Tre azzurre alle Paralimpiadi
Vincono le velociste disabili italiane a Tokyo. E le pallavoliste. Speranza apre il G20 di Roma sulla Salute. Avvenire rilancia la Versione. Le donne di Kabul in piazza. Bettini vuole Draghi al Colle
Nell’immediata vigilia di uno storico G20 che comincia oggi a Roma, il ministro Roberto Speranza spiega al Corriere che se non si accelera con la vaccinazione, il rischio è tornare a “vecchie misure”, cioè al lockdown. Ecco perché lo sforzo immediato del Governo è tutto sul Green pass e sulla sua estensione. Dell’obbligo vaccinale si discuterà, solo se ce ne sarà bisogno. Intanto anche La Stampa con Alessandra Ghisleri (lo trovate nei pdf) sostiene che tre italiani su quattro sono favorevoli al certificato verde.
Vaccini per tutti. Il manifesto dei politici cattolici di Madrid può essere un criterio per orientarsi nel prossimo voto amministrativo? Il Direttore di Avvenire mi ha fatto l’onore di ospitare l’opinione espressa ieri qui nella Versione, valorizzandola con una risposta molto interessante. Ancora basso il ritmo delle vaccinazioni, ieri solo 220 mila 448, addirittura sotto la media settimanale dal 30 agosto ad oggi, che è di 225 mila, a sua volta deludente, superiore solo alla settimana del record negativo, quella di Ferragosto. Il Quotidiano Nazionale sottolinea gli ultimi dati dell’Istituto superiore di Sanità che sono chiarissimi: i vaccini funzionano al 97 per cento. A proposito di dati e discussioni sui vaccini, riportiamo due commenti tutti da leggere di Bucci e Solinas. Brutto episodio a Milano: i No Vax hanno manifestato sotto la redazione di Libero, aggressivi e violenti nei contenuti e negli slogan. Onore a Sallusti che ha coerentemente sempre difeso il valore della campagna vaccinale.
Dall’Afghanistan arrivano tre notizie: è stato riaperto l’aeroporto di Kabul, le donne tornano a manifestare in piazza, Massud continua a combattere, mantenendo il controllo del Panshir. Seconda tappa del reportage di Pietro Del Re su Repubblica, mentre Alberto Negri si chiede: ma non siamo stati noi occidentali ad armare i Talebani?
Per la politica italiana, c’è da dire che ieri si sono chiuse le liste per le amministrative. Ci sarà tempo per spulciare tra i nomi dei candidati e capire le scelte dei partiti per il 3 e 4 ottobre. Ieri il guru del Pd Bettini, alla Festa del Fatto di Travaglio, ha invitato a votare Draghi al Quirinale a febbraio, per chiudere la fase del governo di emergenza. Mentre un altro candidato, Pierferdinando Casini, riunirà tutti i leader nella commemorazione dell’11 settembre.
È stato un sabato segnato alle vittorie delle donne azzurre. Le pallavoliste hanno vinto il titolo europeo nella finale contro la Serbia. A Tokyo alle Paralimpiadi le medaglie più belle sono venute da tre velociste disabili. Tre storie raccontate da Gaia Piccardi sul Corriere: vite giovani di colpo in salita. E ieri il riscatto sulla stessa pista di Tokyo che ci ha già dato le medaglie d’oro della velocità dei 100 metri e della staffetta 4x100. Una di loro ha detto: “Non solo abbiamo superato lo svantaggio, ma ne stiamo facendo qualcosa di grande”. Una lezione di vita. Non è così per tutti noi? Chi può dire di non avere avuto “svantaggi”? Conta voler fare “qualcosa di grande”.
Parliamo ancora della Versione. Stamattina, che è domenica, siamo tornati da voi con il solito orario prima delle 9 di mattina, mentre da domani e fino a venerdì ci impegniamo a consegnare la rassegna nella vostra casella di posta elettronica prima delle 8. Vi ricordo anche l’altra grande innovazione di questi giorni: la possibilità di scaricare gli articoli integrali in pdf. Trovate un utile link alla fine della Versione e se qualcosa vi interessa scaricatelo, perché il file resta disponibile solo per 24 ore. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Nei titoli principali dei quotidiani ci sono sempre pandemia e Afghanistan ma anche spazio alla bella vittoria delle azzurre alle Paralimpiadi e nella pallavolo. Il Corriere della Sera mette tra virgolette il Ministro Speranza. Che paventa più che l’obbligo un nuovo lockdown: «Vaccini o rischio chiusure». Il Quotidiano Nazionale spiega: I nuovi dati: col vaccino protetti al 97%. La Verità invece ignora i numeri ufficiali dell’Iss e sentenzia: I governi forzano sui vaccini anche se la scienza ha dei dubbi. La Stampa sottolinea l’accelerazione sul certificato verde: Il piano Draghi sul Green pass esteso a 4 milioni di lavoratori. Il Mattino prevede la mossa parlamentare del Governo: La fiducia sul Green pass. Delle donne che continuano a manifestare in piazza a Kabul si occupano
Avvenire:
Le donne di Kabul. E il Manifesto: Afghana. Mentre Il Messaggero celebra le medaglie alle Paralimpiadi e il titolo delle pallavoliste: Regine d’Italia. Il Fatto esalta le dichiarazioni del guru Pd Goffredo Bettini alla Festa del giornale: “Draghi al colle, poi fronte M5S-sinistra”. Il Giornale sintetizza gli umori dell’establishment finanziario registrati a Cernobbio: Super industria Ue per sfidare la Cina. Il Sole 24 Ore rivela: Bollette, il governo studia il taglio. La Repubblica torna sul tema lanciato dal ministro Cingolani: Battaglia sul nucleare verde. Il Domani punta su un’altra battaglia che riguarda le regole sulla stampa: C’è una maggioranza per la legge sulle querele temerarie: ora votatela.
ROMA CAPITALE DELLA LOTTA ALLA PANDEMIA
Monica Guerzoni del Corriere racconta l’immediata vigilia del G20 dei Ministri della Salute che si riuniscono da oggi nella nostra capitale. Parla il Ministro Roberto Speranza.
«Sarà un momento stratosferico per l'Italia, avremo gli occhi del mondo addosso», si emoziona Roberto Speranza all'idea che oggi in Campidoglio presiederà il G20 dei ministri della Salute. «Una cosa enorme», lo dice con enfasi e subito si schermisce: «Io cerco sempre di restare umile, ma è un appuntamento davvero importante. Puntiamo a firmare il "Patto di Roma" per vaccinare gli abitanti del mondo intero».Un titolo a effetto, o un obiettivo possibile? «I Paesi più ricchi e forti - risponde al Corriere il ministro - si fanno carico di costruire una campagna di vaccinazione estesa a tutte le Nazioni. Nessuno si salva da solo e il vaccino è l'arma che abbiamo». Speranza ha incontrato ieri il suo omologo americano Xavier Becerra. E oggi, nella Sala degli Orazi e dei Curiazi, lavorerà per favorire un'intesa che contribuisca a sconfiggere la pandemia. Quando ne usciremo? Il ministro non azzarda date, ma cita l'immunologo consulente della Casa Bianca: «Fauci ha detto nel 2023... Dipenderà dalla nostra capacità di vaccinare tutto il mondo». Ecco perché il G20 di oggi, nel Paese che ha pagato al Covid un prezzo altissimo in vite umane, è per lui così importante. Altrettanto lo è la linea di Draghi sull'obbligo vaccinale: «Ho molto apprezzato la forza e il rigore con cui ha scelto di puntare tutte le nostre fiches sulla campagna vaccinale». Una posizione che mette a rischio la tenuta del governo? «Non esiste proprio, occupiamoci di cose serie». La polemica infuria e il ministro prova a fare chiarezza. Uno dei quesiti è se il governo andrà dritto anche senza il via libera dell'Agenzia europea del farmaco e la risposta è sì: «Il passaggio dell'Ema renderebbe tutto più facile, ma i vaccini sono già sicuri e quindi si può fare anche senza, come è stato per il personale sanitario. Un governo ha sempre un margine di scelta». In che tempi si arriverà all'obbligo per tutti? «Si valuterà col passare delle settimane». Chi si oppone, come Salvini, ricorda che il vaccino generalizzato non esiste in nessun Paese europeo e che lo stesso Speranza non spingeva in questa direzione. Ma il ministro tira dritto: «Siamo stati i primi sull'obbligo per i sanitari e poi la Francia e numerosi altri Paesi ci hanno seguito. L'obbligo non è una scelta già determinata e certa, ma uno strumento che abbiamo e se necessario andrà attuato senza paura». Ora il quadro epidemiologico è stabile, però Speranza ritiene inevitabile che la ripresa della scuola e delle attività porti un aumento dei contagi: «E il vaccino è lo strumento per evitare nuove misure restrittive». Ed ecco i criteri sulla base dei quali un provvedimento di così grande portata potrebbe essere assunto: «Il governo terrà conto del quadro epidemiologico e delle ospedalizzazioni, con particolare attenzione alle terapie intensive e al numero dei decessi, la cosa più drammatica. Questi dati si incroceranno con la percentuale di vaccinati». Se non si arriva al 90% scatterà l'obbligo? «Non darei cifre che non abbiano un fondamento scientifico. La scelta si farà in base a una somma di fattori, tra cui la forza della variante. Potremmo trovarci in difficoltà anche con più del 90% di vaccinati, o al contrario non avere bisogno dell'obbligo pur senza raggiungere quella quota». Il ministro si appella agli italiani perché scelgano di vaccinarsi. Vuole sia chiaro che il rischio è rivedere la riduzione delle libertà individuali: «Il virus esiste ancora, è forte e circola. O rafforziamo ancora la campagna vaccinale, o siamo costretti a immaginare che a un certo punto bisognerà usare le misure del passato». Sta dicendo che torneranno le regioni rosse e i lockdown? «Sto dicendo che i vaccini salvano la vita delle persone. In pandemia la coperta rischia di essere corta, o la tiriamo con forza dalla parte dei vaccini o dovremo immaginare nuove chiusure». E qui il ragionamento torna all'obbligo: «Se la difesa del diritto alla salute e la necessità di evitare nuove privazioni della libertà ci dovessero portare a questa soluzione, certo non ci spaventeremo e non ci fermeremo». Palazzo Chigi punta a fare dell'Italia l'apripista in Europa, o Draghi cercherà un accordo con Francia, Spagna, o altri? «Non ci guida quel che fanno gli altri Paesi, ma la necessità di controllare un virus che si diffonde ancora in maniera preoccupante. La cosa più importante è evitare decessi e non dover ricorrere a nuove chiusure». Se poi qualcuno pensa che discutere di obbligo indebolisca la campagna vaccinale, Speranza assicura che «sta andando benissimo» e ringrazia per il «lavoro straordinario» le Regioni e il commissario Figliuolo: «I ragazzi stanno dando una lezione a tutti, hanno capito meglio degli altri che il vaccino è uno strumento di libertà. Il Paese è in profonda sintonia con le scelte del governo». (…) Draghi ha dato il via libera anche alla terza dose e Speranza anticipa la road map. Si partirà con le persone «che hanno una risposta immunitaria molto bassa, con i trapiantati, con alcune tipologie di malati oncologici, poi le Rsa, gli ottantenni e il personale sanitario». Quanto all'estensione del green pass, si augura che sia pronto entro la fine della settimana. Estenderete il certificato anche ai passeggeri di bus e metro? «Non mi risulta. Quel che è realistico è l'estensione alla pubblica amministrazione. Brunetta sta facendo un lavoro importante per riportare in presenza una parte significativa di persone che sono in smart working». E le aziende private? «Orlando e io pensiamo che vadano fatti passi avanti concordandoli che le forze sociali e non contro». Al G20 inizia la cena, ma prima di salutare Speranza gela le attese sul prezzo dei tamponi: «È stato già calmierato e va bene così. Adesso dobbiamo incentivare i vaccini, che sono gratuiti per tutti».
I VACCINI FUNZIONANO AL 97 PER CENTO
Il Green pass sarà dunque esteso e sull’obbligo vaccinale si vedrà. Ma soprattutto ci sono nuovi dati dell’Istituto superiore di Sanità sull’efficacia dei vaccini. La cronaca sul Quotidiano Nazionale di Antonella Coppari.
«Vaccinarsi conviene. Non solo cala drasticamente la possibilità di infettarsi (78% in meno rispetto ai non immunizzati), ma se malauguratamente si prende il Covid, il rischio di ammalarsi gravemente è assai remoto: i sintomi sono decisamente lievi, anzi spesso i soggetti positivi sono del tutto asintomatici. Questo si traduce in concreto in una ridotta ospedalizzazione nei reparti di medicina generale (94%) e, cosa più importante, nelle rianimazioni (96%) mentre il rischio di morire diminuisce del 97%. I dati dell'ultimo report dell'Istituto superiore di sanità, che completano il monitoraggio settimanale, sono chiari ed evidenziano come la maggior parte dei casi notificati negli ultimi 30 giorni sono stati diagnosticati in pazienti non immunizzati. La prova del nove arriva dalle persone over 80 (90% vaccinati). L'Iss rileva come il tasso di ricovero tra i soggetti non vaccinati è 9 volte più alto rispetto ai vaccinati completi, ovvero con due dosi: il tasso è infatti di 187,8 contro 21,1 ricoveri per 100mila abitanti. Il tasso di ricoveri in intensiva è 15 volte più basso nei vaccinati (1,0 contro 14,6). Il report evidenzia inoltre che il tasso di mortalità è quindici volte più alto nei non vaccinati rispetto ai vaccinati (5,3 contro lo 0,3 per 100mila abitanti). Di contro, il 25% delle diagnosi di Sars-Cov-2, il 37,9% delle ospedalizzazioni, il 50,6 per cento delle intensive e il 50,1% dei decessi sono avvenuti tra gli ultraottantenni che non avevano ricevuto nemmeno una dose. Anche se il pericolo di contagiarsi è molto minore, il farmaco certo non è la bacchetta magica che protegge da tutto e da tutti: anziani e fragili comunque restano soggetti a rischio. Ecco perché il governo batte tantissimo sulla necessità di immunizzarsi, tanto più ora alla vigilia della riapertura delle scuole, ma ciò non significa che Draghi sia pronto già a sancirne quell'obbligatorietà per legge su cui la sua maggioranza litiga di brutto. Dipende dall'esito della campagna vaccinale e, naturalmente, da ciò che accadrà con l'ulteriore estensione dell'utilizzo del Green pass. Se, come avvenne in occasione dell'annuncio a ridosso delle vacanze, porteranno a un'impennata delle vaccinazioni e la percentuale di non immunizzati si rivelerà molto esigua (meno del 10%), probabilmente il premier deciderà di soprassedere sull'obbligo. Se invece le percentuali dei privi di protezione resteranno significative, introdurrà l'obbligo. Tant' è: la prossima settimana si inizierà a entrare nel merito delle misure sull'allargamento dell'obbligo del certificato verde; cruciale l'incontro domani tra governo e parti sociali come la cabina di regia con i capi delegazione dei partiti (da fissare, anche se qualcuno parla di giovedì). Da vedere se l'estensione avverrà prima per i dipendenti pubblici e poi per quelli privati, oppure il cambio di passo si farà per tutto il mondo lavorativo senza distinzioni di sorta, come chiede il ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, con un unico intervento normativo. In questo quadro, la maggioranza ribolle. Salvini cerca di compattare la Lega: fa fronte comune con i «suoi» governatori assieme ai quali mette nero su bianco cinque punti sul tema (dalla promozione della campagna vaccinale ai tamponi gratis per alcune categorie), smussando il «no» all'obbligo vaccinale «che potrebbe servire in via eccezionale per alcune categorie». Dall'altro, suggerisce al presidente del Consiglio di non mettere la fiducia sul primo decreto Green pass, che la Camera voterà la prossima settimana: probabilmente sarà decisivo il colloquio tra il leader del Carroccio e Draghi. «Lo incontrerò nei prossimi giorni», annuncia il Matteo milanese. Nel frattempo deve fare i conti non solo con il segretario del Pd, Letta, ma pure con l'ex sodale Di Maio: «Deve decidere se inseguire la Meloni o il bene del Paese», lo punzecchia il ministro degli Esteri. Qualche malizioso legge tra le righe anche un attacco indiretto del pentastellato al capo M5, Giuseppe Conte, che sull'obbligo vaccinale non lesina dubbi. Di sicuro, il Capitano non le manda a dire: «Non è facilissimo avere tutti i giorni a che fare con Letta, con Conte, con Di Maio, con Speranza, con la Lamorgese. Ma non molliamo il governo».
VACCINI PER TUTTI, LA VERSIONE SU AVVENIRE
Nella Versione di ieri avevo avanzato la proposta di adottare il manifesto dei politici cattolici di Madrid in favore dei vaccini per tutti nel mondo come criterio per le prossime elezioni amministrative. Ne ho tratto una lettera al Direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che mi ha risposto con un commento appassionato.
«Caro direttore,
è molto significativo che i politici cattolici di Europa e America Latina, riuniti a Madrid, abbiano sottoscritto e lanciato un manifesto per la vaccinazione universale solidale. Dodici i punti sottoscritti dai partecipanti al Secondo incontro internazionale, convocato dall’arcivescovo di Madrid, cardinale Carlos Osoro, e dall’Accademia latinoamericana dei leader cattolici, con il sostegno della Fondazione Konrad Adenauer. Sono princìpi fondamentali, espressi più volte da papa Francesco e contenuti in modo completo anche nella Nota vaticana del 29 dicembre 2020: «Vaccino per tutti. 20 punti per un mondo più giusto e sano». La proposta che ho avanzato nella mia rassegna stampa quotidiana gratuita “La Versione di Banfi” (alessandrobanfi.substack.com) è semplice ed è anzitutto rivolta agli elettori cattolici: adottiamo in Italia questo Manifesto come “bussola” per orientarci fra i candidati e i partiti delle prossime elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre. È giusto che i cattolici adottino dei criteri comuni nell’espressione del libero voto democratico. Lo hanno già fatto in passato. Certo, non è più tempo di schieramenti ideologici, né di pregiudiziali. Per fortuna oggi nel sistema politico sono condivisi molti principi, un tempo difesi solo dai cattolici. Basti pensare alla rivalutazione comune di una figura come Alcide De Gasperi. Ma il criterio del “vaccino per tutti” potrebbe davvero essere un principio discriminante oggi perché il voto del singolo non sia affidato all’umore o alla reattività, o peggio, agli egoismi individuali. La solidarietà e l’amore per il prossimo oggi si incarnano anche nella richiesta di scelte pubbliche e politiche. Come fra l’altro hanno recentemente richiamato, proprio sul tema dei vaccini, il presidente Mattarella e Papa Francesco. La scelta di candidati e partiti, allora, acquisterebbe un senso alto: non votare chi si oppone ai vaccini per tutti può essere, anche in caso di elezioni locali, un riferimento pratico e insieme ideale. Non un principio astratto ma una battaglia molto concreta, anche se globale, che faccia intravedere un’attenzione antropologica ben precisa. È vero: la secolarizzazione anche in Italia predica un modello in cui la fede non c’entri con la politica. Ma una scelta tutta laica di un tale criterio può viceversa essere una valida testimonianza della posizione umana descritta nella Fratelli tutti. Alessandro Banfi
Sono d’accordo con te su un punto cruciale, caro Alessandro: la limpida e concreta opzione politica «vaccini per tutti» è una cartina al tornasole utilissima per cogliere quanta intelligenza della realtà (non solo in questa stagione pandemica) e quanta umana solidarietà (il nome “sociale” dell’amore, e dell’amore cristiano per il prossimo) c’è nelle proposte di partito oggi in circolazione. Si possono coniare gli slogan più a effetto e fare le promesse più suggestive, ma se non si è capaci di dire chiaro e tondo che i vaccini anti-Covid non devono continuare a essere soprattutto una cosa da ricchi – che possono permettersi persino di snobbarli – non si merita fiducia. Sono convinto anch’io che chi non ha visioni di bene e di giustizia salde e grandi, chi non nutre con concretezza un’idea di futuro – Mino Martinazzoli ha saputo dirlo ancora una volta nella bella «intervista postuma» a Franco Provinciali che abbiamo pubblicato ieri a dieci anni dalla sua morte (Lo sguardo profetico di Martinazzoli: “Non c’è politica senza idea di futuro”) – non è capace neppure di amministrare, e dunque orientare, la vita quotidiana di una comunità locale.
Il Papa continua a ricordarci – anche se c’è chi si tura le orecchie o magari sbraita e inveisce per non sentire – che non si resiste, non si cammina e non ci si salva da soli nella dura prova del Covid e nella sfida del «cambiamento di epoca» in corso. In termini politici (e morali) questo significa rendersi conto che soltanto il principio di fraternità può darci stile di marcia e direzione per uscire dalla “palude” dell’egoismo e della disuguaglianza che si allarga in un mondo depredato e piagato. Una “palude” piena di miraggi e di trappole, per i singoli come per le comunità e per le nazioni. Un giornalista di valore come te, caro Alessandro, lo coglie con finezza e con spirito pratico. Metto il tuo suggerimento a disposizione degli amici lettori. Qualcuno magari obietterà che non è l’unico criterio possibile per orientare una scelta di voto (e soprattutto di voto amministrativo), ma è certamente un criterio solido, e – come ho scritto – davvero rivelatore. Negare, di fatto, ai Paesi meno economicamente sviluppati e alle popolazioni più povere della Terra una decente ed efficace disponibilità di vaccini anti-Covid, la migliore tra le cure oggi a nostra disposizione contro il coronavirus, o anche solo considerare tale questione come irrilevante, è già una scelta di campo. Una scelta disumana, e anti-cristiana. I politici cattolici d’Europa e America Latina hanno fatto bene a scriverlo, quasi a scolpirlo, nel loro Manifesto».
I NO VAX ASSALTANO LIBERO
Ieri sera manifestazione di protesta sotto le finestre della redazione di Libero a Milano. La cronaca di Andrea Morigi.
«Liberi di prendersela con Libero, un migliaio scarso di no-vax hanno sfilato ieri sera intorno alle 20 davanti alla redazione del nostro quotidiano in viale Majno a Milano, urlando "Vergogna", "Buffoni" e "Venduti" ai giornalisti, provando a intonare un debole coro di fischi. L'accusa più frequente che ci viene mossa è di essere «servi del potere». Sono dichiaratamente irritati dal titolo «Criminali no-vax» con il quale qualche giorno fa, il 31 agosto, si descrivevano le aggressioni e le minacce del neonato movimento d'opinione, ma soprattutto si metteva in guardia dalla pericolosità sociale di persone che si lasciano manovrare dalle bufale più assurde e meno scientificamente provate. Fra di loro, magari qualcuno ha anche letto qualche libro sulla psicologia delle folle e la ribellione delle masse e tenta di cavalcare la tigre dello scontento sociale perché cerca di coltivare qualche utopia rivoluzionaria. Per la maggior parte, però, sono uomini sulla quarantina, con l'eccezione di qualche donna. La più rabbiosa sembra una signora, anche lei ormai nel mezzo del cammino della vita, che brandeggia un megafono mezzo scarico. E non è quello il suo unico problema, a giudicare dal suo vociare esagitato. Si sfogano così e poi, dopo dieci minuti di contumelie, non hanno più niente da dire. Così si incamminano, scortati dalle forze dell'ordine, verso i Bastioni di Porta Venezia e si disperdono pacificamente. Non spaccano nulla, non lanciano minacce udibili, si limitano alla loro passeggiata dell'odio che altrimenti non saprebbero dove andare a scaricare. Un giornale è un bel bersaglio, in fondo. Peccato che attaccare la stampa sia proprio un segno distintivo dei regimi totalitari. E che non sia possibile sostituire l'informazione professionale con tutte le sciocchezze che circolano incontrollate sui canali Telegram, prima fonte di notizie per la raccogliticcia compagine di disperati che invocano la libertà di cura. Ragionare sull'opportunità di vaccinarsi, con loro, sembra impossibile. Spiegare loro che è più facile contrarre l'infezione da Covid-19 senza le due dosi di vaccino, può presentarsi come una battaglia perduta. Dialogando con loro ad uno ad uno, forse qualcosa si riesce a ottenere, ma quando sono schierati in formazione da battaglia, non sembrano affatto disponibili al dialogo. Individualmente, non reggono il confronto, però. Allora si fanno forza l'uno con l'altro, sommandosi per contare di più. Per dovere di cronaca, la notizia della insignificante manifestazione, peraltro perfettamente arginata da un imponente cordone di polizia di fronte al cancello d'ingresso, va data insieme alla descrizione di alcuni striscioni esposti sulla strada, fra i quali ne spiccava in particolare uno, con una croce disegnata e la scritta "In hoc signo vinces". Se alcuni si credessero come Costantino davanti a Massenzio, ci sarebbe da preoccuparsi per loro e il loro equilibrio mentale, più ancora che per la probabilità che qualcuno dei contestatori si contagi andando in corteo senza mascherina e senza essersi immunizzato. Altri, lì a fianco, s' illudono di essere partigiani, nella versione dei sedicenti «studenti milanesi contro la tessera fascista», che sarebbe poi il green pass. Di littorio, in realtà, il certificato verde non ha proprio nulla. Sono loro a caricarlo di significati, vuoi religiosi vuoi sociali vuoi politici. Insomma, sono personaggi in cerca d'autore nel primo sabato sera milanese dopo il ritorno dalle vacanze. In generale, sembrano ribelli senza una causa. Se non trovano un nemico che faccia da capro espiatorio, se lo devono costruire».
CACCIARI NO VAX, SOLINAS PRO VAX
A proposito della coerenza delle posizioni di Sallusti, ieri sul Giornale c’è stato un importante intervento di Stenio Solinas sulla destra e i vaccini. Solinas è un intellettuale accreditato di questo mondo. Vi proponiamo oggi il suo articolo.
«Ma davvero la Destra non ama il vaccino? Me lo ha chiesto un amico che mi considera un esperto in materia, in materia di destra, non di vaccini, va da sé, e per non togliergli un'illusione vorrei qui cercare di dargli una risposta meno superficiale della domanda. Come già mise in evidenza Giuseppe Prezzolini più di settant' anni fa, non esiste infatti, in Italia e non solo, una destra, ma ne esistono tante, spesso e volentieri in competizione se non in contrasto fra loro: reazionaria, conservatrice, monarchica, repubblicana, tradizionalista, liberale, liberista, populista, tecnocratica, statalista, aristocratica, anarchica, fascista persino, per chi si ostina a confondere i termini. A seconda di come si declinino si avranno perciò posizioni diverse riguardo al rapporto con le istituzioni, alla difesa delle proprie libertà, al sistema sociale, a quello economico. Se volessimo comunque trovare al loro interno un filo conduttore, il realismo sarebbe quello che più le accomuna, la realtà com' è e non come dovrebbe o potrebbe essere, la storia e non l'utopia. In quest' ottica, mi sembra difficile che un uomo di destra, per quanto genericamente inteso, sia, per tornare a noi e ai nostri giorni, contro il vaccino: funziona, il resto sono tamponi nel migliore dei casi, retorica e demagogia nei peggiori. Il passaggio successivo è più complicato perché non riguarda l'utilizzo del vaccino in sé, ma ciò che gli gira intorno e che ha a che fare con la vita di una comunità. Qui la Destra genericamente intesa si confonde, visto che al suo interno convivono, per fare solo due esempi, quelli che dello Stato farebbero volentieri a meno e quelli che ritengono che solo uno Stato degno di questo nome possa far funzionare una nazione. Anche qui il fil rouge non è semplice, ma lo si potrebbe cogliere nel concetto di privato, ovvero la difesa di una sfera intima e individuale che è anche un diritto, il fastidio verso chi da fuori vorrebbe importi delle regole di comportamento. Proprio perché non confonde il pubblico con il privato, il nostro generico uomo di destra, vuole, in parole povere, essere signore in casa propria. Questo spiega perché a destra si possa essere a favore dei vaccini e allo stesso tempo contrari a ogni misura che suoni come una imposizione e/o una vessazione. Torniamo per un momento al realismo. In quanto di destra, il realista sa che la scienza non è una fede, ma un'empiria. Fatica, e giustamente, a usare per il medico il termine ambiguamente onnipotente di scienziato, non partecipa al progressismo gioioso e a volte ebete con cui si esalta qualsiasi novità in campo medico-farmacologico. Proprio perché è realista è altresì sconcertato dalla scarsa chiarezza con cui la politica nonché la scienza affrontano il problema, ovvero la pandemia. (…) Ricapitolando. Sì ai vaccini, evitando però le troppe chiacchiere e gli ancor più troppi distintivi. Sì a sistemi di controllo (green pass e simili) purché riguardino la comunità nel suo insieme e purché si accompagnino a una capacità dello Stato di renderli veramente efficaci (sanificazione dei mezzi pubblici e loro aumento, rafforzamento delle strutture sanitarie, eccetera) e purché il tutto venga considerato un mezzo e non un fine. Il nostro uomo di destra è un realista, ma non è uno stupido».
Sempre ieri il Foglio nell’edizione del fine settimana riportava un articolo dello studioso Enrico Bucci che merita di essere letto. Bucci risponde a Cacciari che sulla Stampa aveva infilato nel suo commento alcune informazioni scientifiche distorte. Bussi replica: il filosofo rivolge domande “alla Scienza” ma non vuole ascoltare le tante risposte.
«Il professor Massimo Cacciari torna nuovamente su un argomento che in questo periodo è tra quelli che gli stanno più a cuore, vale a dire il pericolo per la nostra democrazia, già di suo piuttosto malandata, costituito dalle misure imposte per controllare la pandemia sulla scorta di quello che egli definisce uno “stato di eccezione” prolungato, in cui vede compressi e minacciati alcuni diritti fondamentali dell’individuo. Discussione sensata e interessante, per carità; ma certo non è una questione che non sia stata già abbondantemente dibattuta, anche da giudici e costituzionalisti, come dà invece a intendere Cacciari. Naturalmente, non aggiungerò la mia voce in questo dibattito, perché non è mia la competenza in materia; al solito, invece, mi occuperò di una serie di domande che Cacciari reitera, quasi che non sia stata data già una risposta. Avevo già scritto su queste pagine che si possono certo avere dubbi e fare domande alla comunità scientifica, ma poi bisogna pure prendere atto delle risposte, non fare finta che esse non esistano e non siano mai arrivate. Invece, Cacciari scrive esplicitamente “domando e non ascolto”. Questa è precisamente la ragione per cui la discussione democratica che egli auspica diventa inutile e strumentale ad esasperare l’interlocutore e soprattutto a raggiungere un obiettivo non dichiarato, quello della gran parte degli oppositori: bloccare un’azione che non si condivide, senza dimostrare di aver ragione, ma continuando a pretendere risposte che sono state già fornite, con le orecchie chiuse per poter giustificare il prolungamento della discussione ad infinitum. “Domando e non ascolto”, scrive Cacciari; io invece provo di nuovo a rispondere, naturalmente solo su ciò che è di mia competenza specifica, sperando che la sordità non sia permanente. Chiede, Cacciari, se i dati di Israele e di altri Paesi ad alta copertura, che mostrano una maggioranza di vaccinati tra gli ospedalizzati, ancora più alta tra quelli di età avanzata, siano veri o falsi; ma già si sa benissimo che sono veri, e si è abbondantemente spiegato che questo effetto deriva dalla cosiddetta probabilità condizionata, e non è certo un mistero o la dimostrazione dell’inefficacia dei vaccini come i No vax continuano a strillare. Se io ho un Paese in cui quasi tutti sono vaccinati, i casi di infezione residua saranno quasi solo fra i vaccinati, data un’efficacia variabile di protezione offerta dai vaccini, mai pari al 100 per cento; cosa non è chiaro? Perché non si hanno dati altrettanto trasparenti da noi, chiede poi Cacciari; e qui la faccenda è davvero scabrosa, perché in realtà i dati esistono e sono pubblici, si veda ad esempio la tabella 3 nel report dell’Istituto superiore di Sanità del 18 agosto. Lo stesso report risponde anche alle sue domande successive, circa le conseguenze dell’infezione suddivisa per età e stato vaccinale; dunque non perderò nemmeno tempo a rispondere, perché chi vuole davvero risposte le può trovare nella fonte citata (ma anche in moltissimi articoli di giornale variamente apparsi sui quotidiani nazionali). Faccio io una domanda: cosa farebbe Cacciari, se un suo studente si comportasse così, rivolgendo cioè domande la cui risposta richiede un semplicissimo sforzo di ricerca e studio di documenti pubblici? Chiede poi, Cacciari, che “la Scienza” segnali quali sono i casi in cui la vaccinazione è sconsigliata, indicando condizioni predisponenti trombosi e allergie, e fingendo che non siano state fornite indicazioni in merito. Anche in questo caso, la domanda è oziosa, non perché non sia interessante, ma perché ha già trovato risposta: parlando di trombosi e allergie, Cacciari dimostra di sapere già cosa hanno pubblicato gli scienziati e cosa è confluito nella valutazione anamnestica pre-vaccinale, sempre che abbia compilato i moduli richiesti con attenzione prima di vaccinarsi. “Domando e non ascolto”, scrive il professor Cacciari; sperando che almeno il senso della vista sia intatto, nel frattempo, consiglierei di andare a documentarsi su ciò che è stato già abbondantemente fissato sulla carta stampata, invece di continuare a “ripartire dal via”, in un surreale Monopoli del dubbio fuori luogo».
IL CORAGGIO DELLE DONNE DI KABUL
In Afghanistan prosegue la protesta delle donne nelle piazze. La cronaca di Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera.
«Non ci metteranno la museruola. Non ci chiuderanno in casa. Non siamo più le donne afghane di vent' anni fa». Lo gridano forte le giovani donne (e alcune anche meno giovani) che ieri hanno cercato di marciare verso il palazzo presidenziale di Kabul. Una sessantina, ma unite e organizzate. I social e le emittenti locali le hanno riprese mentre sorridevano ai passanti, brandivano i loro cartelli. Per lo più col velo tradizionale sulla testa. Nessuna però col viso e coperto e certo non con il Burqa. «I talebani ci aspettavano. Si erano preparati sin da venerdì. Hanno mandato la "Badri", la brigata delle loro truppe scelte migliori. Dovevano disperderci rapidamente. Ma non ci sono riusciti. E hanno dovuto usare la forza», ci spiega per telefono una delle loro leader, Fawzia Wahdat, giovane attivista che non ha paura di postare in rete il suo viso con le dita della mano destra in segno di «v» e la determinazione a lottare. È figlia del nuovo Afghanistan: giornalista, è stata tra i giudici della Commissione elettorale incaricata di vagliare eventuali brogli. E da poco ha ottenuto la laurea in Legge: un curriculum di studi che senza dubbio la rafforza nella sua battaglia per la difesa dei diritti civili. I filmati delle donne attaccate dai talebani a bastonate, con i lacrimogeni e gas urticanti, ieri verso mezzogiorno hanno fatto il giro del mondo. Si vedono loro che gridano i loro slogan. «Libertà. Libertà. Le donne devono poter essere anche ministre e avere ruoli di responsabilità. Non potrete costringersi a tacere», ripetevano. Una di loro è stata poi fotografata ferita, col sangue alla testa. Tante altre sono state spintonate. Tossivano e lacrimavano vistosamente, cercando di ripararsi naso e bocca con gli scialli. Un'altra manifestante, la 26enne Razia Barakzai ha raccontato che i talebani le hanno «circondate» nei pressi del ministero delle Finanze, ancora lontane dal palazzo presidenziale. «Ci hanno fermate con la violenza, anche se la nostra manifestazione era del tutto pacifica», dice. Il loro movimento sta crescendo di giorno in giorno. Ieri manifestazioni analoghe si sono tenute a Herat e nella provincia di Nimroz. «Abbiamo cominciato e non intendiamo fermarci. Cercheremo di mobilitarci ogni giorno, o comunque almeno un paio di volte la settimana, faremo presidi, senza tregua, in più località contemporaneamente. Vogliamo far sapere agli afghani che non è più il momento di subire senza reagire e cerchiamo la solidarietà internazionale. Tante tra noi sono pronte a mettersi in gioco, anche a pagare con la vita», aggiunge Fawzia. Al suo fianco c'erano anche alcuni uomini ieri mattina. Cittadini comuni, passanti, che volevano marciare solidali con le donne. Ma sono stati picchiati duramente. «A noi hanno spruzzato il gas negli occhi. Ma il ragazzo giovane che stava con me l'hanno manganellato duro. Un poliziotto gli ha strappato il cartello che brandiva e lo ha ridotto a brandelli», spiega ancora. La città che ha visto nascere e crescere queste ragazze sta già cambiando. I talebani cancellano i cartelloni pubblicitari con le immagini di donne, tante hanno accettato di coprirsi per evitare problemi. Alcune non vanno più sole nei luoghi pubblici, ma sempre accompagnate con un uomo maggiorenne di famiglia. Proprio questo temono le manifestanti: la lenta, inesorabile rassegnazione alla sharia, la legge religiosa, secondo l'interpretazione oscurantista talebana. E promettono che domani torneranno in piazza, magari con in tasca gli spicchi di limone da spruzzare sui fazzoletti per proteggersi dai gas».
Reportage di Pietro Del Re su Repubblica che racconta la Kabul sotto il dominio dei Talebani. Impressionante il racconto dei profughi accampati nel parco pubblico della città: in tanti danno al giornalista italiano un biglietto sperando di cambiare il loro destino.
«Chissà se un giorno i talebani demoliranno i cosiddetti "muri di sicurezza" edificati per proteggere dal loro tritolo ogni bersaglio sensibile, dalle ambasciate ai ministeri. Dietro questi blocchi di cemento armato alti sei metri e lunghi anche centocinquanta, che da due decenni sfigurano la città colonizzando buona parte del centro e restringendone le strade, si nascondono spesso gli edifici storici e le residenze più eleganti. Un motivo che potrebbe indurre gli studenti coranici a non intervenire su queste ciclopiche corazze, perché anche l'estetica architettonica cozza con la loro esasperata interpretazione dell'Islam. Appena tornati al potere, i nuovi padroni dell'Afghanistan hanno però eliminato i numerosi check-point che ingolfavano il traffico della capitale. C'è chi dice che l'abbiano fatto per non compromettere la loro liturgia del terrore che consiste anche nello sfrecciare per la città a bordo di pick-up carichi di miliziani con lo sguardo rapace e il dito perennemente incollato al grilletto della mitragliatrice. Infatti, impantanati nel caos di mezzogiorno intorno a piazza Malik Azghar o lungo la Darulaman road, soffocati dallo smog delle auto ferme e sotto al sole che ancora picchia a martello, incutono meno paura anche i più feroci tagliagole. In una città dove molti ormai vestono all'occidentale e dove chiunque possiede uno smart-phone, questi orchi che scendono dalle montagne, sempre armati di kalashnikov e intabarrati in abiti scuri e pesanti, sembrano ormai dei personaggi incongrui. Dal 2001, soprattutto grazie alla presenza dei militari e degli operatori stranieri, Kabul si è modernizzata omologandosi alla maggior parte delle capitali del pianeta. I talebani faranno perciò fatica a imporre nuovamente i loro rigorosi dettami. Uno dei motivi della loro improvvisa bonomia è proprio questo: non hanno ancora i mezzi per "reprimere il vizio e promuovere la virtù". È vero, da tre settimane chi dopo le 18.30 viene sorpreso ad ascoltare musica per la strada rischia di farsi accoppare dal primo talebano che passa. Ma dentro le case e negli appartamenti, la maggior parte degli abitanti della capitale ha una tv, e parecchi sono abbonati a Sky o a Netflix. L'altro motivo che li spinge alla moderazione è la consapevolezza che se dovessero ricominciare a calpestare con eccessivo sadismo i diritti umani, e in particolare quelli delle donne, rimarrebbero chiusi i rubinetti dei grandi donatori e delle agenzie internazionali. I talebani hanno i soldi per acquistare le loro armi, ma non per sfamare gli afghani. Alcuni anni fa, Lotfullah Najafizada, il direttore dell'informazione dell'emittente più seguita del Paese, Tolonews, ci spiegò che un ritorno al potere dei talebani era impossibile. Sulla trentina, giacca di sartoria e un master alla London School of Economics, Najafizada si diceva certo che la classe media afghana e le nuove generazioni non avrebbero accettato i loro divieti. Ieri, siamo tornati a Tolonews, e sulla sua poltrona abbiamo trovato un uomo decisamente più anziano che sgranando il rosario e sorridendoci benevolmente si' è persino rifiutato di dirci il suo nome: «Non posso parlare di nessun argomento, ne va della sopravvivenza della nostra televisione». Ha risposto soltanto quando gli abbiamo chiesto se con il nuovo regime erano state allontanate le giornaliste dal video. «Le presentatrici del tiggì erano all'estero durante la conquista di Kabul e da allora ancora non sono rientrate in patria. Ma stiamo formando una ragazza a leggere le news. Tra qualche giorno esordirà al notiziario del mattino». Fino a pochi mesi fa, il parco Shar-e Naw era il luogo dove si poteva dimenticare la guerra, dove si davano appuntamento le coppiette d'innamorati e si sorseggiava il tè, dove uomini dalle lunghe barbe giocavano a scacchi. All'ombra dei suoi pini perfino il rumore del traffico giungeva attutito. Oggi, però, il parco è diventato il luogo degli ultimi. Dei dimenticati. Ospita un migliaio di profughi scappati da Kunduz durante i bombardamenti talebani del mese scorso, da Kandahar o da Mazar- e Sharif. Arrivati nella capitale, sono stati sistemati nel parco dal precedente governo. Senza nulla, però: né cibo, né tende, né servizi igienici. Ma questi disgraziati sono ignorati anche dal nuovo regime. Fino a due giorni fa, quando è arrivata una piccola delegazione di studenti coranici, armata come di consueto, che li ha invitati a sgomberare i luoghi. Un giovane rifugiato ci racconta che i talebani sono stati subito accerchiati dalla gente inferocita di questa malconcia tendopoli spontanea, che li ha messi in fuga. Di sicuro torneranno, più numerosi e meglio armati. «E noi dove andremo a finire?», si chiede Gulsia, madre di due adolescenti, scappata da Kunduz davanti all'offensiva dei talebani perché temeva che gliele avrebbero sottratte. Raccolgo altre drammatiche testimonianze. Dalla ragazza alla quale un razzo ha distrutto la casa e il negozio, all'anziana che ha perso cinque figli, tutti nell'esercito regolare afghano; dalla madre con un piccolo cardiopatico a quella con un bambino aggredito da una brutta dermatite. Mentre prendo appunti, circondato da una folla di chi vuole raccontarmi la propria tragedia, cominciano a riempirmi di pezzetti di carta con su scritto numeri di cellulare e indirizzi, o fotocopie di carte d'identità, curricula o certificati d'invalidità. Chiedo all'interprete di spiegare che non posso aiutarli, se non scrivendo della miseria in cui si trovano nella speranza che qualcuno intervenga in loro favore. Non serve a nulla. Continuano ad arrivare persone che mi strattonano implorandomi di accettare il bigliettino che mi porgono. Ne ho le mani piene. Non riesco più a prendere appunti quando improvvisamente c'è chi mi fornisce una busta di plastica per infilarci tutto ciò che alla fine decido di non rifiutare. Rientro in albergo e la rovescio sul letto: ci saranno più di trecento pezzi di carta. In ognuno c'è la disperazione di una vita, ma anche la richiesta di una soluzione al male che l'affligge, e che ovviamente non sono in grado di fornire».
Alberto Negri sul Manifesto si chiede: ma chi ha armato gli studenti coranici? Forse noi occidentali?
«L'ufficio contro-propaganda di un noto Paese non occidentale fa notare che i ragazzi di Kabul tengono il dito sulla canna del fucile, sfiorandola, senza mai toccare il grilletto. Sono stati addestrati, mi dice. Mentre qui in Occidente i media sottolineano il coraggio delle donne in piazza che protestano - bello il titolo de il manifesto di ieri -, ma c'è il rischio che glielo lascino fare i talebani che si annotano i nomi e le andranno a prendere una per una, casa per casa. Mentre un atteggiamento ben diverso è quello con i giornalisti occidentali, per ora bene accolti (tranne le donne) mentre l'ufficio politico del Mullah Wasiq da Kabul afferma che presto l'Italia riaprirà la sua ambasciata. Staremo a vedere. È inutile comunque farsi illusioni, funziona così. È il nuovo ordine talebano sia pure ancora magmatico e non definito del tutto politicamente, cui gli americani e gli occidentali, al di là dei pietismo ipocrita e delle lacrime da coccodrillo, hanno contribuito in maniera decisiva non volendo più combattere una guerra persa in partenza. Uno degli aspetti più interessanti, fa notare un articolo del New York Times, è quello che si lasciano dietro gli americani. E non si sta parlando di idee, comportamenti, aspirazioni, tutto volato via con l'ultimo cargo militare decollato di notte dall'aeroporto Hamid Karzai. A differenza di quella dei sovietici sconfitti prima di loro nell'89, l'eredità lasciata dagli americani non è stata un paesaggio di scheletri di veicoli corazzati e carri armati. Hanno lasciato armi e attrezzature sufficienti a rifornire i vincitori per anni: questo è il risultato di vent' anni e di 83 miliardi di dollari investiti nell'equipaggiamento e nell'addestramento dei militari e delle forze di polizia afghane. Tutto evaporato in poche settimane e passato ai vincitori. C'è da chiedersi se questa pesante eredità bellica lasciata sul terreno fosse prevista anche dagli accordi di Doha. Perché se fosse così come appare, potremmo dedurre che gli attuali talebani hanno a che fare con gli americani molto più strettamente di quanto già immaginabile. Vero è che hanno negoziato per anni con gli Stati Uniti e che i rappresentanti americani, segretari di stato compresi e direttori della Cia, hanno avuto modo di trattare con loro in lungo e in largo. Sintomatico il fatto che il capo della Cia William Burns sia volato un lunedì a Kabul per parlare come il Mullah Baradar, come se la capitale afghana fosse un luogo del tutto sicuro. E per gli americani - a parte gli attentati dell'Isis-Khorassan - lo è, indipendentemente dal fatto che le truppe speciali talebane siano state addestrate da gente esperta, probabilmente la stessa che per anni ha istruito le forze afghane e che poi è passata a fare lo stesso mestiere dall'altra parte. Altrimenti non si spiega cosa facessero una parte delle centinaia di occidentali che non sono stati ancora evacuati. Si capisce meglio anche il collasso delle istituzioni afghane, politiche e militari. Tutti sapevano come sarebbe finita: quando in aprile Biden e la Nato hanno annunciato il ritiro delle forze americane e di quelle della coalizione entro l'11 settembre, i talebani avevano già conquistato distretto dopo distretto. E questo è accaduto dopo anni di combattimenti degli studenti coranici contro le forze armate più sofisticate del mondo: ma nell'ultimo anno neppure un militare Usa è morto in scontri con i talebani. Si era smesso di combattere molto prima. All'inizio di quest'anno i talebani erano già posizionati intorno a alle città principali e più strategiche. Non c'è stato nessun complotto, scrive il New York Times. Semplicemente sono state raccontate bugie colossali dalla narrativa occidentale sulle capacità di resistenza dell'esercito afghano. Quando stavano ammainando i vessilli dei contingenti Nato, compreso il nostro, si continuava ripetere che l'esercito poteva contare su 300 mila uomini: in realtà secondo gli stessi funzionari americani era già ridotto a un sesto. Leader come il presidente Ghani e il suo vice Dostum sono scappati portandosi via la cassa, milioni e milioni di dollari in contanti che dovevano servire a pagare i soldati. E adesso forse toccherà anche al Panshir di Massud figlio, visto che è stato lasciato senza copertura aerea e un suo portavoce qualche giorno fa ha persino evocato in aiuto in Sukhoi russi. Il padre, il Leone del Panshir, aveva combattuto gli «suravi» poi però nell'89 si era messo d'accordo con il generale Gromov per permettere un attraversamento sicuro della vallata all'Armata Rossa. Oggi i talebani vogliono tutto l'Afghanistan. Se da un lato i talebani si sono impegnati con gli Usa a tenere a bada Al Qaeda e a combattere l'Isis-K, intendono rispettare i patti soltanto avendo sotto controllo tutto il territorio. Questo è il banco di prova cruciale per il nuovo ordine talebano e forse gli americani lo aiuteranno bombardando con droni i portabandiera del Califfato. È la nuova strategia di Washington che a fine anno si ritira anche dall'Iraq lasciando la patata bollente alla Nato e agli italiani. Biden lo ha detto chiaro: la priorità non è più il terrorismo ma la Cina. Ecco perché il dito sul grilletto ai talebani ce lo abbiamo messo noi».
L’Ambasciatore Sergio Romano sul Corriere si chiede: ma che cosa faranno davvero adesso i Talebani al potere in Afghanistan?
«Nelle relazioni fra politica e religione in Paesi democratici e parlamentari, vi è sempre una zona in cui gli obiettivi laici e quelli maggiormente graditi alle istituzioni religiose si contraddicono con grande imbarazzo dei rispettivi seguaci. È accaduto a tutti i movimenti democratico-cristiani quando, per agire nei parlamenti, hanno dovuto diventare partiti; ed è accaduto particolarmente in Italia dove il governo ha dovuto affrontare temi fortemente discussi (aborto, divorzio, eutanasia, regime fiscale) là dove ha sede la più alta autorità di una delle più vaste comunità religiose (i cattolici sono un miliardo e 328 milioni). Le relazioni tra religione e politica hanno attraversato momenti difficili, ma il tempo ha insegnato l'arte della convivenza e i momenti critici sono stati generalmente superati con qualche compromesso da una parte e dall'altra. Maggiori difficoltà sono sorte invece nelle relazioni tra l'Islam e la politica nei Paesi dove i musulmani (1.907.110.000 nel mondo, fra sunniti, sciiti e kharigiti), superano di molto qualsiasi altro culto. Vi fu un primo tentativo politico in Egitto nel 1928 quando un autorevole riformatore, Hasan al-Banna, fondò i «Fratelli musulmani»: un'associazione in cui religione e politica avrebbero dovuto vivere amichevolmente sotto lo stesso tetto. A molti politici questa iniziativa non piacque e il maggiore leader egiziano di quegli anni (un militare, Gamal Abdel Nasser) preoccupato dalla possibilità che le autorità religiose interferissero nelle attività dello Stato, fece di tutto per limitarne l'importanza. I suoi successori sono stati più concilianti e i Fratelli musulmani, molto meno «teocratici» del passato, partecipano alle elezioni nazionali e sono rappresentati in Parlamento. La situazione è alquanto diversa, tuttavia, in quei Paesi dove i musulmani sono molto numerosi e hanno stretti rapporti con la comunità islamica mondiale. Tutti i fedeli professano la loro fede con riti e liturgie, ma in questi Paesi musulmani (come l'Afghanistan) sembrano avere conservato molti comportamenti formali che i tempi hanno reso desueti se non addirittura imbarazzanti per chi deve vivere in società multireligiose e multiculturali. Questo è il problema che i talebani dovranno risolvere nelle prossime settimane. Faranno il bagno di laicità che gli Stati Uniti esigono, soprattutto per il trattamento delle donne, o cederanno ai richiami di una tradizione per cui la donna è ancora un essere inferiore? Diverranno una versione musulmana della democrazia cristiana o saranno ancora i gelosi custodi e protettori della fede, sempre pronti invocare la sharia ogniqualvolta una donna «pretende» di vivere come quelle che incontra sempre più frequentemente nel corso della sua vita?».
BETTINI ALLA FESTA DEL FATTO: DRAGHI AL COLLE
Il guru del Pd Goffredo Bettini, invitato alla Festa del Fatto, ha contrastato la linea del segretario Letta: Draghi non deve restare a palazzo Chigi fino alla fine della legislatura, 2023. Meglio eleggerlo al Quirinale e chiudere prima possibile l’esperienza dell’esecutivo di emergenza. La cronaca di Giacomo Salvini sul Fatto.
«Va bene sostenere il governo Draghi come esecutivo di "garanzia repubblicana". Ma questo non può essere il governo e il programma del centrosinistra. Goffredo Bettini, a lungo uomo-ombra di Nicola Zingaretti e artefice dell'alleanza giallorosa, alla festa del Fatto dice chiaramente che nel governo Draghi non è tutto oro quel che luccica e che, soprattutto, non c'è futuro per un'altra maggioranza con tutti dentro dopo le prossime elezioni politiche. Bettini così manda un messaggio anche al suo Pd, che ogni giorno sposa in toto la linea draghiana e a cui non sembra dispiacere l'ipotesi di un governo "stile Draghi" dopo il 2023. "Io sono contrario alla formula secondo cui 'il governo Draghi è il mio governo' e secondo cui il suo programma è il nostro programma - spiega Bettini - questo è un errore perché nell'esecutivo le forze di maggioranza sono divise su tutto, dall'economia ai vaccini alla politica internazionale". Condivide, anche se in maniera più sfumata per il suo ruolo da ministro e capo delegazione del M5S, Stefano Patuanelli: "Sono d'accordo su oltre il 95% di quanto dice Bettini, questo è un governo straordinario col compito di guidare questa fase del Paese e per questo dobbiamo mettere insieme le nostre forze per contare di più". D'altronde la cornice è quella giusta, considerati gli interlocutori. Al dibattito su "Il centrosinistra al tempo dei migliori" si confrontano Bettini, Patuanelli, la vicepresidente della Regione Emilia-Romagna Elly Schlein e Pier Luigi Bersani intervistati da Andrea Scanzi. In un'ora di confronto, i volti più noti dell'alleanza giallorosa parlano di tutto: non solo del sostegno al governo Draghi, ma anche la difesa delle cose fatte dall'esecutivo di Giuseppe Conte fino a cosa dovrebbero fare Pd, M5S e LeU per vincere le elezioni contro il centrodestra. In primis, tutti difendono i risultati ottenuti dal governo Conte-2: "Abbiamo salvato l'Italia, poi è stato fatto cadere ma dobbiamo rivendicare quello che ha fatto per il Paese" introduce Bettini. È lui il mattatore e, contrariamente alla linea di Enrico Letta, spinge Draghi verso il Quirinale: "Se pensiamo a un governo che arrivi a fine della legislatura, bisogna fare molta attenzione perché si rischia di logorare anche quella risorsa repubblicana che io ''vorrei conservare anche come Presidente della Repubblica. Questa autorevolezza Draghi la può esprimere anche con altre funzioni". Insomma, Bettini vuole Draghi al Colle e un governo che sia di nuovo politico, legittimato dalle urne: "La sua garanzia deve rimanere ma poi deve tornare la dialettica democratica". Anche Patuanelli spiega che si può stare nel governo Draghi ma provando a strutturare l'alleanza: "Dall'altra parte abbiamo la destra dobbiamo far pesare le nostre battaglie". Sul futuro dell'alleanza giallorosa il capodelegazione del M5S dice che "con la scelta della leadership di Conte e definendo i principi e i valori del Movimento nel nostro statuto abbiamo fatto una scelta di campo nel centrosinistra". D'accordo Elly Schlein, una delle prime esponenti politiche del centrosinistra a voler creare un'alleanza con il M5S. Secondo la vicepresidente dell 'Emilia-Romagna si deve creare un progetto politico che si basi su "candidature credibili e un programma serio sulla giustizia sociale e la giustizia ambientale". Come nella sua Bologna. Pier Luigi Bersani invece rivolge un appello direttamente a Enrico Letta e Giuseppe Conte: "Dobbiamo fare presto perché io non vedo tutta questa stabilità di governo - ha detto - e la destra proverà a sfruttare il fatto che non siamo ancora preparati per andare al voto: dobbiamo farci trovare pronti". Puntando proprio sui due leader, Conte e Letta: "Due amici - conclude Bettini - che possono fare da pilastro del nuovo centrosinistra"».
Liberali, cristiani, europeisti e garantisti. Dopo aver scritto sulla libertà e sul cristianesimo, Silvio Berlusconi interviene oggi sempre dalle colonne del Giornale sul terzo carattere che distinguerebbe Forza Italia: l’Europeismo. Ecco alcuni passaggi, l’articolo è integrale nei pdf linkati alla fine della Versione.
«Per gli Stati europei «il problema è fra l'essere uniti o scomparire». Lo scriveva nel 1954 un grande statista liberale e cattolico come Luigi Einaudi. Intuizione profetica la sua così sembrò allora , ma che appare oggi drammaticamente attuale e profondamente vera di fronte ai nuovi scenari internazionali che anche la crisi afghana fa presagire e temere. Noi che, come lui, siamo liberali e cristiani, proprio per questo siamo convintamente e profondamente europeisti. L'Europeismo, come il Liberalismo, il Cristianesimo, il Garantismo, è uno dei quattro principi, complementari fra loro, sui quali si fonda il progetto di Forza Italia. Ho già spiegato negli articoli precedenti che a tenere insieme questi quattro aggettivi c'è un concetto fondamentale: la centralità, anzi la sacralità della persona, che è per sua natura portatrice di diritti di libertà. Quest' idea di persona si fonda su due grandi eredità spirituali e culturali, quella greco-romana e quella giudaico-cristiana. È proprio nell'incontro fra queste due grandi tradizioni che affonda le sue radici quella che intendiamo come civiltà europea. Nella storia dell'uomo sono nate tante altre grandi culture e grandi civiltà, che meritano profondo rispetto e hanno dato frutti straordinari. (…) L'Europa è democrazia liberale, stato di diritto, uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, società libera e aperta. Tutto questo è l'identità europea. Un'identità che è e dev' essere alla base del processo di integrazione europea, per consentire all'Europa di tornare a svolgere un ruolo attivo nel mondo, attraverso un'unica politica estera, supportata da uno strumento militare comune, quindi un esercito europeo di dimensioni credibili, tecnologicamente avanzato e in condizione di operare sotto la guida di un'unica autorità politica europea. Non c'è dubbio che in questi settant'anni il sogno europeo abbia compiuto passi avanti straordinari. Considero profondamente emozionante l'idea di poter attraversare, senza neppure esibire un passaporto, confini sui quali fino al 1945 intere generazioni di giovani europei hanno versato il loro sangue armati gli uni contro gli altri. (…) Noi conserviamo il sogno degli Stati Uniti d'Europa e vogliamo anzi farne un obbiettivo concreto, cioè un modello di Europa basato su un profondo rispetto per l'identità dei singoli Stati, ma con una unica e forte guida politica negli scenari mondiali, espressione del consenso dei popoli d'Europa. Non un super-Stato burocratico e centralista, ma un grande spazio di libertà, basato sul principio di sussidiarietà, come indicato del resto nella carta dei valori del Ppe. Quella carta dei valori che Forza Italia ha fatto integralmente propria e che sono stato incaricato di riscrivere e di aggiornare in occasione del Congresso di Roma dei Popolari Europei nel 2006. Queste contraddizioni e questi limiti del resto si riscontrano proprio nelle vicende dell'attualità internazionale. Da un lato abbiamo avuto un'Europa solidale e attiva di fronte alla crisi determinata dalla pandemia. Senza le risorse europee del Recovery Fund la ripartenza per Paesi come l'Italia sarebbe stata estremamente difficile. Ho verificato in questi mesi, con Antonio Tajani al Parlamento Europeo e soprattutto attraverso contatti diretti con diversi leader europei, la disponibilità a dare una risposta comune alla più grave emergenza del dopoguerra e non ho fatto fatica a convincere molti governanti amici ad adottare un atteggiamento positivo verso l'Italia in questa fase drammatica. Ma, al tempo stesso, l'Europa si è dimostrata drammaticamente impotente di fronte a scenari tragici come quello dell'Afghanistan, nel quale abbiamo solo potuto prendere atto degli errori di diverse amministrazioni americane, senza avere né la capacità, né la forza politica, né lo strumento militare per svolgere un ruolo autonomo e attivo. Certo, il mantenimento di una stretta alleanza con gli Usa, ma anche un ritrovato rapporto con la Russia - recuperando lo spirito di Pratica di Mare dovranno essere le costanti per il futuro, per fronteggiare e resistere alla sfida globale della Cina, ma non possiamo più immaginare di delegare le scelte di politica estera e di sicurezza e la loro attuazione soltanto agli Stati Uniti. (…) Libertà, Cristianesimo, Europeismo e Garantismo, insieme, sono i quattro principi fondanti che fanno di Forza Italia un soggetto politico unico e insostituibile nella storia del nostro Paese».
TUTTI DA CASINI PER L’11 SETTEMBRE
A proposito di Quirinale, Maria Teresa Meli sul Corriere fa notare che, venerdì prossimo, Pierferdinando Casini metterà insieme tutti i leader politici che contano, in occasione del ricordo dell’ 11 settembre 2001.
«Tutti da Pier Ferdinando venerdì mattina. Ci sarà il neo leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte, non mancherà il segretario dem Enrico Letta. Parteciperà l'ex premier Matteo Renzi. Interverrà il gran capo della Lega Matteo Salvini. Lo stesso dicasi per la presidente di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. E ci sarà anche il leader di Articolo uno Roberto Speranza. Unico assente Silvio Berlusconi, ma interverrà a rappresentarlo il coordinatore nazionale di Forza Italia Antonio Tajani. Insomma, per la sua iniziativa istituzionale Pier Ferdinando Casini è riuscito ad avere tutti i «pezzi grossi» della politica italiana. Più di un parlamentare insinua che sia una prova generale in vista delle elezioni del presidente della Repubblica di febbraio. Del resto, il nome di Casini circola con una qualche insistenza come quello di uno dei possibili successori di Sergio Mattarella e secondo una vulgata in auge nei palazzi della politica uno dei suoi grandi sponsor sarebbe il leader di Italia viva Renzi. In realtà l'appuntamento indetto venerdì prossimo a palazzo Giustiniani per commemorare i tragici eventi dell'11 settembre del 2001, quando gli Stati uniti vennero sconvolti da una serie di attentati terroristici aerei, e che sarà aperto dalla presidente del Senato Elisabetta Casellati, è stato promosso dall'ex leader dell'Udc nella sua veste di presidente dell'Unione interparlamentare. Casini respinge ogni insinuazione che sappia di Quirinale: «Sono rassegnato a quello che scrivono, ma in realtà l'Unione interparlamentare ogni anno commemora un evento importante. E quello dell'11 settembre, alla luce di quanto è avvenuto e sta avvenendo in Afghanistan, può fornire l'occasione per una riflessione unitaria da parte di tutte le forze politiche». Stupisce comunque il fatto che tutti i leader abbiano deciso di partecipare all'incontro e che non si sia registrata, almeno finora, alcuna diserzione. Meglio, la cosa stupisce di primo acchito, perché poi se ci si riflette attentamente ci si rende conto che l'officiante di questa commemorazione è in buoni rapporti con la maggior parte dei big della politica italiana. Anche con quelli che militano dall'altra parte della barricata. Ed è per questa caratteristica di Casini, per quel suo rappresentare una sorta di campo neutro in cui anche gli avversari si possono riconoscere senza polemizzare, che il suo nome continua a circolare nel toto-Quirinale. Dei rapporti con Renzi molto si è detto e scritto. I due sono stati insieme anche l'altro ieri sera, per una commemorazione di Mino Martinazzoli, insieme a Marta Cartabia (un'altra possibile candidata al Quirinale: sarebbe la prima donna presidente della Repubblica). Ma anche con Matteo Salvini, per esempio, i rapporti sono tutt' altro che tesi. Casini lo ha sempre criticato politicamente (senza mai eccedere nei toni e nei modi) però poi lo ha difeso quando si è trattato di mandarlo a processo. Eccellenti anche le relazioni con Forza Italia. Con Conte non c'è una grande frequentazione (in compenso Casini apprezza Luigi Di Maio) e ora neanche con Letta (ma i due si conoscono dai tempi in cui militavano entrambi nella Democrazia cristiana). Nessun rapporto invece con Meloni, che ciò nonostante sarà presente. Già, a parole tutti dicono che se ne parlerà a febbraio, ma nella realtà la partita per il Quirinale è già iniziata».
NUCLEARE VERDE? DIBATTITO APERTO
Repubblica dedica all’argomento il titolo principale di prima pagina: Battaglia sul nucleare verde. È ricominciata la diatriba sull’ultima generazione di centrali nucleari, sull’onda di alcune affermazioni del ministro Cingolani. L’articolo è di Andrea Greco.
«La disputa pro o contro l'energia nucleare è ricominciata, forse perché mai sopita. Sui palchi del 47° Forum Ambrosetti è stato argomento centrale di dibattito e la contrapposizione è già arrivata dentro governo e maggioranza. La miccia l'ha accesa giorni fa il ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani. «Il mondo è pieno di ambientalisti radical chic e di oltranzisti ideologici, che sono peggio della catastrofe climatica verso cui andiamo sparati se non facciamo qualcosa di veramente sensato - aveva detto l'ex direttore scientifico dell'Istituto italiano di tecnologia- sul nucleare si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione. Se a un certo momento si verifica che i chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso è da folli non considerare questa tecnologia». Su Repubblica , ieri, gli faceva eco Paolo Scaroni, banchiere di Rothschild e già a capo di Enel ed Eni, i due ex monopolisti italiani dell'energia elettrica e di quella fossile: «Condivido quanto ha detto il ministro Cingolani. Non si può escludere a priori una tecnologia che annulla le emissioni di anidride carbonica, e che funziona in 436 centrali nucleari nel mondo, con altre 53 in costruzione». Ma ieri pomeriggio, parlando da Cernobbio di transizione energetica, l'amministratore delegato di Enel, Francesco Starace, ha criticato recisamente le ipotesi di un revival dell'atomo: «Nel mix energetico italiano quanto più velocemente ci disfiamo della percentuale di energia che produciamo da fonti fossili, tanto meglio siamo messi. Per farlo, è necessario accelerare gli investimenti nelle rinnovabili. Non è realistico riconsiderare il nucleare, anche perché il 'nuovo nucleare' non è tanto nuovo come sembra», ha detto il manager che dal 2014 guida il colosso elettrico a controllo pubblico, frattanto diventato uno dei maggiori produttori europei di energie rinnovabili. Starace, parlando in inglese nei lavori del Forum, ha aggiunto che il 2030, in cui l'Europa intende ridurre del 55% le emissioni di gas serra, «è domani: e per cogliere l'obiettivo vanno investiti 3.564 miliardi aggiuntivi, 186 dall'Italia. Dobbiamo quindi basarci sulle tecnologie che esistono, non fare science fiction». Un riferimento, caustico, ai nostalgici del nucleare. Tra questi, anche Alberto Bombassei, patron del gruppo Brembo, per cui «è un tema bellissimo e stimolante, un plauso al ministro Cingolani». La tecnologia di quarta generazione, che punta alla fusione del nucleo testando mini-reattori modulari, «è molto innovativa, non è il vecchio sistema della fissione: e se, come sembra, ha un sostegno scientifico, è una strada estremamente interessante», ha aggiunto l'imprenditore lombardo. Dal congresso nazionale di Pax Christi, in corso ad Assisi, il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, lancia l'allarme: «Bisogna stare molto attenti a dare al nucleare la patente di sviluppo». Ma ancora più duro è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Fortunatamente non ho notizie di alcuna proposta sul nucleare nel governo, altrimenti la bloccherei senz' altro». In serata, sempre da Cernobbio, Cingolani ha contestualizzato le parole della vigilia: «Credo che sia stato preso un momento di una lezione fatta a qualche centinaio di studenti in cui raccontavo tra altre cose che Usa e Francia stanno testando tecnologie non mature, e di cui si saprà tra 10-15 anni. Se si dovessero rivelare importanti, per me qualcuno dovrà tenerne conto. Al momento, ovviamente, non c'è nessuna proposta, e ci sarebbe anche poco da proporre, perché non c'è la tecnologia: guardarle e studiarle tutte però mi pare sacrosanto».
Marco Palombi per Il Fatto condensa pesanti critiche a Cingolani, dipinto come il Ministro della Transizione, traditore della linea 5 Stelle.
«Pragmatismo, dati, numeri. Il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ama ammantare di inevitabilità le sue preferenze politiche. Come si ricorderà mercoledì, ospite di Matteo Renzi, ci ha intrattenuto sul nucleare " di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante: ci sono Paesi che stanno investendo su questa tecnologia, non è matura, ma è prossima a essere matura". "Nessuna proposta", per carità, come ha spiegato ieri l'interessato, ma parole che venendo da un ministro vanno prese in considerazione. Ora, a parte che "prossima a essere matura" è definizione bizzarra (oltre vent' anni secondo i più ottimisti), sono le reazioni all'uscita del ministro - peraltro non la prima sul tema - che raccontano a quali mondi parli e quali ascolti Cingolani. Non certo gli ambientalisti "radical chic" o quelli "oltranzisti" - che secondo il nostro sono quasi peggio del cambiamento climatico - ma la sempre più smandrappata lobby dell'atomo. Gente come Paolo Scaroni, già a capo di Enel e Eni negli anni d'oro del berlusconismo, oggi vicepresidente della banca d'affari Rothschild & C.: "Sul nucleare condivido quanto ha detto Cingolani. Non si può escludere a priori una tecnologia che annulla le emissioni di anidride carbonica", ha detto ieri a Repubblica. È il nucleare ambientalista la nuova canzone (e a Scaroni per la verità interessa poco pure che sia di quarta generazione): "Con le tecnologie che abbiamo oggi, e anche ipotizzando uno sforzo enorme sulle rinnovabili, non saremmo in grado di rispettare gli impegni per il 2050", dice al quotidiano degli Agnelli. Un'affermazione su cui è in completo disaccordo l'Agenzia internazionale per l'energia dell 'Ocse, ma tant'è, diamo retta a Scaroni, che nel 2013 - a un convegno di Confindustria Energia - definì "da ubriachi" investire nelle rinnovabili. La compagnia di giro è sempre la stessa: oltre Scaroni, c'è l'Associazione italiana nucleare (citata ieri da La Stampa, sempre gruppo Gedi) e Chicco Testa, ex ambientalista e parlamentare di sinistra, poi assiduo nei cda para-pubblici in quota centrosinistra e infine manager e lobbista pro-nucleare ("pensare di garantire energia a sei miliardi di persone con le rinnovabili è una pia illusione"). Ci sono poi quelli che si entusiasmano quando sentono parlare di pragmatismo, anche se non sanno di cosa parlano: "Questa tecnologia (il nucleare di quarta generazione, ndr) è molto innovativa, non è il vecchio sistema della fissione nucleare. E se, come sembra, ha un sostegno scientifico, la considero una via estremamente interessante" ha detto al Forum Ambrosetti di Cernobbio (e dove sennò?) il presidente della Brembo Alberto Bombassei. Curiosamente nello stesso augusto consesso è stato chiesto un parere anche a Francesco Starace, l'ad di Enel, che qualcosa sulle strategie energetiche conta: è realistico pensare al nucleare? Risposta: "No " e poi comunque questo "nuovo nucleare non è tanto nuovo come sembra". E allora? "Vanno accelerati gli investimenti nelle rinnovabili". Starace evidentemente non è pragmatico».
LE VELOCISTE AZZURRE ALLE PARALIMPIADI
Doppia vittoria ieri delle ragazze azzurre. Le pallavoliste hanno vinto il titolo europeo battendo la Serbia. E hanno trionfato le italiane della velocità alle Paralimpiadi. Gaia Piccardi sul Corriere ci racconta la vittoria delle tre atlete disabili e le loro incredibili storie.
«Diluvia, sulla pista degli ori di Jacobs, Tamberi e della 4x100. Ma la pioggia di Tokyo che si abbatte sulla Paralimpiade non riesce a lavare via la magia dell'estate più bella dello sport italiano. Il sogno ad occhi aperti iniziato all'Olimpiade dura cento metri in più, quelli che bastano ad Ambra Sabatini, Martina Caironi e Monica Contrafatto per prendersi il podio dello sprint T63 (atlete con protesi a un arto), una tripletta inedita che arrotonda il bottino dell'Italia a 69 medaglie (14 ori, 29 argenti, 26 bronzi), record. La Giamaica siamo noi, Ambra da Porto Ercole che alla velocità di 19 anni e 228 giorni si lancia all'inseguimento dell'indonesiana Tiarani scappata via dal blocchi, Martina la bergamasca globetrotter di Alzano Lombardo (Erasmus in Spagna, casa a Bologna) dal talento multiforme (giovedì ha vinto l'argento nel lungo), Monica la soldatessa di Gela che nella notte giapponese lancia un urlo da tigre che rimbalza fino a Kabul: «Dedicato all'Afghanistan. È il Paese che mi ha tolto una parte di me ma poi mi ha regalato una nuova vita, ed è fighissima». Il 24 marzo 2012 un colpo di mortaio nel distretto di Gulistan, mentre è in missione di pace come militare del primo Reggimento bersaglieri di stanza a Cosenza, le strappa la gamba destra. È in ospedale a Roma, la tv accesa sulla Rai: «Vedo la Caironi conquistare l'oro nei 100 alla Paralimpiade di Londra. Una folgorazione». C'è Martina, 31 anni, due ori paralimpici, cinque mondiali, sei europei, faro del centro di eccellenza protesi Inail di Vigorso di Budrio, la famiglia allargata dove nascono i prototipi (Gregorio Teti, direttore dell'area tecnica, a Tokyo è intervenuto last minute proprio sul dispositivo della Sabatini, dopo averne raccolto le ultime sensazioni), al centro delle vite parallele di Ambra e Monica, Caironi è il totem che nel 2007, quando ha 18 anni, in motorino viene centrata da un'auto. Il fratello, alla guida, è illeso. Per Martina, dopo quattro giorni di coma indotto, la verità più dura: dal ginocchio in giù non c'è più nulla. «Un anno dopo l'incidente, ospite di Bergamo Scienza, incontro Oscar Pistorius. Compro il suo libro, me lo autografa. In quel momento ho capito che non ero sola». Simile il percorso di Sabatini, che il 12 febbraio scorso a Dubai, 617 giorni dopo aver perso la gamba sinistra in un incidente in scooter con il babbo Ambrogio sulla strada verso il campo di atletica, ha realizzato il record del mondo nei 100. L'ha ritoccato ieri in finale, Ambra che crede nel destino («Penso che ognuno abbia la missione di lasciare una traccia nel mondo: la mia è l'oro in 14"11 a Tokyo»), anima luminosa che non si è lasciata spegnere («Certo che ho avuto momenti di sconforto, ma la vita è troppo bella per essere vissuta con rassegnazione. A volte ci si butta giù per cose piccole, a me ne è successa una grande»), nel letto d'ospedale a Careggi ha cominciato a informarsi sul mondo paralimpico, quell'universo di possibilità che l'ha portata a conoscere Bebe Vio («Faccio parte della sua associazione onlus») e Alex Zanardi («Mi aveva mandato un videomessaggio di incitamento dopo l'incidente, poi ci siamo sentiti ed è stato super carino: spero si riprenda presto e di poterlo incontrare»). Si complimentano il premier Draghi («Siete fonte d'orgoglio per il Paese»), il re di Olimpia Jacobs («Grazie ragazze, lottatrici nate!»), tutta Italia. Chi ha ispirato chi, in fondo, in questa storia è secondario. Conta il messaggio. Per tutte, parla Caironi: «Ci unisce la voglia di tirare fuori di più dalla condizione di disabilità. Non solo abbiamo superato lo svantaggio, ma ne stiamo facendo qualcosa di grande». Così grande che gli aggettivi sono finiti».
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Leggi qui tutti gli articoli di domenica 5 settembre:
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Per la Versione si prepara un altro grande balzo in avanti (Copyright Mao Tse Tung). VI ASPETTA UNA NUOVA SORPRESA. Intanto scrivete suggerimenti, considerazioni, reazioni all’idea di postare il link degli articoli della rassegna in pdf, usando la casella lelio.banfi@gmail.com. Vi aspetto.