La Versione di Banfi

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Tre buone notizie

alessandrobanfi.substack.com

Tre buone notizie

Crescita del Pil, inflazione sul debito e bollette gas meno care. Ma la politica si divide sui rave party e il Covid. Domani Meloni in Europa e venerdì la Nadef. Mosca accusa Londra. La crisi permane?

Alessandro Banfi
Nov 2, 2022
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Tre buone notizie

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Il Paese reale va da una parte. E la discussione del Palazzo da un’altra. L’Italia funziona sempre un po’ così. Al punto che nessun economista aveva previsto che il governo si trovasse alla vigilia del varo della Nota di aggiornamento con tre buone notizie: 1. Una crescita del PIL sopra le aspettative, spinto dai consumi di beni e servizi e sono i dati di cui abbiamo parlato ieri. 2. L’effetto positivo dell’inflazione sul nostro debito pubblico (secondo MF di stamattina è calcolabile in 10 miliardi in più a disposizione della premier). 3. Le bollette del gas a novembre aumenteranno solo del 5 per cento e non del 70 finora previsto e lo dicono i pessimisti di Nomisma energia. Considerando che domani Giorgia Meloni inizia un delicato primo viaggio in Europa (Beda Romano ne racconta le attese a Bruxelles), ci sarebbe da ragionare bene e valutare quali mosse reali l’esecutivo farà in tema di decreto sull’energia e legge finanziaria. Ma non è di tutto ciò che si discute fatalmente fra le forze politiche.   

In un gioco di convenienze reciproche si litiga sulle parole e sulle intenzioni: dal “merito” a Predappio. La destra ha varato la nuova legge anti-rave e la sinistra si straccia le vesti per l’incipiente “Stato di polizia”, paventando che anche le occupazioni di scuole e università (segnale di fine intervallo per i collettivi dopo il comodo ponte di Ognissanti) possano finire nella nuova norma anti-invasione di più di 50 persone. Da parte sua il Ministro degli Interni Matteo Piantedosi oggi chiarisce al Corriere della Sera che la norma riguarda solo i raduni come i rave. Il Fatto coglie al volo l’occasione per poter finalmente ritorcere contro il presente governo l’accusa tante volte rivolta nella scorsa legislatura ai vari Toninelli e c. di scrivere “le leggi con i piedi”. Livelli altissimi del dibattito, insomma. Con le Fiorelle Mannoia e gli Erri de Luca che scendono metaforicamente in piazza.

Ma se nell’era Meloni ci dovremo abituare, almeno per un po’, a questo nuovo “teatrino della politica”, le notizie dal fronte bellico non ci lasciano per niente sereni. Mosca accusa esplicitamente Londra di essere complice di Kiev nei sabotaggi al gasdotto e nelle azioni oltre confine dell’intelligence ucraina (ieri nuovo blitz ad una base di elicotteri russi). Mentre tornano sulla stampa statunitense retroscena che dipingono un rapporto in crisi fra Biden e Zelensky, perché quest’ultimo non vorrebbe accettare alcuna forma di negoziato con Putin.

Ieri il Papa all’Angelus di Ognissanti ha citato il discorso della montagna per un monito a favore della pace. Ha detto: “Gesù non chiama beati i tranquilli, quelli che stanno in pace, ma quelli che fanno la pace e lottano per fare la pace, i costruttori, gli operatori di pace. La pace va costruita e come ogni costruzione richiede impegno, collaborazione, pazienza... Cari fratelli e sorelle, per favore, non dimentichiamo la martoriata Ucraina: preghiamo per la pace, preghiamo perché in Ucraina ci sia la pace”. Si scaldano i motori per le grandi manifestazioni di sabato 5, raccontano Avvenire e Manifesto.

Il Corriere dice che gli esperti del famoso dizionario inglese Collins hanno trovato la parola simbolo dell’anno 2022: “Permacrisis”. In italiano suona non benissimo ma il significato è evidente. Comunica la sensazione di una crisi continua e permanente, di cui non si vedono gli esiti. Dopo la pandemia, sono arrivate la guerra e l’inflazione. Il neo arruolato sotto-sottosegretario Morgan ricorda, in un’intervista a Libero, una canzonetta del 1933: Ma cos’è questa crisi?, nel verso che dice: Cavi fuori il portafogli/Metta in giro i grossi fogli e vedrà...Che la crisi finirà!. Peccato che il quantitative easing ce lo siamo già giocato. La crisi permane.

È disponibile anche il quinto episodio della serie podcast Maestre e maestri d’Italia, ideata da Riccardo Bonacina e da me realizzata con Chora media per Vita.it, grazie al sostegno della fondazione Cariplo. È intitolato LA GRAMMATICA DELLA FANTASIA, ed inizia con una filastrocca. Una filastrocca di Gianni Rodari, grande scrittore e giornalista, ma anche maestro, che ha dedicato gran parte della vita alla letteratura per bambini ma anche all’educazione. La filastrocca dice: “Ho conosciuto un tale…”. A recitarla è Rodari stesso. Nel podcast poi c’è ancora la sua voce mentre tiene una lezione a Napoli sulla fiaba nel 1967, in un ciclo di conferenze chiamato “Libri d’oggi per ragazzi d’oggi” e in un’altra situazione in cui dialoga con i bambini di una classe elementare di Arezzo e compone con loro una storia: “C’era una principessa…”.  L’altro protagonista di questo episodio è Alex Corlazzoli, un vero discepolo di Rodari. Corlazzoli, facendo una strada per certi inversa rispetto a Rodari, ha cominciato dal giornalismo ed è finito a insegnare, anche se ama ancora scrivere, ha tantissimi libri al suo attivo  (l’ultimo Sussidiario per i genitori) ed è seguito sul suo Blog del Fattoquotidiano.it che si occupa di scuola in modo intelligente. Scrive lì: “Nella vita non avevo previsto di fare l’insegnante. Ho sempre sognato di fare il giornalista. Anzi da bambino avrei voluto fare il prete”. Ma in realtà Alex è un maestro dalla testa ai piedi, appassionato dei suoi ragazzi e senti che, esattamente come Rodari, è il primo ad imparare da loro, dalla loro sete di crescere, dalla loro voglia di vivere. Anche per questo episodio cercate questa cover del podcast…

Trovate Maestre e maestri d’Italia su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate qui sul link di Spreaker e ascoltate il quinto episodio. Da far girare anche in whatsapp!

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae Miriam Ciobanu, 22 anni, la terza vittima in pochi giorni di incidenti stradali provocati da giovani guidatori “sballati”. Miriam è stata travolta da un Suv guidato da un 23enne ubriaco e sotto effetto di droghe.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera promette con un virgolettato del Ministro degli Interni: «Fermeremo solo i rave». Ma per La Repubblica bisogna dare battaglia: No alla legge manganello. La Stampa riporta tra virgolette la posizione delle opposizioni: “Rave, una legge liberticida”. Per Avvenire siamo al muro contro muro: Occupazioni e Covid: segnale che già divide. Secondo il Domani: La norma liberticida sui rave party ridà al Pd la guida dell’opposizione. Il Fatto si vendica delle tante critiche rivolte in passati ai grillozzi: Galera per i ragazzi: legge scritta coi piedi. Il Giornale prova ad accendere un’altra polemica: Zitta zitta l’Europa ci rimolla i migranti. Mentre il Quotidiano Nazionale: Scontro politico sulle norme anti rave. Per il Manifesto è un governo diabolico: Vade retro. Il Mattino sottolinea l’avversione della Campania alle nuove norme: Covid, l’affondo di De Luca. Il Messaggero pensa alle occupazioni dei licei romani: Rave, stretta anche per le scuole. Il Sole 24 Ore si occupa della nostra compagnia aerea: Ita, Lufthansa pronta a rientrare. La Verità è ancora sul fronte No Vax: Ci vogliono sempre ostaggi del Covid. Libero prova ad andare al contrattacco: La sinistra allo sballo.

LEGGE ANTI RAVE RIBATTEZZATA LEGGE MANGANELLO

Dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del decreto contro i rave party, sollevazione di scudi dell’opposizione. Grazia Longo per La Stampa.

«Non si placa la polemica per il decreto legge contro i rave party pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. L'opposizione insorge contro il governo ritenendo non solo la norma troppo restrittiva ma anche ambigua, perché, per esempio, sembra destinata anche agli assembramenti degli studenti nelle scuole e nelle università o dei lavoratori nei sit-in sindacali. Ecco dunque lo scambio di fuoco tra il segretario del Pd Enrico Letta e quello della Lega Matteo Salvini, che nel frattempo incrocia le spade anche con Fiorella Mannoia e con Roberto Saviano. «Il Governo ritiri il primo comma dell'articolo 434 bis di riforma del Codice Penale - tuona Letta su Twitter -. È un gravissimo errore. I rave non c'entrano nulla con una norma simile. È la libertà dei cittadini che così viene messa in discussione». Ma Salvini replica secco: «Indietro non si torna. Un Pd ormai in confusione totale difende illegalità e rave party abusivi, chiedendo al governo di cambiare idea. No! Indietro non si torna, le leggi finalmente si rispettano». Letta però lo incalza, sottolineando che a Modena «il rave party è stato gestito bene, con le leggi vigenti. Le nuove norme che avete voluto con decreto legge non sono contro i rave party abusivi. Suonano come limite alla libertà dei cittadini e minaccia preventiva contro il dissenso». Il provvedimento voluto dal ministro dell'Interno Matteo Piantedosi punisce «l'invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l'ordine pubblico» e il coordinatore della segreteria di + Europa Giordano Masini stigmatizza: «Nella definizione di "terreni o edifici altrui, pubblici o privati" ricade di tutto: i capannoni o i campi in cui vengono organizzati i rave, ma anche le università, i luoghi di lavoro, le piazze». Il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni è preoccupato per l'estensione della norma anti-rave anche «ai cortei sindacali dei lavoratori sempre più esasperati, alle mobilitazioni studentesche o alle proteste dei comitati e dei movimenti come quelle che in questi mesi si sono sviluppate a Piombino». L'aria è tesa. Interviene anche il presidente del M5S Giuseppe Conte che parla di «genericità» della legge che «consentirà un esercizio discrezionale alle autorità preposte alla sicurezza e all'ordine pubblico. Si applicherà anche negli edifici, quindi nelle scuole, nelle fabbriche, nelle università. Il modo in cui si è intervenuti è raccapricciante». Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini e Igor Boni, segretario, tesoriera e presidente di Radicali Italiani non hanno dubbi: «La vera circostanza pericolosa in tutto questo è la norma stessa. Si tratta, infatti, di una previsione volutamente scritta male, applicabile a qualunque raduno che l'autorità pubblica reputi, a proprio giudizio, pericoloso». Anche il verde Angelo Bonelli teme che «verranno colpite le manifestazioni di protesta che possono andare da occupazioni di università, scuole, mobilitazioni per questioni ambientali». Mentre secondo il presidente di + Europa Riccardo Magi siamo di fronte a una legge dal «sapore putiniano». Mariastella Gelmini di Azione precisa al Tg1 che «introdurre una nuova fattispecie di reato dovrebbe essere, non solo l'extrema ratio, ma non si dovrebbe mai fare per decreto». Il Pd non fa sconti: Chiara Gribaudo parla di bavaglio al dissenso, Marco Meloni di «norma liberticida», Valente invece vi legge una chiara impronta identitaria di una destra illiberale. Le critiche peraltro non provengono solo dal mondo politico, ma anche dai penalisti. Il presidente dell'Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo evidenzia che «si parla di "invasione di edificio altrui" e non per forza va applicata ai ravers ma anche ad altri assembramenti mettendo a rischio la libertà di riunirsi prevista dalla Costituzione». E il presidente delle Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, puntualizza che essendo previste pene superiori ai 5 anni, «con il nuovo reato le intercettazioni sono possibili». Ma dal ministero dell'Interno replicano che «la norma non parla di intercettazioni e dunque non le introduce. Lo strumento fondamentale del provvedimento è quello della confisca delle attrezzature utilizzate, una misura che ha un forte potere dissuasivo». Il Viminale difende inoltre la legge e precisa che «interessa una fattispecie tassativa che riguarda la condotta di invasione arbitraria di gruppi numerosi tali da configurare un pericolo per la salute e l'incolumità pubbliche». In altre parole «la norma non lede in alcun modo il diritto di espressione e la libertà di manifestazione sanciti dalla Costituzione e difesi dalle Istituzioni». In difesa della linea del Viminale si schiera anche il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che a Porta a Porta dichiara: «Con le nuove norme annunciate dal ministro dell'Interno sui rave party, Piantedosi ha dato una lezione alla Lamorgese». E Alfredo Antoniozzi, deputato di Fratelli d'Italia osserva: «I provvedimenti presi dal governo sui rave party vanno nella direzione di proteggere i nostri giovani dalle droghe e su questo dobbiamo insistere senza timori».

Secondo Il Fatto per una volte le opposizioni si presentano compatte: l’accusa contro il governo è di volere “lo Stato di polizia”.

«"Allarme democrazia": per una volta sulla norma anti-rave le opposizioni marciano compatte. A scaldare gli animi è l'ambito di applicazione della stretta estesa a tutti gli assembramenti. Cortei sindacali e manifestazioni politiche compresi. "Il governo ritiri" la norma. "È un gravissimo errore. I rave non c'entrano nulla: è la libertà dei cittadini che così viene messa in discussione", denuncia Enrico Letta. Ci va giù duro il leader M5S, Giuseppe Conte. Questa è una norma da "Stato di polizia". dice. "La Meloni ha dichiarato di non avere simpatie per il regime fascista. Ma la sua cultura non è distante". Ancora: "Il modo con cui si è intervenuti è raccapricciante". Tanto per il numero (50 persone) che verrebbe considerato come sufficiente a far "derivare un pericolo per l'incolumità pubblica o la salute pubblica", quanto per l'arbitrarietà e la discrezionalità - è il suo ragionamento - che sarebbe nelle disponibilità delle autorità preposte a decidere sulla sicurezza e sull'ordine pubblico. "Una legge dal sapore putiniano", osserva il presidente di Più Europa, Riccardo Magi. E Carlo Calenda, in un tweet, è critico su tutta la linea: "Norme mal scritte sui rave, posizioni discutibili sui vaccini, rinvio della riforma Cartabia su richiesta Anm e i navigator; ma che priorità sono?"».

PIANTEDOSI SPIEGA: “SERVE SOLO PER I RAVE”

Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera intervista il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi. Che rassicura, sostenendo: la norma sarà applicata solo per i rave party.

«Ministro Matteo Piantedosi il suo decreto sui rave ha creato polemiche e proteste. Era proprio necessario?
«L'obiettivo di queste norme approvate dal Consiglio dei ministri è allinearci alla legislazione degli altri Paesi europei anche ai fini di dissuadere l'organizzazione di tali eventi che mettono in pericolo soprattutto gli stessi partecipanti - ricordo che a Modena si ballava in un capannone pericolante e si rischiava una strage - e finiscono per tenere in scacco intere zone, pregiudicando attività commerciali e viabilità. Dobbiamo garantire, in primo luogo, che i giovani possano divertirsi senza esporsi a pericoli per la loro incolumità e poi tutelare gli imprenditori che subiscono la concorrenza di chi agisce in spregio a qualsiasi regola».

Lo applicherete anche per le occupazioni nelle scuole e gli altri assembramenti?
«Credo sia interesse di tutti contrastare i rave illegali. Trovo invece offensivo attribuirci la volontà di intervenire in altri contesti, in cui si esercitano diritti costituzionalmente garantiti a cui la norma chiaramente non fa alcun riferimento. In ogni caso la conversione dei decreti si fa in Parlamento, non sui social. In quella sede ogni proposta sarà esaminata dal governo».

In una settimana lei ha inviato una direttiva alle navi Ong, bloccato una manifestazione all'università, ordinato lo sgombero di un rave. L'interventismo è la sua cifra?
«Il mio ruolo costringe ad affrontare situazioni contingenti e immediate. Non sempre si può programmare ciò che attiene alla sicurezza e all'ordine pubblico».

Perché non vuole essere chiamato prefetto di ferro?
«Il mio modello di gestione della sicurezza è: fermezza e dialogo, lasciando l'uso della forza pubblica come opzione estrema per evitare rischi peggiori. È il mio modo di agire da sempre. Come prefetto di Roma, ho gestito il tema degli sgomberi in questo modo, ottenendo senza tensioni risultati importanti: restituzione degli immobili occupati da anni ai legittimi proprietari, preoccupandoci di dare una casa a tutti coloro che ne avevano diritto e bisogno. E senza utilizzare la forza pubblica. Per me ciò che più conta è il rispetto, soprattutto delle regole, dell'altro diverso da te, dello Stato e di chi lo rappresenta con una divisa, una toga, un camice, o svolgendo un servizio di pubblica utilità».

Marca la discontinuità?
«Questo governo ha ottenuto un forte mandato elettorale dai cittadini su temi precisi. So cosa devo fare. La tutela della sicurezza è una priorità per la coalizione che ha vinto le scorse elezioni. Occorre agire su più fronti contemporaneamente, rafforzando la presenza delle forze di polizia nelle nostre città ma anche affrontando questioni come il degrado urbano, le fragilità e le marginalità, le difficoltà dei nostri giovani, operando insieme con il mondo della scuola e della cultura».

Molti analisti temono proteste di piazza e tensioni sociali.
«Gestire le piazze è sempre un compito estremamente delicato. Abbiamo delle forze di polizia che hanno dimostrato anche recentemente durante le manifestazioni nella fase pandemica di saperlo fare con equilibrio e autorevolezza. Da parte mia ho richiamato l'esigenza di proseguire lungo questa strada garantendo a chiunque il diritto di esprimere il proprio pensiero a maggior ragione se di dissenso, purché avvenga nel rispetto della legalità e soprattutto senza pregiudicare le libertà altrui».

Però a Predappio non siete intervenuti.
«Si tratta di una manifestazione, una pagliacciata, che deploro nella maniera più assoluta. Si svolge da anni, senza incidenti e sotto il controllo delle Forze di polizia. È accaduto con analoghe modalità e numeri anche in anni in cui al governo vi erano personalità politiche che ora esprimono indignazione. Posso assicurare che le forze di polizia segnaleranno all'autorità giudiziaria tutti gli eventuali comportamenti in violazione delle disposizioni vigenti».

Non crede che ci sia una nostalgia pericolosa?
«Viviamo in un Paese democratico con istituzioni solide e una Costituzione repubblicana in cui si riconoscono tutti i partiti politici. Abbiamo gli anticorpi per sconfiggere chiunque voglia andare in un'altra direzione».

Crede davvero che alla Sapienza fosse necessario l'uso della forza?
«C'era da impedire l'assalto a un convegno regolarmente autorizzato. Le forze di polizia sono intervenute per evitare il contatto rischioso tra gli organizzatori del convegno e i manifestanti. La professionalità e la sensibilità di chi opera sul campo e deve prendere decisioni in pochi istanti va sempre rispettata e le decisioni assunte non possono pregiudizialmente essere messe in discussione. Pur di fronte alle spiacevoli immagini del contatto fisico tra poliziotti e manifestanti, non abbiamo avuto nessun ferito tra i manifestanti. Io continuerò a garantire che nelle università, nelle piazze, nei confronti pubblici ognuno possa liberamente manifestare il proprio pensiero in piena sicurezza».

Perché non lo avete garantito allo stadio di Milano quando i capi ultras dell'Inter hanno sgomberato la curva?
«In alcuni casi se la forza pubblica non interviene nell'immediatezza è solo perché viene effettuata una valutazione ponderata sul rischio di tale scelta. In uno stadio è sempre preferibile evitare interventi che potrebbero generare situazioni di gravissimo pericolo. Quando sono presenti decine di migliaia di persone la prudenza è d'obbligo. La recente tragedia a Seul insegna che la calca può portare a conseguenze drammatiche. La questura di Milano sta svolgendo approfonditi accertamenti anche utilizzando il sistema di videosorveglianza di cui lo stadio milanese è capillarmente dotato che stanno già indirizzando verso l'individuazione di eventuali responsabili dell'accaduto».

Al largo dell'Italia ci sono due navi cariche di migranti. Consentirete lo sbarco?

«Abbiamo agito sin da subito per dare un segnale immediato agli Stati di bandiera: non possiamo farci carico dei migranti raccolti in mare da navi straniere che operano sistematicamente senza alcun preventivo coordinamento delle autorità. Al momento questi eventi rappresentano il 16% delle persone sbarcate in Italia. Ma poiché ci facciamo già carico del restante 84% dei migranti arrivati sulle nostre coste, con altri mezzi o salvati da noi, auspichiamo che la tanto sbandierata solidarietà europea si realizzi. E non solo attraverso i ricollocamenti, peraltro finora sostanzialmente falliti, ma anche accettando di farsi carico dell'accoglienza di quella minima parte che sostanzialmente mette piede per la prima volta in quegli stessi Paesi europei ai quali appartengono le navi che li raccolgono in acque internazionali. Non derogheremo mai ai nostri doveri di salvataggio delle persone in mare, ma crediamo sia arrivato il momento che la solidarietà europea diventi finalmente concreta».

 E al di là dei divieti, come pensa di affrontare i flussi di migranti?

«Io sono convinto che sia necessario bloccare le partenze e verificare nei Paesi di origine e di transito chi può e chi deve arrivare, assicurando un trasferimento ordinato e un vero inserimento sociale. Credo che questa azione vada accompagnata dalla programmazione e dalla offerta di adeguati ingressi legali. Sono gli Stati che devono governare i flussi di ingresso che, se regolari, servono anche al nostro Paese».

Lei è un tecnico ma è stato indicato dalla Lega. Si sente in quota?

«Sono un prefetto, non ho una storia di partito. Sento di essere un servitore dello Stato e sono consapevole di essere stato chiamato a svolgere un ruolo importante nell'ambito di governo con una precisa linea politica fondata sul voto degli elettori. A Matteo Salvini mi lega un rapporto di amicizia oltre che di gratitudine per la fiducia che mi ha sempre dimostrato».

COVID, IL REINTEGRO DEI NO VAX

Altro tema divisivo: il Covid. Al via il rientro dei sanitari No Vax. Oggi l'invio delle e-mail di posta certificata. L'appello dei medici ospedalieri a destinare il personale in modo intelligente. I dirigenti sanitari assicurano: valuteremo i singoli casi. La cronaca sul Corriere è di Margherita de Bac.

«Migliaia di e-mail in posta Pec inviate da stamattina ai dipendenti no vax. Scatta l'operazione rientro indicata dal decreto che prevede lo stop all'obbligo vaccinale dal 1° novembre, con due mesi d'anticipo rispetto alla scadenza del precedente decreto legge. Gli ordini professionali delle categorie coinvolte (infermieri, operatori socio-sanitari e medici) hanno avviato il lavoro di richiamo. Dovranno comunicare alle Asl la revoca della sospensione dall'albo dei loro iscritti. Poi le aziende la trasmetteranno ai diretti interessati. C'è incertezza sui numeri. Il ministro della Salute Schillaci conta 4 mila medici reintegrati ma, fra loro, circa la metà è dentista o libero professionista. Quindi in 2 mila potrebbero riprendere le proprie postazioni per rattoppare, sia pur in minima parte, organici all'osso. Diecimila gli infermieri, stima Maurizio Zega, presidente dell'Ordine infermieristico di Roma, il più numeroso d'Italia, dove i no vax e i non completamente vaccinati col richiamo sono 1.600. Prendono corpo le polemiche contro «l'amnistia» del governo Meloni. Dalla Puglia il governatore Michele Emiliano si muoverà autonomamente: «Noi abbiamo una legge regionale che prevede l'obbligo di vaccinazione contro alcune malattie contagiose e non abbiamo intenzione di cambiarla. Non è mai stata impugnata». Apertamente ostile Vincenzo De Luca, Presidente in Campania: «La decisione del governo è gravissima e irresponsabile. Un'offesa ai medici responsabili e ai pazienti. È una gestione ideologica dell'emergenza». Per Pierino Di Silverio, segretario nazionale del sindacato più rappresentativo degli ospedalieri (Anaao-Assomed) «il liberi tutti è azzardato. La pandemia non è superata»: i sanitari no vax «non siano reintegrati nei reparti più a rischio per la presenza di pazienti particolarmente fragili, a partire dalle terapie intensive e dalle oncologie». C'è parecchia inquietudine sull'anticipo. Il timore è che l'opinione pubblica lo interpreti come un segnale di fine emergenza Covid. E sarebbe sbagliato, è il ragionamento: il virus circola ancora intensamente, procurando è vero sintomi perlopiù lievi, ma resta una malattia temibile per gli strascichi che può lasciare. Che cosa succederà ora a livello organizzativo? Le situazioni dei reintegrati «saranno valutate caso per caso rispetto all'assegnazione dei reparti, a tutela di tutti. Da parte del datore di lavoro c'è l'interesse a salvaguardare anche il dipendente, considerato una risorsa», è la linea di Giovanni Migliore, presidente della Federazione delle aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso). Il timore di Zega riguarda il mantenimento dell'armonia nei reparti: «In questi anni ho visto colleghi assumere posizioni preconcette e ascientifiche, che mi hanno sbalordito. Non credo che chi ha rispettato la norma senza alcun riconoscimento, anzi addossandosi carichi di lavoro superiori, accoglierà di buon grado chi nei prossimi giorni riprenderà il suo posto grazie a un riconoscimento». Uno sguardo più ravvicinato ad alcune realtà locali può forse rendere l'idea di come verrà organizzato il ritorno dei sospesi, rimasti in questi mesi senza stipendio. Pierpaolo Benetollo è a capo del servizio ospedaliero provinciale di Trento. Su 9 mila dipendenti, i no vax sono ora 150, fra cui 5 medici. Altrettanti erano già rientrati dopo aver contratto l'infezione o dopo aver deciso di vaccinarsi per non rinunciare al lavoro: «Valuteremo caso per caso, promuovendo incontri con i coordinatori dei reparti per evitare rischi per personale e pazienti». Carlo Rossi, presidente Ordine medici di Milano, conta circa 550 iscritti sospesi dall'albo (per metà già reintegrati perché hanno rivisto le loro posizioni o contratto il virus). A Firenze il presidente dell'Ordine dei medici Piero Dattolo conta i colleghi che erano fuori: 130, soprattutto liberi professionisti, dentisti e pensionati. Quattro i dipendenti pubblici: due psichiatri, un radiologo e un cardiologo che da 17 mesi non prendono lo stipendio: «L'obbligo era rimasto solo in Italia. La situazione si normalizzerà. Certo i problemi degli organici restano».

VOGLIAMO I FATTI SEPARATI DALLE PAROLE

Salvatore Merlo sul Foglio analizza i primi passi del governo Meloni e dell’opposizione.

«Da un paio di settimane, da quando all'incirca si è formato il nuovo governo, il dibattito politico e di conseguenza anche il confronto tra maggioranza e opposizione non si è occupato di risorse energetiche rinnovabili, trivellazioni nell'Adriatico, rigassificatori a Piombino, sostenibilità delle pensioni, riforma del fisco o della scuola, che sarebbero in teoria le povere emergenze italiane, né tanto meno destra e sinistra si contestano l'un l'altra sulle linee generali intorno a quella legge Finanziaria che pure è da approvare con estrema urgenza. Al contrario grande e appassionata partecipazione hanno scatenato argomenti certamente decisivi per le sorti del paese - pardon: della Nazione - quali la lotta ai rave party, le macchiette fasciste a Predappio e ovviamente la parola "merito" da pochi giorni appiccicata dal governo Meloni accanto al nuovo battesimo del vecchio ministero dell'Istruzione. La destra dice "merito" (espediente comune alle tribù primitive: si ripete infinitamente, ossessivamente, una parola, per evocare, suscitare, rendere credibile e reale ciò che non esiste) e la sinistra invece di dirgli "passate dalle parole ai fatti", che fa? Contesta la parola. Discute del nulla. Di un sostantivo. E in mancanza di argomenti, vede fascisti sotto ogni sasso che solleva. Non c'è limite, come sa anche l'ultimo stregone, al potere occulto delle parole. E il ridicolo ha il "merito", lui sì, di arrivare sempre tardi. Dunque destra e sinistra discutono di contante e non di fisco, di balneari e non di Europa. E adesso che si è scoperto che l'Italia non è in recessione, ma grazie a Mario Draghi ha pure un tesoretto e addirittura cresce più della media europea, di che parleranno questi? Di calcio? Sembra prendere piede una sorta di allucinazione collettiva, imparentata con i misteriosi meccanismi un tempo attivati dalla magia, dalla religione, nonché dall'Omino di burro che conduce il burattino Pinocchio nel Paese dei balocchi. Una discrepanza tra parole e fatti, tra fumo e arrosto, tra realtà e azione politica, un'ebbrezza che l'Italia aveva già provato nel 2018 con Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Luigi Di Maio al timone del tragico "governo del cambiamento". Quando l'Italia stava diventando il paese di Citrullia-Toninella. Ci vuole un attimo».

MELONI AFFRONTA DA DOMANI LA PROVA EURO

Domani la premier sarà a Bruxelles per incontrare Metsola, Von der Leyen e Michel alla vigilia del Consiglio dei ministri, che sarà dedicato alle risorse per decreto Aiuti e manovra. Come l’establishment europeo attende Giorgia Meloni. Per il Sole 24 Ore l’analisi di Beda Romano.

«È con sentimenti ambivalenti che l'establishment europeo si prepara ad incontrare il nuovo presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in visita domani a Bruxelles. Da un lato, c'è curiosità di conoscere la prima donna a guidare l'Italia. Dall'altro, emerge anche un filo di apprensione, tenuto conto che il suo partito, Fratelli d'Italia, siede a Strasburgo, sui banchi euroscettici. Più in generale, c'è la speranza (o la convinzione) che il vincolo europeo indurrà a posizioni compromissorie. Ufficialmente, la presa di posizione è diplomatica. Spiegava nei giorni scorsi il portavoce della Commissione europea Eric Mamer: «La presidente Ursula von der Leyen lavora con le autorità nazionali di tutti i paesi (). Ci aspettiamo una buona cooperazione nell'affrontare le sfide che abbiamo dinanzi. Vogliamo perseguire la strada intrapresa di una buona attuazione del piano di rilancio e resilienza, con l'intento anche di rafforzare l'Unione europea». C'era un tempo quando circolava voce che Giorgia Meloni avrebbe compiuto il suo primo viaggio all'estero, visitando Londra, la capitale di un paese che ha appena lasciato l'Unione europea, quasi volesse segnalare dove battesse il suo cuore. I legami con Bruxelles hanno avuto la meglio. Fra i temi dei colloqui di domani con i vertici comunitari: il piano di rilancio e di resilienza, soprattutto alla luce del balzo dell'inflazione; la riforma del Patto di Stabilità; il controllo dell'immigrazione; la guerra in Ucraina. Analizza Jim Cloos, ex capo di gabinetto del presidente della Commissione europea Jacques Santer, ex alto funzionario del Consiglio europeo e oggi segretario generale del TEPSA, l'associazione che raggruppa i centri-studi europei. «Il Consiglio europeo è un club di leader nazionali che opera, tra l'altro, secondo regole non scritte. I leader possono essere più o meno eurofili, ma in ogni caso sono chiamati a rispettarsi reciprocamente. Non possono venire a Bruxelles, battendo i piedi per terra». La lunga crisi italiana ha comportato l'arrivo a Palazzo Chigi di discusse personalità. Nessuno ha dimenticato il conflitto d'interesse di Silvio Berlusconi, gli appelli alla rottamazione di Matteo Renzi, gli equilibrismi politico-contabili di Giuseppe Conte. Prosegue Jim Cloos: «È normale che i leader difendano a Bruxelles i propri interessi nazionali. Ma ci si attende che Giorgia Meloni non metta in dubbio la regola tacita secondo cui i membri del Consiglio europeo sono alla ricerca di compromessi». In altre parole, la tattica dell'ostruzionismo non piace, e per di più rischia di ritorcersi contro il paese che la mette in pratica, tanti sono i dossier negoziati a Bruxelles. Bloccare una misura impopolare in patria rischia di indurre i partner a bloccarne una altra che invece sta a cuore al governo riottoso. Una minoranza di blocco nel Consiglio richiede il voto contrario di almeno quattro paesi su 27. Può sembrare facile, ma (finora) è avvenuto di rado. Alcuni osservatori a Bruxelles e in altre capitali hanno notato come il presidente Meloni sia riuscito ad evitare che nel nuovo esecutivo il litigioso leader della Lega Matteo Salvini ottenesse portafogli delicati, quali per esempio il controllo dei fondi europei. «La signora è abile, non c'è dubbio», nota sorridendo un esponente dell'establishment comunitario, rivelando una innegabile curiosità di comprendere come la nuova presidente del Consiglio affronterà i suoi partner europei. Nel corso del tempo, Giorgia Meloni ha annacquato i suoi sentimenti euroscettici (l'uscita dall'euro non è più d'attualità). Al tempo stesso, negli ambienti europei ci si chiede cosa significhi che «la pacchia è finita», come ha detto in settembre riferendosi al rapporto dell'Italia con Bruxelles. Secondo un recente sondaggio dell'Università degli Studi di Siena, nel caso di referendum il 58% degli italiani voterebbe per restare nell'euro, in crescita dal 44% del 2020. Questa opzione è maggioritaria negli elettorati di tutti partiti, con l'eccezione di quello di Fratelli d'Italia la cui maggioranza relativa voterebbe per l'uscita dalla Ue (il 49%)».

GAS, LE BOLLETTE DI NOVEMBRE AUMENTANO SOLO DEL 5%

Contrordine sui rincari. Secondo Nomisma a fine mese l'aumento in bolletta sarà del 5% anziché del 70% stimato a settembre. "Il merito è del calo sul mercato di Amsterdam e del nuovo metodo di calcolo voluto dall'Arera". Paolo Baroni per La Stampa.

«Un piccolo ritocco, ma nessuna nuova stangata. Le bollette del gas di ottobre, secondo le previsioni di Nomisma energia, per i clienti del mercato tutelato cresceranno infatti del 5% appena contro il +70% stimato a settembre. Il nuovo meccanismo di calcolo introdotto dall'Autorità per l'energia consente infatti di tener conto quasi in presa diretta delle quotazioni reali del mercato che, in particolare da qualche settimana a questa parte per effetto del clima mite e degli stoccaggi ormai tutti pieni, alla borsa di Amsterdam hanno visto il gas scendere anche sotto la soglia dei 100 euro a kilowattora (dagli oltre 240 di meta agosto) per assestarsi poi attorno ai 116-120 euro, ovvero agli stessi livelli del giugno 2020. «Se l'aggiornamento tariffario fosse stato fatto col vecchio meccanismo a fine settembre avremmo avuto un aumento anche del 200%» spiegava ieri il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli. Detto questo le famiglie non possono certo gioire. Perché comunque, stando alle stime del Codacons, se la bolletta del gas dovesse salire del 5% a ottobre, nell'ipotesi di prezzi stabili fino a fine anno, il costo medio per le forniture raggiungerebbe comunque quota 1.817 euro a famiglia nel 2022. Rispetto al 2021 la spesa annua aumenterebbe in media di 632 euro a famiglia, con un incremento del 53,3% Tutto questo, ovviamente, a patto che i prezzi non tornino a salire, «perché in presenza di un inverno rigido o di problemi e interruzioni delle forniture dai paesi da cui importiamo il gas, i prezzi potrebbero crescere in modo pesante». L'aggiornamento dei prezzi che comunicherà domani l'Arera interessa in tutto 7,3 milioni di clienti domestici su un totale di 20,4 milioni di utenze. «Quella dell'Arera è stata una scelta azzeccata, forzata dal cataclisma che è arrivato dai mercati e dall'esigenza dell'Autorità di intervenire. Ed è stato anche un colpo di fortuna poiché il caso ha voluto che il nuovo meccanismo entra in vigore proprio mentre c'è il calo» del prezzo del gas, sostiene Tabarelli. Secondo il quale «le disposizioni per il gas teoricamente si potrebbero applicare anche all'elettricità, peccato che non è stato fatto. Se l'avessimo fatto per la luce avremmo già avuto dei cali in bolletta invece dobbiamo aspettare gennaio e sperare che siano sempre bassi i prezzi. Ora stiamo pagando una tariffa di 66 centesimi per kw/h mentre i prezzi vedono qualcosa di più basso di almeno 10-15%». Quanto alla scadenza a fine anno del mercato tutelato del gas (per l'elettricità la scadenza è il 10 gennaio 2024), il presidente di Nomisma energia sostiene che «sarebbe giusto un rinvio. Ora c'è molta confusione, instabilità dei prezzi, e conviene aspettare che la situazione si calmi un po' fino alla fine 2023. Le cose dovrebbero andare meglio, come ha suggerito la stessa Autorità dell'energia chiedendo lo slittamento per le piccole e medie imprese. Andrebbe bene anche per le famiglie». Le imprese italiane intanto continua a soffrire non poco il caro-energia. «Pagano il 70% in più per la bolletta elettrica rispetto alla Francia ed il 27% in più rispetto alla Spagna, in particolare alberghi, bar, ristoranti e negozi alimentari hanno una spesa più alta rispetto per esempio ai cugini d'Oltralpe» denuncia Confcommercio. «Anche se i prezzi del gas stanno diminuendo», osserva il presidente Carlo Sangalli, «il caro-energia resta l'emergenza più urgente da affrontare. Chiediamo al governo un confronto costruttivo con le forze sociali per avviare un piano strutturale in raccordo con l'Europa. E, come per la pandemia, sono necessari sostegni immediati per le imprese più colpite dalla crisi energetica».

GOVERNO-RAVE CON MORGAN E SGARBI

Alessandro Gonzato su Libero intervista il cantante Morgan che dovrebbe affiancare il neo sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi (quota Lupi).

«Che canzone è questo governo? «Benvenuto il luogo dove di Giorgio Gaber. Ha un testo molto importante, condivisibile in ogni passaggio». Benvenuto il luogo lungo e stretto con attorno il mare/Pieno di regioni come dovrebbero essere tutte le nazioni/Magari un po' per non morire, un po' per celia/Un luogo così assurdo, sembra proprio l'Italia. Morgan. Come il corsaro gallese Henry Morgan, a metà del'600 governatore della Giamaica, luogotenente del Corsaro Nero di Emilio Salgari. È da lui che Marco Castoldi, 50 anni a dicembre, cantautore, musicista, compositore, fondatore dei Bluvertigo e poi solista ha preso il nome d'arte. Anche il vecchio stopper di Samp e Juve Francesco Morini veniva chiamato Morgan, perché rubava la palla come un pirata. E il rum Captain Morgan, anche questo prende il nome dal leggendario gallese, morto di cirrosi epatica. Morgan-Castoldi è stato proposto dal neosottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi a capo del settore Musica del governo.

Morgan: per fare cosa?
«Punto primo: una riforma perché le radio trasmettano un quantitativo di musica italiana pari a quella straniera, com' è in Francia. Questa sì che sarebbe una grande rivoluzione discografica».

Però il presidente della Federazione dell'Industria Musicale Italiana, Enzo Mazza, sostiene che la rivoluzione loro l'hanno già fatta.
«(Ride). È la rivoluzione che fa comodo a loro che fanno arricchire le filiali americane, giapponesi e tedesche. Per me, invece, la musica è cultura, dev' essere valorizzata per potenziare il Paese. Loro fanno come chi svende le nostre opere d'arte. Io ne faccio prima di tutto un discorso nazionalista. Tenco, Lauzi, De André: un patrimonio».

Ma lei è di destra o sinistra?
«Sono un liberale e un anarchico. L'arte non ha tessera di partito. Vasco Rossi, Beethoven, Battisti... Come fai a catalogarli?».

Ci dica un'altra proposta per il settore.
«Chi si occupa di musica in Rai dovrebbe avere una laurea specifica».

Ci spieghi.
«Quelli delle commissioni che selezionano i cantanti per Sanremo che competenze hanno? E chi lavora nelle case discografiche? Serve un titolo di studio mu-si-ca-le. Va premiato il merito. Sanremo è della Rai, servizio pubblico, e chi lavora nel pubblico deve avere un titolo adeguato. Poi mi impegnerei a fare un'altra cosa. Ci tengo...».
Cosa?
«La Rai ha smantellato le orchestre: ne aveva di meravigliose. Non esistono più. Le ripristinerei subito».

Veniamo alla politica.

«Io non sono un politico».

D'accordo, ma sulla stretta ai rave party? Alla fine anche lì c'è musica.
«Quelli sono suoni che ti rintronano e ti fanno male. Io però non sono per vietare i rave in toto: vanno offerte alternative, più qualità, più bellezza. Subito dopo aver conosciuto Sgarbi, che per me è come Pasolini e Leonardo Da Vinci e mi considera un poeta, mi propose di entrare nel partito, della Bellezza. Non ho mai aderito, ma ho sempre trovato ottime le sue idee».

Sapeva che l'avrebbe proposta al ministero?

«Io non gliel'avevo chiesto. È stata una dimostrazione di stima e lealtà. È da tempo che appoggio le sue iniziative, è una persona unica per competenze e visione».

 Qualcuno dice che lei, per alcune posizioni sul tema droga («Uso la cocaina come antidepressivo», ndr), non sia proprio in linea col nuovo governo...

«Chi! Nome e cognome che li porto tutti in tribunale. Se qualcuno mi attacca per frasi di 12 anni fa in cui peraltro parlavo del passato ha davvero poca sostanza. Ignoranti! Analfabeti funzionali!».

Lei canta: "Sta finendo la crisi e ogni volta che passa una crisi resta qualche traccia". Ora: la fine della crisi economica non sembra immediata, ma che traccia lascerà?

«Rispondo con Ma cos' è questa crisi, 1933, Rodolfo De Angelis. Cavi fuori il portafogli/Metta in giro i grossi fogli e vedrà...Che la crisi finirà! Servono vita, scambio di idee, l'Italia non ha bisogno di blocchi. Oggi sento aria di slancio, di rinnovamento. Via i freni. Basta zavorre».

Massimo Gramellini commenta in prima pagina sul Corriere la nomina di Morgan.

«Per supplire alla chiusura dei rave party, il governo sembra intenzionato a farsene uno in casa, nominando Marco Castoldi, in arte Morgan, consulente musicale del sottosegretario Vittorio Sgarbi. La competenza di Morgan è fuori discussione, così come la sua inadeguatezza ad amministrare cose e persone, a cominciare da sé stesso. Vale anche per il suo superiore: Morgan e Sgarbi sono due anarco-narcisisti di notevole cultura, discreto talento e scarsissimo autocontrollo. Questo me li rende istintivamente simpatici, ma è il genere di simpatia che nutro per i cani possenti e irritabili, quando li vedo passeggiare al guinzaglio e a distanza di sicurezza. Ovviamente un Morgan al guinzaglio non sarebbe di alcuna utilità. D'altra parte, un Morgan libero di scorrazzare a suo piacimento resisterebbe al governo per il tempo di un assolo, prima di andarsene in un rovesciar di accuse e di scrivanie. E allora, che fare? Pur riconoscendo che a destra hanno ancora il coraggio di pescare tra gli irregolari (la sinistra ha perso da tempo il gusto di farlo, e infatti l'album della sua classe dirigente è una sfilza di figurine conformiste), non serve essere profeti per immaginare che l'esperimento avrà vita breve. Il potere ha regole immutabili, e la disciplina è una di queste, ma soprattutto è terribilmente noioso: un susseguirsi di abitudini burocratiche e compromessi pratici che non può convivere con la fantasia. Alla seconda riunione ministeriale, Morgan scapperebbe persino con Bugo».

MOSCA ACCUSA LONDRA PER IL GASDOTTO

Le notizie dal fronte bellico. Da Mosca arrivano nuove accuse sul sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Peskov minaccia Londra, Medvedev torna ad «agitare» l'atomica. I russi allargano l'evacuazione di Kherson. Per il Corriere della Sera il punto è di Lorenzo Cremonesi.

«Nell'impossibilità fattuale di mostrare successi militari sul campo di battaglia e anzi frustrata da quelli ucraini, Mosca ricorre all'arma che gli è più congeniale: la propaganda, la disinformazione, che aiuta a prendere tempo e confondere gli avversari. Pare questa la spiegazione più plausibile alla ridda di accuse e minacce lanciate dal Cremlino nelle ultime ore. La più grave è quella ribadita ieri dal portavoce russo, Dmitry Peskov, che è tornato ad accusare il Regno Unito di essere coinvolto nel blitz a colpi di droni sia dal mare che dall'aria contro la flotta russa del Mar Nero sabato e anche nelle esplosioni contro il gasdotto Nord Stream lo scorso fine settembre. Londra ha già risposto rimandando al mittente ogni accusa; la stampa britannica tende a ignorare la cosa. Subito dopo gli attentati al gasdotto, Mosca aveva puntato il dito non contro Londra bensì verso Washington, ricordando come prova che gli Stati Uniti nel passato sono sempre stati molto critici nei confronti della dipendenza europea dal gas russo. Era seguita la netta smentita della Casa Bianca, mentre alcuni tra i massimi esperti militari internazionali si dicevano praticamente certi che l'azione di boicottaggio fosse stata architettata dall'intelligence di Putin: un blitz scioccante, utile a minacciare l'Europa e per mettere a nudo l'intrinseca debolezza della società globalizzata occidentale. Adesso però Peskov passa alle minacce, sottolinea che il coinvolgimento britannico è accertato dai servizi segreti russi (senza fornire alcuna prova) e aggiunge che è da attendere una risposta russa. Quale? Ci pensa il vicepresidente, Dmitri Medvedev, a rispolverare la minaccia atomica, sottolineando su Telegram che la vittoria ucraina, garantita dalle armi del fronte occidentale, significherebbe per la Russia perdere territori che considera propri. «Sarebbe una minaccia al nostro Stato e dunque una ragione diretta per l'applicazione della clausola 19 dei Fondamenti della politica della Federazione Russa nel campo della deterrenza nucleare». In poche parole, Medvedev torna a ricordarci che il ritorno ucraino sui propri confini costituisce per Mosca un casus belli che legittima il ricorso all'atomica. La soluzione? «Soltanto una - scrive -, la vittoria completa e definitiva della Russia è la garanzia contro il conflitto mondiale». La realtà bellica va però nella direzione opposta. Mentre nel Donbass le truppe russe restano impantanate di fronte a Bakhmut, nella regione del Kherson si moltiplicano i segnali di una ripresa della controffensiva ucraina sia da Mykolaiv che lungo il Dnepr. Nelle ultime ore alle popolazioni rimaste nelle zone occupate dai russi è stato ordinato di evacuare sulla riva orientale del Dnepr, specialmente per coloro che hanno le case situate entro una ventina di chilometri dal fiume. Gli abitanti fanno sapere di continui saccheggi e violenze da parte dei soldati russi sbandati e impauriti dall'intensificarsi dei bombardamenti. Qualche speranza di dialogo viene invece dalla ripresa della mediazione Onu e turca per ripristinare l'accordo sull'export del grano ucraino, che sabato scorso Putin ha voluto «sospendere» in risposta al blitz di droni contro le sue navi. Il particolare, Recep Tayyip Erdogan ha parlato al lungo al telefono col presidente russo per assicurarsi che le navi in partenza dalla zona di Odessa verso Istanbul non siano in pericolo. Ieri altre tre cariche di prodotti agricoli hanno levato le ancore. Oggi non sono previste partenze. Putin ha insistito con Erdogan affinché venga cancellato l'embargo internazionale sui prodotti agricoli e fertilizzanti russi».

SABOTAGGIO UCRAINO IN TERRA RUSSA

Nuovo colpo di mano dell’intelligence ucraina oltre confine. Raid nel cuore della Russia: incursori colpiscono nella base degli elicotteri. La cronaca di Repubblica.

«I sabotatori sono arrivati dai boschi, indossando anonime divise verdi, e sono penetrati nella base russa. Lì nessuno si aspettava un attacco: l'aeroporto di Pskov dista seicento chilometri dall'Ucraina ed è a poco più di duecento da San Pietroburgo. In tutta tranquillità, i commandos hanno piazzato piccoli ordigni sugli elicotteri da combattimento Ka52, i migliori dell'arsenale di Mosca. E hanno filmato la scena, in modo da documentare la beffa nel cuore della Russia. Poi sono scomparsi nella foresta: le sentinelle hanno capito cosa stesse accadendo solo quando quattro elicotteri sono saltati in aria, uno dopo l'altro. Si tratta del raid più clamoroso messo a segno dalle forze speciali di Kiev: un colpo a sorpresa che mostra ancora una volta la fragilità della rete di sicurezza russa. L'operazione è stata condotta dal Gru ucraino, l'intelligence militare guidata da Kyrylo Budanov, il generale di 36 anni che dirige le attività dietro le linee. Difficile anticipare quale sarà la reazione del Cremlino, ma è probabile che punterà il dito contro l'Estonia: il confine è a cinquanta chilometri da Pskov. Gli incursori possono avere agito anche senza l'appoggio delle istituzioni di Tallinn: il blitz è stato portato a termine da pochi uomini, con gli esplosivi nello zainetto, che verosimilmente hanno marciato nei boschi. Ma è indubbio che il sostegno dei Paesi baltici alla resistenza ucraina sia totale. Il successo di Kiev arriva pochi giorni dopo l'assalto contro il porto di Sebastopoli, destinato a entrare nei manuali: per la prima volta nella Storia c'è stato un attacco sincronizzato di droni dal cielo e dal mare. Aerei e battelli telecomandati si sono lanciati contemporaneamente contro le navi russe, danneggiando la fregata Makarov, l'ammiraglia della Flotta del Mar Nero che ha rimpiazzato l'incrociatore Moskva affondato ad aprile. Ancora una volta, la Crimea è finita sotto tiro come era già accaduto con l'attentato contro il grande ponte voluto da Putin. Ancora una volta, la propaganda del regime non è riuscita a nascondere la disfatta. E la rappresaglia del Cremlino è stata feroce. Le installazioni di Odessa sono state bersagliate dai missili, distruggendo pure una chiatta carica di grano. Soprattutto Mosca ha sospeso l'accordo per l'esportazione dei cereali ucraini, negoziato con Turchia e Onu: l'unica intesa diplomatica conclusa dall'inizio della guerra. Ieri Erdogan ha parlato con Putin per cercare una soluzione, mentre le compagnie di assicurazione hanno smesso di coprire i mercantili sulle rotte ucraine: torna a riproporsi lo spettro della crisi alimentare mondiale. C'è un altro fattore, non meno preoccupante. Il doppio colpo mina la credibilità di Putin, mostrando al suo popolo come la retorica dell'Operazione militare speciale nasconda una guerra disastrosa: neppure la mobilitazione dei 300 mila riservisti ha migliorato la situazione al fronte e pure la difesa della madrepatria è piena di falle. Ognuno di questi attacchi aumenta l'ira dello Zar e lo getta nelle braccia dei "falchi", spingendolo ad alzare il livello dello scontro. Non a caso, ieri l'ex vicepresidente Medvedev è tornato a minacciare l'uso di armi nucleari per proteggere i territori annessi in Ucraina. E il portavoce del Cremlino ha accusato Londra: «Ci sono gli inglesi dietro il raid di Sebastopoli. Queste azioni non possono essere lasciate passare». Il rischio di un'escalation continua a crescere, azzerando qualsiasi possibilità di trattative. Quello che vogliono i duri di entrambe le nazioni. «Negoziare con Mosca è una minaccia per noi», ha detto senza mezzi termini a Repubblica il generale Vadym Skibitsky, numero due dell'intelligence ucraina che organizza i colpi di mano in territorio russo».

FINO A QUANDO BIDEN SOSTERRÀ ZELENSKY?

Biden-Zelensky, fiducia a tempo? Il presidente Usa sarebbe irritato dalle richieste di armi da Kiev e dalla poca gratitudine per gli aiuti. Ma la distanza è dovuta anche alla posizione sui colloqui per la tregua: il leader ucraino si rifiuta di trattare con Putin. Alberto Simoni per La Stampa.

«Ogni volta, prima di annunciare un ulteriore stanziamento di aiuti militari, economici e umanitari, il presidente americano Joe Biden prende il telefono e lo comunica a Volodymir Zelensky. Il 15 giugno però la telefonata fra i due alleati, il protettore e il protetto, finì con il capo della Casa Bianca che alzava la voce e strigliava l'ex attore diventato presidente e condottiero in guerra, ricordandogli che «dovrebbe dimostrare gratitudine agli Stati Uniti», i quali avevano appena messo sul piatto 1 miliardo di dollari di armamenti. Ad oggi, gli Usa hanno investito 17,6 miliardi. Riconoscenza all'Amministrazione democratica, al Congresso e al popolo americano, era l'esortazione di Biden fino ad allora abile a compattare repubblicani e democratici attorno alla causa ucraina. Impresa che, più la guerra si dilata nel tempo, più diventa difficile, soprattutto ora che il probabile arrivo dei repubblicani al controllo della Camera nelle elezioni di Midterm renderà impossibili gli «assegni in bianco all'Ucraina», parola di Kevin McCarthy, aspirante leader al posto di Nancy Pelosi. La Casa Bianca si è affrettata, una volta uscita sulla Nbc la notizia dell'arrabbiatura di Biden, a dire che da quel momento i rapporti sono migliorati. E momenti sopra le righe non ce ne sarebbero più stati. La telefonata del 15 giugno rappresenta però il culmine di mesi di tensioni, avviate in realtà non con l'invasione russa ma con i moniti e le condizioni che l'Amministrazione democratica aveva spedito a Kiev sin dal suo insediamento. Zelensky ha accolto l'arrivo di Biden come un'occasione di rilancio delle relazioni bilaterali. Trump aveva dato all'Ucraina armi letali e sostegno, ma era il suo tornaconto domestico a guidarne la politica: voleva prove e dettagli degli affari di Hunter Biden in Ucraina come consigliere di una società, la Burisma, per usarle contro Joe nella campagna elettorale del 2020. La fine di Trump per Zelensky è stata un sollievo che ha reso pubblico in un'intervista nel dicembre del 2020 sul New York Times. Biden ha sempre considerato Zelensky un importante interlocutore anche in virtù della sua lotta anticorruzione grazie a cui era diventato presidente il 20 maggio del 2019. All'ex attore Biden ha concesso l'onore di essere il secondo europeo (dopo Angela Merkel) alla Casa Bianca. Si sono incontrati nello Studio Ovale il 1° settembre 2021 e già allora l'intelligence Usa captava segnali delle intenzioni onnivore sull'Ucraina da parte di Putin. Il colloquio andò bene tutto sommato, ma Biden rimarcò al leader di Kiev che la lotta alla corruzione che aveva lanciato in Ucraina era insufficiente. Zelensky aveva scelto quasi una sorta di convivenza, limitandosi a cacciare i dirigenti e gli oligarchi più invisi e corrotti ma rinunciando a un ribaltamento del sistema. Per Biden, impegnato in una strenua battaglia per mettere la difesa della rule of law al centro della sua politica estera, un alleato prezioso come Kiev nella zona grigia dell'essere democrazia senza averne tutti i requisiti, non era positivo. Premette su Zelensky e gli garantì in ogni caso aiuti militari (60 milioni di dollari allora) ed economici. Fu comunque in quel meeting che si gettarono le basi per il rafforzamento a ogni livello della cooperazione militare: su tutte la difesa dai cyberattacchi e l'intelligence. Benché Washington chiedesse una revisione ampia delle regole dell'Sbu, l'intelligence interna ucraina che si sarebbe scoperto poi assai compromessa con la Russia. L'invasione russa ha sovvertito priorità e cambiato gli equilibri. Se nella telefonata del 15 giugno Biden ha sfogato la sua delusione, ci sono stati altri momenti carichi di tensione in questo 2022. Il 27 gennaio, gli ucraini facevano sapere che il colloquio con Biden non era andato bene e che Zelensky era arrabbiato perché gli Usa stavano creando un «inutile panico» dicendo che l'invasione era pronta. Poi Zelensky ha indossato la maglietta verde militare e le sue richieste agli Usa sono diventate sempre più pressanti che qualcuno nell'Amministrazione definisce «sin prepotenti». In maggio voleva gli Himars e i lanciarazzi MLRS, Biden gli rispose che non glieli avrebbe dati perché temeva attacchi sul territorio russo; e prima si era consumato il «duello» sui Mig per pattugliare i cieli e ora Kiev vuole la difesa aerea Usa che l'Amministrazione fornirà in formato minore rispetto ai Patriot. Resta insomma uno iato fra Biden e Zelensky, le loro differenze nascono da diffidenze. Fonti vicine alla Casa Bianca hanno riferito che il presidente è preoccupato dalle operazioni di sabotaggio che le forze ucraine conducono, in aprile si era lamentato che Washington sapeva poco delle operazioni che facevano gli 007 di Kiev. E oggi vi è una diversità di opinioni sui negoziati post-conflitto. Washington utilizza la parola «quando» senza porre o quantomeno evidenziare veti su un ruolo di Putin; Zelensky, come ha ribadito intervenendo al G7 straordinario di poche settimane fa, non ritiene il capo del Cremlino un interlocutore. A John Kirby, capo della comunicazione del Consiglio di Sicurezza, è stata fatta notare in un briefing con alcuni reporter questa dicotomia. Ha ribadito la linea Usa: «Sostenere con le armi Kiev perché possa arrivare in posizione di forza quando ci saranno i negoziati». Quando. E con chi. Alzano la voce sulle armi, ma è questo a dividere Biden e Zelensky».

“UN ERRORE METTERE FUORI LEGGE LA LINGUA RUSSA”

L'Arcivescovo latino di Leopoli Mieczyslaw Mokrzycki dice: è un errore proibire la lingua e la Chiesa russe. “Che colpa ha la gente? Purifichiamoci dall’odio e dalla vendetta”. Intervista di Giacomo Gambassi, inviato a Leopoli per Avvenire.

«Ehi bambino, perché parli russo? Non lo devi fare in Ucraina». Andriy guarda l'uomo di mezza età che lo ha appena rimproverato mentre chiacchierava per strada con un paio di amici. Arriccia la fronte. E risponde: «Sai, anche io sono ucraino ma sono nato in un territorio dove si parla russo. Vengo dal Donbass». Non si scompone più di tanto il ragazzino di otto anni che vive nel "villaggio mobile" allestito in un angolo del parco Stryiskyi a Leopoli. È uno sfollato, con la mamma e due fratellini. La sua casa è uno dei prefabbricati che accolgono settanta famiglie fuggite dall'Est del Paese: un'unica stanza con i letti e una cucina. Il bagno in comune con tutto l'agglomerato. «La guerra ha avvelenato i cuori», spiega l'arcivescovo latino Mieczyslaw Mokrzycki mentre saluta Andriy. Ogni giorno il "piccolo rifugiato", insieme ai coetanei degli appartamenti-container, ha appuntamento alle due del pomeriggio con l'arcivescovo di Leopoli e con le suore. Davanti alla palazzina del presule. Una ventina di bambini in tutto. Qualche battuta. Una fetta di torta che anticipa la merenda. La cioccolata da portare in famiglia perché i soldi dei profughi sono così pochi da non potersi permettere neppure un dolce. «Come Chiesa cattolica latina in Ucraina dedicheremo il prossimo Anno pastorale alla misericordia: ratificheremo la decisione in questi giorni. E sa perché abbiamo scelto questo tema? Perché avvertiamo l'urgenza di purificarci dall'odio e dalla sete di vendetta», afferma l'arcivescovo d'origine polacca che è stato, prima, segretario aggiunto di Giovanni Paolo II e, poi, di Benedetto XVI. Sessantuno anni, guida dal 2018 la Chiesa di Leopoli ed è anche presidente della locale Conferenza episcopale.

Eccellenza, oggi in Ucraina tutto ciò che è russo viene ritenuto "nemico".

Si tratta di una reazione comprensibile. Lo considero un segno esterno di difesa e di protesta: difesa dall'aggressore che da otto mesi sta devastando il Paese e seminando morte, dolore, separazione; protesta per ribadire che nessuno qui vuole la guerra.

Ma la lingua russa è nel Dna di almeno la metà del popolo ucraino.

Vero. Basta guardare alla maggioranza dei rifugiati che arriva a Leopoli: parla russo, ma non per questo è meno ucraina. Anzi, in molti casi si hanno parenti e amici che combattono al fronte per la libertà del Paese. Ecco perché può essere pericoloso proibire la lingua russa, com' è stato deciso a livello nazionale. Significa marginalizzare una parte del Paese. Quando il governatore regionale ha visitato un nostro centro diocesano di accoglienza, si è sentito dire da uno dei profughi: «Noi qui a Leopoli stiamo benissimo e vi ringraziamo. Ma se usciamo per strada e ci sentono parlare russo, veniamo subito additati». L'Ucraina potrebbe prendere a modello la Svizzera, dove addirittura sono quattro le lingue ufficiali.

C'è anche la Chiesa ortodossa legata al patriarcato di Mosca che raccoglie la maggioranza dei cristiani ucraini.
Qualche passaggio di fedeli verso la Chiesa ortodossa autocefala si è registrato dopo l'inizio del conflitto. Ma quella russa rimane la "Chiesa della gente", se così la possiamo definire. Di fronte alle parole del patriarca di Mosca, Kirill, che ha sposato la guerra di Putin, le comunità in Ucraina hanno preso le distanze. Eppure ci sono zone dove la Chiesa russa è stata messa al bando: nella regione di Ivano-Frankivsk è scomparsa; a Ternopil hanno vietato le liturgie pubbliche. Sono forse colpevoli i fedeli ucraini per l'invasione voluta dal Cremlino? Come ha evidenziato anche la nunziatura apostolica di Kiev, siamo contrari a ogni azione restrittiva che riguardi una comunità ecclesiale. Puntare il dito contro una lingua o una Chiesa può essere fonte di ulteriore dolore per il popolo e alimentare divisioni di cui l'Ucraina non ha bisogno.

Papa Francesco ha chiesto di aprire le trattative.
Siamo grati al Papa per i costanti interventi che tengono alta l'attenzione del mondo su questa folle guerra. Avverto, però, una certa sordità da parte del leader del Cremlino che continua ad avere come unico obiettivo la conquista dell'Ucraina.

Il Papa può avvicinare Putin e Zelensky?
Dietro il Papa non c'è solo la diplomazia vaticana, ma la forza della preghiera di tutta la Chiesa. E con la grazia di Dio può sempre avvenire il miracolo. Penso a Gorbaciov che ha chiuso l'era dell'Unione Sovietica. Il Papa è "Pietro dei nostri tempi" e attraverso il suo carisma spirituale è in grado di contribuire a cambiare i cuori dei due presidenti e dei due Paesi.

I missili, però, continuano a cadere.
Una tregua è fondamentale. La guerra ha fatto perdere il sorriso alla gente: è sufficiente osservare i volti per strada. I lutti si moltiplicano. La povertà cresce perché si fatica a trovare il lavoro. Si ipotizza una nuova ondata di sfollati verso Leopoli, in fuga dalle bombe e dal freddo, soprattutto se mancheranno elettricità, gas e acqua a causa degli attacchi russi alle infrastrutture energetiche che da giorni si stanno moltiplicando. A cinquanta chilometri da qui, a Brzozdowce, una nostra chiesa è stata danneggiata a ottobre da un missile piombato sulla vicina stazione elettrica: sono state distrutte le finestre, il tetto e gli intonaci. Come comunità ecclesiale siamo già pronti a intervenire nell'emergenza. E da cristiani ci affidiamo all'arma della preghiera: abbiamo dedicato il mese di ottobre al Rosario per la pace, accompagnato dal digiuno.

In Italia si manifesta per la pace. Come si vedono dall'Ucraina i cortei?

Sono considerati segni di vicinanza e solidarietà al nostro Paese sotto attacco che desidera la fine delle ostilità. È un grido perché Putin si ravveda, non un sostegno a lui.

La gente ucraina vuole i negoziati?

Non penso sia pronta a un compromesso. Il popolo chiede giustizia e un'Ucraina che conservi tutti i suoi territori, compresa la Crimea. Per questo vogliamo riflettere sulla misericordia. È Cristo stesso che ci chiede di amare il nemico, il nostro aggressore. E di perdonare: lo ripetiamo ogni volta che diciamo il Padre nostro. Occorre educare all'amore senza confini che ci apre a una vita davvero libera».

PACE, SABATO SARÀ UNA FESTA DI POPOLO

Si scaldano i motori in vista della grande manifestazione pacifista del 5 novembre. Diego Motta per Avvenire.

«Sabato sarà una grande festa di popolo. Perché parteciperanno tante persone, prima ancora che sigle e organizzazioni di mondi diversi». Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della Pace, ha visto e organizzato decine di mobilitazioni, a partire dalla Perugia-Assisi. Quando gli si chiede di raccontare l'avvicinamento alla manifestazione per la pace del 5 novembre, risponde così. «Sono convinto che chi ha a cuore il problema ci sarà. Contro il bombardamento del pensiero unico sulla guerra, noi metteremo in campo la coralità delle voci del mondo associativo. E' la prima volta che capita e non è poco». Oggi a Roma è previsto un incontro della macchina organizzativa per fare il punto sull'evento: ci saranno, tra gli altri, Sergio Bassoli e Francesco Vignarca della Rete italiana pace disarmo, Damiano Bettoni, segretario generale delle Acli, Daniele Lorenzi, presidente dell'Arci. « E' in corso una grande mobilitazione su tutti i territori» racconta, proprio dall'Arci, il responsabile organizzazione e rapporti col territorio, Walter Massa. « Rispetto al 5 marzo scorso, quando ci trovammo a organizzare una manifestazione in una settimana e riuscimmo comunque ad aggregare 40--50mila persone, questa volta la macchina organizzativa ha avuto più tempo e sta andando a pieno regime». Treni, pullman, mezzi personali: si arriverà nella Capitale in tanti modi e all'evento parteciperanno anche molti cittadini romani. La novità sembra essere proprio il fermento in atto nelle grandi reti associative nazionali, oltre che in quelle sindacali. Nel mondo cattolico, ad esempio, «si sono moltiplicate le iniziative per invocare la pace nelle parrocchie, nelle città e nelle diocesi - ha sottolineato una recente nota del Consiglio nazionale di Ac - spesso trascinata dai bambini e dai ragazzi dell'Acr». Proprio in un'intervista pubblicata sulla rivista "Segno nel mondo", il presidente di Azione Cattolica, Giuseppe Notarstefano, sottolineava come « non si possa aspettare che la guerra finisca d'incanto. Occorre un maggiore e deciso investimento sulla via diplomatica». Tutti sono d'accordo su un punto. «Sabato deve essere l'inizio di un percorso, non la fine. La è ancora lunga» spiega Lotti. E' un discorso che vale anche per il mondo politico, che ha dato segnali importanti, da ultimo con l'annuncio della presenza in piazza del Pd, che va ad aggiungersi a quelle di M5s, Sinistra italiana e Verdi, Articolo uno, Rifondazione comunista, Unione popolare. «Discuteremo anche di questo oggi - sottolinea Walter Massa -. La posizione non è cambiata: se i partiti vorranno esserci, saremo contenti. Ma la manifestazione rimarrà apolitica e senza bandiere. I protagonisti, una volta di più, dovranno essere la società civile e le organizzazioni sociali».

FERRARA CON L’ELMETTO A LEZIONE DI BENALTRISMO

Giuliano Ferrara sul Foglio si lascia andare ad un’invettiva contro il “pacifismo infame” e invita a scendere in piazza a favore delle donne iraniane che manifestano contro il velo da 45 giorni.

«Il dolore per il destino degli ucraini sotto le bombe ci ha dato carattere e intelligenza etica, checché se ne dica dei quattro gatti infervorati in tv per l'autocrate di Mosca, ma il corrispettivo dei droni iraniani che colpiscono Kyiv e le altre città libere ucraine è la selvaggia repressione interna, guidata dalle Guardie della rivoluzione e dalla polizia morale, a Teheran e in molte altre città della Persia. Qui non so perché il muscolo morale si contrae e la disattenzione pubblica domina, tra una discussione sui rave, una sull'articolo determinativo femminile o maschile, una sparata sulle bollette, una sul reddito di cittadinanza, una stolta invocazione di pace. Eppure sta succedendo qualunque cosa. E' in atto una vasta, radicata e coraggiosa protesta contro la Repubblica islamica, giovani e donne muoiono per testimoniare la libertà, i martiri della fede laica cui è invisa la prescrizione pseudocoranica del chador o gli interdetti sulla ciocca di capelli che esonda dal foulard si immolano ogni giorno nelle strade, a quaranta giorni dal sacrificio di Mahsa Amini, nelle università, nelle scuole, nelle mense che diventano miste, e gli attori della rivolta vengono arrestati, sequestrati, torturati, intimiditi a bastonate o con i proiettili che accecano. A Berlino, che è una città europea viva, ottantamila persone hanno sfilato contro la repressione di quegli scelleratissimi preti islamici e dei loro bastonatori, qui si va verso una manifestazione infame di finto pacifismo e a nessuno viene in mente di convocare un rave party davanti all'ambasciata iraniana e dare fuoco alle polveri contro la moralità del bastone e della tortura. Papa Francesco ha paura anche solo di nominare, in nome dei valori universali della ragione e della religione cattolica, la questione della libertà civile in Iran, soffocata nel sangue e nella vergogna, c'è timore reverenziale per i suoi risvolti religiosi già segnalati nel celebre discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. E' sempre in nome della pace, celebrata contro Zelensky e il popolo ucraino resistente in una piazza di Roma, che si cancella la voglia di vivere liberi di giovani e donne in un paese dove la rivoluzione antimullah è affidata alla virtù dei costumi, al desiderio di emanciparsi dal perbenismo armato dei finti profeti coranici. La pace che si celebrerà con ipocrisia, alle spalle dell'Ucraina, il 5 novembre, è la stessa pace che induce al silenzio sulla santa e laica protesta delle masse iraniane contro l'oppressione dei clericofascisti al potere, una razza di antisemiti e di gagliardi suffragatori delle autocrazie sorelle attraverso, tra l'altro, la fornitura di droni assassini. In tutto questo il governo non torce un capello alle relazioni diplomatiche con un regime delinquenziale, l'opposizione volta la testa dall'altra parte, intellettuali, esperti che dovrebbero seguire le cronache impressionanti da Istanbul di Mariano Giustino, e conformarsi ai fatti, li ignorano bellamente. La condizione di un popolo che soffre il bastone e il terrore, la tortura e migliaia di processi truccati mentre bambine di quattordici anni sono ferite a morte dalla polizia morale sotto il faro inutile dell'opinione pubblica mondiale e dei benedetti social, non interessa praticamente a nessuno. Il fantasma dell'Iran ci perseguiterà per generazioni se non sapremo dare forma a una protesta internazionale visibile, concreta, utile, radicale e libertaria per squarciare il velo islamico dall'oppressiva società iraniana in nome di ragazze e giovani che si battono ormai chiaramente per questo obiettivo di liberazione, contro la rivoluzione khomeinista e le sue conseguenze ultraquarantennali che hanno imprigionato nel nichilismo religioso uno dei più grandi e coraggiosi paesi e popoli del mondo».

IRAN, 16ENNE BASTONATA A MORTE

La situazione in Iran. Processi pubblici ai dissidenti, 16 curdi uccisi nelle proteste della settimana scorsa. Arrestato l'ex calciatore Ali Daei. Farian Sabahi per il Manifesto.

«Parmis Hamnava è stata uccisa a bastonate a Iranshahr, una cittadina di centomila abitanti nella provincia del Sistan e Baluchistan, nel sudest dell'Iran al confine con il Pakistan dove in queste settimane gli scontri sono stati particolarmente cruenti. Aveva sedici anni e frequentava la scuola superiore intitolata a Parvin Etesami (1907-41), la famosa poetessa persiana che nel 1935 aveva accolto con favore il divieto, imposto da Reza Shah Pahlavi, di indossare il velo e nei suoi versi metteva in guardia da quegli ipocriti che usano la religione come strumento politico. Per la giovane Parmis, e per tante altre iraniane, la poetessa era un esempio. Per questo, ha strappato dai libri di scuola le immagini dell'ayatollah Khomeini, il carismatico leader religioso che nel 1979 aveva fondato la Repubblica islamica. Sono ormai 253 le persone uccise dalle forze di sicurezza della Repubblica islamica in questi 45 giorni di proteste. Parmis Hamnava è tra i 34 minori uccisi. Secondo il sito IranWire, durante le manifestazioni della settimana scorsa nella provincia iraniana del Kurdistan sono stati uccisi almeno 16 curdi nelle città di Mahabad, Sanandaj, Baneh, Qasr-e-Shirin e Piranshahr. Si tratterebbe di 15 cittadini iraniani e di un iracheno che si era recato a Baneh per partecipare a un funerale. Di questi, tre sono donne e tre adolescenti. 14 persone sono morte per il fuoco delle forze di sicurezza, mentre un uomo è morto soffocato per i lacrimogeni. Sono diverse migliaia gli individui arrestati tra cui Ali Daei, l'ex bomber che con la maglia dell'Iran aveva messo a segno 109 gol in 149 presenze tra il 1993 e il 2006. Dopo il ritiro dal calcio giocato, ha allenato la nazionale iraniana tra il 2008 e il 2009. Ora, è colpevole di aver appoggiato la causa delle donne. Tra i giornalisti, a finire in cella è anche Vahid Shamsoddinezhad. Diplomato lo scorso settembre alla Scuola superiore di giornalismo di Lille, nel nord della Francia, il 28 settembre era stato fermato a Saghez, nel Kurdistan iraniano, mentre lavorava per l'emittente televisiva franco-tedesca Arte. Quattro giorni prima aveva depositato la lettera di accredito presso le autorità di Teheran. Dopodiché era riuscito a realizzare due interviste telefoniche e un video per la redazione di Arte Journal. Se è stato arrestato, sebbene avesse un accredito giornalistico, è perché il sistema iraniano è schizofrenico: ti rilascia il permesso per lavorare come reporter straniero, ma un qualsiasi altro organo di potere può metterti in carcere. Con Vahid Shamsoddinezhad restano in carcere altri 43 giornalisti. Tra questi, le giornaliste Nilofar Azmoun e Elahe Mohammadi, accusate di spionaggio perché quando è morta Mahsa Amini sono state le prime fonti di notizie, anche per la stampa straniera. Che cosa succederà alle migliaia persone arrestate? In concomitanza con la quarantacinquesima notte consecutiva di proteste, lunedì la magistratura ha annunciato che la capitale Teheran sarà teatro di processi pubblici che coinvolgeranno un migliaio di persone accusate di avere avuto un ruolo chiave nelle proteste di queste settimane. Finiranno sotto processo per aver commesso «azioni sovversive», tra cui l'aver aggredito le forze di sicurezza e l'aver appiccato il fuoco a proprietà pubbliche. Il capo della magistratura Gholam-Hossein Mohseni Ejei ha precisato che sarà fatta differenza tra coloro che si sono limitati a «lamentarsi per strada» e coloro che volevano invece rovesciare la Repubblica islamica. E ha lasciato intendere che alcuni dimostranti saranno condannati per aver collaborato con governi stranieri. A finire sotto processo per primo è stato il ventiduenne Mohammad Ghobadlo. Secondo quanto riferito dalla madre a IranWire, era stato arrestato con l'accusa di «corruzione sulla terra» per aver partecipato a un raduno antigovernativo. Non ha avuto diritto a un avvocato ed è stato subito condannato a morte. Il reato di «corruzione sulla terra» è il più grave previsto dal Codice penale iraniano e serve a mascherare ogni forma di dissenso nei confronti della Repubblica islamica. Intanto, sta diventando un caso sui social una vecchia foto, del 2011, che ritrarrebbe il ministro dei Trasporti iraniano in vacanza con la compagna con il capo scoperto vicino alle Petronas Towers a Kuala Lumpur in Malesia. «Le donne vengono uccise in Iran per non aver indossato l'hijab, ma guarda come Rostam Qasemi il principale generale delle Guardie rivoluzionarie e attuale ministro dei Trasporti, gode della libertà con la sua ragazza senza velo in Malesia. Il regime ipocrita sta uccidendo adolescenti perché camminano per le strade senza velo». Così scrive su Twitter la giornalista e attivista Masih Alinejad, residente negli Stati uniti. E la poetessa persiana Parvin Etesami le metterebbe il like».  

BRASILE, I FAN DI BOLSONARO BLOCCANO IL PAESE

Lo sconfitto Bolsonaro in un breve annuncio ha autorizzato la transizione al vincitore alle urne Lula. Ma nelle strade restano i blocchi e la magistratura chiede di ripristinare l'ordine, però la polizia federale non sembra agire. Il leader dell'ultradestra si è fatto attendere per 45 ore, poi non ha abbassato la guardia: le proteste secondo lui sono «scaturite dall’indignazione». Lucia Capuzzi per Avvenire.

«Quarantacinque ore. Tanto è durato il mutismo ostinato di Jair Bolsonaro. Un silenzio affollato dal clamore delle strade bloccate dai camionisti. Solo a fine serata, il leader dell'ultradestra si è presentato di fronte ai giornalisti da lui convocati al Palazzo di Planalto. E con il volto tetro ha dichiarato: «Continuerò a rispettare la Costituzione». Non prima, però, di aver precisato che la paralisi di centinaia di vie di comunicazione in tutti gli Stati, incluso il maxi-scalo paulista di Guarulhos, è causato «dall'indignazione e dal sentimento di ingiustizia per come si è svolto il processo elettorale». «Il nostro sogno è più vivo che mai», ha aggiunto. Il riconoscimento della vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva alle presidenziali di domenica non c'è, dunque, stato, al contrario di quanto prefigurato dagli alleati più moderati. Per tutto il giorno, il presidente della Camera, Arthur Lira, dal ministro dell'Economia, Paulo Guedes, al neogovernatore di San Paolo, Tarcisio Freites avevano cercato una mediazione. Alla fine, però, in meno di tre minuti di discorso, Bolsonaro ha mantenuto la stessa ambiguità della campagna in cui ha agitato senza remore il fantasma dei brogli. A quasi due giorni dalla diffusione dei risultati - certificati dal tribunale elettorale e dagli osservatori internazionali -, di nuovo, ha insinuato il sospetto senza sbilanciarsi troppo. «Le manifestazioni pacifiche saranno sempre le benvenute ma i nostri metodi non possono essere quelli della sinistra», ha sottolineato. Un segnale in codice per i fedelissimi - hanno ventilato vari analisti -, un invito cifrato a "tenere duro", andando avanti nella protesta in modo da giustificare il ricorso presidenziale all'articolo 142 della Costituzione che prevede l'intervento delle forze armate «per ristabilire l'ordine». Queste ultime sono rimaste finora ai margini della scena, anche per la cautela dei generali. La truppa e i quadri intermedi sono sensibili, tuttavia, alle pressioni dei gruppi bolsonaristi più estremi che ieri hanno organizzato sit-in di fronte alla caserma per chiedere ai militari di «salvare il Paese dal comunismo». Gli stessi che hanno inondato i social di fake news sulla «vittoria scippata» al leader dell'ultradestra, nonostante lo sforzo della magistratura per contenerle.
Fuori dalla rete, il Brasile ribolle. I camionisti hanno continuato a paralizzare il transito di persone e merci. Già alcune di queste ultime - in particolare latte e carne - hanno iniziato a scarseggiare nei supermercati, come denunciato dalle associazioni dei commercianti. Perfino i rifornimento di ossigeno per gli ospedali sono rimasti intrappolati nel caos. Di fronte a questo scenario inquietante, la Corte Suprema ha optato per un intervento forte. Il presidente, Alexandre de Moraes - bersaglio preferito delle invettive bolsonarista contro la magistratura - ha ordinato alla polizia statale - sotto il controllo dei governatori - di rimuovere i blocchi ovunque, anche nelle vie di competenza federale. Ai trasportatori reticenti, inoltre, verrà comminata una multa di 100mila reais all'ora (l'equivalente di venti euro). Il procedimento, però, si profila tutt' altro che semplice. Anche perché, a volte, come a San Paolo, ai manifestanti si sono uniti gli agenti federali, dipendenti dall'esecutivo centrale. E «di fronte a questi abusi», i militanti pro-Lula, in primis il Movimento dei lavoratori senza tetto, hanno minacciato di liberare le strade da soli contravvenendo alla strategia della "distensione" portata avanti dai vertici del Partito dos trabalhadores (Pt) e l'entourage del neo-eletto. Nel Brasile-polveriera ogni passo falso può scatenare un'esplosione a catena. Ne è consapevole il centro-sinistra e, in questo, trova sponda nei settori meno radicali del bolsonarismo. Con questi ultimi, Lula ha trattato per avviare la transizione. Il leader progressista ha nominato capo dell'équipe incaricata di trattare con l'amministrazione fino all'entrata in carica, il vice Geraldo Alckim. La figura ideale dato il pedigree indubbiamente conservatore e il passato da avversario del Pt. L'avvio del passaggio di consegne, a partire da domani, è stato confermato dal capo dello staff di Bolsonaro, Ciro Nogueira. «È stato autorizzato dal presidente», ha affermato. Può essere. Del resto, anche Donald Trump aveva designato una squadra per trattare con Joe Biden. Questo, però, non gli impediva di gridare al «golpe». Né ha evitato la tragedia di Capitol Hill. Il dramma si ripeterà nell'altra metà del Continente? L'unico dato certo, al momento, è che il discorso del presidente uscente non ha spinto i sostenitori alla smobilitazione. Al contrario, questi si sono detti determinati a proseguire. «Il nostro sogno - ripetevano in coro - è più vivo che mai».

ISRAELE, VINCE LA DESTRA E TORNA NETANYAHU

Israele, il successo dell'ultra destra spinge Netanyahu verso il ritorno. Exit poll: maggioranza al blocco dell'ex premier. Delude il centrista Lapid. Crollo dei laburisti. Davide Frattini per il Corriere.

«A 73 anni, di cui 15 passati ai vertici del potere e quasi il triplo in politica, resta il più energico fino alla fine, fino alla chiusura dei seggi. Il megafono in mano, le guardie del corpo che provano a tirarlo giù dal fianco dell'auto, Benjamin Netanyahu rispolvera la tattica di queste cinque battaglie elettorali. Via la cravatta, la camicia aperta sul collo, si sfiata per avvertire i suoi che gli avversari e gli arabi «stanno votando in massa», implora «il nostro Likud questa volta non ce la fa, uscite di casa», rilancia l'allarme via Twitter («non c'è nessuno in fila nelle roccaforti del partito»), anche se viene beccato a postare una foto del 2015. È la strategia del «gevalt» (in yiddish significa un grido di aiuto, di panico), l'ha inventata lui e ormai altri leader politici la imitano. Perché questa ennesima tornata in poco meno di quattro anni è tutta giocata sull'affluenza, che è arrivata a essere la più alta dalle consultazioni del 2015: i tre o quattro partiti (a sinistra e tra gli arabi israeliani, che sono il 20 per cento della popolazione) a rischio di non superare la soglia del 3,25 per cento possono decidere chi riuscirà a mettere insieme la maggioranza di 61 deputati. I primi exit poll sono sempre un azzardo, rappresentano i rilevamenti fino alle 20, in sfide così ravvicinate due ore possono fare la differenza e soprattutto sono di solito quelle in cui gli arabi si concentrano ai seggi. Queste sono le indicazioni annunciate dai tre telegiornali principali che si affidano a sondaggisti diversi: 30-31 seggi al Likud di Benjamin Netanyahu, 24 a C'è futuro di Yair Lapid, 14 a Sionismo religioso, 12 a Benny Gantz, 10 e 7 ai partiti ultraortodossi alleati di Netanyahu, a seguire tra i 5 e i 4 ai laburisti, a Meretz e alle formazioni arabe principali. Se fossero confermati, Netanyahu avrebbe di poco i numeri per riprendersi il governo, è rimasto all'opposizione per una ventina di mesi dopo essere stato primo ministro per 12 anni consecutivi. L'alleanza tra il Potere ebraico di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich - ultrà religioso, omofobo - diventerebbe la terza forza alla Knesset: il movimento che sostiene le colonie, contrario a qualunque accordo con i palestinesi, non aveva mai messo insieme così tanti deputati. Se Netanyahu riceverà l'incarico di provare a formare il governo, dovrà concedere ai due quello che ha promesso: Smotrich (che in un audio lo ha chiamato «bugiardo, figlio di un bugiardo») chiede il ministero della Difesa anche se soldato - ed è una rarità in questo Paese - non è mai stato; Ben-Gvir vuole diventare ministro per la Pubblica Sicurezza. Soprattutto insieme vogliono ribaltare il sistema giudiziario, sottoporlo al controllo della politica e far passare una legge che vieti di incriminare un primo ministro in carica, retroattiva per tirar fuori Bibi, come lo chiamano tutti, dal processo per corruzione. Glielo devono: è stato lui due anni fa a spingere per l'intesa tra le fazioni estremiste, senza forse rendersi conto di aver creato i futuri contendenti al suo ruolo di monarca incontrastato dei conservatori. «Voleva solo costruire uno zombie per tenere insieme i voti delle frange - scrive Anshel Pfeffer su Haaretz , il quotidiano della sinistra -. Non pensava di dare così la sua benedizione a tanti elettori del Likud per spostarsi ancora più a destra. La sua ridicola pretesa di non essere fotografato assieme a Ben-Gvir non è servita, il messaggio uscito è: Itamar è Bibi al quadrato». Lapid dimostra di non essere più il celebre giornalista diventato politico. Per qualche mese è stato primo ministro ad interim, ha firmato l'accordo sui confini marittimi con il Libano, ha gestito con i generali le operazioni in Cisgiordania per smantellare le nuove organizzazioni di miliziani. I laburisti, il partito che ha fondato il Paese e nel 1992 aveva 44 seggi, si ritrovano con due mandati in meno e scendono a 5: la sinistra israeliana nel suo insieme non sembra più riuscire a richiamare nuovi sostenitori».

SBARCHI, ALTRE 70 VITTIME

Doppia tragedia tra Grecia e Turchia: almeno 70 vittime. Ancora senza porto di approdo le tre navi delle Ong, con oltre 200 minori a bordo. «Chiediamo il rispetto del diritto marittimo, grave violazione impedire lo sbarco». Maxi-operazione di soccorso in mare: Guardia Costiera e Fiamme gialle mettono in salvo 383 persone. Daniela Fassini per Avvenire.

«Nuovo terribile naufragio in mare e ancora operazioni di maxi-soccorso mentre le tre navi Ong restano senza porto dopo le numerose e continue richieste alle autorità. È di almeno 60 vittime o dispersi il bilancio dell'ultima tragedia dell'immigrazione che si è consumata nell'Egeo, fra la Turchia e le isole greche. Una barca a vela su cui stavano viaggiando circa 68 migranti, salpata dalla Turchia, è naufragata nelle prime ore di ieri mattina nello stretto di Kafireas, tra le isole di Andros e Evia. Lo riporta la Guardia costiera greca, impegnata nelle operazioni di ricerca e salvataggio dei migranti. Nove uomini che si erano inizialmente messi in salvo su un isolotto sono stati soccorsi dalle autorità greche, ma in base ai racconti dei sopravvissuti sull'imbarcazione avrebbero viaggiato almeno 68 persone. Intanto proseguono le ricerche di almeno 8 persone dopo un altro naufragio avvenuto lunedì pomeriggio a largo dell'isola di Samos. Intanto, mentre il Viminale tiene alla larga le tre navi Ong con a bordo complessivamente quasi mille persone (tra cui oltre 200 minori), i guardacoste italiane non stanno a guardare. Dopo l'Sos lanciato da Alarm Phone e il timore di un nuovo, ennesimo naufragio, ecco l'intervento di salvataggio al largo della Sicilia. Due motovedette - una della Guardia costiera e una della Guardia di Finanza, oltre al "Rio Arlanza" pattugliatore della Guardia Civil spagnola in servizio per Frontex - sono intervenute a circa 40 miglia ad est dalle coste siciliane per soccorrere un motopesca con a bordo 383 persone. La motovedetta Cp322 ne trasferirà 110 a Pozzallo. Altre due imbarcazioni sono invece dirette ad Augusta: la Cp 323 con 102 a bordo e la motovedetta della Guardia di Finanza che ne porta 83. La Rio Arlanza rientrerà a Catania con 88 persone messe in salvo. Un'operazione complessa che ha visto i mezzi navali collaborare dalle 16 di ieri pomeriggio quando hanno raggiunto il mezzo in difficoltà. Il barcone era stato segnalato poche ore prima «a rischio ribaltamento ». « Le persone a bordo dicono che la barca sta affondando e che sta entrando molta acqua. Le autorità sono informate e devono agire immediatamente» scriveva su Twitter la Ong. E sulle tre navi lasciate ancora in attesa di un porto sicuro interviene anche la Federazione internazionale della Croce rossa che, in un appello congiunto con la Ong Sos Mediterranee (che con la nave Ocean Viking ha soccorso 234 migranti «che aspettano da undici giorni di sbarcare in un porto sicuro») «chiedono il rispetto del diritto marittimo e chiedono che venga trovata una soluzione immediata per il loro sbarco». Un appello che rilancia anche le richieste delle altre navi Ong: 572 migranti sono sulla Geo Barents di Medici senza frontiere, tra cui 66 minori; 179 sulla Humanity1, tra cui un bambino di 7 mesi e oltre 100 minori non accompagnati «che soffrono particolarmente dello stress psicologico». Complessivamente un migliaio che chiedono un porto sicuro. «Le persone soccorse sono totalmente esauste, disidratate, in difficoltà psichiche e alcune hanno bisogno di cure mediche immediate. Abbiamo fornito loro assistenza sanitaria e di primo soccorso psicologico, cibo e acqua, ma non possono più aspettare, questa incertezza rende la situazione insopportabile con lo stress che aumenta di giorno in giorno». «Hanno urgente bisogno di un porto sicuro» afferma Frido Herinckx, responsabile delle operazioni dell'Ifrc (International federation of red cross, ndr). «Il diritto delle persone a sbarcare rapidamente in un luogo sicuro non può essere discusso. L'attuale blocco nel processo di sbarco a seguito di operazioni di ricerca e soccorso costituisce una grave violazione del diritto del mare».

PERMACRISIS, PAROLA DELL’ANNO

“Permacrisis” è la parola dell'anno per il 2022 secondo gli esperti del dizionario inglese Collins. Il termine, dalla Brexit al Covid e all'Ucraina, spiega la sensazione di vivere un crescendo di incertezze e avversità. Matteo Persivale per il Corriere.

«Potrebbe andar peggio - potrebbe piovere», diceva il fido Igor al dottor Frankenstein in Frankenstein Junior pochi istanti prima dell'inevitabile diluvio. Più che una battuta, un aforisma, e questo 2021-22 con il suo crescendo orribile - la pandemia, la recessione, l'inflazione, la guerra, il carovita, il riscaldamento globale, il pericolo di un bombardamento atomico - evoca inevitabilmente quell'aforisma di Mel Brooks, e il neologismo inglese scelto dal dizionario Collins come parola dell'anno lo dimostra: «Permacrisis», crisi permanente, vocabolo che descrive la sensazione di vivere un periodo di crisi senza tregua coniato negli agitati anni '70 ma entrato ora prepotentemente nell'uso comune. «Riassume, in sostanza, quanto sia stato orribile il 2022 per così tante persone», ha spiegato alla Bbc Alex Beecroft, direttore di Collins Learning. «La lingua può essere uno specchio di ciò che sta accadendo nella società e nel resto del mondo, e quest' anno ha lanciato una sfida dopo l'altra. Siamo tutti in un continuo stato di incertezza e preoccupazione con gli sconvolgimenti causati da Brexit, pandemia, maltempo, guerra in Ucraina, instabilità politica, crisi dell'energia e del costo della vita». Gli studiosi del dizionario Collins lavorano ogni anno alla compilazione dell'elenco delle dieci parole o frasi che «riflettono il nostro linguaggio in continua evoluzione e le preoccupazioni di coloro che lo usano». Le altre parole del 2022? Di tragica attualità è «Kyiv» (spelling ucraino, mentre il tradizionale, e di uso più comune in Occidente, «Kiev», è la traslitterazione del russo). Stesso discorso per «quiet quitting», espressione che indica secondo il Collins «l'atto di svolgere i propri doveri di base sul lavoro e non di più, per protesta o per migliorare l'equilibrio tra lavoro e vita privata». Le fonti dei lessicografi del Collins? Un database sterminato compilato via computer, oltre a una serie di fonti multimediali, inclusi i sempre più influenti social media. Secondo Beecroft, «la nostra lista riflette lo stato del mondo in questo momento - non sono molte le buone notizie, anche se, vista la determinazione del popolo ucraino riflessa dall'inclusione di Kyiv, ci sono raggi di speranza». Ecco l'elenco delle prime 10 parole e frasi in ordine alfabetico: «Carolean», carolingio, cioè relativo a Carlo III di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, o al suo regno. «Kyiv», la capitale dell'Ucraina. «Lawfare»: l'uso strategico di procedimenti legali per intimidire o ostacolare un avversario. «Partygate», cioè lo scandalo politico sulle feste tenute negli uffici del governo britannico nel 2020 e nel 2021 infrangendo le regole sulle restrizioni Covid. «Permacrisis». «Quiet quitting». «Splooting»: cioè l'atto di sdraiarsi a pancia in giù con le gambe distese, come per esempio amano fare i cani per rinfrescarsi l'addome. «Sportswashing»: strategia di pubbliche relazioni volta a sponsorizzare o promuovere eventi sportivi nel tentativo di migliorare la propria reputazione, offuscata da qualche scandalo, o per distrarre l'attenzione del pubblico da un'attività controversa. «VibeShift», più o meno traducibile con «cambiamento di atmosfera»: una variazione significativa nell'atmosfera o tendenza culturale prevalente. «Warm Bank», un edificio riscaldato dove possono andare le persone che non possono permettersi di riscaldare le proprie case».

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Articoli di mercoledì 2 novembre

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