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Tregua? Biden è scettico
Spiragli di pace nel primo giorno delle trattative in Turchia. Ma gli Usa e i leader europei frenano molto. Sanzioni e gas fuori dagli accordi. Scontro Draghi-Conte sulle armi. Decreto accoglienza
È stato il fuso orario a determinare il clima altalenante della giornata di ieri. Sì perché si è sperato finalmente nella tregua. Ci sono stati spiragli per la pace nella prima giornata di colloqui tra le delegazioni russa e ucraina a Istanbul. I russi hanno confermato la loro ritirata, anche se hanno spiegato che non è ancora un “cessate il fuoco”. I contenuti del possibile accordo, raggiunto sotto gli occhi del Presidente turco Erdogan, sono apparsi solidi: Kiev propone un nuovo meccanismo di sicurezza basato su Paesi garanti, fra cui l’Italia, pur rinunciando a chiedere l'ingresso nell'Alleanza atlantica. Mosca lascerebbe la porta aperta alla possibilità per l'Ucraina di aderire alla Unione Europea. L'accordo prevederebbe anche lo stralcio dei due nodi più critici: la Crimea, da risolvere con bilaterali "entro i prossimi 15 anni", e il Donbass, da trattare in un negoziato a parte. Mosca ha poi chiesto che gli ucraini si impegnino a perseguire e punire chi tortura o maltratta i prigionieri.
Iniziata poi la giornata negli Usa, a metà giornata per noi, prima il segretario di Stato americano Blinken e poi il presidente degli Stati Uniti Biden sono apparsi molto prudenti e scettici: “Aspettiamo i fatti”. Washington ha chiamato a raccolta i leader europei al telefono e solo il cancelliere tedesco Scholz ha sollevato il tema di assecondare il processo di trattativa, ipotizzando una de-escalation anche delle sanzioni economiche. È un nodo importante. Si può infatti raggiungere una tregua e iniziare una seria trattativa di pace, senza coinvolgere l’aspetto delle sanzioni economiche?
Per noi italiani, fra l’altro, si tratta di una questione vitale. Fra 48 ore, infatti, dovrebbe scattare da parte nostra e in favore dei russi, il pagamento del gas nella valuta di Mosca: in rubli. Cosa impossibile per tutti i Paesi del G7. A questo punto Mosca chiuderà i rubinetti? L’opzione, anzi la minaccia, di Putin è sul tavolo.
Roma però non sembra troppo concentrata sul tema di una revisione delle sanzioni. Revisione che vada di pari passo con la tregua militare e diplomatica e che permetta di non mettere a rischio la nostra economia. Piuttosto il mondo politico italiano si divide sull’imminente voto nell’Aula del Senato, che riguarda le armi all’Ucraina e l’aumento delle spese militari. Giuseppe Conte ieri non ha trovato il dialogo con Mario Draghi, che è persino salito al Colle per riferire delle divisioni nella sua maggioranza.
L’altra vicenda che rischia di dividere l’opinione pubblica italiana è quella dei profughi ucraini. I leghisti insistono nel volerli distinguere dagli altri rifugiati che scappano dalla guerra: già oggi nelle Questure e nelle procedure di accoglienza c’è una disparità di trattamento, che, benché motivata dall’emergenza, rischia di diventare vergognosa. Ci sono i profughi di serie A, biondi e con gli occhi azzurri che arrivano dall’Ucraina, e quelli di serie B, scuri di pelle che vengono dall’Afghanistan, dalla Siria, dall’Africa. A proposito di migranti, va segnalato il bell’articolo di Eraldo Affinati per Avvenire sull’esperienza della Penny Wirton. Nel dibattito delle idee tanti interventi, fra cui quello di Marcello Flores sull’involuzione imperialista di Putin e quello di Julián Carrón, ammiratore della resistenza degli ucraini.
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LA FOTO DEL GIORNO
Speranze nella tregua. L’immagine scelta oggi ritrae un soldato ucraino vicino a Kiev. I carri armati russi hanno allentato la morsa e le scorse ore sono passate a controllare che cosa è rimasto attorno alla capitale.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
La parola chiave è quella scelta nel titolo di Repubblica: La tregua promessa. Una tregua che si comincia a ritenere possibile dopo la prima giornata di colloqui ieri a Istanbul. Il Corriere della Sera sceglie: Prove di tregua sotto i missili. L’altro termine molto usato nelle aperture dei giornali stamattina è “spiragli”. Come scrive La Stampa: I primi spiragli di pace. Il Manifesto non aggiunge altro: Spiragli. Il Messaggero li giudica come i: Primi segnali. Il Sole 24 Ore riprende la stessa immagine: Primi segnali per una intesa. Borse in ripresa, Ue e Usa prudenti. La Verità ricorda che resta aperto lo scontro sull’energia: Spiragli per la pace, allarme per il gas. Per Avvenire: Si tratta e si spara meno. Per Il Fatto gli spiragli sono chiusi dagli Usa: Putin trasloca a Sud. Biden gela il dialogo. Il Foglio celebra invece: Il ventre forte dell’Occidente. Il Giornale non crede a Mosca: Il doppio gioco di Putin. Poi c’è la vicenda del duro confronto nel governo. Per dirla col Domani: Sulle spese militari si scatena lo scontro finale tra Draghi e Conte. Il Quotidiano Nazionale stigmatizza: In Ucraina si muore, in Italia si litiga. Libero è ancora più greve: Putin si ferma, Conte diserta. Il Mattino sottolinea invece le promesse del presidente del Consiglio sul Mezzogiorno: Draghi: l’Italia ha bisogno del Sud e di Napoli.
IN TURCHIA SI APRONO SPIRAGLI DI PACE
Primi passi verso la tregua: c’è un’intesa di massima sulla neutralità dell’Ucraina e il suo ingresso nella Ue. Al tavolo negoziale di Istanbul ucraini e russi si avvicinano, mentre Mosca conferma la de-escalation militare sul terreno. Gli americani frenano. Per Zelensky i segnali sono “positivi”, ma è presto per fidarsi. Paolo Brera per Repubblica.
«La sorpresa è che i negoziati veri, quelli faccia a faccia ripartiti ieri a Istanbul dopo una lunga pausa di videoconferenze, stavolta non sono stati un deludente esercizio di retorica. Ora c'è un testo, ed è nero su bianco. Una passerella traballante che gli ucraini hanno steso verso i russi per provare a fermare questa guerra che insanguina l'Europa, anche se nessuno si fida ancora a metterci un piede sopra. La bozza di accordo, che dovrebbe essere approvato da un referendum, prevede garanzie di sicurezza per Kiev in cambio della rinuncia alla Nato, e offre lo stralcio dei nodi più spinosi: il Donbass e la Crimea sono ferite aperte da affrontare in negoziati a parte. Per il momento i russi hanno reagito senza far saltare il tavolo: il capo della delegazione ha definito «positivi» i passi avanti e ha annunciato una radicale de-escalation militare nelle regioni di Kiev e Chernikiv, devastata dalle bombe a nord della Capitale. È una notizia positiva che conferma quanto si vede da giorni sul campo: risparmierà vite, però è anche la fotografia del grosso guaio militare in cui si sono ficcati i russi, che hanno troppi fronti aperti e si erano arenati in uno stallo che mette a rischio i soldati con la "Z". Purtroppo per il capo negoziatore russo, Vladimir Medinsky, de escalation non vuol dire non si sparerà più: non è un cessate il fuoco, spiega, ma Mosca «capisce che ci sono persone a Kiev che hanno bisogno di prendere decisioni, quindi non vogliamo esporre la città a rischi ». Un segno di disponibilità ad andare avanti, a trattare. Ma nessuno si nasconde, a Kiev, il rischio che in realtà i russi coprano un'arretrata strategica per riposizionarsi a Est, dove la guerra potrebbe riesplodere con ancora maggior vigore. L'Occidente è anche più scettico. Biden ha parlato con Johnson, Scholz, Draghi e Macron: «Aspettiamo di vedere azioni concrete, nel frattempo continuiamo con le forti sanzioni e gli aiuti militari all'Ucraina ». Lo stesso Zelensky in serata ha commentato: «Vediamo segnali positivi, ma non ci fidiamo di chi continua a combattere per distruggerci». Torniamo alla bozza ucraina: il pilastro è «un nuovo sistema di garanzie di sicurezza» per il Paese che dovrà essere firmato da una serie di Paesi garanti e ratificato dai relativi parlamenti. Se Kiev deve restare fuori dalla Nato e con un vicino di casa che l'ha già invasa due volte in otto anni, vuole avere qualcosa di più del famigerato Memorandum di Budapest del 1994, che prevedeva l'integrità territoriale in cambio della restituzione ai russi dell'arsenale nucleare. I Paesi garanti scelti prioritariamente tra i membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu, dice Kiev, dovranno offrire «concrete garanzie di sicurezza» sulla stregua di quelle «dell'articolo 5 della Nato», anzi «ancora più efficace» perché prevederebbe «entro tre giorni» l'assistenza militare con forze armate, armi e chiusura dei cieli. E tra i Garanti ci sarebbe anche la Russia. In cambio, l'Ucraina non ospiterebbe basi straniere, non stringerebbe alleanze militari né condurrebbe esercitazioni milita ri in patria senza il consenso dei garanti. Kiev direbbe addio alla Nato, ma non all'Europa. L'avvicinamento alla Ue avverrebbe anzi con il beneplacito di Mosca, che secondo il capo negoziatore «non si opporrebbe». A Mosca andrebbe la garanzia che i prigionieri di guerra saranno trattati con rispetto, e chi li tortura verrà perseguito. La nota dolente è che non si è avanzati di un millimetro sui corridoi umanitari, e restano tutti sul tavolo i nodi da risolvere a Est. Per la Crimea, Kiev propone di affrontare il problema in trattative «entro 15 anni», cioè una traslazione della questione non risolvibile della sovranità che consenta di spianare intanto le altre vicende. L'altra questione sospesa è il Donbass. Kiev propone di affrontarlo in trattative separate. Di fatto, sembra un ritorno a Minsk II, che Kiev ha firmato ma non ha poi accettato di mettere in atto, con il necessario aggiornamento alla «situazione sul campo», cioè alle conquiste ottenute da Mosca nel frattempo. È lo stesso Medinsky a convenire che la strada verso la pace resta lunga, ma le proposte di Kiev sono «chiare» e «saranno sottoposte a Putin». Sarà lui a decidere se e quando fare un passo avanti: un incontro tra ministri e poi - se si trova un'intesa vera - tra i presidenti per la firma. Per il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, «un conto è quello che la Russia dice, e un conto quello che fa». E il Pentagono rilancia: «La minaccia per Kiev non è finita, lo spostamento di soldati è un riposizionamento».
C’è da sperare nella tregua? Il commento di Paolo Valentino sulla prima pagina del Corriere della Sera.
«È pieno di personaggi, il trompe-l'oeil di Istanbul che sembra per la prima volta aprire un varco alla fine delle ostilità e a una soluzione negoziata della crisi ucraina. Come in un dramma pirandelliano, dal turco Erdogan all'israeliano Bennett, dal francese Macron all'oligarca russo Abramovich, sono in molti ad aver cercato e avuto un ruolo da mediatori, a conferma che quella che si consuma tra Kiev e il Mar Nero è una vera crisi globale che nessuno può permettersi. L'intesa del Bosforo, ancora troppo fragile e acerba per poterla definire accordo, segna un cambio di passo. Mosca annuncia la riduzione «drastica» delle attività militari intorno a Kiev e Chernihiv, che se suona come la presa d'atto dell'impossibilità di conquistare la capitale, manda tuttavia un segnale di de-escalation. Mentre gli ucraini sottopongono per la prima volta agli invasori un pacchetto concreto di concessioni, nel quale oltre alla «neutralità», cioè la rinuncia a entrare nella Nato, a possedere armi nucleari e a ospitare basi militari straniere, c'è anche un negoziato di 15 anni sullo status della Crimea, che di fatto comporterebbe un congelamento dell'annessione russa. Anche sulle due Repubbliche separatiste del Donbass, gli inviati di Zelensky fanno un'apertura, suggerendo che siano i leader dei due Paesi a discuterne. Proposte definite «costruttive» dal viceministro della Difesa russo Alexander Fomin, il quale apre anche a un'adesione dell'Ucraina all'Unione europea e annuncia che un vertice Putin-Zelensky sarà possibile quando i ministri degli Esteri avranno finalizzato un accordo. La cautela è d'obbligo. Il segretario di Stato americano Tony Blinken accoglie con molto scetticismo le notizie che vengono dalla Turchia, spiegando di non aver visto «alcun segnale serio» da parte di Mosca, che prosegue la sua guerra di aggressione. E insinua il dubbio che i russi stiano solo prendendo tempo, per rifiatare e riorganizzare una campagna fin qui fallimentare. Reazione che tuttavia non deve impedire di dare una chance allo scenario che si intravede dietro il fumo dei bombardamenti. La parte più interessante riguarda sicuramente la neutralità dell'Ucraina, che dovrebbe essere garantita da un gruppo di Paesi. I delegati di Kiev hanno già indicato Israele, Canada, Polonia e Turchia. Ma anche Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia potrebbero essere coinvolte. Si tratterebbe di creare un meccanismo simile all'articolo 5 che regola la difesa collettiva della Nato: un attacco contro il territorio ucraino farebbe scattare una risposta automatica da parte dei garanti. I due caveat problematici sembrano però essere la modifica costituzionale necessaria in Ucraina e il referendum al quale andrebbe sottoposto l'eventuale accordo: dopo aver subito tanta distruzione, saranno pronti Parlamento e popolo ucraino a cedere sulla neutralità? Anche per Vladimir Putin lo schema d'intesa ha alcuni ostacoli. Non certo quelli della Duma o della popolazione, mai un problema per lo Zar. Quanto quelli di una narrazione da rivedere. Otterrebbe la «garanzia di sicurezza», congelerebbe l'annessione della Crimea, lascerebbe una porta aperta al Donbass. Ma il prezzo pagato sarebbe altissimo perfino per un'autocrate come lui, con migliaia di soldati russi morti e un Paese annichilito in una crisi da cui sarà difficile risollevarsi. Comunque andrà, la parabola di Vladimir Putin ha già superato il suo zenit».
LA RITIRATA DEI RUSSI DA KIEV
Le truppe russe mollano la presa su Kiev e Chernihiv ma a Kharkiv sale la tensione, anche gli ospedali sono in prima linea: "Si sposteranno qui, sarà un massacro". Il reportage di Francesco Semprini inviato della Stampa.
«C'è un paziente, una storia che l'ha colpita in maniera particolarmente forte, un episodio che non riesce a levarsi dalla testa?». Il primario ha lo sguardo fisso nel vuoto, poi con la mano apre il cassetto della scrivania, tira fuori alcuni fazzoletti e due buste di plastica. Al loro interno sono conservate schegge di dimensioni diverse, di cannone, di mortaio, di missile. «Curiamo decine di pazienti ogni giorno e questo è quello che leviamo loro dal corpo, a volte non basta a salvarli, a volte muoiono sotto i nostri occhi, e una parte di noi muore assieme a loro». Kirill Parkhomenko è il direttore sanitario del Kharkiv Regional Hospital, il principale ospedale della seconda città ucraina, una delle più massacrate, obiettivo privilegiato della macchina da guerra di Vladimir Putin, e terra di riconquista della resistenza nazionale. Con un tributo pesantissimo in termini di morti e feriti, molti dei quali sono passati e passano per l'ospedale guidato da Parkhomenko. «Io stesso intervengo con le mie mani per levare questa roba dai corpi dei nostri pazienti, e ogni volta non riesco a farmene una ragione», dice il primario chirurgo. Sul suo volto si leggono rabbia e sofferenza, anche perché in cuor suo è conscio che le cose, presto, potrebbero andare peggio. Se Mosca dovesse realmente mollare la presa su Kiev, come lasciato intendere durante le trattative di ieri in Turchia, le truppe verrebbero riposizionate sui fronti orientale e meridionale, e Kharkiv potrebbe diventare la nuova Stalingrado. «Non potevamo immaginare che i russi si accanissero così tanto sulla nostra città, qui c'è un'importante comunità russofona, ci sono legami culturali e storici, e una tradizione di convivenza serena. Vladimir Putin invece la vuole radere al suolo pur di farne un suo possedimento, questa gente non ha misericordia per i civili, si comportano come barbari». E così, dal 24 febbraio, l'ospedale regionale è diventato una trincea, dove però le vite si salvano, non si annientano. Il primario prende la sacca arancio del primo soccorso, «abbiamo avuto feriti anche tra i nostri dottori e infermieri, alcuni sono morti». Ognuno ha il proprio kit, se succede qualcosa si curano da soli. «Ogni intervento che facciamo, è una storia a sé, la storia di una vita che tentiamo di mantenere tale - prosegue Parkhomenko -, è una storia che ci entra nel cuore, come queste schegge entrano nelle membra». È, ad esempio, la storia di Alexander, 67 anni autista diventato volontario: «Portavo viveri ai bisognosi e ai soldati, un giorno sono uscito di casa e sono iniziati i bombardamenti, alcuni vicini mi hanno urlato dicendo di mettersi al riparo, mi sono ritrovato un pezzo di gamba tra le mani, ho chiesto di tagliarmela per salvarmi la vita». Alexander non sembra abbattuto: «Il vero dolore l'ho provato quando mia moglie è morta prima della guerra, allora mi sono sentito solo, ora mi stringo al mio popolo». Davanti a lui c'è un altro paziente di nome Alexander, è vittima di una «cluster bomb», le bombe a grappolo bandite dalle convenzioni internazionali. Ha una ferita sotto l'inguine e sulla gamba, la loquacità non gli appartiene. Cosa pensa della guerra? «Che finisca presto». Il racconto di Igor, invece, è impietoso: «Stavamo correndo per la strada e ci siamo trovati davanti i soldati russi, così all'improvviso, non hanno esitato e hanno sparato, forse pensavano che fossimo sabotatori o forse hanno semplicemente avuto l'ordine di sparare ai civili». Ai muri delle corsie dell'ospedale di Kharkiv sono appoggiati alcuni materassini: «Sono i nostri letti, oramai siamo qui giorno e notte, dormiamo poche ore», dice Artem, giovane medico di prima linea che ci guida nel girone dantesco dei sospesi. «All'inizio andavano nei bunker, ora non più, non vogliamo lasciare soli i nostri pazienti, abbiamo il dovere di difenderli». Il percorso dall'accettazione alla rianimazione è un macabro pellegrinaggio, la barella ha tracce di sangue vivo. Artem saluta un paziente particolarmente vivace, si chiama Jenia. «Ero con mio figlio a casa, ho sentito un boato pazzesco e mi sono ritrovato a terra con ferite allo stomaco, ai reni al fegato». Perché ritiene che i russi l'abbiano colpito? «Per i russi siamo obiettivi», dice, poi fa un sorriso: «Mio figlio però sta bene». Accanto a lui si sente ansimare, è un paziente intubato, gli occhi semichiusi: «Una pallottola gli ha centrato la mandibola», dice il dottore. Fa segno di saluto con la mano, usa tutte le forze per dire che i soldati di Mosca «sparavano ovunque». Poi si lascia andare, le energie sono gocce distillate. Davanti a lui c'è Andriy, è ferito al petto e al braccio stava tornando in bicicletta dalla bottega dove fa il falegname, aveva con sé il martello che usa sempre, un colpo di mortaio è esploso non lontano, l'onda d'urto lo ha travolto, una scheggia si è andata a conficcare proprio nella parte di metallo del martello: poteva essere quella fatale». «Ognuno di loro è una persona che non possiamo dimenticare così come non possiamo perdonare a Vladimir Putin di aver causato tutto questo - interviene con voce decisa il primario Parkhomenko -. Ma non solo a lui, anche di tutti quei russi che lo hanno votato e lo sostengono sulla pelle degli ucraini». A congedarci dalla trincea dell'ospedale di Kharkiv, è il volto conciliante di un anziano signore di nome Pavel, ha una ferita al petto, da cui esce un tubicino per svuotare il polmone. È stata una bomba vicino casa sua, «una pioggia di vetri mi è venuta addosso, non ricordo nulla, mi sono ripreso poco dopo, ferito e confuso». Cosa pensa della guerra? «L'ha iniziata uno stupido».
TREGUA? BIDEN E I LEADER EUROPEI SONO SCETTICI
Il retroscena. Gli alleati sono divisi sulla tregua: il presidente Usa Biden resta scettico ma il cancelliere tedesco Scholz apre ad un possibile taglio delle sanzioni. Tommaso Ciriaco per Repubblica.
«C'è un dilemma che affligge gli alleati. Prende forma proprio mentre a Istanbul un autentico negoziato tra Russia e Ucraina sembra decollare. Lo porta al tavolo delle potenze occidentali Joe Biden, convocando la call con i leader di Regno Unito, Francia, Germania e Italia. Con un ragionamento che può riassumersi così, e che si diffonde poco dopo al vertice delle diplomazie europee: «Putin ha bisogno di vendere al suo popolo una vittoria. Difficile che sia qualcosa che noi potremo accettare ». Il timore è che lo Zar intenda forzare la mano sullo status di Crimea e Donbass. Che non si accontenti di un accordo su un regime di "autonomia speciale" che sembrerebbe agli occhi del mondo come una dura sconfitta delle ambizioni di Mosca. Si teme insomma che stia preparando la parata del 9 maggio - quella che celebra ogni anno la vittoria sui nazisti - per annunciare qualcosa che Zelensky non potrà digerire. Sia chiaro, molto si muove sul fronte orientale. Sotto la regia di Erdogan, i due nemici ammettono pubblicamente e per la prima volta di essere disponibili ad alcuni sacrifici. I russi sgombrano il tavolo dal concetto di "de-nazificazione" e si mostrano sostanzialmente aperti ad accettare un percorso che porti Kiev - sia pure in tempi non brevi - nell'Unione europea. Gli ucraini dicono con chiarezza che non aderiranno alla Nato e aprono all'opzione di lunghi negoziati per le due regioni russofone contese. Il capo negoziatore di Zelensky si spinge anche oltre, ipotizzando un meccanismo che porti l'eventuale forza di interposizione composta dai garanti internazionali - i dieci Paesi, tra cui l'Italia, sotto l'egida dell'Onu - a intervenire con armi e soldati in caso di aggressione russa, chiudendo contestualmente i cieli d'Ucraina. Segnali positivi, base negoziale da non sottovalutare. Eppure, tra gli alleati prevale per ora lo scetticismo. Un po' perché Washington continua a preferire il logoramento di Putin e sembra orientata a non avallare un'intesa in tempi troppo stretti, temendo che passi un messaggio di impunità rispetto alle mire espansionistiche di Mosca. Un po' perché lo Zar continua ad alternare promesse e bombe. Lo dice il segretario di Stato americano Antony Blinken, segnalando la distanza tra «le parole» di Putin e «quello che fa»: «Non vedo reale serietà», è la sintesi. È la traduzione diplomatica dei ragionamenti di Biden. Per il Presidente Usa, l'investimento del leader russo nella guerra è stato enorme - così ricorda ai partner - e dunque la paura è che non accetti di chiudere la partita con una sostanziale resa, sia pure camuffata da trionfo da vendere all'opinione pubblica russa. E a quel punto, di fronte a una forzatura su Crimea, Donbass e Odessa, come reagirebbero gli occidentali? È il dilemma, appunto. La call del formato "Quint" diventa allora l'occasione per ragionare di cosa fare oggi per evitare di trovarsi domani di fronte a quello scenario. Ed è proprio su questo passaggio che le opinioni divergono. Biden preme per intensificare il flusso di armi all'esercito ucraino. Invita gli alleati a non mollare di un centimetro sulle sanzioni ed evitare "rilassamenti" rispetto alla postura rigidissima che ha strozzato i piani offensivi di Mosca. Quando tocca a Boris Johnson, i concetti diventano più affilati: «Dovremo essere implacabili nella risposta ». E dunque: armi, tante armi, e «sanzioni, sanzioni, sanzioni». Non è però la posizioni tedesca. Olaf Scholz teme che la crisi del gas rallenti la ripresa tedesca. Per questo, chiede addirittura di valutare una de-escalation sul fronte delle misure punitive già adottate: se Putin dovesse far seguire alle parole i fatti - è il senso dei suoi ragionamenti - l'Occidente dovrebbe valutare di concedere qualcosa per allentare la morsa. Un segnale di debolezza, per Londra e Washington. Non è la posizione francese. Emmanuel Macron ha meno urgenza di contenere la crisi energetica, grazie al nucleare. E sembra impegnato nel perseguire in queste ore - anche se per adesso senza risultati - soprattutto il corridoio umanitario per Mariupol. Quanto a Mario Draghi, l'approccio è chiaro: dalla parte dell'Ucraina, non ostile alle sanzioni, spinto verso la ricerca di un «cessate il fuoco». Che non significa posizione troppo negoziale, anzi: è il modo per chiedere a Putin di mostrarsi sincero rispetto agli impegni, oltreché atto utile a ridurre la catastrofe umanitaria. Potrebbe parlarne già oggi al telefono con il leader russo, se le due diplomazie riusciranno a limare gli ultimi dettagli per stabilire il contatto. A breve, inoltre, potrebbe essere ufficializzata una visita del presidente del Consiglio a Berlino, per un primo faccia a faccia in Germania con Scholz».
Domenico Quirico ragiona sul presidente americano Biden vero “guastafeste”: le sue “parole di odio” nei confronti di Putin sono molto diverse dai distinguo degli europei.
«Ma che guastafeste questo Biden: chiama alle armi, alla soluzione radicale, o Putin o noi, perfino il buon dio che pure è infinitamente paziente non lo sopporta più al Cremlino, con un nemico mortale non ci sono accomodamenti, ucciderlo o farsi uccidere, nessuna via di mezzo. Finalmente venne il Presidente! Le sue parole di guerra e di odio sono di oro zecchino, le nostre, con i distinguo e i controdistinguo, sanno di reticente, di falso. Noi dell'Unione europea facciamo la guerra ma accuratamente difensiva, pudibonda, fino a un certo punto e non oltre, per carità. Ci viene comodissimo uno strampalato neologismo mussoliniano: tifiamo per uno dei duellanti ma restiamo «non belligeranti». Molte sono le scappatoie, confidiamo, molte le porte per non andare da nessuna parte. Adesso non abbiamo più bisogno di Cassandre. Sappiamo ufficialmente. Unione europea e Stati Uniti combattono in Ucraina due guerre diverse pur dandosi grande manate sulle spalle e giurandosi fedeltà eterna. Perché in guerra siamo già con la Russia e l'idea di poter fermare un simile macello in qualsiasi momento come si spinge il freno dell'automobile è una bella pretesa di ingenui. Allora: l'Europa, con buona volontà e impegno, per quanto le consentono i suoi limiti, si propone di preservare per quanto possibile la indipendenza ucraina, salvare e aiutare i profughi e, elemento cruciale, uscirne limitando i propri danni già vasti. Che sono quelli che derivano dalle forniture di gas e altri utilissimi materiali che, purtroppo, arrivano in gran quantità da quelle latitudini selvatiche. Gli americani invece... che cosa pescano nel vaso di pandora? Gli americani, come ha spiegato sillabando bene vocali e consonanti e mettendole poi per iscritto Biden, hanno un progetto molto più ambizioso di cui l'Ucraina, è amaro dirlo, non è che lo scenario geografico e a cui fornisce il materiale umano. Il progetto è quello di spazzar via Putin dallo scenario politico mondiale. I mezzi da impiegare si svelano a poco a poco, con l'evoluzione della situazione sul campo, come dicono giudiziosamente i generali. All'inizio era soltanto l'idea di logorare i russi con una gigantesca guerriglia. Da anni, con saggia precauzione, la pianificavano imbottendo di armamenti efficienti gli sgangherati arsenali ucraini. Ecco servito un secondo Afghanistan modello anni Ottanta nel cuore dell'Europa con gli eroici, loro malgrado, ucraini al posto degli eroici mujiaheddin. Sullo sfondo, non pronunciata esplicitamente ma accarezzata con cura, la possibilità che alla fine di questo ben architettato dissanguamento il capitolo finale lo scriva un efficace intrigo di palazzo: a eliminare il coriaceo dittatore logorato dalla mancata vittoria avrebbe provveduto una mano russa. In fondo il delitto perfetto. Non è escluso che le fertili menti della Cia stiano lavorando per ingaggiare pugnali in Russia disposti a correre il rischio di indossare i panni di Bruto e di Cassio. A rileggere la storia dei Servizi americani si può ben dire che questo «escamotage» è una specialità della casa. È difficile liberarsi della vecchia pelle. Elemento fondamentale della strategia è sabotare qualsiasi possibilità di negoziato. Con dichiarazioni incendiarie, annunci di escalation chimiche batteriologiche atomiche del nemico russo, minacce, insulti. Una conclusione della guerra che veda Putin ancora al potere, per di più con la realizzazione di qualcuno dei suoi scopi come la neutralizzazione «in saecula saeculorum» della Ucraina o la definitiva russificazione di Crimea e zone collegate e allargate, sarebbe un disastro per gli americani. Quando Zelensky lascia lampeggiare la possibilità di accettare alcune pretese russe pur di salvare quanto resta del suo Paese martoriato, si intravede l'irritazione. Serve perché è l'immagine della resistenza eroica e fino all'ultimo uomo, un abile rivenditore di sofismi oltranzisti. Se accarezzasse l'idea di metter da parte il vocabolario dell'inflessibile, be', a Kiev gli americani non faranno fatica a trovare i trinceristi del programma unico: ributtiamo i russi a casa loro. A rilegger la storia dell'impero americano non sarebbe la prima volta: si fa in fretta a licenziare e sostituire i dipendenti locali che non si tengono sulla retta via della compiacenza e del rispetto delle regole. A Washington sanno benissimo che per loro, come per Putin, l'Ucraina cinicamente non vale in sé niente, è popolata di uomini senza importanza. Facendola a pezzi l'autocrate russo si rivolge proprio a Biden, una esibizione di forza brutale per ottenere una trattativa diretta, esplicita tra i Grandi che coinvolga anche l'alleato cinese. Dovrebbe il vertice riscrivere l'Ottantanove nefasto, definire le aree di influenza, i vassalli e le zone grigie con la Russia restaurata così nel suo ruolo sovietico-imperiale. Sarebbe la fine dell'ordine americano del mondo che è conseguenza proprio della dissoluzione dell'Urss (la fine della Storia) e dello sfruttamento americano della lotta infinita al terrorismo. Ma trattare con Putin vorrebbe dire ammettere che gli Stati Uniti sono una potenza debole, ormai una potenza come le altre. Nelle ultime mosse di Biden fa capolino un pericoloso aggiornamento di questa strategia dei tempi lunghi. Gli americani hanno fretta ora di liquidare il Satana di turno. Sembrano disposti a alzare il livello dello scontro, si affaccendano a dimostrare che le trattative e i rinvii son tutte ciance che Putin sfrutta a vantaggio del suo orgoglio insolente. Insomma gli americani sembrano aver accettato l'idea che valga la pena menar le mani, di persona, direttamente. Si sente odore di battaglia e di permesso di sparare. Come annunciatori di irrimediabile tempesta li precedono gli europei oltranzisti, la Gran Bretagna, regno disunito che nel ruolo di servizievole anglosassone trova ancora un simulacro di potenza, e i polacchi che cercano di saldare gli innumerevoli conti aperti con tutte le Russie, zarista, staliniana, putiniana. E l'altra Europa? La sua rotta fatalmente divergerà sempre più da quella americana. Poi al momento decisivo, dovrà o allinearsi o ognuno cercherà di assicurarsi l'evasione con mezzi propri».
SCONTRO TRA LE CHIESE ORTODOSSE
Ortodossi ucraini verso lo scisma. Sarebbero già cento le parrocchie russe che si sono ribellate. Lo racconta Tonia Mastrobuoni su Repubblica.
«Vladimir Putin non è interessato ai valori cristiani. Altrimenti non bombarderebbe le sue stesse chiese in Ucraina. Non raderebbe al suolo intere città come Mariupol, senza alcuna misericordia per la popolazione civile e per i fedeli ortodossi. Dov' è la fraternità tra popolo russo e ucraino?». Evstratij Zoria è l'arcivescovo di Chernihiv e Nizhyn e portavoce del Santo Sinodo. È uno dei capi della chiesa ortodossa ucraina. E a Repubblica racconta la rivoluzione silenziosa ma clamorosa delle parrocchie che sta accompagnando l'invasione di Vladimir Putin. Il malumore strisciante di tanti preti e fedeli che fanno capo al patriarcato russo si è tramutata nell'ultimo mese in aperta rivolta. Dopo le bombe, le distruzioni di intere città, e dopo la predica guerrafondaia del patriarca Kirill a sostegno di Putin, sono già un centinaio le parrocchie russe che hanno voltato le spalle a Mosca e si sono unite alla chiesa ortodossa autocefala ucraina, secondo quanto riferito ieri dal primate, il metropolita di Kiev, Epifanio. Che ha rivolto ieri anche un appello esplicito ai preti ribelli a unirsi alla sua chiesa. Tra le due chiese "sorelle" di Mosca e Kiev, ormai, è guerra aperta. Della predica sanguinosa di Kirill, l'arcivescovo Zoria ha un'opinione molto netta: «una farsa». Peraltro l'alto prelato è convinto che Kirill si sia buttato ai piedi di Putin non soltanto perché la chiesa di Mosca è sempre stata «un dipartimento dello Stato russo», e ora il braccio armato spirituale dell'imperialismo del Cremlino. Ma perché Kirill ha un rivale pericoloso che potrebbe prendere il suo posto, se lui si mostrasse meno obbediente a Putin: Tikhon Shevkunov, metropolita di Pskov, è la fanatica e fedelissima guida spirituale del presidente. Il suo Rasputin. L'attuale rivolta ucraina è partita spesso da singole chiese e dai fedeli, come dimostra il caso del monastero della Resurrezione di Cristo di Leopoli, tra i primi ad annunciare lo scisma da Mosca. Quando arriviamo nel cortile, ad accoglierci c'è il guardiano Andriy Matyla. Sul patriarca Kirill, il cinquantaquattrenne taglia corto - «è Satana» - e per dimostrarlo ci porta in una delle poche stanze riscaldate del monastero ottocentesco i cui restauri sono stati bloccati dalla guerra. Una famiglia di profughi di Zaporizhzhia dorme nei letti improvvisati in un angolo nella stanza, dal lato opposto quattro stele con le icone dei santi invitano alla preghiera. «Ecco i risultati dell'umanità di Putin e Kirill, del loro amore per i "fratelli ucraini": milioni di fedeli in fuga dalle sue bombe», commenta Andriy. Dai social, intanto, ci arriva una notifica inquietante sullo smartphone. Un video diffuso dal canale Telegram "Osint Ukraine" mostra volontari delle Guardie territoriali ucraine trascinare fuori da una chiesa ortodossa russa un prete. In effetti, i telegiornali martellano da giorni su casi di spie nascoste dai preti fedeli a Mosca, narrano continui episodi di collaborazionismo delle parrocchie affiliate alla chiesa di Kirill con l'esercito russo. Difficile verificare. «Quello che è certo», spiega l'abate del monastero, Padre Giobbe, quando ci raggiunge dal suo giro nei centri di accoglienza per gli sfollati, «è che alla fine della guerra, la separazione sarà completata: la chiesa ortodossa russa non esisterà più, in Ucraina. Perché la rivolta è politica, non riguarda la fede: mai ci saremmo aspettati dal nostro patriarca a Mosca che potesse benedire le bombe». Quando la Russia ha invaso il suo Paese, Padre Giobbe ha promosso una lettera di quaranta parrocchie per chiedere di non menzionare più Kirill nelle prediche e per avviare un processo di distacco di tutta la chiesa ortodossa russa da Mosca. «Dopo quindici giorni di totale silenzio, sono stati i miei parrocchiani a chiedermi di separarci dalla Russia». La chiesa ortodossa consente di cambiare affiliazione, se le parrocchie lo decidono a maggioranza. «Questa - conclude l'abate - è una rivoluzione dal basso. Se non la faranno i vescovi, la faranno i fedeli».
IL DECRETO SUI PROFUGHI UCRAINI
Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha firmato un Dpcm sulla protezione temporanea e l’assistenza dei profughi ucraini. Prevede fra l’altro trecento euro a ogni rifugiato accolto, bonus minori e altre risorse al terzo settore. Vincenzo R. Spagnolo per Avvenire.
«Prende forma il quadro normativo necessario per sostenere la complessa macchina dell'accoglienza dei profughi in fuga dal conflitto in Ucraina. Ieri il premier Mario Draghi ha firmato il Dpcm su protezione temporanea e assistenza, che recepisce la decisione del Consiglio Ue dello scorso 4 marzo.
E nelle stesse ore il capo dipartimento della Protezione civile, Fabrizio Curcio, ha emanato un'ordinanza che dispone contributi economici per i rifugiati che troveranno una sistemazione abitativa autonoma. Finora, secondo i dati del Viminale, ammontano a 75.115 i rifugiati ucraini giunti in Italia: 38.735 donne, 7.158 uomini e 29.222 minori. Ormai gli ingressi si stanno assestando sul migliaio al giorno: ieri sono stati 1.217. Le destinazioni principali restano Milano, Roma, Napoli e Bologna. E la stragrande maggioranza delle persone risulta per ora ospitata da parenti o conoscenti, anche italiani. Nelle scuole italiane, sono già 7mila i bambini e ragazzi ucraini accolti, fa sapere il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, «e il loro numero cresce al ritmo di 180-200 al giorno». Il comitato parlamentare su Schengen ha chiesto alla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese di riferire stamani in audizione sulla gestione della macchina dell'accoglienza. Un anno più un altro di proroga. Il Dpcm firmato da Draghi fissa, a partire dal 4 marzo 2022, la decorrenza della protezione temporanea, con durata di un anno. I beneficiari sono le persone sfollate dall'Ucraina a partire dal 24 febbraio 2022, primo giorno dell'attacco russo: non solo i residenti nel Paese, ma anche cittadini di Paesi terzi che beneficiavano di protezione internazionale e i familiari. Il permesso di soggiorno viene rilasciato in Questura e vale un anno, ma può essere prorogato di sei mesi più altri sei, per un massimo di un anno.
Cosa consente? L'accesso all'assistenza sanitaria, al mercato del lavoro e allo studio. Ma può essere revocato, anche prima della sua scadenza, se e quando il Consiglio Ue si trovi a decidere la cessazione della protezione temporanea. Il provvedimento consente ai cittadini ucraini già presenti in Italia il ricongiungimento con i propri familiari ancora presenti in Ucraina e prevede inoltre specifiche misure assistenziali. L'ordinanza: 300 euro a persona. Chi fa richiesta di protezione temporanea e trova una sistemazione autonoma (una stanza in affitto; un'abitazione) può ricevere «un contributo di sostentamento una tantum, pari a 300 euro mensili pro capite, per la durata massima di tre mesi decorrenti dalla data d'ingresso in Italia». Se ci sono minori, «in favore dell'adulto titolare della tutela legale o affidatario, è riconosciuto un contributo addizionale mensile di 150 euro per ciascun figlio di età inferiore ai 18 anni». Le due disposizioni sono contenute nell'ordinanza firmata dal capo della Protezione Civile Curcio. Chi beneficerà del contributo, si legge nell'atto, non potrà accedere «ad altre forme di assistenza alloggiativa», ma potrà avere i fondi «in un'unica soluzione e in forma cumulativa », anche per due o tre mensilità, qualora i tempi delle domande dovessero prolungarsi oltre i 90 giorni dall'ingresso in Italia. Chi verserà il contributo? Potrà essere erogato in contanti da qualsiasi istituto di credito nel Paese, qualora il beneficiario non abbia un conto corrente: basterà presentare in banca un documento d'identità valido, insieme alla ricevuta del permesso rilasciata dalla questura competente. «Ci sarà chiaramente un sistema di controlli sulla legittimità della richiesta », avverte Curcio. Invece «l'accoglienza diffusa riguarda i Comuni, gli enti del Terzo Settore» fino a un massimo «di 15mila posti». Una volta stabiliti criteri e tariffe massime pro capite al giorno, «passeremo alla valutazione di queste disponibilità e agli accordi attuativi», specifica Curcio. Lavoro e cure sanitarie. Se il profugo dovesse trovare un lavoro, l'ordinanza dispone che «il beneficiario può continuare a fruire della misura» solo per «60 giorni». Infine, rispetto alle cure, i profughi ucraini vengono equiparati ai cittadini italiani: avranno un codice fiscale per accedere alle prestazioni sanitarie. E a ogni regione sarà riconosciuto un rimborso forfettario di 1.520 euro a profugo, per un massimo di 100mila persone. «Ci interfacciamo con le reti, ma può esserci la piccola associazione, il nucleo familiare o nuclei di famiglie che decidono di mettersi insieme a soggetti che lo Stato conosce perché sono nei registri del ministero del Lavoro, del Mise, delle prefetture», argomenta Wladimiro Boccali, membro del gabinetto del ministero del Lavoro, appellandosi al «grande senso di responsabilità del Terzo settore».
Sul Fatto Antonio Padellaro torna sulla polemica scatenata dal governatore leghista Fedriga, che discrimina i profughi di serie A, ucraini biondi e con gli occhi azzurri, e quelli di serie B, afghani, siriani e in genere africani dalla pelle scura.
«AAA si accolgono profughi di certificata etnia europea, solo donne e bambini, religione cristiana, cucina internazionale, miti pretese, a condizione che se ne tornino a casa quanto prima. Astenersi profughi africani, afghani, pachistani che tolgono il lavoro agli italiani, no islamici, no cibi speziati, non c'è posto, raus, fuori dalle scatole. Da quando è iniziata la guerra in Ucraina ci aspettavamo dai leghisti reazioni del genere (magari meno esplicite). Poi, però, davanti ai titoloni sulla "straordinaria solidarietà" degli italiani, per un po' ci siamo cascati con tutte le scarpe. Convinti che anche Matteo Salvini fosse cambiato, maturato che, finalmente in sintonia con i valori dell'Unione europea e dei Diritti dell'uomo, avesse gettato nel cassonetto le furiose politiche discriminatorie e xenofobe verso i rifugiati di ogni etnia e colore della pelle. Avevamo sorriso quando l'eurodeputata Susanna Ceccardi pretendeva "di verificare che i profughi dall'Ucraina stessero effettivamente scappando dalla guerra per evitare che arrivi in Europa chiunque sta scappando dall'Africa". Non c'era talk che non disegnasse cartine canzonatorie con gli astuti clandestini che facevano il giro largo Africa, Turchia, Ucraina, Polonia, facendosi bombardare dai russi e mitragliare dai battaglioni Azov, per poi fregarci tutti quanti. E invece, ammettiamolo, Ceccardi aveva lo sguardo lungo. Perché le stesse cose, ma espresse molto peggio, le ha dette quel Massimiliano Fedriga, presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, considerato il volto umano, moderato, accogliente, gentile, mansueto del Carroccio. Sentite qua: "Non possiamo certo immaginare di mischiare il flusso di profughi ucraini, composto al 90 per cento da donne e bambini con quello che giunge attraverso i Balcani, soprattutto da Afghanistan e Pakistan e che comprende in gran parte giovani uomini, con tanti sedicenti diciassettenni che in realtà sono maggiorenni". Era ora: con l'icastica definizione dei "sedicenti diciassettenni" (con cellulare e unghie curate) riscopriamo dopo tanto tempo il rude linguaggio delle osterie leghiste, pane al pane e negher al negher, che generò l'epopea del Capitano e l'impennata di voti che fece sognare i pieni poteri. Basta con le sbandate buoniste tipo viaggio di pace in Polonia con annessa figura di palta. Prima gli Italiani! Poi le badanti ucraine. Scusaci Susanna».
UCRAINI E RUSSI INSIEME ALLA PENNY WIRTON
Lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati anima ormai da anni la scuola Penny Wirton, dove giovani volontari ed esperti insegnanti, anch’essi volontari, aiutano i migranti ad imparare l’italiano. In una delle esperienze educative più ammirevoli del terzo settore italiano. Oggi Affinati scrive l’articolo di fondo di Avvenire, raccontando l’arrivo dei giovani profughi ucraini. E russi.
«Sofia, Nika, Liudmila, Igor, Irina Sto facendo l'appello dei nuovi iscritti al corso di lingua italiana. Il numero dei rifugiati ucraini cresce a vista d'occhio. Ogni giorno si presentano famiglie, spesso donne con bambini perché gli uomini sono rimasti a difendere la casa. Prendono posto in mezzo agli altri, eritrei, afghani, siriani, sudanesi, che non hanno mai smesso di arrivare. Nadia, una nostra volontaria, spinge la carrozzina del più piccolo, Nikita, frugoletto dagli occhi azzurri col ciuccio e il cappellino colorato, mentre sua mamma, Marina, si è accomodata in uno dei banchi che abbiamo collocato fuori, nel cortile davanti all'entrata dell'associazione, anche per evitare l'eccessivo affollamento. Lo possiamo fare visto che a Roma queste giornate di precoce primavera ce lo consentono: il sole scalda le vecchie pietre e forse persino il nostro cuore stravolto dalle immagini televisive che giungono da Kharkov e Mariupol coi palazzi sventrati, le scuole distrutte, gli ospedali ridotti in macerie. Questo angolo della capitale, fra il cimitero del Verano e la circonvallazione Tiburtina, assomiglia a una retrovia pedagogica: al posto delle bende usiamo le matite. Ho la sensazione che le tante coppie di studenti e professori impegnate a studiare verbi e pronomi, stiano ricostruendo le sagome, almeno verbali, di un mondo in disfacimento. Osservo l'opera di ripristino dall'interno della babele di idiomi. Lucia mi chiede di sbloccare la chiusura lampo del maglione del suo allievo, dodicenne, appena arrivato da Leopoli; mentre cerco di farlo riprovo l'antica sensazione che, molti anni fa, mi fece appassionare al mestiere dell'insegnante: assumere il ruolo del genitore assente, stavolta davvero per cause di forza maggiore, trasformando me stesso nel giocattolo dei figli altrui. Non avevo più volte affermato che la paternità è sempre putativa? Eccomi accontentato. Ma oggi è una giornata speciale perché fra gli ultimi arrivi dovrebbe esserci una ragazza russa, originaria di San Pietroburgo, che, come sappiamo, è la città di Vladimir Putin, sebbene per me, prima di tutto, resti comunque sempre quella di Aleksandr Pukin. Anche lei vuole perfezionare l'italiano. Come dirle di no? Mi appresto a metterla vicina a una sua coetanea ucraina: se trovassi una docente disponibile, sto già pensando a Chiara che conosce il cirillico, potremmo tentare, in via sperimentale, una rappresentazione plastica della pace vivente, realizzando, nel nostro piccolo, sul campo delle operazioni, ciò che i grandi leader europei stentano a fare. Riunire, almeno idealmente, due popoli ora distanti. Ma lo sono poi veramente? (…) Mentre aspetto la nuova alunna russa da sistemare accanto a quella ucraina, penso che la scuola non dovrebbe smettere di farci sognare un altro mondo».
CONTE-DRAGHI, LO SCONTRO SULLE ARMI
Il caso dell’aumento delle spese militari. Teso faccia a faccia ieri tra il capo del M5S Giuseppe Conte e il presidente del Consiglio Mario Draghi, che poi è salito al Quirinale per riferire. Si vota giovedì in Senato, forse con la fiducia. Matteo Pucciarelli per Repubblica.
«Un faccia a faccia finito male, preceduto da un braccio di ferro parlamentare nelle commissioni Esteri e Difesa del Senato che era servito da antipasto, anticipandone l'esito: Giuseppe Conte si aspettava di festeggiare la rielezione alla guida dei 5 Stelle portando a casa il congelamento delle spese militari, o perlomeno un rinvio; gli impegni però «non si possono disattendere», gli ha risposto senza lasciare alcun spiraglio Mario Draghi. Che subito dopo è andato a riferire della distanza di vedute («Ognuno è rimasto nella sua posizione», confermano dall'entourage di Conte) al Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Se infatti davvero la prima forza parlamentare della maggioranza si tirerà fuori su un tema così delicato specie per gli equilibri internazionali, restando coerente a quanto annunciato in lungo e largo, il governo rischia di trovarsi al capolinea almeno nella sua formula attuale. Ma andando con ordine: oggi e poi domani in aula al Senato va il cosiddetto decreto Ucraina, sulla falsariga di quello approvato alla Camera. Nel contempo il governo - nello specifico i ministeri degli Esteri e della Difesa, che danno pareri favorevoli o meno ai vari emendamenti - ha recepito un ordine del giorno presentato anch' esso nelle commissioni competenti da Fratelli d'Italia e che lo impegna a raggiungere la soglia del 2 per cento per quanto riguarda le spese militari. Esattamente ciò che il M5S contesta. Per questo, per poter votare in dissenso con la maggioranza senza però mandare in fibrillazione il governo, i membri del Movimento avevano fatto pressing affinché l'odg venisse votato a parte. Missione fallita, perché prassi vuole che lo si possa fare se a richiederlo è il proponente; a Isabella Rauti (Fdi) invece, già soddisfatta di aver ottenuto un obiettivo politico identitario per la destra di opposizione, andava benissimo così. A nulla sono valse le proteste dei 5 Stelle nei confronti di Roberta Pinotti (Pd), presidente della commissione Difesa. «Inviterei tutti ad usare toni diversi - diceva a stretto giro la capogruppo dem al Senato, Simona Malpezzi - anche perché stiamo parlando di un ordine del giorno che nulla aggiunge agli accordi presi in sede internazionale nel 2014 e ribaditi da tutti i governi che si sono succeduti». Con tale premessa tecnica, era chiaro il messaggio che stava arrivando da Palazzo Chigi, ovvero che non c'era alcuna disponibilità a venire incontro ai 5 Stelle, perlomeno quella parte di Movimento fedele a Conte. Già perché a ben vedere nei lavori di commissione tre (su cinque) senatori della Difesa avevano dato forfait, ufficialmente per altri impegni e motivi di salute, ufficiosamente perché non disposti a seguire fino in fondo le indicazioni dei vertici del partito: la capogruppo Daniela Donno, Giuseppe Auddino e Antonella Campagna. Se poi si pensa che uno dei due pareri favorevoli all'odg di Fdi arrivava dalla Farnesina, guidata da Luigi Di Maio, si capisce bene che se Conte deciderà per lo strappo sulla questione in parecchi potrebbero non seguirlo. Intanto, per restare sul breve termine , il M5S non ha comunque intenzione di votare contro il decreto; anche perché il contestato odg, che poi è un semplice atto di indirizzo, non entra nel testo finale. Il vero snodo è però il Def, il documento di economia e finanze, lì si capirà se effettivamente ci sono i 14 miliardi di euro di aumento di spesa militare previsti dagli accordi con la Nato. A quel punto le opzioni per il Movimento saranno due: piegarsi alla real politik o far saltare il banco».
Marco Travaglio sul Fatto se la prende con i colleghi che hanno criticato Giuseppe Conte.
«Inconsolabile perché c'è almeno un leader contrario al riarmo, quello del partito di maggioranza relativa nato il giorno di San Francesco del 2009, Paolo Mieli lacrima sulla "nostra commedia" di rammolliti e panciafichisti, insensibili al presentat' arm! di Joe Biden e di altri virili commander in chief che non riescono a deglutire un boccone di pizza. Come sarebbe che non troviamo "una dozzina di miliardi" l'anno sull'unghia da devolvere ai fabbricanti d'armi più bisognosi, inclusi quelli che fanno pure gli editori? Ma che pezzenti siamo? E "gli adempimenti dettati dall'appartenenza all'Alleanza Atlantica"? In effetti la "nostra commedia" è sempre bruttina, ma il capocomico rischia di essere Mieli. In coppia con Stefano Folli, il quale auspica su Rep che "Draghi decida di liberarsi di un segmento dei 5S ", cioè l'intero Movimento, visto che purtroppo anche al secondo giro gli iscritti hanno plebiscitato Conte al 94% e non sanno più come dire che il capo è lui. Magari: si tornerebbe finalmente a rispettare gli elettori, che l'ultima volta premiarono il movimento più pacifista, multilaterale, ambientalista e legalitario anziché i soliti bellicisti, unilaterali, inquinatori e inquisiti. Mieli sostiene che il M5S dovrebbe ingoiare quei 12 miliardi l'anno in spese militari (che poi sono 13-14) perché c'è un impegno con la Nato "preso dall'Italia otto anni fa". E non s' accorge di essersi già risposto da sé: il mondo è cambiato e ancora sta cambiando; si parla di esercito europeo (che costerebbe ai governi Ue meno e non più delle truppe nazionali); la Nato è un'alleanza in cui si può discutere (o no?); e proprio il trascorrere di 8 anni senza che accadesse nulla (da noi e dagli altri Paesi Nato) dimostra che non c'è alcuna urgenza di buttare tutti quei miliardi nelle armi in piena crisi sociale, energetica, pandemica ed economica, con le bollette alle stelle e la crescita zero. L'argomento ad cazzum fa il paio con quello agitato da altri squinternati: Conte non può dire no ai 13-14 miliardi annui in armi perché nel suo triennio da premier la spesa militare salì di 3,4 (1,1 l'anno). Come se quel ritocchino fisiologico fosse paragonabile all'intenzione - "da pazzi", per il Papa e non solo - di gettare metà della prossima manovra in armi anziché in investimenti per l'energia green, il lavoro, chi non ce l'ha e chi non ce la fa. Mieli, bontà sua, riconosce di avere sbagliato a spingere Draghi al Colle, ma per dire che col premier non si può nemmeno discutere, causa guerra. Altro argomento ad cazzum: 13 mesi fa, tra gli applausi dei capocomici, fu rovesciato il Conte-2 in piena pandemia, scrittura del Pnrr e campagna vaccinale: tutte urgenze che competevano al governo, diversamente dall'Ucraina, dove Draghi conta un po' meno di un ficus benjamin».
Augusto Minzolini sul Giornale non crede alla crisi di governo:
«Una volta, tanto tempo fa, quando la politica era una cosa seria, le alleanze, le coalizioni, le maggioranze di governo si basavano su un programma che dedicava le prime 4-5 pagine alla politica estera. All'epoca, con un mondo diviso a metà tra Alleanza Atlantica e Patto di Varsavia, era tutto più semplice, c'era poco da scegliere. Eppure senza la condivisione vera sulle questioni internazionali non nasceva nessuna alleanza, nessun governo. Il primo a ricordarlo dovrebbe essere l'attuale segretario del Pd, Enrico Letta, che è figlio di quei tempi. Invece sembra uno smemorato, visto che in questa fase storica, in cui la politica si è trasformata in folklore, le coalizioni nascono solo sugli interessi elettorali. E la prima ad avere questo difetto è proprio la sua. O, meglio, quella che ha in mente di costruire lui. Il caso è sotto gli occhi di tutti: Giuseppe Conte, ex premier e interlocutore privilegiato del Pd, su un tema sensibile come l'aumento del 2% delle spese militari, un impegno preso in sede Nato, non ci sente, non vuole starci (almeno a parole). Il più convinto, invece, della necessità di onorare i patti è proprio Letta. Intanto perché il rafforzamento delle nostre forze armate può essere un viatico per mettere in piedi finalmente un esercito europeo. In secondo luogo per tenere saldi i rapporti con la Nato e gli Stati Uniti. Infine per essere un interlocutore credibile nella fase negoziale del conflitto ucraino. Alla fine la maggioranza non si dividerà sull'argomento perché Mario Draghi ha deciso di porre il voto di fiducia. Ma si tratta della solita soluzione rabberciata che dà vita ad un paradosso grosso come una casa: il governo, infatti, ha deciso di recepire l'ordine del giorno della Meloni che appoggia l'aumento delle spese militari del 2%, una scelta che continua ad essere contestata duramente dai grillini. Nei fatti si dimostra in questo modo che il governo ha più affinità sulla politica estera con l'opposizione che non con un pezzo di maggioranza. Una contraddizione che rasenta l'assurdo, al punto da spingere ieri Draghi a salire al Quirinale. Poi certo, quando si tratta dei 5stelle non c'è nulla di serio. Per cui i grillini abbozzeranno votando la fiducia: più che minacce quelle di Conte - come avevo scritto - sono un peto. E Draghi non avrà problemi. I problemi, invece, li avrà Letta quando dovrà mettere in piedi la sua alleanza - quella giallorossa - che neppure sui temi internazionali è d'accordo, che fa acqua da tutte le parti, che se avesse dovuto gestire la guerra avrebbe dato vita ad una tragicommedia. L'assurdo è che in queste settimane la sinistra ha messo sotto il microscopio i «putiniani» del Carroccio e le divisioni del centrodestra. Poi, però, alla prova dei fatti questo schieramento si è mostrato unito, anche se una parte è al governo e l'altra all'opposizione, mentre i giallorossi che sono tutti in maggioranza no. Un segnale da valutare con attenzione, visto che nei prossimi anni la politica estera sarà fondamentale. E per contare davvero a livello internazionale c'è bisogno di credibilità. Quella che purtroppo Conte non ha».
Sullo stesso tema Alessandro Sallusti scrive l’editoriale su Libero, criticando il “nulla grillino”.
«È presto per tirare conclusioni certe ma ieri la trattativa per mettere fine al conflitto in Ucraina ha fatto, sotto l'egida del presidente turco Erdogan, un sostanziale passo in avanti. Mosca ha annunciato un allentamento delle operazioni militari e Kiev ha accettato di discutere sul futuro delle due regioni contese, la Crimea (già di fatto autonoma e filo russa da anni) e il Donbass a maggioranza russofona. C'è da scommettere che ognuno dei due contendenti - se si raggiungerà un accordo in tal senso- canterà vittoria. Ma se guardiamo le posizioni di partenza non c'è dubbio che l'Ucraina esce a testa alta da un conflitto impari per forze militari in campo e Putin deve ridimensionare di molto le folli ambizioni di annettersi, o quantomeno addomesticare, l'intera Ucraina. Evidentemente lo zar ritiene che andare avanti non gli porterebbe più alcun vantaggio strategico e che viceversa il prezzo da pagare per una lunga guerra sarebbe eccessivo - in vite umane e rubli - anche per la grande madre Russia. Tutto ciò dimostra oggettivamente una cosa: altro che resa umanitaria, contro i tiranni bisogna resistere e combattere a costo del martirio e per tentare di fermarli c'è bisogno di tutto l'aiuto possibile, comprese armi e tecnologia militare. Se Putin dovesse davvero fermarsi - cosa che ripetiamo è ancora tutta da verificare- e rinunciare a occupare l'Ucraina è soltanto per l'eroismo degli ucraini e perle armi dell'Occidente, che uniti alle pesanti sanzioni economiche lo hanno portato a più miti consigli. Chi sperava di convincere Putin a trattare usando belle parole si deve ricredere, i criminali capiscono solo i rapporti di forza. E chi, come Giuseppe Conte e i suoi grillini, pensa ancora che non sia il caso di aumentare la risibile spesa militare, che un conflitto si fermi disarmando uno dei due contendenti, per di più non l'aggressore ma l'aggredito, può aprire una confraternita, in questo caso filo delinquente - non certo guidare un Paese che aspira ad avere un posto nel mondo libero. Se Conte preferisce bombardare quotidianamente Draghi e l'Italia si accomodi. Chi non ha avuto paura di Putin e dell'Armata Rossa non può intimorirsi di fronte al nulla grillino».
I MERCATI E LA QUESTIONE DEL GAS
Le speranze sui negoziati hanno infiammato i listini europei: Francoforte, Parigi, Madrid e Londra tornano sopra i livelli precedenti all'invasione dell'Ucraina. Milano su del 2,41%. Morya Longo per il Sole 24 Ore.
«Non è un cessate il fuoco, ma un principio di de-escalation del conflitto tra Russia e Ucraina. Non c'è un accordo di pace, ma almeno un minimo passo avanti. Non è stato l'incontro tra Putin e Zelesnky, ma forse la sua premessa. Pur con tutte le incertezze che ancora circondano le trattative tra Mosca e Kiev, i mercati finanziari ieri non potevano che lasciarsi andare a una speculativa speranza. Così le Borse europee, che soffrono maggiormente il conflitto, hanno spiccato il volo: Milano +2,41%, Parigi +3,08%, Francoforte +2,79%, Madrid +2,98%, Eurostoxx +2,82%. I listini di Parigi, Francoforte, Madrid e Londra sono addirittura tornati sopra i livelli pre-invasione. E sui titoli di Stato "rifugio" sono continuate le vendite, che hanno fatto salire ulteriormente i rendimenti: il tasso del Bund decennale è balzato da 0,58% a 0,64% e quello dei titoli tedeschi biennali è tornato per qualche momento sopra lo 0%, come non accadeva dal 2014. Insomma: il classico copione del risk-on. Di voglia di rischio. Ma in questo mercato a tratti euforico, un oscuro presagio finanziario è emerso ieri pomeriggio: si è invertita la cosiddetta curva dei tassi Usa (i rendimenti a due anni hanno superato quelli decennali di 3 centesimi) per la prima volta dal settembre del 2019. Segno, questo, che il mercato teme la recessione negli Stati Uniti. Segno, insomma, che dietro l'euforia speculativa delle Borse ci sono ancora troppe incertezze. Proviamo ad elencarle: le trattative tra Russia e Ucraina sono solo all'inizio e non hanno alcuno sbocco certo, lo scontro tra Europa e Russia sul pagamento del gas (che Mosca vorrebbe in rubli) rischia di bloccare le forniture con gravi danni all'economia europea, il forte rialzo dell'inflazione e la conseguente stretta monetaria soprattutto negli Stati Uniti rischiano di far deragliare la ripresa economica in uno scenario di "stagflazione". Insomma: se ieri c'erano motivi per un cauto ottimismo, le incertezze non mancano. E la curva dei tassi Usa lo sottolinea. L'incognita maggiore riguarda l'impatto sull'economia del mix tra Covid (non ancora sconfitto) e guerra in Ucraina. A pesare non è solo il rincaro dell'energia e il possibile blocco delle forniture russe, difficilmente compensabile da altre fonti, ma la carenza di tutte le materie prime necessarie all'industria. Soprattutto se si pensa che questo genera inflazione e spinge le banche centrali ad alzare i tassi d'interesse: il mercato attualmente sconta negli Stati Uniti 10 rialzi da parte della Fed da 25 punti base entro l'anno. Il rischio, pensano in tanti, è che questa stretta da parte della Fed arrivi tardiva e nel momento peggiore (in cui l'economia frena). Per questo la curva dei rendimenti si è invertita Oltreoceano: il mercato teme che i rialzi dei tassi nel breve causeranno una frenata economica nel futuro. Per questo i rendimenti dei Treasury a 2 anni sono ora più alti di quelli a 10 anni: perché il mercato inizia a temere la recessione. E la storia non rincuora: negli ultimi 60 anni, infatti, tutte le recessioni sono state anticipate proprio dall'inversione della curva dei rendimenti. Tutto questo non può non avere impatto sui mercati finanziari. Quelli obbligazionari stanno già ora vivendo la più violenta ondata di vendite che la storia ricordi. Peggiore anche di quella del 1994, con rendimenti in forte risalita e prezzi in caduta: da gennaio la performance dei titoli di Stato globali è negativa (in termini di ritorno totale) per quasi il 7%. Questo violento rialzo dei rendimenti rischia di avere serie ripercussioni in un mondo iper-indebitato e da anni assuefatto alle politiche dei tassi a zero da parte delle banche centrali. Non è un caso che ieri S&P Global Ratings abbia previsto - riferendosi in questo caso alle aziende europee - un «deterioramento delle prospettive di credito, un inasprimento delle condizioni di finanziamento e un tasso di default in rialzo verso il 2,5% entro la fine dell'anno». In questo scenario viene dunque da chiedersi non tanto come mai ieri le Borse siano rimbalzate (un motivo c'era) quanto perché dai minimi toccati a marzo abbiano registrato recuperi così consistenti (Milano +14,20%, Francoforte +15,47%, Parigi +13,54%) tanto da tornare sui livelli pre-guerra. E qui viene il punto: le motivazioni sono in buona parte tecniche. Da un lato tanti investitori dovevano acquistare azioni per ribilanciare i portafogli dopo il crollo delle Borse di inizio marzo (JP Morgan ha stimato acquisti di azioni a livello globale per 230 miliardi di dollari a marzo solo per questo motivo), dall'altro tanti investitori di fronte al tracollo dei mercati obbligazionari hanno comprato azioni per mancanza di alternative. Motivi, questi, che dimostrano quanto sia fragile il rally delle Borse. Tanto fragile quanto le speranze di pace».
A proposito di gas, il Corriere della Sera si occupa del progetto di Poseidon, gasdotto israeliano-greco-cipriota che potrebbe alimentare il nostro Paese. Michelangelo Borrillo.
«C'è un gasdotto autorizzato che non è mai stato realizzato. Che non ha mai subito contestazioni da no-gas ma che per anni è rimasto nel dimenticatoio, sia perché finito all'ombra del vicino Tap (Trans Adriatic Pipeline) sia per motivazioni geopolitiche relative al bacino di approvvigionamento, quello del Levantino: al largo di Cipro, Israele e dell'Egitto e dinanzi alla Turchia, in acque storicamente contese e da sempre in equilibrio precario, geopoliticamente parlando. E così mentre il Tap, per il trasporto del gas azero, si costruiva ed entrava in funzione portando sulle coste del Salento, a Melendugno (Lecce) 7,2 miliardi di metri cubi nel 2021, il Poseidon - con sbarco previsto una ventina di chilometri più a sud, a Otranto - rimaneva sulla carta. Fino a quando proprio il mutato equilibrio geopolitico lo ha riportato, in questi giorni, in auge. Il progetto del gasdotto della società IGI Poseidon S.A. (50% dell'italiana Edison, 50% della greca Depa) - nel Corridoio EastMed-Poseidon (Poseidon è solo l'ultimo tratto, di 210 chilometri, tra Grecia e Italia) - è stato sviluppato a partire dal 2008 e prevede un investimento di 6 miliardi di dollari. Il gasdotto - di complessivi 1.900 chilometri, che può trasportare fino a 12 miliardi di metri cubi all'anno - è costituito da una linea offshore di circa 210 chilometri che attraversa il Mar Ionio fino a Otranto. Il progetto è pronto per la fase realizzativa, con tutte le autorizzazioni necessarie. Ma fino a prima che la Russia invadesse l'Ucraina e scoppiasse, parallela a quella con le munizioni, anche la guerra del gas in Europa, gli Stati Uniti - grandi esportatori di gas in Grecia - non avevano mai visto di buon occhio questa infrastruttura. Fino a quando, nelle scorse settimane, il responsabile degli Affari esteri del dipartimento per l'energia degli Stati Uniti, Andrew Light, ha spostato gli equilibri: «Dopo gli ultimi sviluppi, daremo uno sguardo nuovo a tutto. Non si tratta soltanto della transizione verde, ma anche della transizione via dalla Russia». E così la macchina per il nuovo gasdotto si è rimessa in moto. Con meccanismi, in realtà, soltanto da oliare perché già nel 2017 l'allora ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda firmò l'accordo per il gas con Israele, Grecia e Cipro; e nel marzo 2021 il ministero dell'Ambiente ha prorogato i termini per la realizzazione del gasdotto al 1° ottobre 2023 per l'inizio lavori e al 1° ottobre 2025 per il termine. Edison è pronta: «Il progetto era fattibile e competitivo prima, a maggior ragione lo è oggi», spiega l'amministratore delegato Nicola Monti. E anche Otranto non si opporrà: «Qui - spiega il sindaco Pierpaolo Cariddi - nessuno ha mai contestato: fin da subito l'approdo è stato previsto in un'area in cui c'è già l'elettrodotto». Non sarà un altro Tap.».
NON ABBIAMO AMMESSO CHE PUTIN STAVA CAMBIANDO
Avvenire pubblica parte di un saggio di Marcello Flores per il Mulino, tratto da un e-book interamente dedicato al conflitto in corso: “Ucraina. Una ferita al cuore dell’Europa”. Nell’analisi Flores analizza i segnali della strategia di Putin che l'Occidente non ha capito. Segnali che non erano riconducibili a una logica da Guerra fredda.
«Nessuno, per fortuna, sembra mettere in dubbio che l'aggressione militare russa all'Ucraina sia stata una scelta consapevole di Putin: da qui la condanna, anche se in forme molto diverse. Dietro questa apparente unanimità, tuttavia, vi è una profonda divisione che in Italia si manifesta con la convinzione, da parte di molti giornalisti, politici, opinionisti, che qualche giustificazione il dittatore del Cremlino l'avesse. Ci si sofferma così sulle colpe e sulle responsabilità dell'Occidente. Personalmente, dopo lo sgomento per l'attacco militare e la preoccupazione per le vittime ucraine, la rabbia per la prepotenza imperiale di Putin che sembra incarnare la volontà espansionistica dello zarismo e dello stalinismo, trovo inaccettabile i distinguo sulle «colpe» della guerra in atto che molti, a destra e a sinistra, continuano a manifestare da noi, naturalmente dopo la condanna di rito all'invasione. Sono troppe le persone che hanno un rilievo pubblico e influenzano l'opinione generale che condividono, di fatto, il ragionamento di Putin sulle responsabilità della situazione di crisi tra Russia e Ucraina, anche se ne condannano - e non potrebbero fare altrimenti - la scelta di avere iniziato l'azione militare. Questo ragionamento, che è lo stesso che fa Putin da anni, si fonda sul «pericolo» che la possibile e richiesta adesione all'Unione europea e alla Nato da parte dell'Ucraina costituirebbe per la sicurezza della Russia. Qualcuno può davvero credere che una potenza militare che è pari a quella degli Stati Uniti possa avere timore di una qualche offensiva sui propri confini, che coinvolgerebbe ovviamente l'Europa e il mondo intero in una guerra nucleare? Il «pericolo», tuttavia esiste, ma è un pericolo politico che Putin non può tollerare: quello di avere ai propri confini Stati che stanno - con fatica, lentezza e contraddizioni - camminando verso la democrazia e la libertà. Un pericolo di contagio democratico, questo è il motivo della faccia feroce che Putin da anni sta facendo sui suoi confini orientali, dietro la scusa della «minaccia» della Nato e dell'allargamento dell'Unione europea. Se una colpa l'Occidente deve rimproverarsi non è quella di avere avuto un atteggiamento ambiguo o addirittura aggressivo verso il problema della «sicurezza» rivendicata da Mosca: ma di non avere compreso che la strategia di Putin, in modo sempre più chiaro negli oltre vent' anni di potere che sta celebrando, non è riconducibile a una logica da Guerra fredda, di minacce reciproche per restare fermi in una situazione di deterrenza permanente. Putin, come aveva già manifestato ampiamente in Cecenia e in Georgia (che l'Occidente riteneva comunque ancora nella «sfera d'influenza» russa ragionando come ai tempi della Guerra fredda), e come avrebbe mostrato senza più alcun dubbio con l'occupazione della Crimea nel 2014, ha come stella polare della sua azione il ristabilimento dell'impero zarista-sovietico, anche se non con un controllo pieno e diretto come era avvenuto ai tempi dell'Urss. La reazione - meglio, la mancata reazione - all'occupazione della Crimea ha convinto Putin che la debolezza dell'Occidente era ormai un dato storico ineliminabile, accentuato ancor più dal precipitoso ritiro dall'Afghanistan nel 2021. Dal 2014 l'Occidente e l'Europa avevano tutto il tempo - pur evitando scelte affrettate sull'adesione dell'Ucraina a Unione europea e Nato - per rafforzare la difesa militare, tecnologica ed economica di Kiev, per ridurre drasticamente la dipendenza energetica nei confronti del gas e del petrolio russo, soprattutto da parte di Germania e Italia, di aiutare con maggiore forza e determinazione le forze democratiche in Russia e prendere provvedimenti che indebolissero realmente i gerarchi e gli oligarchi del Cremlino in Russia e fuori. Non lo si è fatto perché si è ritenuto che, in una logica da Guerra fredda, Putin non avrebbe mai mosso guerra all'Ucraina e che la conquista della Crimea era stata un'occasione presa al volo e un evento irripetibile. Basti pensare, cosa che nessuno sembra avere il coraggio di fare con una seria autocritica, agli insulti e ai dileggi rivolti a Biden e all'amministrazione statunitense che in queste ultime settimane raccontavano al mondo intero, con una strategia nuova di comunicazione delle informazioni di intelligence, quello che Putin stava preparando e che si è avverato quasi al minuto. Non va dimenticato, inoltre, che solo all'inizio del suo potere Putin, nel 2002 con la formazione del Nato-Russia Council, sembrò continuare nella strada intrapresa dalla Russia negli anni Novanta del secolo scorso, con la Partnership for Peace (1994) e il Nato-Russia founding Act (1997), che avevano segnato l'accettazione dell'allargamento della Nato a Est e una fase di collaborazione tra Russia e Occidente. Il rafforzamento della repressione in Cecenia, la guerra contro la Georgia per l'Ossezia del Sud nel 2008, la costruzione di una dittatura sempre più forte all'interno, segnata dalle uccisioni di Anna Politkovskaja nel 2006, di Boris Nemtsov nel 2015, dal tentativo di omicidio e dall'incarcerazione di Aleksej Naval'nyj nel 2020-21, dalla messa fuori legge di Memorial, non ha spinto a vedere nella strategia di Putin un mutamento profondo rispetto sia agli anni della Guerra fredda che al decennio dopo di essa. Il richiamo alla storia con cui Putin ha spiegato l'inesistenza autonoma dell'Ucraina, rivendicata come parte tout court della Russia, non è solo il gioco abituale dei dittatori che utilizzano e manipolano la storia ai propri fini, è una dichiarazione d'intenti che è stata ignorata e sottovalutata perché, ancora una volta, i nostri politici, giornalisti, e anche alcuni studiosi (per fortuna di minoranza), hanno continuato a guardare con gli occhi della Guerra fredda questa nuova realtà, incapricciandosi della spiegazione Nato sì/Nato no come spiegazione di tutto. Ci si è dimenticati, ad esempio, che appena qualche settimana fa la dichiarazione congiunta di Putin e Xi Jinping del 4 febbraio 2022 (di cui le poche testate italiane che ne hanno parlato hanno sottolineato come «non» fosse ancora un'alleanza) parlava di inizio di una «nuova era» in cui non fosse più determinante la «democrazia dell'occidente » ma ogni nazione potesse scegliersi le «forme e metodi di attuazione alla democrazia che meglio si adattano al loro stato». La richiesta di «garanzie di sicurezza» a lungo termine per l'Europa, accolta in genere favorevolmente dai commentatori come una nuova Helsinki o addirittura una nuova Yalta, era invece il segnale del rifiuto del multipolarismo esistente e della riaffermazione di una logica di forza che Putin ha appena manifestato invadendo l'Ucraina e Xi Jinping si prepara a fare con l'annessione di Taiwan. Resta da aggiungere, anche se ancora è presto per giudicare misure che si stanno prendendo e valutando nelle prossime ore, che il tipo di sanzioni che verranno prese contro la Russia saranno il segnale di quanto l'Europa abbia effettivamente compreso la natura e la strategia dello zar del Cremlino o continui a guardare alle sue azioni con l'ottica e l'illusione degli anni Settanta-Novanta del secolo scorso».
UCCIDERE IL TIRANNO NON È REATO
Tirannicidio sì o no? Da Cesare a Putin, il vero dilemma non è morale ma machiavellico. La morte del dittatore può portare al caos come in Libia e Iraq. Fabrizio d’Esposito per Il Fatto.
«È giusto ammazzare il dittatore? Da secoli il dilemma morale che avvolge il tirannicidio ne apre un altro di carattere pratico (oggi diremmo geopolitico) sulle conseguenze della morte violenta del despota. Una questione magnificamente riassunta in un brano dello storico latino Valerio Massimo che molti hanno letto e tradotto sui banchi di liceo. È la storia della vecchietta di Siracusa che pregava gli dei affinché il "crudelissimo" tiranno Dionisio (o Dionigi) vivesse il più a lungo possibile. Così un giorno Dionisio convocò la donna e, incuriosito, le chiese il motivo della sua preghiera. Lei rispose che sin da fanciulla desiderava la morte dei tiranni, ma poi ogni volta ne arrivava uno peggio dell'altro fino a che "avemmo te, fra tutti i dittatori il più malvagio e brutale. Così invoco gli dei per la tua salute, affinché non capiti alla città un dittatore peggiore di te". Realpolitik, si direbbe sempre oggi, laddove la politica è figlia zoppicante del pessimismo kantiano sul legno storto dell'umanità. Ed è questo dilemma, che possiamo definire anche cinico e machiavellico, che si è posto sulla Stampa del 22 marzo il noto inviato di guerra Domenico Quirico sull'autocrate Putin e perciò denunciato dall'ambasciatore russo in Italia Sergey Razov per istigazione a delinquere e apologia di reato. In realtà i dubbi di Quirico sono quelli della vecchietta di Siracusa. Ammesso infatti, che "qualcuno a Mosca uccida Putin", bisogna chiedersi non se l'assassinio sia "giustificabile" ma se sia "efficace". La sua risposta è appunto pessimista: forse ne verrebbe fuori "un caos peggiore". Ma come si identifica un tiranno? Tenendo presente le classiche categorie sulla matrice delle dittature (comuniste, rivoluzionarie, fasciste e così via), al caso di Putin si può applicare la più celebre massima in materia, cioè quella di san Tommaso d'Aquino? Annotò il padre della filosofia scolastica cristiana: "Colui che allo scopo di liberare la patria uccide il tiranno viene lodato e premiato quando il tiranno stesso usurpa il potere con la forza contro il volere dei sudditi, oppure quando i sudditi sono costretti al consenso". Già nel Tredicesimo secolo l'Aquinate introdusse uno dei due problemi cruciali che ancora oggi rende aperta e non rigida la definizione della tirannide: quello del consenso. Tre anni fa, per esempio, a proposito delle cosiddette democrature (neologismo ossimorico che fonde democrazia e dittatura), lo storico comunista Luciano Canfora contestò l'accusa di tirannia mossa a Putin, Orbán (Ungheria) e Erdogan (Turchia) proprio per il "vasto consenso popolare che s' inquadra nella storia del rispettivo Paese". Una confutazione che rimanda alla questione del valore universale della democrazia liberale, non dimenticando la sua recente e controversa evoluzione bellica con la teoria della democrazia da esportare. Ma rimaniamo sul tema del tirannicidio. È fuor di dubbio che il potere di Putin si basa su metodi sanguinari e repressivi, ma bisogna anche interrogarsi sulla popolarità di cui potrebbe godere nel suo Paese, altro rebus della guerra iniziata il 24 febbraio. Oltre al consenso nel proprio Paese c'è quindi la seconda incognita che pesa sull'efficacia o meno dell'omicidio del dittatore: il suo sistema di potere. E qui c'è il caso di scuola più famoso che tuttora viene studiato: il successo di una congiura contro Hitler avrebbe o no fermato l'orrifica macchina di morte nazista? Dipende. Ché il tirannicidio ha varie tipologie. L'attentato isolato che non porta a un cambio di regime (il regicidio di Umberto I di Savoia nel 1900 per mano dell'anarchico Gaetano Bresci). O un complotto per sostituire il despota: in questo caso sarebbe più esatto parlare di colpo di Stato, resta da vedere se per mantenere lo stesso sistema di potere oppure per arrivare a una vera democrazia. Ed è la combinazione tra queste due variabili, consenso popolare e sistema di potere, a rendere imprevedibili le conseguenze di un tirannicidio. La domanda da farsi è: ammazzando il cattivo (Putin) si cancella anche il Male? Il dubbio lo esplicitò anche papa Paolo VI , oggi santo, nella sua enciclica Populorum Progressio del 1967, nel pieno della Guerra fredda tra il blocco sovietico e quello americano. Il Pontefice ammetteva il tirannicidio ma allo stesso tempo ammoniva: "Si danno per certo delle situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo. Quando popolazioni intere, sprovviste del necessario, vivono in uno stato di dipendenza tale da impedire loro qualsiasi iniziativa o responsabilità, e anche ogni possibilità di promozione culturale e di partecipazione alla vita sociale e politica, grande è la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie alla dignità umana. E tuttavia lo sappiamo: l'insurrezione rivoluzionaria - salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali di una persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese - è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri, e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande". Si prenda allora la congiura antidispotica più famosa di sempre: il cesaricidio delle Idi di Marzo. Le pugnalate a Giulio Cesare condussero Roma a un'annosa guerra civile. È lo stesso filo storico che una volta srotolato riguarda la fine della Libia di Gheddafi, ucciso nel 2011, e quella dell'Iraq di Saddam Hussein. Peraltro Saddam fu giustiziato tre anni dopo la sua cattura, nel 2006: di qui la distinzione tra tiranni uccisi in guerra o da prigionieri. Ma ci sono anche dittatori sopravvissuti ai loro regimi, morti successivamente in carcere (il serbo Milosevic e il generale argentino Videla) oppure nel proprio letto come il cileno Pinochet. Il caso del feroce tiranno di Santiago comporta un'altra domanda. In patria, Pinochet scampò a processi e carcere e quando morì a 91 anni, nel 2006, lo scrittore Antonio Skarmeta (quello del Postino) disse chiaro e tondo che l'unità nazionale del suo Paese si era consolidata proprio perché la democrazia cilena non aveva voluto incarcerare il dittatore. Insomma, la pacificazione al posto della vendetta. E viene da chiedersi quanto abbiano influito l'esecuzione di Benito Mussolini e l'esposizione del suo cadavere a Piazzale Loreto sull'eterna divisione italica tra fascisti e antifascisti. Insomma, la liceità morale del tirannicidio risiede nella "salvezza del popolo" come teorizzò Robespierre: popolo che, secondo il rivoluzionario francese, ha diritto di non giudicare come una corte di giustizia. Il problema è la sua efficacia nel tempo. Da Cesare a Putin, tenendo a mente le preghiere della vecchietta di Siracusa».
FINE DELLA STORIA? FUKUYAMA MI AVEVA ILLUSO
Bella pagina di diario della guerra, stampata da Repubblica, di Markijan Kamy, giovane scrittore ucraino, nato nel 1988.
«Quindici anni fa mi piacque molto il saggio di Francis Fukuyama La fine della storia. In quel momento sembrava preannunciare un'eterna età dell'oro dopo il crollo dell'Unione sovietica. L'economia ucraina si sviluppava poco a poco ed era il 2007, quelli che chiamo «i bei vecchi tempi». Poi vennero la crisi economica del 2008, l'attacco russo alla Georgia, la Primavera araba, la Siria, l'attacco russo all'Ucraina, l'Isis, il Covid e l'attacco russo nel 2022. Per quante postfazioni al suo saggio possa aver scritto Fukuyama, l'originale è diventato proverbiale, un sintomo evidente di quanto eravamo ingenui, della fiducia ingiustificata che riponevamo nell'inviolabilità dell'ordine mondiale costituito. Era una fiducia che derivava da un'epoca di prosperità, il corrispettivo odierno dell'Era dei cinque buoni imperatori, nel momento di massimo splendore dell'Impero romano. Era una fede cieca, eravamo convinti che un cielo pacifico fosse un diritto che ci spettava per nascita. Ma quando la morte comincia la sua danza macabra, nasce un'altra fede. Si dice spesso che uno comincia a credere in Dio quando è sotto le bombe. È vero, ma non è una fede nell'ipostasi cristiana o in qualche creatore astratto. È semplicemente una fede nel bene. Nella vittoria dell'Ucraina. Questa fede non agisce come un sedativo, ma come uno stabilizzante, un meccanismo protettivo della psiche che in momenti di crisi ti consente di funzionare in modo ancora più efficiente. Razionalmente mi rendo conto che per quanto possa desiderarla la mia fede potrebbe essere infondata, eppure è un meccanismo che adoro.
Ieri era tutto tranquillo a Kiev, oggi i russi stanno cercando di forzare le linee difensive. Le cannonate si stanno avvicinando e tutto trema in modo più palpabile. In questo momento, La fine della storia di Fukuyama mi torna in mente con particolare nostalgia, ilarità e amarezza. Fra un'esplosione e l'altra, mi aggrappo al silenzio con tutte le forze che ho. Nei momenti delle esplosioni, mi aggrappo alla fede».
GLI UCRAINI E IL FATTORE UMANO
Articolo per il Corriere della Sera di Julián Carrón, già presidente della Fraternità di Cl.
«Caro direttore, che impressione le immagini della popolazione civile che sventola le bandiere dell'Ucraina davanti ai carri armati! Più ancora degli uomini in armi per un impeto naturale di autodifesa. Che sproporzione! Sulla guerra in corso - «atto barbaro e sacrilego» lo ha definito papa Francesco all'Angelus di domenica 27 marzo - si è scritto molto. Interpretazioni diverse e persino opposte si sono avvicendate. Ma c'è un dato che s' impone e con cui tutte le diverse posizioni sono costrette prima o poi a fare i conti. Quale? La resistenza inaspettata degli ucraini. Il fattore umano - al netto di quelli militari e strategici che pure ci sono e delle valutazioni che si possono fare, ma su questo non ho alcun titolo per intervenire - si è imposto a tutti : soprattutto a chi non avrebbe mai scommesso - come noi, forse - che ci fosse ancora qualcuno disposto a impegnarsi per la difesa della libertà. Con la loro audacia, gli ucraini stanno testimoniando a tutti una autocoscienza che ci lascia senza parole, una fame e una sete di giustizia e un desiderio di libertà che ci riempiono di stupore. Così, ci hanno «costretto» a prendere consapevolezza della irriducibilità dell'io, del loro e del nostro. Credevamo che si fossero lasciati addormentare dal consumismo, come tanti di noi, o che non valesse la pena assecondare la sete di libertà che costituisce la stoffa del cuore umano, ma siamo stati smentiti: in loro, al di là di tutto ciò che può essere detto, stiamo vedendo che il cuore non si arrende al potere. Come spiegare, dunque, l'origine della strenua resistenza degli ucraini che tanto ci stupisce? È sempre una provocazione della realtà a risvegliare l'umano. Dovremmo averlo imparato dall'esperienza vissuta nella pandemia, davanti all'acuirsi delle domande che la diffusione del Covid ha sollevato in noi. In tutti, senza distinzione di ideologia, credo o condizione sociale. Se dunque guardiamo la nostra esperienza, non faremo fatica a capire che cosa ha risvegliato l'io degli ucraini, di fronte alla «violenta aggressione» che stanno subendo. Niente risveglia in noi l'esigenza di giustizia, per quanto assopita, come il percepirla calpestata, specie davanti alla «bestialità della guerra!» (papa Francesco). Non c'è discorso, strategia, autoconvinzione, o etica, che abbia la forza di risvegliare l'io più della provocazione potente che viene dalla realtà. Lo ha colto bene Massimo Recalcati, che ha richiamato a un fattore «che può sfuggire anche alle più sottili analisi geopolitiche». Quale? La «forza del desiderio», cioè di quel «fattore supplementare che esorbita le capacità militari e le arti strategiche». È quello che spesso sottovaluta il potere. Forse la provocazione della guerra in Ucraina non ci ha toccato così da vicino come il Covid, ma le immagini di distruzione, che in Europa pensavamo di esserci lasciate definitivamente alle spalle dopo le due guerre mondiali, ci hanno indubbiamente scosso e non abbiamo potuto evitare di fare i conti con questa scossa, come testimonia la gara di solidarietà nei confronti dei profughi che stiamo accogliendo nelle nostre città. Un mare di carità che riempie di gratitudine. Come non confondersi però davanti alla quantità di articoli, di dibattiti televisivi e di dialoghi tra di noi che attraversano le nostre giornate? Può aiutarci un suggerimento di metodo: non consentire alla ragione di diventare ab-soluta, cioè slegata dalla realtà, per non lasciarla in balia dell'ideologia. È proprio l'imbattersi della persona nella provocazione della realtà che fa scaturire tutta l'esigenza della ragione, impedendole così di soccombere alle diverse riduzioni. È forse proprio la considerazione del desiderio di giustizia di chi la violenza la subisce che ha consentito a giornalisti come Antonio Polito e Ezio Mauro, per fare due esempi, di smascherare un uso ridotto della ragione e l'equidistanza tra l'io e il potere. Lo diceva magnificamente Vasilij Grossman nel suo Vita e destino : «Il totalitarismo non può fare a meno della violenza. Se lo facesse perirebbe. L'eterna, ininterrotta violenza, diretta o mascherata, è la base del suo potere. L'uomo non rinuncia volontariamente alla libertà. In questa conclusione è racchiusa la luce del nostro tempo, la luce del futuro». Quella che si sta giocando nell'invasione dell'Ucraina da parte dalla Russia è una lotta che riguarda ognuno di noi. Come possiamo difenderci della pretesa totalitaria del potere? Essendo consapevoli della strategia che usa. Don Giussani la descrive così: «Il suo grande sistema, il suo grande metodo è quello di addormentare, di anestetizzare, oppure, meglio ancora, di atrofizzare [...] il cuore dell'uomo, le esigenze dell'uomo, i desideri [...], quell'impeto senza confine che ha il cuore. E così cresce della gente limitata, conclusa, prigioniera, già mezzo cadavere, cioè impotente». Per questo, lo ribadisco, l'unico vero argine al potere è il desiderio, e perciò incontri e luoghi che lo sappiano ridestare. Continua Giussani: «L'unica risorsa per frenare l'invadenza del potere è in quel vertice del cosmo che è l'io, ed è la libertà. [...] L'unica risorsa che ci resta è una ripresa potente del senso cristiano dell'io, della irriducibilità della persona». Da qui l'affermazione: «Noi non abbiamo paura del potere, abbiamo paura della gente che dorme e, perciò, permette al potere di fare di loro quel che vuole», perché «il potere è tale in proporzione dell'impotenza altrui», della inconsapevolezza dell'io. Qual è l'oggetto adeguato della nostra libertà, cioè della capacità di soddisfazione totale? Che cosa basta al desiderio che ci muove dal fondo di noi stessi? Solo ciò che è in grado di compierlo. Tutto il resto, anche l'annessione di un'altra nazione, è «poco e piccino per la capacità dell'animo nostro», ci ricorda Leopardi. Solo una pace all'altezza del cuore dell'uomo potrà essere vera pace, duratura, quella che abbiamo implorato con tutta la Chiesa venerdì scorso. Solo Cristo, non come puro nome o dottrina, ma come avvenimento presente è all'altezza del cuore di ogni uomo. Come grida al mondo papa Francesco, è Cristo, Cristo vivo, la «sorgente della vera pace»: per i russi, gli ucraini e noi».
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