in mare, che prima era una priorità assoluta anche per chi era contrario ai flussi migratori, è stato messo in discussione. È stato ampiamente dimostrato che le Ong non sono un fattore di attrazione, allora è tempo di tornare a difendere la sacralità della vita con qualunque mezzo. La presunta emergenza non può quindi giustificare preoccupanti tentativi di sospensione dei diritti civili nei confronti dei profughi in tutta l’Unione. E nemmeno il tentativo di trascinare in uno scontro politico un magistrato che emette una sentenza avversa a un decreto governativo. E se è lodevole iniziare finalmente una seria lotta ai trafficanti di esseri umani, come va ripetendo e ha scritto anche ieri la premier Meloni sui social ricordando la tragedia, è inutile illudersi che la questione si esaurisca con una raffica di arresti. Non sono i trafficanti a causare le partenze, sono solo l’anello di una lucrosa catena criminale. Difficile pensare che flussi di migliaia di persone possano varcare confini e prendere il mare senza il supporto e la complicità di uomini in divisa. Il traffico è fatto da pezzi corrotti di apparati degli Stati privi dei minimi requisiti di democraticità sulle rotte migratorie che l’Italia e l’Ue in questi anni con accordi di esternalizzazione delle frontiere hanno continuato a finanziare. Forse è più opportuno investire sulla politica e sulla lotta alle ragioni che portano alle migrazioni. Non si può chiudere la porta d’Europa di Lampedusa e il Mediterraneo, né è possibile accogliere numeri soverchianti di persone. Perciò occorre, per tornare alle parole del cardinale Zuppi, «una concertazione tra forze politiche e sociali indispensabile per creare un sistema di accoglienza che sia tale, non opportunistico, non solo di sicurezza perché la vera sfida è governare un fenomeno di dimensioni epocali e renderlo un’opportunità». Perché, anche se a molti il concetto non piace, tale potrebbe essere».
SMARRITO LO SPIRITO DI MARE NOSTRUM
Dalla strage di dieci anni fa i Paesi europei non hanno saputo fare altro che alzare barriere e commemorare i morti. Lo spirito di Mare Nostrum è andato smarrito. Francesca Mannocchi sulla Stampa.
«Dieci anni fa, oggi, Lampedusa andava alla conta dei morti. 368 su circa 400 partiti. Quella strage ha consegnato alla nostra memoria l'immagine lugubre delle bare nell'hangar dell'aeroporto dell'isola, ma c'è stato un altro momento che racconta il vissuto di quelle ore con altrettanta forza. Nei giorni successivi alla strage, le bare vennero trasferite al porto per essere spostate su un traghetto che le avrebbe condotte in Sicilia. Sul molo i sopravvissuti gridavano il loro strazio. Una donna, sostenuta per le braccia da due connazionali eritrei, si buttava su un feretro senza essere certa che fosse di suo marito, un gesto istintivo per cercare di trattenere un corpo, uno qualunque. Un'altra, a poca distanza, si colpiva gli occhi con le mani, come a punirsi di vedere ancora, o di aver visto troppo. L'addetto alla gru che spostava le bare girava le corde e tirava su, uno dopo l'altro, quei morti. Il rumore meccanico, unito alle grida dei sopravvissuti, era una litania che riempiva l'aria, rendendo impraticabile ogni conforto. Poi, d'un tratto, al molo c'è stato silenzio. La gru doveva spostare le bare bianche, le più piccole, quelle dei bambini. Quando si è alzata la prima, l'addetto ha interrotto il movimento delle corde e l'ha tenuta ferma in aria per alcuni lunghissimi secondi. Era un monito e insieme un'esortazione. Guardate tutti, e non dimenticate. Guardate tutti e fate in modo che non si ripeta. Avevamo visto quei morti e non potevamo non vedere le nostre responsabilità. Dopo poche settimane l'Italia si fece carico dell'operazione navale Mare Nostrum. Un anno di salvataggi, troppo in fretta sostituiti da Triton, finanziata dall'agenzia europea Frontex. Missioni poi velocemente tradotte in politiche di contenimento, protezione dei confini, Memorandum d'Intesa mai passati dal Parlamento e costantemente rinnovati. La paura, l'incapacità dell'accoglienza, la mancata lungimiranza ha generato controlli, freni, muri. Ha generato rifiuto e stigma. Denaro in cambio di protezione dei confini, agevolazioni e affari in cambio dell'esternalizzazione dei limiti territoriali e, insieme, esternalizzazione dello sguardo e delle coscienze. Dieci anni fa, di fronte allo scandalo di quelle morti, il nostro Paese si assunse la responsabilità non solo di salvare, ma di ridare un nome, una storia e una dignità ai corpi che il mare restituiva. Ai taccuini ritrovati su cadaveri tumefatti e gonfi, ai fagottini pieni di terra legati alle magliette dai ragazzini che volevano portare via qualcosa che ricordasse casa, alle pagelle e ai documenti di laurea, imbustati nella plastica prima di scappare, come prova di essere stati qualcosa, e qualcuno. Di poterlo essere ancora, in un luogo che sarebbe diventato d'esilio e di rifugio. Identificare i morti significava pensare ai vivi, dare loro un lasciapassare. Significava avvicinarli. Rendere le loro vite prossime alle nostre, era una scelta civile, profondamente politica. Dare un nome, un'identità, significava riconoscere che quelle vite erano state, e che - non essendo più - si facevano ammonimento, richiamavano un nostro coinvolgimento diretto nel loro destino. Dare loro un nome, significava liberarli dalla categoria dell'astrazione. Dal 2014 sono morte nel Mediterraneo centrale 28 mila persone. A oggi solo uno su quattro viene identificato. Restano vite senza identità e senza voce. Lo spirito di responsabilità che aveva animato Mare Nostrum oggi è andato perso. In dieci anni è diventato più semplice ignorare il buon senso e ascoltare chi fomenta l'odio. Più semplice non considerare le ragioni di chi parte che immaginare soluzioni di medio, lungo termine per gestire il fenomeno migratorio che non ha solo dimostrato di non poter essere arginato da corrispettivi più o meno generosi pagati a regimi più o meno autoritari, ma che sempre più si intreccia agli effetti catastrofici della crisi climatica. L'Europa, dopo l'operazione Mare Nostrum, non è stata all'altezza della sfida dei tempi, è diventato il continente che ha fatto del pattugliamento militare per procura la principale - spesso unica - espressione delle politiche migratorie. È stato così in Gran Bretagna, dove il governo di Rishi Sunak ha pagato 500 milioni di sterline alla polizia francese per frenare gli attraversamenti della Manica, la Gran Bretagna dei conservatori che vedono nella deportazione in Ruanda la soluzione per i richiedenti asilo, distruggendo in un colpo solo il rispetto dei diritti umani e la responsabilità morale e legale di accogliere chi fugge da conflitti e persecuzioni. È stato così in Grecia, dove nel 2015 dopo la crisi balcanica vennero istituiti gli hotspot nelle isole dell'Egeo per snellire le pratiche di richieste d'asilo che, invece si sono trasformati in prigioni a cielo aperto in cui migliaia di persone rischiano di essere confinate per anni in condizioni invivibili e - in caso di rigetto della domanda d'asilo - rispediti in Turchia (altro Paese lautamente remunerato per controllare le partenze). È stato così da noi, che dal fallimento del Memorandum d'Intesa con la Libia del 2017 non abbiamo imparato nulla, e pensiamo oggi di replicare il medesimo schema con la Tunisia dell'autocrate Kais Saied. La conseguenza di queste politiche, negli anni, è stata duplice. Da un lato, trasformare la protezione dei confini in un affare economico ha indebolito la capacità negoziale dei governi conferendo ai partner degli accordi una leva ricattatoria destinata a divenire più netta all'aumentare dei flussi migratori. Se non volete altri arrivi, è stato sempre il sottotesto, pagate di più, fornite più mezzi, riconoscete come interlocutori anche attori politici, militari e paramilitari di dubbia natura. Dall'altro lato la conseguenza è stata tollerare l'esistenza di luoghi disumani, consegnare a stati autoritari la protezione dei confini ha generato una giungla di campi profughi e centri di raccolta, transito che sono diventati teatro di torture e violenze. L'incapacità di gestire l'accoglienza si è tradotta nella costruzione e gestione di centri di detenzione, «spazi di stoccaggio», luoghi degradanti, di violazione sistematica dei diritti umani. La spinta umanitaria di Mare Nostrum, la scossa di coscienza del 2013 è diventato un codice, una prassi: soldi in cambio di controllo delle partenze, soldi in cambio di rimpatri. Soldi per non mostrare gli abusi, per non mostrare i volti delle vite senza nome. Da dieci anni le vite dei migranti sono state configurate come vite di invasori o come morti da commemorare. È stato così anche ieri, a Lampedusa. Nello spazio vuoto di una politica incapace di gestire il flusso di milioni di vite in movimento, da anni si celebra e si onora non la vita di chi prova a salvarsi ma il ricordo di chi non ce l'ha fatta. E quel ricordo diviene l'unica forma dell'eticità dello Stato. Scrive Daniele Giglioli nel suo «Critica della vittima» che il rischio delle celebrazioni è isolare gli eventi dalla catena del loro accadere, rendere valori gli eventi invece di spiegarli come fatti, invalidando in tal modo il proposito di elevarli a monito. «Rimpicciolite a ciò che gli è stato fatto - scrive Giglioli sulle vittime - esse hanno lacrime ma non hanno ragioni». Secondo i dati delle Nazioni Unite, nel 2022, 103 milioni di persone sono state costrette a lasciare il luogo in cui vivevano, 330 mila tra loro hanno provato a entrare in Europa, mettendo a rischio la loro vita. È il numero più alto dalla crisi balcanica del 2015. Lo spirito di Mare Nostrum è andato smarrito, come il monito della bara bianca sospesa nel porto di Lampedusa. L'Europa ha ancora tutto da imparare, e per farlo deve gestire oltre ai flussi migratori, il valore e l'insegnamento che consegna la memoria degli eventi, affinché ciò che è accaduto non accada di nuovo, perché, come scrive, ancora Giglioli: «Non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo».
NORDIO IMPUGNA LA SENTENZA DI CATANIA
Felice Manti sul Giornale racconta che il Guardasigilli Carlo Nordio impugnerà la sentenza della giudice di Catania Iolanda Apostolico.
«Nel decimo anniversario della strage di Lampedusa, con 386 morti in mare, la sentenza svuota Cpr spacca il Csm e amplifica lo scontro tra politica e magistratura. Dentro le toghe si consuma un dissidio «politico» legato alla giudice di Catania Iolanda Apostolico, che non ha convalidato il trattenimento nel Centro di Pozzallo di tre migranti, previsto dal cosiddetto decreto Cutro del governo. Un provvedimento sospetto per la tempistica, maligna una fonte al Giornale, quasi come se fossero state individuate ben prima del ricorso del tunisino le criticità del testo rispetto alle recenti normative Ue e della Cassazione sull’obbligo di una «garanzia sanitaria» di 5mila euro per eludere il fermo temporaneo nei Cpr. Sarà. La richiesta al Csm di una pratica a tutela, in risposta alla «grave delegittimazione professionale» contro la Apostolico, anticipata l’altra sera via Fatto quotidiano e poi sottoposta agli altri consiglieri, è già stata depositata al Comitato di presidenza: a firmarla tutti i 13 togati di sinistra, non i consiglieri di Magistratura indipendente, la corrente moderata. Oltre agli indipendenti Antonio Mirenda e Roberto Fontana, che definisce «pericolosissimo» additare un magistrato come «nemico della sicurezza o del governo», sono i togati di Area, Unicost e Md a puntare il dito contro la premier Giorgia Meloni, che intanto si chiede: «Ho il diritto a essere contrariata se viene disapplicata una legge del governo?». Per l’esecutivo infatti il verdetto della Apostolico sarebbe sostanzialmente figlio della sua vicinanza a posizioni di estrema sinistra (il compagno, dipendente del Tribunale di Catania, è un dirigente di Potere al popolo), desunta da alcuni like sui social network a post contro Matteo Salvini e le politiche migratorie del primo governo di Giuseppe Conte. Like sospettosamente spariti dopo la sentenza, che peraltro l’esecutivo ha intenzione di impugnare. «L’ho già letta e credo che ci siano fondate ragioni per fare ricorso in Cassazione di concerto con il ministero dell’Interno», ribadisce il ministro della Giustizia Carlo Nordio. La Apostolico ufficialmente non parla, chiusa nel suo ufficio da cui sono stati fatti allontanare alcuni cronisti. «Apprezzo i giudici che parlano con le sentenze non politicizzate - è la critica di Matteo Salvini - e non con le interviste su Repubblica», quotidiano che ieri riportava alcuni virgolettati probabilmente «rubati» alla Apostolico. «Pensare che un like di 5 anni fa dimostri che l’interpretazione è ideologica è macchiettistico», attacca il segretario dell’Anm Giuseppe Santalucia, preoccupato che la Meloni sostenga la rappresentazione «fuorviante e falsa di un magistrato che decide perché politicamente orientato», mentre Maurizio Gasparri (Forza Italia) è a sua volta «sorpreso» dalla protervia con cui l’Anm invoca il bavaglio al premier. Non hanno firmato l’iniziativa i sette consiglieri di Magistratura indipendente, e i motivi sono molteplici. Non è certo in discussione la necessità di difendere l’autonomia della Apostolico, tanto che in una nota Mi definisce la sentenza «provvedimento giurisdizionale diffusamente motivato» e «spiacevole» il processo alle intenzioni «in base ai like invece che sul merito delle motivazioni». È possibile che dietro la scelta di Mi di chiamarsi fuori dalla pratica a tutela ci siano diverse motivazioni, anche formali. È chiaro che una richiesta firmata da tutti i togati metterebbe in imbarazzo il Csm e ne condizionerebbe il plenum. Sarà la Prima commissione del Csm, presieduta dal laico di Forza Italia Enrico Aimi, a stabilire se effettivamente le critiche del centrodestra rappresentano quei «comportamenti lesivi del prestigio e dell’indipendenza» della Apostolico. Nella commissione ci sono Eligio Paolini (Mi), Michele Papa (M5s) Domenica Miele (Md), Michele Forziati (Unicost) e Mariafrancesca Abenavoli di Area. Plausibile pensare a un verdetto di almeno 4 voti favorevoli all’istruttoria, più difficile l’apertura della pratica perché serve la metà più uno dei consiglieri. Certo, sulla possibile influenzabilità ideologica di cui la Apostolico sarebbe vittima, Mi è chiara: «La militanza politica non ci appartiene, il magistrato deve sia essere, sia apparire indipendente», dice ancora la nota. Spetta al Csm capire come declinarlo sui social».
MICHEL: LE ONG DEVONO RISPETTARE LE REGOLE
Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel parla a un gruppo di media alla vigilia del vertice di Granada. Fra di loro il Corriere della Sera, ecco il resoconto di Francesca Basso da Bruxelles.
«Lo Stato di diritto vale per tutti, anche per le Ong. Alcune fanno un ottimo lavoro, ad altre bisogna chiedere se agiscono in linea con lo Stato di diritto». Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel parla a un gruppo di media, tra cui il Corriere , a pochi giorni dal vertice informale che si terrà venerdì a Granada e che sarà preceduto dalla Comunità politica europea. Un summit che si preannuncia complicato.
Cosa ci si deve aspettare sulla migrazione?
«Sarà probabilmente la parte più difficile del summit, per alcune personalità politiche e gruppi politici è un dibattito ideologico, ma abbiamo gli strumenti per affrontare insieme questa sfida».
Ci saranno progressi sul Patto per la migrazione?
«Ci sono due dimensioni. Quella interna, su cui è in corso il lavoro per arrivare a un accordo tra i Ventisette sul Patto per la migrazione e l’asilo. Aspettiamo di vedere quali decisioni prenderanno gli Stati. C’è poi la dimensione esterna, su cui si sta concentrando il Consiglio europeo».
Su cosa?
«Vediamo alcuni elementi pragmatici convergenti. In un formato ridotto qualche giorno fa a Malta abbiamo avuto un’ottima discussione (la riunione con i 9 Paesi Ue che si affacciano sul Mediterraneo, ndr). In primo luogo, lottiamo contro i trafficanti e per questo abbiamo bisogno di una maggiore cooperazione a tutti i livelli Ue, tra i Paesi Ue e con i Paesi terzi. Serve un approccio olistico. In un anno abbiamo assistito a un enorme aumento dei migranti irregolari provenienti dall’Africa occidentale, Burkina Faso, Senegal, Costa d’Avorio, transitano talvolta attraverso la Nigeria, la Libia e la Tunisia prima di arrivare in Ue. Ma la Tunisia ha accordi per la liberalizzazione dei visti con questi Stati. Questa è una questione governativa che va affrontata in cooperazione con i Paesi terzi. C’è poi la questione delle Ong nel Mediterraneo: c’è un dibattito ideologico, facciamo in modo che diventi più pragmatico. Lo Stato di diritto vale per tutti, anche per le Ong. Alcune fanno un ottimo lavoro, ad altre bisogna chiedere se agiscono in linea con lo Stato di diritto. Non permettiamo ai trafficanti di decidere chi è autorizzato a venire nell’Ue. Solo le autorità hanno la legittimità democratica di decidere in linea con le convenzioni e il diritto internazionali. Infine dobbiamo cooperare con i Paesi terzi per aprire canali legali di ingresso».
La Tunisia ha rifiutato gli aiuti Ue. Il Memorandum è stato un errore?
«È troppo presto per giudicare. Abbiamo urgente bisogno di negoziare la migrazione con i Paesi terzi.
Gli Stati membri hanno sostenuto l’accordo con la Tunisia in linea di principio. Ma volevano sapere cosa dovevano fare, cosa che capisco perfettamente. Il Consiglio dovrebbe essere coinvolto in modo che gli Stati membri possano garantire il giusto equilibrio tra i nostri valori e i nostri interessi. E ci sono domande non solo dai Paesi dell’Ue. Le Nazioni Unite hanno scritto due lettere alla Commissione europea e al Servizio europeo per l’azione esterna. Volker Türk, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, critica il fatto che l’accordo non contenga praticamente alcuna disposizione per la protezione dei diritti dei migranti e dei rifugiati. Il presidente della Commissione dell’Unione africana ci ha anche detto molto chiaramente che non apprezzano il modo in cui lavoriamo con la Tunisia. Dobbiamo tenerne conto, anche se l’accordo con la Tunisia era certamente animato da buone intenzioni».
A Granada parlerete di allargamento. Crede ancora nella data del 2030?
«Granada è un punto di partenza. C’è una maggiore comprensione della necessità di riformare l’Ue e accelerare gli sforzi per garantire che l’allargamento non solo assicuri un’Europa più grande, ma anche più forte, efficiente e influente. Ho posto tre domande: Cosa vogliamo fare insieme? Priorità e politiche. Come decidiamo insieme? E come finanziamo il processo? Le tre questioni sono collegate. Non bisogna avere troppa paura, perché la ricostruzione dell’Ucraina sarà sostenuta non solo dall’Ue ma anche da altri partner. L’ingresso è un processo basato sul merito. La data è un incoraggiamento ad accelerare gli sforzi».
Le dichiarazioni di Robert Fico sullo stop agli aiuti all’Ucraina vi preoccupano?
«C’era lo stesso sospetto nei confronti dell’Italia prima delle elezioni, ma vediamo che c’è una dinamica di cooperazione nel Consiglio europeo effettiva e funzionante. Lavoreremo con il governo slovacco e terremo conto delle sue preoccupazioni e aspettative come facciamo con gli altri governi. Le decisioni prese in un anno e mezzo hanno mostrato l’unità europea».
Cosa si aspetta l’Ue da Erdogan? È stato invitato alla Comunità politica europea.
«Vogliamo una relazione più stabile e prevedibile con la Turchia. Riconosciamo il ruolo che gioca nella regione, in Siria, Libia, nel Mar Nero. A luglio ha aiutato a sbloccare l’allargamento della Nato insieme ad altri. Dobbiamo concentrarci su poche priorità: la cooperazione economica, l’unione delle dogane. In parallelo dobbiamo rilanciare il processo per la riunificazione di Cipro».
L’ARMENIA VOLTA LE SPALLE A MOSCA
Erevan prova a reagire all’esodo forzato dal Nagorno Karabakh e lo fa attaccando la Russia, che era stata alleata nell’ultimo periodo. Nello Scavo per Avvenire.
«L’Armenia volta le spalle a Mosca e lo fa con una decisione che il Cremlino interpreta come un tradimento. Erevan ha ratificato l’adesione alla Corte penale internazionale, quel tribunale dell’Aja che ha emesso il mandato di cattura per Vladimir Putin a causa dei crimini di guerra in Ucraina. E Mosca reagisce con una minaccia, parlando di «decisione scorretta» che «pone in questione » la leadership armena. Il primo segnale è arrivato dal confine tra Georgia e Russia. I Tir che consegnano il celebre brandy armeno, mai assente nei supermercati dell’intera federazione, sono stati bloccati. Intanto le autorità dell’Azerbaigian hanno annunciato che due ex presidenti dell'Artsakh – nome armeno del Nagorno – Baki Sahakyan e Arkady Ghukasyan, e con loro David Ishkhanyan, presidente dell'Assemblea nazionale dell’ormai disciolta repubblica autoproclamata, sono stati catturati e trasferiti a Baku. Altri tre ex leader della regione sono invece arrivati sani e salvi in Armenia. Si tratta dell'ex ministro dell'Interno Karen Sarkisyan, l'ex ministro della Difesa Karen Sarkisyan e Ararat Melkunyan, ex capo del servizio di sicurezza. Le autorità di frontiera hanno registrato alla data di ieri 21.107 veicoli provenienti dal Nagorno attraverso il corridoio di Lachin, i cinque chilometri che separano l’Armenia dalla regione dove viveva da quasi duemila anni la minoranza cristiana nel Caucaso meridionale, in territorio dell’Azerbaigian. Oltre 120mila persone hanno lasciato le proprie case. Le immagini che arrivano, con la plateale distruzione di simboli cristiani e il saccheggio delle abitazioni, cancellano ogni speranza per un ritorno. L’adesione di Erevan alla Corte penale internazionale (Cpi) riguarda i crimini di guerra commessi dall'Azerbaigian, anche se la giurisdizione della Cpi non sarà retroattiva. Tuttavia le violazioni che verranno commesse e denunciate da questa settimana saranno esaminate dalla Procura internazionale. Una delle conseguenze che irritano il Cremlino, riguarda gli obblighi dei Paesi aderenti all’Aja. La lista degli Stati in cui Putin potrà mettere piede senza rischiare l’arresto si restringe. «Naturalmente non vorremmo che il presidente dovesse rinunciare un giorno a visitare l'Armenia per qualche motivo», ha reagito ieri il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. A questo punto la sopravvivenza dell’attuale leadership armena è a rischio e perfino l’opposizione sembra avere abbassato i toni. Le dimissioni di Pashinyan sarebbero un favore al Cremlino. Ma Mosca ha molte altre frecce al suo arco. A cominciare dal ricatto degli idrocarburi. L’Armenia, priva di sbocchi sul mare, non ha contratti aperti con l’Azerbaigian né con la Turchia, che da sempre spalleggia Baku contro Erevan. Il fornitore pressoché unico è proprio la Russia. E alla vigilia della stagione fredda, quando già le temperature minime si sono abbassate sotto i 10 gradi, Erevan non può rischiare di restare a secco, peraltro quando il prodotto interno lordo continua a crescere grazie anche alla disponibilità di idrocarburi. Mosca è progressivamente riuscita ad aggiudicarsi il controllo dell’80% della rete energetica armena. La compagnia russa Gazprom si avvale di due condotte che attraversano la Georgia, ricompensata per il transito con il 10% delle forniture destinate all’Armenia. Negli ultimi anni Erevan ha tentato di diversificare aprendo alle importazioni dall’Iran, ma il sostegno militare di Teheran alla guerra russa in Ucraina non lascia intravedere per l’Armenia la possibilità di affrancarsi da Mosca in tempi rapidi. Il primo ministro Nikol Pashinyan, ha detto pubblicamente che la scelta di affidarsi esclusivamente alla Russia per ottenere sicurezza è stato «un errore». Il prossimo passo sarà l’uscita dalla Csto, l’organizzazione per la cooperazione militare tra gli Stati dell’ex Unione Sovietica. Una mossa scontata e rivendicata dai manifestanti a Erevan, dopo che i duemila peacekeeper russi sono stati a guardare mentre l’esercito azero invadeva il Nagorno- Karabakh scacciando la minoranza armena. «Non è così», ha risposto Peskov lasciando intendere che Putin non vuole più avere a che fare con l’attuale leadership armena. A tentare di rompere il possibile isolamento dell’Armenia solo il ministro degli Esteri francese Catherine Colonna, che ierì si è recata a Erevan, e ha annunciato di lavorare «a una risoluzione per una presenza internazionale permanente in Nagorno-Karabakh». La crisi non è solo umanitaria. Sul piano militare restano molte incognite e numerosi timori. Erevan ha denunciato che un suo soldato è stato ucciso e due sono rimasti feriti quando il veicolo sul quale viaggiavano è stato preso di mira dalle forze azere lungo la fascia di confine su lato armeno».
Roberta Zunini per Il Fatto intervista l’ambasciatrice armena in Italia.
«“Se è vero che l’Azerbaigian ha cancellato dalle mappe il Nagorno Karabakh lo scorso 19 settembre tradendo l’accordo trilaterale stipulato nel 2020 con l’Armenia e la Russia, è altrettanto vero che Mosca attraverso i propri peacekeeper avrebbe dovuto garantire il transito di beni umanitari e persone lungo il corridoio di Laichin, che collega l’exclave a Yerevan, impedendone l’assedio e quindi i bombardamenti. Il Cremlino, nostro alleato, però non solo non ha mosso un dito per evitare la pulizia etnica azera nei confronti degli abitanti del Nagorno, ma quando è stato avvertito da Baku dell’imminente operazione militare non ha imposto agli azeri di fermarsi”. L’ambasciatrice armena in Italia, Tsovinar Hambardzumyan, sottolinea il ruolo di Mosca riguardo la “pulizia etnica” in corso dallo scorso settembre nell’exclave armena in territorio azero nonostante Russia e Armenia siano partner dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettivo (Csto): un’alleanza militare formata dalle ex Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, che all’articolo 4 prevede “mutua assistenza”.
Perché Mosca ha permesso che Baku portasse a termine il progetto di evacuazione forzata degli armeni?
Mosca era stata informata preventivamente della decisione azera di aggredire il Nagorno. Ricordo che il presidente azero Aliyev il 22 febbraio 2022, cioè due giorni prima della guerra russo-ucraina, andò a Mosca per firmare un accordo strategico diventando ufficialmente alleato della Federazione russa.
Il Cremlino ha preferito il neo alleato al vecchio?
Un fatto è certo: l’Azerbaigian non solo vende e invia il proprio gas all’Ue, ma da quando quello russo è stato colpito dalle sanzioni, sta vendendo anche una parte di quello russo.
E l’Ue fa finta di niente?
Esatto. Nonostante le condanne verbali, gli appelli a Baku affinché rispetti i bisogni della popolazione del Nagorno, ormai del tutto sfollata forzatamente in Armenia, nessun Paese occidentale ha finora imposto sanzioni all’Azerbaigian.
Per la Russia il Nagorno non è parte del territorio sovrano armeno.
Peccato che nel 2022 non era intervenuta neanche per difendere il territorio armeno nel distretto di confine di Syunik che si insinua fra la exclave azera di Nakhchivan e i territori del Nagorno passati sotto controllo azero due anni fa.
L’Italia è uno dei Paesi che vende più armi a Baku, cosa ne pensa?
Noi armeni siamo da sempre in ottimi rapporti con il vostro Paese, ma ci aspettavamo di più in questa circostanza. Molti parlamentari si sono dichiarati solidali, però il governo ha ottimi rapporti con l’Azerbaigian che è coinvolto nelle gravi violazioni dei diritti umani. Anche la Turchia, influente membro Nato nonché tra i principali partner commerciali della Ue e dell’Italia, sta sostenendo da decenni l’Azerbaigian politicamente e finanziariamente, non solo per quanto riguarda la disputa sul Nagorno.
Cosa vuole a suo avviso?
Territorialmente vorrebbe creare il cosiddetto “corridoio di Zangezur” nell’Armenia meridionale. Ankara con questo corridoio avrebbe a disposizione una via molto importante e inoltre si unirebbe di fatto con l’Azerbaigian avvicinando la realizzazione del progetto di “mondo turcofono” detto anche di “due Stati una nazione”».
BIDEN RASSICURA ZELENSKY: CON VOI FINO ALLA FINE
Il Presidente Usa Joe Biden chiama gli alleati occidentali e rassicura gli ucraini in videochiamata, presente anche Giorgia Meloni. Dice: «Gli Usa restano al fianco di Kiev per tutto il tempo necessario». La premier italiana conferma: serve una pace giusta. Viviana Mazza sul Corriere.
«Joe Biden «sa che il mondo sta guardando», ha detto il portavoce John Kirby ai giornalisti. Il presidente americano ha chiamato ieri gli alleati per rassicurarli «sull’appoggio bipartisan» degli Stati Uniti all’Ucraina, dopo che il Congresso ha approvato domenica una legge per finanziare temporaneamente il governo americano senza però includervi i nuovi fondi per aiutare Kiev a difendersi dalla Russia. Alla telefonata hanno partecipato la premier italiana Giorgia Meloni, il premier canadese Justin Trudeau, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il premier giapponese Fumio Kishida, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il presidente polacco Andrzej Duda, il presidente romeno Klaus Iohannis, il premier britannico Rishi Sunak e la ministra degli Esteri francese Catherine Colonna. Tutti i partecipanti hanno, «a proprio modo, ribadito che resteranno al fianco dell’Ucraina per tutto il tempo necessario», ha detto Kirby. Meloni, secondo una nota di Palazzo Chigi, «ha confermato il continuo e convinto supporto del governo italiano alle autorità ucraine in ogni ambito finché sarà necessario, con l’obiettivo di raggiungere una pace giusta, duratura e complessiva». Secondo Duda, Biden ha assicurato ai leader che l’appoggio per l’Ucraina nel Congresso Usa è superiore a quello suggerito dai media «innanzitutto per gli aiuti militari» e si è detto convinto che verranno approvati. Il portavoce Kirby ha ribadito ieri l’invito di Biden al Congresso ad agire in fretta: «Il tempo non è nostro amico». L’amministrazione ha ancora abbastanza fondi per inviare aiuti senza l’appoggio del Congresso per «un po’», ha aggiunto, e pressato sulle tempistiche ha spiegato che a seconda del tipo di armi, «ci sono un paio di mesi». L’iniziativa di Biden si inserisce in uno sforzo diplomatico iniziato dopo il voto di domenica al Congresso, che ha coinvolto diversi funzionari americani, inclusi il segretario di Stato Blinken e quello della Difesa Austin per rassicurare i loro omologhi in Europa e nella Nato. Zelensky e i ministri degli Esteri dell’Ue riuniti a Kiev hanno espresso preoccupazione per il futuro degli aiuti Usa ma si sono detti speranzosi che la questione sarà risolta. Lo stesso speaker repubblicano della Camera Usa Kevin McCarthy aveva detto domenica che intendeva far arrivare all’Ucraina «gli aiuti militari che servono» con una legge separata che contenga anche misure di sicurezza al confine con il Messico volute dai repubblicani. Ma la sua destituzione ieri, per iniziativa dell’«ultradestra», paralizza ora la Camera. Molti parlamentari americani riconoscono le difficoltà legate alla crescente resistenza ad ulteriori aiuti a Kiev espressa dall’elettorato repubblicano nei sondaggi. La scorsa settimana un numero record di quasi la metà dei deputati repubblicani ha votato per tagliare 300 milioni di dollari per addestrare i soldati ucraini e acquistare armi. Secondo Cnn, mentre gli aiuti militari non sono in dubbio, gli Usa stanno sollecitando l’Ucraina a intensificare gli sforzi nella lotta alla corruzione avvertendo che, se non ci saranno riforme, alcuni aiuti economici sono potenzialmente a rischio».
MELONI A TORINO, AL FESTIVAL DELLE REGIONI
La premier Giorgia Meloni va a Torino al Festival delle Regioni. Le chiedono più risorse per la sanità. La risposta: spendere bene. Schlein promette: opposizione senza sconti. La cronaca sul Corriere è di Monica Guerzoni.
«Dal palco del settecentesco Teatro Carignano, dal quale il grande violinista e compositore scandì la celeberrima frase «Paganini non ripete», Giorgia Meloni guarda indietro fino a Camillo Benso di Cavour per dire ai presidenti delle Regioni che «si vince e si perde tutti insieme, anche nelle tante divisioni che questa nazione ama sempre mettere in luce». Era così ai tempi del Risorgimento e per la premier è così anche oggi, dalla sanità alle riforme costituzionali, dall’Autonomia all’immigrazione. I ritratti a Palazzo Chigi La leader della destra parla al Festival delle Regioni, con un lungo discorso a tutto campo che prende le mosse dalle pareti di Palazzo Chigi: «Il primo ritratto è quello di Cavour e l’ultima immagine rappresenta qualcun altro...». Cioè lei, che al termine dell’intervento deporrà un mazzo di fiori sullo scranno del predecessore. Sentirsi erede di un patriota da libri di storia in una fase «così difficile» comporta «grandi responsabilità» per Meloni, che vuole «essere all’altezza di una storia straordinaria» e ne sente tutto il peso: «È difficilissimo, non consente leggerezze, superficialità o personalismi». Fuori i manifestanti gridano «Meloni non sei benvenuta a Torino» e incassano manganellate, dentro i governatori (e i ministri) applaudono l’ospite d’onore che ha definito «irrinunciabile» la leale collaborazione tra i diversi livelli dello Stato. E alla fine scattano tutti in piedi, nonostante la leader della destra abbia gelato la richiesta di aumentare di 4 miliardi il Fondo per la sanità, rilanciata anche dal ministro Schillaci. «I margini di manovra sono limitati anche a causa dell’eredità di una politica che ha avuto un orizzonte troppo breve» perché cercava il consenso, mette le mani avanti Meloni per difendere la legge finanziaria a cui lavora il governo: «Non rinunceremo a occuparci di salute, partendo dal potenziamento delle risorse per il personale sanitario e per abbattere le liste di attesa». I presidenti delle Regioni che in due giorni si sono alternati sul palco, moderati tra gli altri dal direttore del Corriere Luciano Fontana, hanno chiesto più soldi per la sanità. Ma la premier avverte che «non si può far tutto e subito» e così diluisce gli obiettivi nel tempo e ribadisce che il suo orizzonte è «di legislatura». L’obiettivo resta «la sostenibilità del sistema sanitario in un contesto complesso» e però, bacchetta governo e Regioni la premier, perché il sistema sia efficace «bisogna uscire da una discussione miope tutta incentrata sulle risorse». E riflettere, magari in un «tavolo di confronto», su come le risorse sono impiegate: «Non basta spendere di più», se poi lo si fa «in modo inefficiente». Parole che fanno infuriare le opposizioni. Sulla scia della Fondazione Gimbe, che vede una sanità «lanciata verso il baratro», Pd e 5 Stelle denunciano all’unisono la «presa in giro» ed Elly Schlein promette una «opposizione dura e senza sconti». La premier riconosce che «le priorità sono molte e le risorse poche» e il governo deve riuscire a «spenderle tutte». Per fare cosa? «Redditi, sanità, famiglie che mettono al mondo dei figli». Forza Italia chiede fondi per rafforzare le pensioni più basse e lei, che non vuole deludere Tajani, assicura che si farà «se possibile». Poi conferma il taglio del cuneo fiscale e prova a smontare le tesi secondo cui la natalità è un tema ideologico: «Non lo è, il nostro welfare non regge con una popolazione che continua a invecchiare». Sul Pnrr sprona a «correre, correre, correre» e garantisce che sulle riforme costituzionali si andrà «spediti». Dal palco il ministro Roberto Calderoli ha elencato tutti i vantaggi dell’autonomia differenziata (aggettivo che non gli piace) e Meloni lo rassicura sulla sua «determinazione» a portare avanti la controversa riforma «senza stop». Se le opposizioni temono che spaccherà l’Italia, lei sembra convinta che la renderà «più unita, coesa e forte» e, per scongiurare nuove tensioni con la Lega, garantisce che il testo andrà avanti parallelamente all’elezione diretta del premier. Un’elezione «anti-ribaltoni e giochi di palazzo» grazie alla quale, a giudizio del capo del governo, i cittadini potranno «decidere da chi farsi governare». La situazione dei flussi migratori è «esplosiva», il governo del fenomeno è «ovviamente difficile» ma nell’anniversario della tragedia di Lampedusa Meloni ribadisce che «è nostro dovere porre fine a questa continua strage». La premier conferma l’intenzione di «coinvolgere tutti» quando porterà in Parlamento il tanto evocato Piano Mattei per l’Africa. Nell’attesa, politici e toghe litigano sulla sentenza con cui la giudice Iolanda Apostolico ha di fatto cancellato un pezzo del decreto Cutro e la leader di FdI, che si era detta «basita», da Torino rivendica il diritto di affermare che non è d’accordo se viene «disapplicata» una legge del suo governo: «Non c’è nessuno scontro con la magistratura. Dico quello che penso, riguarda una sentenza specifica».
BTP VALORE, ESULTANZA FUORI LUOGO
Il Foglio critica l’eccessivo entusiasmo dei sostenitori del governo per le aste sui Btp Valore. E ricorda che agli investitori paghiamo fior di interessi.
«Tirare un sospiro di sollievo, questo ci sta. Ma esultare, accidenti, sbandierare la cosa come fosse un trionfo: questo appare un po’ eccessivo, un farsi vanto delle proprie debolezze. Ecco insomma che di fronte al buon andamento delle aste sul Btp Valore, la destra stappa bottiglie. E se le beve, pure, evidentemente, a giudicare da come travisa la realtà, o magari la stravolge, sperando che a bersela, la balla e non la bottiglia, sia l’elettorato. Nei primi due giorni dei tre dedicati alle aste annunciate dal Tesoro, sono stati piazzati 9,3 miliardi del Btp Valore quinquennale. La risposta del mercato è stata positiva. E non si può che leggerla nella luce dei rendimenti, che hanno senza dubbio reso interessante il prodotto. Il minimo garantito dal Tesoro è del 4,1 per cento nei primi tre anni, e del 4,5 negli ultimi due, con l’aggiunta di un “premio fedeltà” dello 0,5 per cento. Un rendimento medio annuo che sta intorno al 4,3 per cento. Ben superiore, dunque, a quello garantito dalla prima edizione del Btp valore, di giugno scorso, che aveva una durata di 4 anni e un rendimento medio del 3,7 per cento. Ora, a destra esultano. Il Giornale sbatte il dato in faccia ai “gufi”, tiè. Il leghista Claudio Borghi, stesso partito del ministro dell’Economia, manda un “Ciaone a Bruxelles”. E proprio qui emergono le assurdità di questo tripudio sovranista. Rendimenti così alti segnalano una difficoltà del paese. E del resto che il servizio al debito sia la più grave incognita che pesa sulle finanze italiane lo riconosce la stessa Nadef, prevedendo un incremento record della spesa per interessi fino al 4,6 per cento del pil nel 2026. E non a caso l’Italia è quella che in questi giorni registra le variazioni giornaliere sui rendimenti dei titoli di stato decennali più alte d’Europa (ieri +13,3 per cento, a fronte del +7,6 della Grecia). Inoltre, riguardo al “ciaone” a Bruxelles, rendimenti così alti dovrebbero semmai far apprezzare ancor più la convenienza per l’Italia del Pnrr, che garantisce prestiti a un costo assai più basso di quello che il Tesoro è costretto a sostenere per attrarre gli investitori».
INIZIA IL SINODO 1, LA MEDITAZIONE DI RADCLIFFE
Sarà la Messa presieduta stamattina alle 9 da papa Francesco in piazza San Pietro alla presenza di tutti i delegati ad aprire ufficialmente il Sinodo dei vescovi. I lavori veri e propri avranno il loro avvio nel pomeriggio di oggi. Avvenire propone alla vigilia la meditazione di padre Timothy Radcliffe.
«Le ultime meditazioni tenute dal domenicano inglese ai partecipanti alle assise. «Lasciarsi guidare e portare dallo Spirito» «Ero una persona malata in un letto del reparto, senza niente da dare. Non potevo nemmeno pregare. Dipendevo da altre persone anche per i bisogni più elementari. È stata una “potatura” terribile. Ma è stata anche una benedizione». Ieri mattina padre Timothy Radcliffe ha voluto ricordare una sua dolorosa esperienza personale nell’ultima delle sei meditazioni tenute ai partecipanti all’assemblea generale del Sinodo dei vescovi, che si sono riuniti da domenica a ieri alla “Fraterna Domus” di Sacrofano, vicino a Roma. Il domenicano inglese (del convento di Oxford), classe 1945, già maestro dell’Ordine dei frati predicatori dal 1992 al 2001, ha spiegato come nel corso di una lunga degenza in ospedale per un difficile intervento chirurgico sperimentò l’abbandono «all’amore assoluto, gratuito e immeritato del Signore». Una condizione che ha augurato di vivere, mutatis mutandis , anche ai partecipanti al Sinodo, ossia «aprire il cuore e la mente alla spaziosità della verità divina», perdendo in un certo senso il controllo per «lasciare che Dio sia Dio». Come Gesù nel Getsemani rinunciò a “gestire” la propria vita e la affidò al Padre – ha spiegato ancora padre Radcliffe –, così l’Assemblea sinodale dovrebbe avere «la dinamica della preghiera più che di un parlamento», lasciandosi «illuminare, guidare e indirizzare dallo Spirito Santo», libera «dalla cultura del controllo». Il che non significa «non fare nulla», bensì agire lasciando che «lo Spirito ci porti là dove non avremmo mai pensato di andare». Nella penultima meditazione – sempre pronunciate nella mattinata di ieri – il teologo, parlando della crisi odierna dell’idea di autorità che tocca tutte le grandi istituzioni e non risparmia la Chiesa, ha indicato tre vie per porvi rimedio: quella della bellezza, ovvero della gloria, la quale «apre la nostra immaginazione al trascendente, ci porta oltre le parole» e, quando non è ingannevole, «parla di Dio»; quella della bontà, che ci viene mostrata dai santi, i quali hanno «l’autorità del coraggio», e anche loro ci invitano «a lasciare il controllo della nostra vita e a lasciare che Dio sia Dio»; infine la via della verità, perché «sepolto nell’umanità c’è un istinto inestirpabile per la verità». Tutte e tre le vie, ha concluso Radcliffe, sono necessarie, perché «senza verità e bontà, la bellezza può essere vacua e ingannevole. E senza verità, la bontà crolla nel sentimentalismo, mentre la verità priva di bontà porta all’inquisizione».
INIZIA IL SINODO 2, LA COMUNIONE AI DIVORZIATI
La Chiesa che cambia: nelle risposte ai “dubia” papa Francesco conferma: “Va data la comunione ai divorziati risposati”. Stasera la Laudate deum, aggiornamento della Laudato si’. Iacopo Scaramuzzi per Repubblica.
«Alla vigilia di un Sinodo che si annuncia scoppiettante, il Papa ha assestato al fronte conservatore un colpo che contiene tre messaggi. Francesco ha chiarito, nero su bianco, che la sua decisione di riammettere i divorziati risposati all’eucaristia è dottrina che non ammette disobbedienza. Bergoglio aveva preso questa decisione nel 2016, ma molti vescovi non l’hanno mai applicata. Anche allora c’era stato un sinodo con discussioni molto accese e alla fine il Papa aveva scritto un’esortazione apostolica, Amoris laetitia, che conteneva una svolta. Tanto per Giovanni Paolo II quanto per Benedetto XVI, quando due fedeli si sposano in seguito a un divorzio, possono comunicarsi solo se vive «come fratello e sorella». Niente sesso, insomma, perché il precedente matrimonio, fallito umanamente, davanti a Dio è ancora valido. Francesco ha scritto che la continenza rimane l’ideale, sì, ma «in certi casi», e dopo «adeguato discernimento» con un padre spirituale, i nuovi sposi possono accostarsi alla comunione, che «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli». Una decisione che ha incendiato i conservatori, che vi hanno visto il piano inclinato verso il relativismo. Quattro cardinali tradizionalisti hanno tartassato il Papa con una lista di dubbi (in latino ovviamente, dubia ) cui Francesco non ha mai risposto. Ora Bergoglio ha cambiato strategia e ha colto l’occasione di nuovi dubia , inviati a Roma da un altro cardinale, l’arcivescovo emerito di Praga Dominik Duka, per fargli rispondere dal nuovo prefetto della Dottrina della fede, il teologo argentino Victor Manuel Fernandez. Il quale, in un documento controfirmato nei giorni scorsi da Francesco, ha chiarito, una volta per tutte, che Amoris laetitia è «un documento del magistero pontificio ordinario, verso cui tutti sono chiamati ad offrire l’ossequio dell’intelligenza e della volontà». In questo modo il Papa ha ottenuto un triplice risultato: ha mostrato di non sottrarsi ai cardinali dubbiosi, ha chiarito che quando decide non esprime opinioni personali, ed ha sigillato il metodo del Sinodo: quello del passato e quello che apre oggi in piazza San Pietro. Un’assemblea che parte surriscaldata. A poca distanza dal colonnato berniniano, ieri al teatro Ghione, i cardinali Raymond Burke e Robert Sarah hanno messo in scena una nuova ribellione al Papa. Burke, statunitense, era tra i “dubbiosi” del passato, e nelle ultime settimane è tornato ad esprimere dubbi sul Sinodo, «un vaso di Pandora». All’incontro di ieri, intitolato “La Babele sinodale”, non ha attaccato direttamente Francesco, ma il cardinal Fernandez. Ha respinto l’accusa di «eresia» e di «scisma», ha denunciato «i gravi errori che provengono dall’interno della Chiesa stessa», ha scaldato il pubblico di 160 sostenitori quando ha tuonato: «Le porte dell’inferno non prevarranno contro la Chiesa». Toni infiammati. Diversi da quelli di Francesco, che nei giorni scorsi ha risposto ai cardinali dubbiosi con una punta di humour: «Con queste domande manifestate il vostro bisogno di partecipare, di esprimere liberamente il vostro parere e di collaborare, chiedendo una forma di “sinodalità” nell’esercizio del mio ministero ». Per i conservatori un affronto, per Bergoglio un complimento».
SPAGNA, NUOVO INCARICO A SANCHEZ
Le altre notizie dall’estero. In Spagna il Re incarica il socialista Pedro Sánchez di formare un nuovo governo. La scommessa è coinvolgere i catalani. Il leader socialista pronto a negoziare l’amnistia per gli indipendentisti. Appello alla responsabilità dei progressisti: “È l’ora della generosità”. Alessandro Oppes per Repubblica.
«È l’ora della politica e della generosità ». La prova è difficile, ma l’ottimismo è evidente nel volto e nelle parole di Pedro Sánchez, incaricato dal re Felipe VI di formare il nuovo governo spagnolo, quasi due mesi e mezzo dopo le elezioni legislative del 23 luglio in cui il suo Partito socialista si piazzò al secondo posto dietro i Popolari. Una decisione ampiamente prevista quella del sovrano dopo il fallimento, la settimana scorsa, del tentativo del presidente del Pp Alberto Núñez Feijóo, incapace di raccogliere davanti al Parlamento la maggioranza di 176 seggi necessaria per l’elezione a capo dell’esecutivo. Nei suoi dieci anni sulla scena politica nazionale (gli ultimi cinque alla guida del governo) Sánchez ha superato sfide considerate proibitive, come riconquistare la segreteria del Psoe pochi mesi dopo essere stato defenestrato, sloggiare dalla Moncloa con una mozione di censura parlamentare il premier conservatore Mariano Rajoy, sopravvivere politicamente alle crisi provocate dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Per questo pochi sono disposti ora a scommettere su un fallimento del suo tentativo di formare una maggioranza che gli consenta di restare altri 4 anni alla Moncloa. Nei prossimi giorni si conoscerà la data della nuova sessione d’investitura, che la presidente del Congresso dei deputati, la socialista Francina Armengol, concorderà con lo stesso Sánchez. L’unico elemento certo è il termine ultimo previsto dalla Costituzione per il voto parlamentare: il 27 novembre, due mesi esatti dalla prima bocciatura di Feijóo. Se entro quel giorno non sarà stato investito un nuovo presidente, diventerà automatico lo scioglimento delle Camere. Tra le ipotesi, c’è la settimana tra il 16 e il 22 ottobre, l’unica che garantisce di evitare l’inopportuna coincidenza con una serie di eventi che caratterizzeranno questo mese. Prima di tutto la manifestazione di domenica prossima a Barcellona, in cui le destre (presenti Feijóo e il leader di Vox Santiago Abascal) si scaglieranno contro l’ipotesi di un’amnistia per gli indipendentisti catalani coinvolti nell’organizzazione del referendum del 1° ottobre 2017. Il 12, festa nazionale, ci sarà la parata militare che, tradizionalmente, si trasforma in un’occasione per dure contestazioni dell’ultradestra contro il governo progressista. E il 31 è in programma la solenne cerimonia davanti alle Cortes per il giuramento sulla Costituzione da parte dell’erede al trono, la principessa Leonor, che quel giorno compie 18 anni. Sánchez cercherà così di schivare tutti gli ostacoli sul suo cammino e, già da lunedì, dopo il vertice europeo di Granada, si metterà al lavoro per ricomporre quella maggioranza di 178 seggi che, ad agosto, ha consentito l’elezione di Armengol alla presidenza del Congresso. Come è noto fin dalla notte elettorale, la chiave del successo è tutta nella possibilità di siglare un accordo con gli indipendentisti catalani, in particolare con Junts, il partito dell’ex presidente regionale Carles Puigdemont riparato in Belgio nel 2017 per sfuggire all’arresto. Già in queste settimane, mentre andavano in scena le sterili trattative di Feijóo (che nessun gruppo parlamentare ha accettato di appoggiare per la sua imbarazzante alleanza con l’ultradestra di Vox) i socialisti hanno condotto in maniera discreta il negoziato sull’amnistia, la principale condizione posta dai separatisti catalani — tanto Junts come i repubblicani di Esquerra (Erc) che guidano con Pere Aragonès il governo della Generalitat — per garantire il loro appoggio al governo progressista. La trattativa dovrebbe essere a buon punto e, secondo quanto ha rivelato nei giorni scorsi il leader di Erc, Oriol Junqueras, c’è già stato uno “scambio di documenti” tra le parti. Non si conoscono al momento i dettagli sul tipo di soluzione giuridica che è stata individuata (neppure se verrà impiegato il termine “amnistia”) per evitare il rischio di incostituzionalità. Gli indipendentisti premono anche perché vengano fatti progressi in prospettiva dell’organizzazione di un referendum per l’autodeterminazione, ma su quel fronte Sánchez ha fatto sapere che non ha alcuna intenzione di cedere. «Il mio proposito è di proseguire su quella road map che è la convivenza e la concordia», ha dichiarato dopo aver ricevuto l’incarico, lanciando un appello alla «responsabilità » ai partiti catalani. Ma per ora, formalmente, Sánchez dispone solo dei 121 voti del Psoe. Tutti i potenziali alleati mettono condizioni al loro sostegno. Compresa la leader di Sumar Yolanda Díaz, che chiede la riduzione della giornata lavorativa e l’aumento del salario minimo. Un “teatrino”, ironizza Feijóo, convinto che l’accordo per il nuovo governo sia già fatto».
PORTOGALLO, BASTA PENSIONATI
Svolta in Portogallo: stop ai benefici fiscali per gli stranieri, pensionati compresi. Goffredo Adinolfi per il Manifesto.
«Non ha più senso», spiega il primo ministro portoghese António Costa in un’intervista alla Tvi riferendosi ai consistenti benefici fiscali di cui hanno potuto godere i “residenti non abituali” dal 2009. Va detto infatti che, no, gli sconti sull’Imposto sobre o Rendimento das Pessoas Singulares, (Imposta sul reddito delle persone Irs) non riguardano solo i pensionati. Anzi. L’antica Lusitania è diventata una delle grandi capitali scelte da molti milionari sparsi per il mondo ed è il principale polo di attrazione dei nomadi digitali di Stati Uniti, Germania, Francia e Inghilterra. Da qui la necessità di trovare una soluzione a un problema che in realtà avrebbe dovuto essere affrontato già nella scorsa legislatura ma che poi è stato rimosso. La defiscalizzazione degli stranieri presenta infatti molteplici elementi di paradossalità: non porta nessun vantaggio per chi è residente permanente, e poi - sottolinea Costa - i residenti non abituali sono diventati un costo per le casse dello Stato sempre più ingiustificabile. Va ricordato che i servizi come ospedali o trasporti pubblici sono per tutti, ma pagati solo da una parte della società, i residenti permanenti. No, non ha più senso andare ancora avanti - lo stop ci sarà dal 1 gennaio 2024, e probabilmente non ne ha mai avuto perché anno dopo anno l’afflusso massiccio di forestieri con un grande potere di acquisto ha avuto l’effetto di fare impennare i prezzi, in generale, ma in modo particolare quelli delle case. Certo il salario minimo è cresciuto quasi del 50% negli ultimi 8 anni (ora è a 750 euro) e il salario medio del 30%, ma non basta a colmare un divario ancora abissale. Per capire meglio di cosa si sta parlando bisogna dire che il salario medio annuale portoghese secondo dati Eurostat è di 20.000 euro, in Italia un po’ sotto i 30.000, in Germania e Francia sopra i 40.000. In sostanza la situazione che si è venuta a creare è che comprare casa è diventata una impresa proibitiva. A dare poi il colpo finale un altro record storico: quello del tasso di sconto praticato dalla Banca centrale europea. Come è ovvio Lisbona, la capitale, è l’epicentro di una apocalisse che ha un impatto drammatico sulla vita quotidiana delle persone. Se si pensa che solo nell’ultimo trimestre - in un’Europa dove in media il costo delle case è sceso dell’1% - il prezzo di un appartamento è cresciuto dell’8,7% (dati Eurostat). Sono molte le città del continente che si trovano ad affrontare lo stesso problema (Milano, Barcellona, Berlino, Parigi e Londra), ma in Portogallo si sono messi insieme almeno due fenomeni differenti: l’aumento del numero dei turisti, e quindi delle locazioni turistiche di varia natura, e, appunto, la defiscalizzazione. Se nel 2011 in un quartiere non centrale come il Bairro das Colonias si spendevano circa 1.500 euro al mq oggi è difficile trovare alcunché al di sotto dei 5.000. A leggere gli annunci immobiliari c’è da restare atterriti. Nel quartiere (molto) periferico di Alfornelos 110 mq costano 326.000 euro; a Benfica, una zona medio borghese, un appartamento ristrutturato di 90 mq costa 459.000 euro. A Principe Real invece, uno dei quartieri migliori, 100 mq arrivano a costare quasi 900.000 euro. Dell’impatto che avrà questa misura è difficile dire. In termini mediatici potrebbe invertire la rotta del declino che i socialisti si trovano ad affrontare da quando - grazie alla maggioranza dei seggi all’Assembleia da Republica ottenuta alle elezioni dello scorso anno - possono governare senza l’appoggio del Bloco de Esquerda e del Partido Comunista Português. Certo resta il grande tema irrisolto: per evitare la concorrenza al ribasso, dentro un’unione monetaria le aliquote fiscali per i privati o per le società non dovrebbero rispondere a criteri di omogeneità in tutto lo spazio Euro?».
LA CINA PUNTA SUL MAROCCO PER LE BATTERIE DELL’AUTO ELETTRICA
Investimento dei cinesi di 2 miliardi di dollari per produrre oltre 1 milione di batterie per auto all’anno in Marocco, destinate al mercato europeo. Alberto Magnani per Il Sole 24 Ore.
«Il ministro dell’Industria marocchino, Ryad Mezzour, ha una certa familiarità con quello che ruota intorno ad automotive ed energia rinnovabile: laurea in ingegneria a Zurigo, esperienze di carriera in ABB e Suzuki e un incarico di tre anni come vice della commissione «Green economy» dell’associazione locale degli imprenditori. Un curriculum propizio alla nuova svolta di Rabat: quella di polo d’attrazione per gli investimenti della Cina sulla produzione di batterie per l’auto elettrica, con l’0biettivo di rifornire soprattutto i mercati di Ue e Usa. L’ultimo annuncio di peso si è materializzato a settembre, quando il gigante cinese dei materiali per batterie Cngr Advanced Material ha comunicato un accordo di collaborazione da 2 miliardi di dollari con Al Mada, una holding controllata dalla famiglia reale marocchina. L’investimento dovrebbe confluire in un impianto di materiali catodici, pronto a debuttare nel 2024 e capace di «fornire materiale per oltre un milione di auto elettriche ogni anno», a quanto si legge nel comunicato diramato dalla Cngr. La sede prescelta è El Jadida, scalo portuale sull’Atlantico che gode dei «vantaggi geografici» per i flussi di export oltre i confini nordafricani. L’accoppiata Cngr-Al Mada si accoda a un crescendo di annunci simili, in arrivo - anche - da Pechino e nell’orbita delle batterie per l’auto elettrica. Gotion-Hi Tech, una conglomerata sino-europea quotata sia a Shangai che Zurigo, ha siglato solo a giugno un memorandum of understanding con l’agenzia marocchina per gli investimenti e lo sviluppo dell’export (Amdie). L’accordo è sulla «costruzione di un’ecosistema industriale per le batterie per vetture elettriche e i sistemi di accumulo dell’energia». L’investimento previsto è di 65 miliardi dirham marocchini, circa 6 miliardi di euro, in un pacchetto che include una gigafactory da 25mila posti di lavoro nella capitale Rabat. Neppure un mese dopo, a inizio luglio, la connazionale Tinci Materials ha ufficializzato un investimento da 280 milioni di dollari per uno stabilimento che produrrà e commercializzerà materiali per le batterie a ioni di litio. L’avanzata di Pechino in Marocco è favorita da un intreccio di fattori, gli stessi che alimentano l’ambizione di Rabat di imporsi come un hub di settore sul crinale fra il mercato europeo e quello africano. «I fattori chiave sono sicuramente la posizione strategica verso l’Europa, la stabilità politica e i forti legami coltivati fra Rabat e Pechino» spiega Nasser Bouchiba, presidente della Africa China Cooperation Association for Development. Ma prima ancora, aggiunge Bouchiba, c’è la ricchezza naturale. Il Marocco “siede” su un patrimonio vasto di cobalto e soprattutto fosfato, l’ingrediente alla base delle batterie al litio-ferro-fosfato: le «Lfp», meno costose rispetto a quelle nikel manganese cobalto (Ncm) oggi più diffuse sul mercato. Secondo il Middle East Institute, un centro studi, il Marocco detiene oltre il 70% delle riserve globali di fosfato, proiettandolo su una traiettoria che potrebbe incrociare anche gli appetiti di aziende occidentali come Vokswagen e Tesla. In effetti l’interesse sul Marocco non è esclusiva della Cina, così come Rabat non è l’unico orizzonte contemplato da Pechino sul mercato nordafricano. Nel corso della sua visita a Pechino in luglio, il presidente dell’Algeria Abdelmadjid Tebboune ha annunciato che Pechino riverserà sul suo Paese 36 miliardi di dollari in investimenti, distribuiti dall’industria tradizionale alle nuove tecnologie. Il pacchetto, a quanto riferiscono i vertici cinesi, includerebbe anche una maxi-fabbrica di batterie a ioni di litio, sempre con lo sguardo sugli sbocchi in Europa. È evidente che «la Cina veda l’area sia come un trampolino verso il Mediterraneo che un anello di congiunzione con il Medio Oriente, dove è sempre più attiva» spiega Alessandra Colarizi, sinologa e direttrice della testata China Files. Finora la posizione di vantaggio sembra quella del Marocco, anche se gli annunci dovranno concretizzarsi in un Paese tutt’altro che privo di fragilità. Una delle più evidenti è la ferita del terremoto che ha ucciso quasi 3mila persone e stremato un’economia alla ricerca del riscatto dal tonfo pandemico. Senza dimenticare, dice Bouchiba dell’Africa China Cooperation Association for Development, gli imprevisti nelle relazioni economiche con Pechino: dalle differenze legislative a un approccio «eterogeneo» negli affari. Anche se la posta in palio, e gli obiettivi, sono già chiari a entrambi».
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