Trump in tribunale
All'ex Presidente Usa notificati arresto e 34 capi d'imputazione. Darya sospettata di legami con Kiev. In Italia il Pnrr divide anche gli economisti. Missione Ue in Cina: Ursula poliziotto cattivo
Alla fine l’accusa è pesante e riguarda le elezioni del 2016. Donald Trump si è presentato ieri al Tribunale penale di Manhattan per un atto che non ha precedenti nella storia: l’incriminazione di un ex Presidente degli Stati Uniti. Si è dichiarato «non colpevole», di fronte ai 34 capi di accusa che gli sono stati notificati. Le autorità hanno evitato le foto segnaletiche e altri atti che avrebbero potuto trasformare l’evento in uno show a favore dell’imputato. L’accusa ha imputato a Trump anche di aver incitato alla violenza pubblica, nei giorni scorsi, non risparmiando le persone della Procura e i loro familiari. Il procuratore Alvin Bragg ha anche chiesto un impegno alla segretezza alle due parti del processo, che contrasta palesemente con la strategia propagandistica di The Donald. Al termine dell’udienza (la prossima è fissata a dicembre), Trump è ritornato a Mar-a-lago in Florida, dove ha tenuto una conferenza stampa e dove ha ribadito: «Il mio unico crimine è stato difendere l’America». Ma la reazione dei suoi fan e supporter per ora è stata meno rilevante del previsto. Le vicende giudiziarie si intrecciano con quelle politiche, visto che nei prossimi mesi i repubblicani americani dovranno scegliere il loro candidato. Joe Biden, nota oggi Mario Del Pero sul Quotidiano Nazionale, preferirebbe gareggiare contro lo stesso Trump.
Il resto dello scenario internazionale presenta il dopo attentato in Russia. A Mosca nell’inchiesta sulla donna accusata ora di terrorismo, Darya Trepova, spunta un intermediario che sarebbe venuto da Kiev: il cerchio si chiuderebbe perfettamente per accusare gli ucraini dell’uccisione del blogger ultranazionalista Vladlen Tatarsky. Ad Helsinky da ieri sventola la bandiera della Nato, perché la Finlandia è entrata ufficialmente nell’alleanza militare atlantica: un cambiamento epocale che porta la Federazione russa a confinare direttamente con un Paese dell’alleanza. Mosca ha fatto sapere che ha disposto missili in Bielorussia. Washington ha ironizzato sul “capolavoro di Putin” che ha ottenuto proprio quello che voleva evitare.
Una debole speranza di pace è affidata alla missione europea in Cina. Emmanuel Macron e Ursula Von der Leyen (nei panni del “poliziotto cattivo”) iniziano oggi la visita a Pechino. Sullo sfondo l’iniziativa di pace del presidente Xi Jinping per un cessate-il-fuoco. Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore fa notare oggi che solo un’Europa più indipendente può aprire una trattativa fruttuosa, anche se non soprattutto sul fronte industriale e di interscambio economico.
A proposito di Europa, in Italia il grande tema della politica è diventato l’attuazione del Pnrr. Molti gli articoli che questa Versione ha scelto sul tema per voi oggi. C’è una specie di derby fra chi vorrebbe davvero rinunciare ai fondi europei se non sappiamo spenderli (come aveva notato Riccardo Molinari della Lega) e chi dice che sarebbe una sconfitta pesante del sistema Italia e una concreta rinuncia alla crescita del nostro Pil. Anche gli economisti si dividono: Boeri e Perotti su Repubblica stanno dalla parte di Molinari, Giavazzi sul Corriere dall’altra. Così come Prodi e Tremonti, entrambi intervistati.
E Giorgia Meloni? Teme un complotto europeo ai suoi danni in vista delle prossime elezioni continentali e per ora ha fatto slittare le decisioni su assunzioni e collaborazioni di pensionati nella Pubblica amministrazione. Fitto e Giorgetti sono impegnati a dialogare a Bruxelles. Ma il clima sta diventando leggermente surreale. Comunque vada, si rischiano figuracce.
Fra le altre notizie dall’estero ancora in primo piano Israele. Le celebrazioni della Pasqua, cattolica, ortodossa ed ebraica, quest’anno molto vicine in calendario, rischiano di essere l’occasione per nuovi scontri e disordini. Tenendo conto che c’è il Ramadan in corso. In Svezia invece si discute del Corano bruciato in piazza, atto ritenuto legittimo dalla magistratura.
Bellissima oggi la notizia della bambina turca, ribattezzata “Mistero”, che grazie al Dna, dopo due mesi del terremoto, è tornata da sua madre. Il destino nel nome.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae l’ingresso dell’ex presidente Donald Trump al Tribunale penale di Manhattan, dove ieri gli è stato notificato l’arresto.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
L’ex presidente Usa alla sbarra a New York domina le prime pagine. Il Corriere della Sera annuncia: Trump a processo, ecco le accuse. Mentre la Repubblica va sulla più pesante delle imputazioni: «Trump, il cospiratore». Per La Stampa stesso titolo e questa volta senza le virgolette: Trump, il cospiratore. Geniale il Manifesto con un gioco di parole fra immunità e vittimizzazione: L’inarrestabile. Gli altri temi riguardano i guai di casa nostra, come sintetizza Avvenire: Su migranti e Pnrr governo in affanno. Il Messaggero cerca di essere ottimista: Gas, la bolletta torna normale. Ma il Quotidiano Nazionale nota: Cala il prezzo del gas, aumenta la benzina. Libero è minaccioso sui migranti: Ne arrivano 400 mila: piano anti-sbarchi. Il Giornale incalza: Occhio, restano tutti qui. Il Sole 24 Ore ritorna sul Codice voluto da Salvini: Appalti, rischio di esclusione delle gare se scatta la richiesta di rinvio a giudizio. Mentre Il Fatto critica la lottizzazione a Palermo: La Sicilia sforna 316 poltrone. Ha pure l’addestratore di cani. Domani fiancheggia le proteste e sostiene: La guerra del governo contro gli attivisti del clima è cominciata. Mentre La Verità resta in tema No Vax: L’Europa prepara il via libera al modello vaccini permanenti.
LA GIORNATA SURREALE DI TRUMP
Cronaca di un fatto inedito: la prima volta di un ex Presidente Usa incriminato. Dramma e farsa fuori dall’aula, Donald Trump dentro è impassibile. Il giudice lo ammonisce per aver incitato alla violenza. Quasi un’ora di udienza, poi il rientro in Florida. Viviana Mazza per il Corriere.
«In God We Trust», in Dio noi crediamo, c’è scritto in oro, a caratteri cubitali, nell’aula al quindicesimo piano del tribunale penale di Manhattan dove Donald Trump ieri pomeriggio si è dichiarato «non colpevole». Sono 34 i capi di imputazione per aver falsificato documenti aziendali legati ai pagamenti per comprare il silenzio di una pornostar, di una modella e di un usciere: l’accusa è di aver cospirato per nascondere informazioni negative sul proprio conto, violando l’integrità delle elezioni nel 2016. «Trump Tower» c’è scritto in oro, a caratteri cubitali, all’ingresso della torre del tycoon sulla Quinta Avenue. Qui scendendo da una scala mobile dorata, nel giugno 2015, Trump iniziò la corsa che lo avrebbe portato alla Casa Bianca. Qui è rifugiato dopo essere volato a Manhattan dalla Florida, ed è rimasto al ventiseiesimo piano, circondato dai suoi consiglieri e avvocati, per uscire ieri con il pugno alzato diretto in tribunale. È la prima volta che un ex presidente viene incriminato nella storia degli Stati Uniti. In basso, tra queste due torri — quella della giustizia e quella di Trump — giornalisti, sostenitori, oppositori di New York hanno popolato questa giornata surreale, con molte incognite per il futuro della democrazia in America. Siamo entrati nel tribunale penale con uno dei pass verdi, gialli e bianchi distribuiti ai giornalisti, che consentivano l’accesso all’aula dell’incriminazione e alle due aule vicine, dove erano visibili sugli schermi i tavoli dell’accusa e della difesa. Due volte abbiamo passato i metal detector, erano proibiti i computer, i cellulari. Solo carta e penna all’interno, come ai vecchi tempi. Cinque fotografi autorizzati, nessuna telecamera. «Non colpevole», ha dichiarato Trump in completo blu e cravatta rossa, seduto tra i legali Todd Blanche, Susan Necheles e Joe Tacopina. Scuro in volto, le mani intrecciate sul tavolo. È stato un confronto più teso e più lungo del previsto, durato quasi un’ora, iniziato con accuse da una parte e dall’altra. La Procura ha lamentato che Trump ha incitato alla violenza pubblica, ma anche contro i membri della Procura e le loro famiglie. Il procuratore Alvin Bragg chiede un impegno alla segretezza (protective order) alle due parti. Blanche e Necheles hanno replicato che l’ex presidente è «frustrato, arrabbiato», perseguitato da tre anni e mezzo dalla giustizia, hanno sostenuto che la Procura ha consegnato l’incriminazione ai media la notte prima, mentre loro l’hanno avuta solo mezz’ora prima. Hanno sostenuto che Trump ha il diritto di difendersi: «Rischiano di distruggere la sua reputazione su tutto ciò che ha costruito nella vita». Il giudice Juan Merchan ha chiesto alle due parti di trovare un’intesa su un accordo di non divulgazione che tuteli testimoni e giurati dai post di Trump; non è un ordine ma potrebbe diventarlo in futuro: vuole evitare incitamenti alla violenza. Come un ring In questo pomeriggio di sole, nel piccolo parco davanti al tribunale, sono scesi in campo sostenitori e oppositori dell’ex presidente, come in un ring, circondato dalle transenne, qualcosa che un amante del wrestling come Trump avrebbe potuto apprezzare. Un circo: sosia, un tizio che ripeteva: «Chi c... ha ucciso Kennedy?». Due deputati repubblicani costretti alla fuga: la paladina dell’ultradestra Marjorie Taylor Greene e George Santos di New York, screditato per le sue bugie («Ci parli dei suoi successi nella pallavolo», lo hanno deriso i giornalisti). Qualche scaramuccia c’è stata: una donna col cappello «Make America Great Again» ha strappato i cartelli di una donna anti Trump. «Tornatene a casa!», le ha detto. «Non sono una turista, sono di New York!». Daniel, un conservatore originario dell’Italia (scritta sulla maglietta: «apolitico ma prego per la pace»), ci ha detto che non ama Trump, ma pensa che questa incriminazione sia politica: teme una guerra civile. È un evento surreale per tutti, incluso l’ex presidente. Poco prima di arrivare al tribunale ha scritto su Truth Social: «Sembra surreale. Wow, mi arresteranno. Non riesco a credere che sia accaduto in America». Non gli hanno scattato la foto segnaletica, cosa per cui aveva espresso interesse secondo la Cnn e che sarebbe diventata un simbolo; niente manette, solo le impronte digitali. I suoi sostenitori hanno comunque già stampato magliette con una foto segnaletica falsa. La Procura ha chiesto che il processo si tenga nel gennaio 2024: troppo presto per gli avvocati che l’hanno definita una data «aggressiva». Hanno suggerito invece la prossima primavera: a pochi mesi dalle elezioni in cui l’imputato potrebbe essere il candidato alla Casa Bianca del partito repubblicano. Il 4 dicembre, la data fissata per la prossima udienza a Manhattan, la difesa vuole che Trump possa restare a casa in Florida dove è volato subito ieri sera per un comizio. Hanno citato la spesa, la sicurezza, il caos per la città. La Procura non aveva niente in contrario. Ma il giudice ha detto di no: «Donald Trump non è diverso da qualunque altro cittadino e imputato». In volo lui ha rotto il silenzio: «Nulla è stato fatto illegalmente!».
IL SUO POPOLO LO VUOLE RIELEGGERE
Il popolo dei sostenitori di Mar-a-lago in Florida ci crede: “Donald ci fa scudo col suo corpo”. Nel fortino del tycoon in attesa del discorso che lancerà la sua candidatura per il 2024. Alberto Simoni per La Stampa.
«Sandy e Angela mostrano un cartello: «Trump è stato dalla nostra parte, ora noi stiamo con lui». Sul ponte che supera la laguna che separa Palm Beach dalle ville di Mar-a-Lago e si appoggia proprio dinanzi al resort dell'ex presidente, blindatissimo, sono più le troupe dei giornalisti che i fedelissimi dell'ex presidente. Angela dà la colpa ai lavori, ci sono operai che rimettono in sesto il manto stradale, le vie di accesso sono contorte e «trovare parcheggio è difficile». Se la chiesa ortodossa che sta al di qua del viadotto avesse il parchimetro, avrebbe fatto i soldi. Sandy si volta indietro, e pesca nella memoria, «alla gente che c'era quando Trump ha lasciato la Casa Bianca. La sua macchina è passata fra due ali di persone». Ci sono tante bandiere, molte macchine che attraversano, suonano e sventolano vessilli Maga. A metà pomeriggio mentre in una sorta di telecronaca rilanciata da qualche radio e dai social, bastano le dita delle mani per contare i trumpiani, ma lungo la strada che riporta all'aeroporto qualcuno spunta e cammina verso la meta, le bandiere blu e rosse, la scritta Trump, il cappellino Maga. Donald Trump si è dichiarato non colpevole, Angela, nome e cognome italiano, Di Benedetto, «mio papà viene dalla Sicilia», non crede ancora che in America sia successa una cosa del genere, il sistema è rotto. Prima di lasciare la Trump Tower, Donald aveva lasciato a Truth il suo commento, «Surreale, mi arrestano, in America». Ed è quello il senso che fra trumpiani di base e conservatori dell'establishment americano – sparso fra Washington e i cinquanta Stati fra governatori, leader locali del Gop e attorney general – si respira. Ted, che ha un cartello che inneggia ai latinos per Trump, si schernisce: un tizio gli ha detto di tenerglielo per qualche minuto, mezz'ora dopo Ted, sembianze tutt'altro che ispaniche, figlio invece della Florida bianca e produttiva, scherza: «Vengono tutti qui a fotografare, mi tocca spiegare che non è mio». Mentre passano le ore, lo sparuto gruppo di supporter si ingrossa un pochino, attendono il motorcade (ex) presidenziale che nel tardo pomeriggio avrebbe riportato il primo presidente americano incriminato nella sua lussuosa residenza. Lì, nel club fra marmi, lampadari ciondolanti, e tappeti, nella serata americana (le 2 in Italia) ha parlato e commentato la sua giornata dando nuovo slancio a una campagna elettorale che più della rivalità con DeSantis – governatore di quella Florida che è il buen ritiro di Donald – è stata ravvivata dal procuratore Alvin Bragg. La macchina per raccogliere soldi si è messa a macinare utili impressionanti, oltre 4 milioni da quando il tycoon è stato incriminato. Trump avrebbe voluto anche usare la foto segnaletica per la sua corsa alla nomination, a Manhattan questa soddisfazione, contravvenendo agli usi e piegando un po' le regole, non gliel'hanno data. Avrebbe avuto una forza comunicativa presso Angela, Ted e Sandy e il popolo conservatore dirompente. «Lui sta prendendo i colpi per proteggere noi», spiega Angela dipingendo un Trump martire, in versione parafulmine, perché «quello che è successo a lui potrebbe un giorno capitare a tutti». Un sondaggio della Cnn ha detto che il 60% degli americani ritiene giusta l'incriminazione, la maggioranza dei repubblicani vorrebbe vedere Donald gettare la spugna e lasciare campo a qualche altra figura per contrastare i democratici. Il «piccolo» popolo di Trump a Mar-a-Lago, «sono tutti a New York» ci urla addosso una donna che se la prende con i media che dicono e divulgano fake news, ha atteso fino al calar della sera l'arrivo di Donald. Il tycoon oggi tornerà a occuparsi della campagna elettorale, dovrà schiumare la rabbia che ha camuffato bene in questi giorni anche se chi gli è vicino l'ha descritto come imbufalito e spaventato. La moglie Melania l'ha atteso a Mar-a-Lago, i due – ha raccontato la rivista People qualche giorno fa – fanno vite separate, ogni tanto la moglie si presenta al suo fianco in occasioni pubbliche al club. Ma chi le ha parlato ha raccolto la sensazione che la storia di Stormy Daniels la infastidisce ma vorrebbe solo passare oltre. I repubblicani – al netto dell'ala trumpiana che trova nella deputata della Georgia Marjorie Taylor Green la paladina – hanno volato basso. Attendevano il discorso di Trump della notte, toni, contenuti da pesare. Per capire quali spazi ci sono per convogliare altrove sforzi e voti. Se non sarà la giustizia ad azzoppare Trump, la banda di Mitch McConnell sogna la sconfitta alle primarie. DeSantis ha in cassaforte oltre 110 milioni di dollari fra fondi del Super Pac e quelli del suo Comitato. A Mar-a-Lago però la vita è adesso e la sfida è ora. Angela: «Serve Trump, noi ci saremo per lui».
“PER BIDEN QUESTO TRUMP È L’AVVERSARIO IDEALE”
Antonio Del Prete per il Quotidiano Nazionale intervista il professor Mario Del Pero, che nota come alla fine The Donald potrebbe essere un candidato debole e screditato nella competizione con Joe Biden.
«La scommessa di Trump può pagare nel breve termine. «La tesi della persecuzione politica incassa consensi tra i repubblicani, ma respinge e spaventa gli altri». Secondo Mario Del Pero , che insegna Storia degli Stati Uniti a SciencesPo, la strategia di The Donald ha il fiato corto.
Dove finisce la giustizia e comincia la politica nella vicenda dell’incriminazione?
«Quella di procuratore è una carica elettiva: Bragg, nel caso specifico, è un democratico. La dimensione politica è l’aspetto più problematico di questa storia, che vede un procuratore incriminare un ex presidente. Un precedente dirompente, visto che in America ci sono migliaia di procuratori distrettuali».
C’erano altre strade?
«Forse le autorità federali potevano negoziare con il procuratore di New York il congelamento di questa indagine per consentire il corso pieno delle altre, più rilevanti, sul tentativo di modificare l’esito del voto del 2020».
La chiamata alla piazza di Trump ha finalità eversive?
«Ha scopi politico-elettorali. Trump sa benissimo che una certa narrazione vittimista e cospirativa mobilita il suo elettorato. Poi, che Trump sia stato una figura eversiva lo dimostra il tentato golpe del 6 gennaio 2021. Ma Trump non è la causa della crisi della democrazia americana: ne è l’espressione».
Qual è il suo vero obiettivo: usare la candidatura per risolvere i guai giudiziari o sfruttare il processo per attrarre consensi?
«Entrambi. Lui sa che questa inchiesta rischia di delegittimare agli occhi di parte dell’opinione pubblica anche le altre indagini che lo coinvolgono. La sfrutta per mettersi sotto i riflettori e ricattare il Partito repubblicano».
Il principio di legalità non sta a cuore agli americani?
«È fondamentale, ma questa vicenda viene percepita come una questione di opportunità politica. La violazione della legge sul finanziamento della campagna elettorale è di competenza federale, quindi l’imputazione a New York viene contestata. E il falso di bilancio è un reato minore».
Questa è anche una storia di sesso e tradimenti. L’elettore conservatore non è scandalizzato dai comportamenti privati dell’ex presidente?
«No, per due ragioni. Innanzitutto è cambiata la cultura pubblica negli Stati Uniti. Hart nel 1988 perde la nomination democratica per una semplice relazione extraconiugale, dieci anni dopo Clinton fa quello che fa e se la cava. Oggi ci si scandalizza ancora meno. Il puritanesimo non condiziona più la vita pubblica. E poi c’è Trump, che ha fatto saltare i parametri con la sua volgarità. Nuota in una cultura popolare magari genuina ma violenta, e ciò lo rende intoccabile».
È stato lui a far cadere certi tabù o la società a dare un volto alla sua ansia di ribellione?
«Entrambe le cose. A chi rifiutava il politicamente corretto Trump ha dato una risposta. A un’America che si guardava allo specchio ha detto: non ti devi vergognare di nulla, neanche del razzismo. E lo ha fatto dal pulpito presidenziale, che negli Usa ha una funzione pedagogica senza pari. La sua pedagogia è stata tossica. Trump è un Frankenstein uscito da due laboratori: un’America divisa e un Partito repubblicano che cavalcava l’estremismo».
Il tycoon vincerà le primarie?
«Ora è favorito».
Trump sostiene che la vicenda in cui è incappato si ritorcerà contro Biden come un boomerang. È possibile?
«Non credo. Prendiamo ad esempio il tipico elettore mobile: la mamma 50enne di un sobborgo di Baltimora che guarda con orrore ai compagni di classe dei figli che cambiano sesso. Cosa pensa di un ex presidente che ha pagato in nero una pornostar per evitare un danno politico?».
Quindi Biden sarà confermato nel 2024?
«È un candidato fragilissimo, anziano e affaticato. Dovranno inventare una campagna elettorale su misura per lui. DeSantis e Haley lo avrebbero messo in difficoltà. Per Biden e i democratici l’avversario ideale è proprio Trump».
FINLANDIA ATLANTICA AI CONFINI CON LA RUSSIA
Le notizie sulla guerra. Helsinki entra nella Nato e Mosca promette ritorsioni: rischio escalation. Joe Biden è ironico: “L'allargamento è merito di Putin”. Missili Iskander piazzati in Bielorussia. Giuseppe Agliastro per La Stampa.
«La Finlandia è entrata ufficialmente nella Nato. E al Cremlino non l'hanno certo presa bene. Il portavoce di Putin ha lanciato immediatamente un avvertimento: «Adotteremo delle contromisure per garantire la nostra sicurezza sia dal punto di vista tattico sia dal punto di vista strategico», ha dichiarato Peskov ancor prima che terminasse la procedura per l'adesione del trentunesimo membro dell'Alleanza. Poi ha definito l'evento «un'altra escalation» e ha affermato che «l'espansione della Nato pone una minaccia alla sicurezza e agli interessi» della Russia. «La Storia dirà se la Finlandia aveva bisogno di fare questo passo ideato male», ha sentenziato da parte sua il ministero degli Esteri di Mosca. Ma il Cremlino ha cercato anche di minimizzare: Peskov si è affrettato a dichiarare che la situazione in Finlandia «è fondamentalmente diversa da quella in Ucraina», che Helsinki «non è stata mai antirussa» e che Mosca «non ha avuto controversie» col Paese scandinavo. E sulle contromisure? Per ora la Russia si limita a dire che saranno decise in base a come l'Alleanza Atlantica «userà il territorio della Finlandia in termini di dispiegamento di armi, sistemi e infrastrutture vicino al confine». «Riveleremo con calma cosa faremo in risposta, quando i tempi saranno maturi», ha detto il vice ministro degli Esteri russo Ryabkov. L'atroce aggressione militare contro l'Ucraina voluta da Putin sta avendo non poche ripercussioni sulla situazione geopolitica mondiale. E ha inoltre portato a un allargamento della Nato: una beffa per Mosca perché è esattamente ciò che il Cremlino diceva di voler evitare. È sullo sfondo di queste tensioni internazionali infatti che due Paesi con una lunga storia di neutralità alle spalle come Finlandia e Svezia hanno deciso di muoversi verso la Nato. L'iter di Stoccolma non si è ancora concluso, anche per le resistenze di Ankara. Quello di Helsinki sì, e ora il confine in comune tra la Russia e i Paesi Nato è più che raddoppiato. «L'aggressione da parte della Russia ha portato molti Paesi a ritenere di dover fare di più per la propria sicurezza», ha commentato Antony Blinken. «Sono tentato di dire che probabilmente» l'ingresso della Finlandia nella Nato «è una cosa di cui possiamo ringraziare Putin», ha detto ancora il segretario di Stato americano, secondo il quale il presidente russo «ha accelerato qualcosa che sosteneva di voler evitare con l'aggressione». Gli Stati Uniti intanto hanno annunciato altre forniture militari a Kiev per 2,6 miliardi. I rapporti già difficili tra Russia e Occidente si sono ulteriormente deteriorati dopo l'inizio della guerra in Ucraina e il recente annuncio di Putin di voler schierare armi nucleari tattiche in Bielorussia non getta certo acqua sul fuoco. Stando al ministro della Difesa russo Sergey Shoigu, Mosca avrebbe trasferito in Bielorussia un sistema missilistico Iskander-M, potenzialmente armabile con testate nucleari, e anche alcuni caccia bielorussi sarebbero in teoria in grado di trasportare testate nucleari. «Il 3 aprile gli equipaggi bielorussi hanno iniziato l'addestramento su come usare» il sistema Iskander, ha dichiarato il ministro. Parole bollate però come «un bluff» dal segretario del Consiglio di sicurezza ucraino Oleksy Danilov. Mentre il segretario generale della Nato, Stoltenberg, ha rassicurato che l'alleanza «non vede nessun cambiamento nell'atteggiamento sul nucleare da parte della Russia che richieda cambiamenti da parte della Nato». Tutto questo mentre Putin si appresta a incontrare oggi e domani a Mosca il dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko, forse il più stretto alleato del regime del Cremlino. Il ministro russo Shoigu ieri si è scagliato contro la Nato in un incontro coi vertici militari di Mosca. Ha detto che l'Alleanza Atlantica sta attuando delle misure per «aumentare la prontezza al combattimento delle forze congiunte, intensificando l'addestramento e le attività di ricognizione vicino ai confini di Russia e Bielorussia» e naturalmente accogliendo la Finlandia. «Tutto ciò crea rischi di una significativa espansione del conflitto», ha tuonato il fedele alleato di Putin aggiungendo però che, a suo avviso, «non viene influenzato l'esito dell'operazione speciale», cioè della crudele invasione dell'Ucraina».
LE INDAGINI SULLA BOMBA DI SAN PIETROBURGO
Nel racconto perfetto per incastrare Darya Trepova spunta un intermediario che veniva da Kiev. Il capo della Wagner Prigozhin si reca nel luogo dell’attentato a Tatarsky. Marco Imarisio per il Corriere.
«Mancava solo il misterioso intermediario ucraino. La lacuna è stata colmata ieri pomeriggio, con le rivelazioni di Fontanka.ru , il più noto sito di informazione pietroburghese, che riferendosi ad «attendibili fonti investigative» ricostruisce con toni romanzeschi la vicenda di Darya Trepova, la presunta attentatrice accusata di avere ucciso il blogger ultranazionalista Vladlen Tatarsky mediante statuetta esplosiva. È un racconto che vale riassumere perché in qualche modo chiude il cerchio della cospirazione perfetta tracciato in questi giorni dalla propaganda russa . Dunque, in apparenza la donna conduceva una tranquilla vita «vegetariana», ma nel suo intimo era ossessionata dalle notizie sull’Operazione militare speciale. Le sue fonti di informazione erano i canali Telegram ucraini. All’interno di questo ecosistema, sarebbe nata una amicizia con un attivista al soldo di Kiev, sfociata nella proposta fatta a Darya di trasferirsi nella capitale ucraina per lavorare come redattrice di un media locale. Ma per ottenere quell’impiego, avrebbe dovuto prima superare una prova. Il passo d’esordio sarebbe stato l’incontro nella libreria Listva (Fogliame) con Tatarsky, avvenuto qualche settimana fa durante una sua serata. Proprio grazie a quel colloquio in apparenza casuale, il blogger di guerra avrebbe riconosciuto e accolto Trepova la sera dell’attentato. Poi, il mentore ucraino di Telegram le ha ordinato di andare a Mosca, dove un tassista le ha poi consegnato una scatola. A quel punto, la donna in cerca di lavoro ormai trasformata in agente segreto avrebbe ricevuto l’ordine di andare all’evento con Tatarsky, consegnargli il pacco, e poi «ci pensiamo noi». Le hanno fatto avere un biglietto aereo per l’Uzbekistan, promettendole che poi l’avrebbero fatta arrivare in Ucraina. Sempre secondo Fontanka.ru, Trepova avrebbe detto di ignorare la presenza di una bomba, che sarebbe stata azionata a distanza. Ma sospettava comunque «qualcosa di brutto». Si sono lette trame di spionaggio migliori. Ma non importa. Diventerà questa la versione ufficiale, a cui si deve credere. Perché contiene l’ultimo tassello. Darya è stata già bollata come sodale della cerchia di Alexey Navalny, il dissidente numero uno, incarcerato da mesi, che per questo complotto verrà ben presto raggiunto da un nuovo e definitivo capo di imputazione. Adesso diventa anche una pedina forse inconsapevole nelle mani del terrorismo ucraino. Bingo. A questa ricostruzione contribuisce, non si sa quanto in buona fede, anche Roman Popkov. L’assistente dell’ex deputato russo Ilya Ponomariov, che si accredita come leader dell’opposizione anti-Putin, ha pubblicato sui social una dichiarazione a nome del «Esercito nazionale repubblicano» che rivendica l’assassinio sostenendo di non avere ricevuto assistenza «da alcuna struttura straniera». Darya Trepova viene definita «la nostra eroina». Popkov nega un coinvolgimento personale. La sigla è la stessa che si era assunta la responsabilità, per bocca dello stesso Ponomariov, dell’attentato costato la vita a Darya Dugina. Non è la prima volta che il duo in questione si esibisce in dichiarazioni ambigue . Nel pomeriggio di ieri, Darya Trepova è stata trasferita a Mosca e subito portata al tribunale rionale Basmannyj, noto per esaminare i casi che riguardano dissidenti di ogni genere, a cominciare da Mikhail Khodorkovsky. Negli ambienti dell’opposizione è molto diffusa la locuzione «giustizia alla Basmannyj», come sinonimo di repressione politica. L’udienza si è svolta a porte chiuse. La donna è stata formalmente accusata del reato di atto terroristico commesso da un gruppo organizzato, con l’aggravante della morte premeditata di una persona. Sul luogo dell’attentato è giunto un contrito Evghenij Prigozhin, ex proprietario del bar dove si è verificata l’esplosione. «Questa morte ingiusta» ha detto il fondatore del Gruppo Wagner «ci darà una nuova spinta per trasformare il nostro movimento Z in una vera e propria organizzazione pubblica». La tavola della Russia ultranazionalista è imbandita. E tutto fa brodo».
SABOTAGGIO AL GASDOTTO, NUOVE RIVELAZIONI
Il Washington Post torna sulla vicenda del sabotaggio al gasdotto Nord Stream. Cosimo Caridi da Berlino per Il Fatto.
«C’è una nuova tessera del puzzle sul sabotaggio di Nord Stream. Il Washington Post, attraverso delle fonti anonime all’interno della procura tedesca incaricata delle indagini, è in grado di affermare che l’attacco ai gasdotti sia opera di più imbarcazioni. A inizio marzo era emersa la responsabilità di un piccolo yacht da 16 metri, l’Andromeda, che con a bordo sei persone avrebbe piazzato le bombe nel Mar Baltico. Secondo la ricostruzione fatta al quotidiano statunitense, gli inquirenti tedeschi hanno trovato sul tavolo dell’Andromeda tracce di esplosivo, ma non ritengono plausibile che un gruppo di persone così ridotto e un’imbarcazione di quelle dimensioni possano avere portato avanti l’azione in solitaria. “La domanda è se la storia della barca a vela è qualcosa che distrae o solo una parte dell’immagine”, ha detto una persona informata dello stato delle indagini. In queste settimane diverse voci critiche hanno sottolineato che il sabotaggio sarebbe stato teoricamente attuabile, ma poco plausibile utilizzando solo l’Andromeda. I sommozzatori, due secondo la teoria, avrebbero dovuto fare diverse immersioni per trasportare le centinaia di chili di esplosivo fino a 50 metri sott’acqua. Il tempo di decompressione avrebbe bloccato la nave a lungo in alto mare, rendendola sospetta. Inoltre le tracce di esplosivo sul tavolo sarebbero state troppo evidenti per essere lasciate da un gruppo di professionisti. Potrebbero essere state fatte di proposito per depistare le indagini. Gli inquirenti tedeschi, al lavoro con i colleghi danesi e svedesi, ritengono più plausibile che l’Andromeda si sia coordinata con una o più imbarcazioni, forse anche un piccolo sommergibile, per calare sul fondale gli esplosivi e poi trasportarli e piazzarli sul gasdotto in un secondo momento. Lo yacht era stato noleggiato da una compagnia polacca, ma è di proprietà ucraina. La scoperta ha fatto indicare Varsavia e Kiev come potenziali mandanti del sabotaggio. La Polonia è sempre, sin dagli anni 90, contraria alla possibilità che Germania e Russia siano unite da una condotta per il trasporto del gas. Questo infatti aumenta la dipendenza energetica di Berlino (e in parte anche del resto d’Europa) da Mosca. Varsavia ha però negato ogni collegamento con le esplosioni che hanno distrutto Nord Stream 1 e 2. “Questo potrebbe essere tutto un gioco dei russi” ha detto in un’intervista Marcin Przydacz, consigliere capo per la politica estera del presidente Andrzej Duda. Per l’Ucraina la questione è più complessa. Kiev non ha mai accettato di perdere le proprie commissioni sugli idrocarburi russi che attraversano il Paese per arrivare in Europa. Ci sono inoltre alcune intercettazioni, divenute note solo dopo le esplosioni dello scorso 26 settembre, in cui alcuni pro-ucraini discutono della possibilità di attaccare Nord Stream. Dall’entourage del presidente Zelensky sono arrivati più messaggi in cui spiegano che distruggere i gasdotti avrebbe potuto mettere a rischio il supporto occidentale, o quantomeno tedesco, a Kiev. Il giornalista americano Seymour Hersh ha pubblicato la sua inchiesta giorni fa in cui sostiene che il sabotaggio è da attribuire agli Stati Uniti e che la Casa Bianca ne era a conoscenza. Washington ha smentito. A oggi le due condutture di Nord Stream 1 sono interrotte mentre una delle due di Nord Stream 2 è ancora intatta, anche se non è mai entrata in funzione. Le operazioni per ricostruire le parti danneggiate hanno costi molto importanti, ma potrebbero essere presi in considerazione se il conflitto si dovesse risolvere. Ieri è emerso che due compagnie assicurative, Allianz e Munich Re, hanno rinnovato la copertura per Nord Stream 1. La polizza copre i danni al gasdotto e le interruzioni dell’attività commerciale».
“LE ARMI NON RISOLVONO LA CRISI”
Lucia Capuzzi per Avvenire intervista Mauro Ceruti, filosofo e firmatario dell’appello di Le Monde.
«Non abbiamo l’ingenuità e l’avventatezza di credere che le armi siano sufficienti a garantire la soluzione» della guerra. Da questa consapevolezza profonda, è scaturito il coraggio di oltre trecento intellettuali internazionali di unire le proprie mani e le proprie menti intorno alla parola “pace”. Una pace urgente, necessaria, ineludibile per spezzare il meccanismo perverso del «fatalismo bellicista e rafforzare la democrazia». È questa la pace che hanno voluto invocare nel manifesto pubblicato il 21 marzo su Le Monde. E che ha visto, tra i primi firmatari, l’italiano Mario Ceruti, filosofo dell’Università Iulm, allievo del francese Edgar Morin e pioniere nel nostro Paese degli studi sulla complessità. Proprio alla pace è stato dedicato ieri l’intervento del pensatore all’anteprima del Festival dei diritti umani al Memoriale della Shoah di Milano, la cui edizione 2023, in programma tra il 3 e il 6 maggio, è proprio dedicata alla tragedia bellica (www.festivaldeidirittiumani. it). «Padre Ernesto Balducci mi disse: “L’uomo del futuro o sarà uomo di pace o non sarà”. Aveva ragione», afferma Ceruti.
Eppure professore chiunque parli di pace viene tacciato, nel migliore dei casi, di “utopismo”. Nel manifesto, invece, voi ribaltate il concetto: ingenuità è sperare che le armi risolvano la crisi. Che cosa significa?
Il conflitto che è tornato a devastare il cuore dell’Europa presenta pericoli inediti che stiamo sottovalutando. Il primo è la radicalizzazione della guerra. L’evoluzione tecnologica, drammaticamente dimostrata con l’esplosione della prima bomba atomica a Hiroshima nel 1945, ormai ha reso la specie umana capace di auto-soppressione. Alla potenza inedita raggiunta, poi, si somma l’attuale interconnessione. Tutto è connesso nel pianeta. «Siamo tutti sulla stessa barca» per parafrasare la metafora impiegata da papa Francesco in quell’indimenticabile 27 marzo di tre anni fa.
«Sulla stessa barca» è anche il titolo di un suo saggio pubblicato da Qiqajon. Che cosa significa?
Il mondo è complesso: non complicato bensì intrecciato, secondo la sua derivazione greca. Essere realisti ora vuol dire essere utopisti e mettere al bando la guerra dalla storia.
Come è possibile?
Di fronte all’immenso pericolo incombente, dobbiamo cambiare logica. Il gioco prevalente nelle relazioni umani – economiche, sociali, di genere, politiche – è quello a somma zero. La guerra ne è la sua versione più estrema. Tale modello è tanto radicato da apparire come l’unico possibile nella pratica. Di fronte alla nuova condizione in cui ci troviamo in questo tempo è, al contrario, il più irrealistico.
Ma è davvero possibile cambiare?
È difficile ma non c’è alternativa. La logica della guerra giocata fino in fondo è suicida. Di fronte alle grandi sfide, l’essere umano è riuscito a farvi fronte grazie all’immaginazione. E’ quanto siamo chiamati a fare ora. Dobbiamo mutare il paradigma, accantonando quello impraticabile della guerra e facendo ricorso a un supplemento di creatività, sensibilità e fantasia. Il primo passo è uscire dalla trappola del manicheismo assoluto, delle propagande menzognere , della criminalizzazione dei popoli non solo degli eserciti avversari. Qualcuno pensa che questo sia un pretesto per giustificare l’invasione realizzata da Vladimir Putin dell’Ucraina… Non lo è. Siamo di fronte a un fatto semplice e tragico: c’è un aggressore – la Russia – e un aggredito, l’Ucraina. Ribadisco è un fatto semplice. Il mondo, però, è complesso, si intrecciano molteplici fattori. Pensare di vincere per poi trattare la pace non ne tiene conto. Non possiamo né dobbiamo permetterci di portare all’estremo il conflitto».
VON DER LEYEN IN CINA “POLIZIOTTO CATTIVO”
Inizia oggi la missione europea in Cina. Ursula Von der Leyen ed Emmanuel Macron arrivano oggi a Pechino. Obiettivo: convincere il leader cinese a chiamare Zelensky. Bruxelles crede sia ancora possibile arrivare a una tregua con la Russia di Putin e si smarca dagli Stati Uniti. Marco Bresolin per La Stampa.
«L'Europa è convinta che la Cina possa giocare un ruolo cruciale nell'auspicabile processo di pace che prima o poi dovrà porre fine alla guerra in Ucraina. E a differenza degli Stati Uniti intende battere tutte le strade per convincere il presidente Xi Jinping a fare pressioni sulla Russia. Anche per questo Ursula von der Leyen ed Emmanuel Macron, oggi a Pechino, insisteranno con il leader cinese e gli chiederanno di parlare con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che ancora aspetta una chiamata per discutere del piano di pace. La guerra sarà indubbiamente al centro dei colloqui in programma nel pomeriggio con Xi e che si svolgeranno in tre diverse sessioni: prima un trilaterale – al quale parteciperanno il presidente cinese, quello francese e la presidente della Commissione – e poi due distinti bilaterali, uno con la delegazione Ue e uno con i francesi. Ma in agenda non ci sarà soltanto il tema dell'invasione russa: Macron e von der Leyen intendono riannodare i fili di un più ampio discorso che riguarda l'insieme dei rapporti tra la Cina e l'Europa (e ovviamente tra la Cina e la Francia) dopo le turbolenze nelle relazioni dovute anche alla pandemia. Del resto l'ultima visita di Macron in Francia risale al 2019, mentre l'edizione 2021 del summit Ue-Cina era stata sospesa in seguito alla decisione di congelare l'accordo sugli investimenti. Lo scorso anno Pechino e Bruxelles sono riuscite a ristabilire un contatto in occasione il summit bilaterale, anche se soltanto via videoconferenza, mentre ancora non c'è una data per il vertice ufficiale che dovrebbe tenersi quest'anno. L'incontro servirà proprio a rimettere ordine nelle tormentate relazioni tra Ue e Cina, con la presidente della Commissione europea che cercherà di portare al tavolo una sintesi delle posizioni degli Stati membri, che in molti casi sono estremamente diverse tra di loro (tanto che il dossier sarà in agenda al Consiglio europeo di giugno). Si va dalla linea dura promossa dai Paesi come la Lituania, reduce da un'aspra crisi diplomatica con Pechino, a posizioni più accomodanti come quelle portate avanti dalla Germania (del resto il cancelliere Olaf Scholz si era recato in Cina già a novembre). La Francia preme per rilanciare i rapporti, soprattutto dal punto di vista economico: anche per questo Macron viaggia con una delegazione composta da circa 50 grandi aziende che puntano a siglare accordi commerciali. Agli occhi dei cinesi, viaggiando al fianco di Macron, von der Leyen viene un po' vista come "il poliziotto cattivo". Del resto nel faccia a faccia non mancheranno i riferimenti alla situazione di Taiwan e al rispetto dei diritti umani. Tra i due è indubbiamente la presidente della Commissione a sostenere una linea un po'più filo-americana, ma il suo discorso della scorsa settimana è stato molto chiaro: von der Leyen ha cercato di delineare quella che dovrebbe essere la strategia europea nel rapporto con la Cina che «è uno dei più complessi al mondo». Perché, ha aggiunto, «il modo in cui lo gestiamo sarà un fattore determinante per la nostra futura prosperità economica e sicurezza nazionale». La presidente della Commissione ha ammesso che «negli ultimi anni le nostre relazioni sono diventate più distanti e più difficili» e non ha nascosto i timori e le critiche per il fatto che «il chiaro obiettivo del Partito comunista cinese è un cambiamento sistemico dell'ordine internazionale, che dovrà essere incentrato sulla Cina». Ma al tempo stesso è decisa a portare avanti una linea non di rottura, ma di "riduzione dei rischi" (de-risking). L'accordo sugli investimenti, per esempio, dovrà essere rivisto alla luce del mutato quadro internazionale e della postura cinese. La leader della Commissione europea vuole un riequilibrio nelle relazioni commerciali e soprattutto punta a ridurre al minimo la dipendenza da Pechino in alcuni ambiti, come l'import di materie prime. L'esperienza del gas con la Russia è un errore che l'Ue non può più permettersi di ripetere. Ma l'Europa non vuole tagliare i ponti con la Cina come auspicano gli Stati Uniti. «È fondamentale garantire la stabilità diplomatica e le linee di comunicazione aperte con la Cina», ha detto nel suo discorso von der Leyen. Che intende rilanciare i rapporti con Xi, partendo proprio dal dossier ucraino: la tedesca vuole «aprire un dialogo franco» con Pechino per fare in modo che il presidente cinese ascolti anche un'altra versione, oltre a quella russa. A Bruxelles sono convinti di poter trovare punti di convergenza con la Cina sul tema dell'integrità e della sovranità territoriale, sul contrasto alle minacce nucleari di Mosca e sulle prospettive per un vero piano di pace. Ma Pechino deve fare un passo verso Kiev».
L’EUROPA È CREDIBILE COI CINESI SE È INDIPENDENTE
Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore commenta la missione europea: la trattativa è possibile se l’Europa si mostra più autonoma.
«Strappare la maschera delle ambiguità di Xi Jinping sulla invasione russa dell’Ucraina, convincerlo a convincere Vladimir Putin a fermare la guerra, perché, dice un diplomatico francese, oggi è l’unico che può riuscirci. Questa l’ambizione dichiarata del viaggio congiunto di Emmanuel Macron e di Ursula von der Leyen da oggi in Cina. Mission impossible? Probabile. Non fosse altro perché, ben sapendo quanto cruciale potrebbe essere il suo ruolo, il leader cinese non sarà disposto a promettere niente se non in cambio di pesanti e precise contropartite europee. Che però i due presidenti, francese e Ue, non sono in grado di offrire. Perché l’Unione dei 27 è spaccata e gli Stati Uniti oggi tirano la corda esattamente in senso opposto. La Cina di Xi non è amica di nessuno se non dei propri interessi. E quali siano oggi l’ha detto chiaro nel recente incontro a Pechino con il premier spagnolo Pedro Sanchez: «Il sano sviluppo delle relazioni tra Cina ed Europa esige che l’Unione affermi la sua indipendenza strategica». In breve, se l’America di Joe Biden insiste per il decoupling dell’Europa dalla Cina, la Cina pretende lo stesso dall’Europa. Dovendosi barcamenare tra entrambe, l’Europa non vuole “divorziare” da nessuno ma provare a incunearsi tra i due colossi concorrenti e sulla difensiva, per tirare acqua al proprio mulino di pace e stabilità regionale e internazionale. Ai ferri corti tra loro, Stati Uniti e Cina hanno riscoperto il valore geo-strategico dell’Ue: i primi per consolidare il fronte occidentale in un mondo non più uni o multipolare ma diviso in due blocchi, la seconda per rompere l’assedio Usa, difendere la propria centralità di «più grande fabbrica del mondo» al crocevia di quasi tutte le catene del valore e forniture planetarie ma minacciata da sanzioni alla russa e stop americani alle vendite di high tech che mettono a rischio la sua corsa ai primati del futuro. Grazie al disordine globale esasperato dalla guerra di Putin, almeno sulla carta, dunque, il potere negoziale europeo è lievitato. Per allentare la stretta americana e indebolire la politica di Biden, Xi chiede il non allineamento dell’Unione. «Se chiudesse il proprio mercato unico - dice il commissario Ue all’Industria, Thierry Breton - la Cina perderebbe il 5-6% del Pil annuo». Resta che il tasso di dipendenza cinese dell’economia europea ha raggiunto livelli ipertrofici che fanno impallidire il vecchio potere ricattatorio della Russia di Putin con i suoi idrocarburi a prezzi stracciati. Pechino non solo ha il monopolio (98%) sugli acquisti Ue di terre rare e livelli di investimenti e interscambio più che penetranti ma negli ultimi 20 anni, con prodotti a basso costo e la sistematica concorrenza sleale priva di reciprocità, ha depauperato il modello di sviluppo europeo tra deindustrializzazione e distruzione di lavoro. Avviandone una sorta di “terzomondizzazione”: gli “schiavi” fabbricano in Cina quello che precari e disoccupati consumano nell’Unione. Davvero Macron e von der Leyen possono credere che, tra sogni di onnipotenza economico-strategica e sorpasso degli Stati Uniti, Xi Jinping possa farsi onesto mediatore di pace, privandosi di una Russia ridotta a vassallo e di una guerra che consuma l’Europa e distrae l’America dall’Indo-Pacifico? Peggio, a Pechino i due presidenti non portano un messaggio univoco. La Francia di Macron è approdata con i ministri dell’Economia e degli Esteri e una delegazione di 50 industriali, più o meno come in novembre la Germania di Olaf Scholz. Cioè “business first” in economia e appeasement in geopolitica è il messaggio implicito dei due pesi massimi dell’Unione con la Spagna. Invece Est e Nord Europa sono arroccati su Nato e Stati Uniti. Von der Leyen è contraria a rompere con la Cina ma favorevole al de-risking, al taglio dei rischi in nome della sicurezza economica e strategica dell’Europa. Quindi, acquisti diversificati delle terre rare, restrizioni su investimenti esteri e commercio di tecnologie sensibili, strumenti di difesa commerciale più forti contro sussidi e coercizione economica. «Con una Cina sempre più assertiva, l’Europa deve avere una linea chiara», avverte Ursula. Più facile con Mosca che con Pechino. Ci riuscirà?».
NUOVO VESCOVO A SHANGHAI
Ne dà notizia Agostino Giovagnoli su Avvenire. Monsignor Shen Bin, nel 2010 consacrato col consenso vaticano, è stato trasferito dalla diocesi di Haimen. Durante la cerimonia d’ingresso avvenuta proprio ieri è stata citata la Conferenza episcopale cinese mentre non si è fatto nessun riferimento al Papa e alla Santa Sede.
«Una svolta importante per la Chiesa cattolica in Cina: la diocesi di Shanghai ha un nuovo vescovo. È Giuseppe Shen Bin, attuale titolare di Haimen (Jiangsu), non lontana dalla grande metropoli: si è insediato ieri alla presenza di preti, suore e laici di Shanghai. Ordinato nel 2010, con il consenso della Santa Sede e del Governo cinese, Shen Bin ha poi assunto anche responsabilità più ampie ed è attualmente presidente della Conferenza episcopale cinese (non riconosciuta da Roma). Fa anche parte della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. È noto pure all’estero, dove si è recato più volte negli ultimi anni: è stato anche in Italia e ha contatti con vescovi cattolici di tutto il mondo. Si è dunque voluto scegliere il vescovo con il profilo che sembrava meglio rispondere alle impegnative esigenze di una diocesi così importante anche per tutta la Cina. Nel discorso di insediamento, Shen Bin ha detto: rimaniamo «nella fede che si basa sulla Bibbia e sulla Santa Tradizione» e seguiamo «la tradizione della Chiesa Una Santa Cattolica e Apostolica e lo Spirito del Concilio Vaticano II». Ha inoltre manifestato il suo amore per la Chiesa di Shanghai e invocato la protezione dello Spirito Santo sull’opera dell’evangelizzazione. Nel suo discorso ci sono state espressioni di patriottismo e di adesione alla prospettiva della “sinizzazione” del cattolicesimo in Cina. La nomina è particolarmente importante. la diocesi di Shanghai era, di fatto, senza guida dal 27 aprile 2013, quando morì Aloysius Jin Luxian – riconosciuto dalla Santa Sede nel 2005 – che ha governato la diocesi dal 1988 rendendola fiorente per numero di parrocchie, attività religiose, impegno sociale e culturale, contatti internazionali (il suo seminario è stato un importante luogo di formazione anche per sacerdoti di altre diocesi). Nel 2014 è morto anche il vescovo “clandestino” Fan Zhongliang, che aveva accettato di lasciare il governo della diocesi a Jin Luxian. Precedentemente, nel 2012 era stato ordinato vescovo ausiliare Taddeo Ma Daqin, che durante l’ordinazione prese pubblicamente le distanze dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi. Fu ritenuto un gesto antigovernativo e da allora ha vissuto nel santuario di Sheshan, senza la possibilità di esercitare il suo ministero. Ma Daqin è vescovo ausiliare e non coadiutore con diritto di successione: la nomina di un nuovo vescovo a Shanghai, perciò, non è in contrasto con le leggi della Chiesa. Si spera però che Ma Daqin possa riprendere ad esercitare le sue funzioni di ausiliare, il che è possibile all’interno di quella “normalizzazione” della situazione che sembra si voglia promuovere con la nomina di Shen Bin. È significativo che Ma Daqin abbia scritto nel suo blog: «In questa Pasqua ringraziamo Dio per il nostro vescovo Shen Bin che dobbiamo rispettare e proteggere. Seguiamolo nella fede». E ha aggiunto: «Cristo ha detto: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri ». Se Ma Daqin riprendesse il suo ministero di vescovo ausiliare, sarebbe un bel segnale di pacificazione: si chiuderebbe una pagina molto dolorosa apertasi prima dell’Accordo tra Cina e Santa Sede del 2018. Durante la cerimonia è stata citata la Conferenza episcopale cinese ma non sono stati fatti riferimenti al Papa e alla Santa Sede. Quest’ultima era stata informata «pochi giorni fa della decisione delle autorità cinesi di trasferire monsignor Shen Bin, vescovo di Haimen, alla diocesi di Shanghai – ha detto il portavoce Matteo Bruni – e ha appreso dai media dell’avvenuto insediamento questa mattina (ieri ndr). Per il momento – ha aggiunto il direttore della Sala Stampa vaticana – non ho nulla da dire riguardo alla valutazione della Santa Sede in merito». Un silenzio non facilmente decifrabile, ma che fa emergere un disagio che non sembra dovuto a contrasti su questioni di fondo. Shen Bin era già vescovo e non c’è stata una nuova consacrazione episcopale: nulla a che vedere, dunque, con le tante ordinazioni illegittime che ci sono state in Cina dal 1958 al 2018. Si è trattato più semplicemente del trasferimento di un vescovo a una nuova sede episcopale. L’interesse a risolvere la complicata situazione di Shanghai, inoltre, è condiviso dalle due parti, ed è comprensibile che il nuovo vescovo venga da fuori proprio alla luce di tale situazione – impossibile individuare nel clero locale il nuovo vescovo – e la persona scelta non ha incontrato obiezioni. Indubbiamente, la rapidità con cui è stata infine realizzata questa nomina ha impedito che si creassero nuovi problemi in una realtà già molto tormentata. Ma preoccupazioni di controllo sociale e di ordine pubblico non possono essere le uniche a venir prese in considerazione quando si tratta di dare un nuovo vescovo a una diocesi, per giunta così importante: la voce di Roma deve essere adeguatamente ascoltata. È questo il senso dell’Accordo del 2018. A volte si ha l’impressione che in Cina si verifichi uno scollamento, per quanto riguarda la Chiesa cattolica tra decisioni di politica interna e questioni di carattere internazionale e di una incomprensione della natura universale propria della Chiesa, complice in questo caso forse anche un recente cambio alla guida dell’organismo del Fronte unito che si occupa degli affari religiosi e in particolare del cattolicesimo».
MIGRANTI, SLITTANO LE MODIFICHE AL DECRETO CUTRO
Veniano alle vicende italiane. Leo Lancari per Il Manifesto fa il punto sull’emergenza migranti. Ieri doveva essere una giornata decisiva, ma invece è stata ancora interlocutoria.
«Uscendo da palazzo Chigi quando ormai è sera, Matteo Salvini sente il bisogno di confermare la «piena fiducia» in Giorgia Meloni e nei ministri di Interno, Difesa e Esteri, vale a dire i tre che, insieme alla premier, seguono in prima persona il delicato dossier migranti. Parole che dovrebbero essere scontate per chi fa parte della maggioranza, e che invece lasciano spazio al dubbio che il vertice convocato da Meloni per affrontare l’emergenza dettata dal bollettino quotidiano degli sbarchi, sia stato tutt’altro che tranquillo. Anche perché il governo non ha ancora fatto arrivare i pareri al decreto Migranti in discussione al Senato, decreto che la Lega punta a utilizzare come cavalo di Troia per reintrodurre i decreti sicurezza. E causa del ritardo potrebbero essere i tentativi di trovare una mediazione all’interno della maggioranza per poi procedere con proposte di modifica comuni. Sarà un caso, quindi, ma a Salvini scappa un commento che la dice lunga sui rapporti con i soci di governo: «Rimane per me il vanto che, ahimé, negli ultimi anni l’anno i cui si sono registrati meno morti e meno dispersi nel Mediterraneo era l’anno in cui erano in vigore i decreti, in cui io ero ministro dell’Interno. Qualcuno dirà che era una coincidenza - è la conclusione - ma io non credo alle coincidenze». Annunciato nei giorni scorsi con molta enfasi il vertice - al quale oltre a Meloni e Salvini hanno preso parte anche i ministri Piantedosi, Crosetto e Tajani del resto si è concluso senza grosse novità. La principale riguarda la Tunisia, e in particolare la necessità di riuscire a sbloccare il prestito da 1,9 miliardi di dollari del Fmi fermo da ottobre. Prioritaria è l’azione «per aiutare questa nazione amica in un momento di difficoltà. In particolare si è discusso dello sblocco dei finanziamenti», spiegano a palazzo Chigi sottolineando aperture in tal senso da parte di Stati uniti e Ue. E nei prossimi giorni a Roma arriverà il ministro degli Esteri tunisino Nabil Ammar per un faccia a faccia con Tajani. Ma per il governo la Tunisia, diventata ormai la principale piattaforma di partenza dei migranti, significa soprattutto il numero degli arrivi sulle nostre coste, cresciuto di oltre il 300% nei primi tre mesi del 2023. Numeri che mettono parecchio in crisi il sistema di accoglienza, dove trovano già posto oltre 110 mila persone, e rischiando di portarlo al collasso. Servono nuove strutture dove alloggiare le migliaia di persone prevedibilmente in arrivo nelle prossime settimane e mesi. Possibilmente evitando le grandi concentrazioni che negli anni scorsi hanno portato a tensioni con le popolazioni locali. Per questo, però, servono soldi per aiutare le amministrazioni, alle quali è stato anche chiesto di segnalare possibili strutture da destinare all’accoglienza: case sfitte, alberghi in disuso, pensionati, tutto ciò che sia possibile trasformare in alloggi. L’Anci, l’Associazione dei comuni, ha però già fatto i conti calcolando in 600 milioni di euro la cifra necessaria per fronteggiare l’emergenza: «Così il sistema collassa», ha lanciato allarme Matteo Biffoni sindaco di Prato e responsabile immigrazione per l’Anci. I posti non si trovano, le prefetture sono in difficoltà, le norme per il riconoscimento giuridico farraginose, senza parlare dei 2.500 minori no accompagnati arrivati solo a gennaio». Non manca, poi, l’amarezza per le richieste dei sindaci rimaste inascoltate negli anni. «Ciò che abbiamo scritto chiesto a questo governo e al ministro dell’Interno in carica Piantedosi continua Biffoni - è molto simile, quasi analogo alle richieste che facevamo nel 2011 all’allora ministro Alfano».
IL VERO INCUBO È LA TUNISIA
Sul tavolo della cabina di regia a Palazzo Chigi il boom degli sbarchi. L'Anci prevede: “100 mila entro fine anno”. La Tunisia nel caos preoccupa il governo. Francesco Grignetti per La Stampa.
«L'estate degli sbarchi fa paura al governo Meloni perché il ritmo delle partenze non può lasciare dubbi. E così l'estate è stata al centro del vertice tra ministri che s'è tenuto ieri a palazzo Chigi con Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Antonio Tajani, Matteo Piantedosi, Guido Crosetto, Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari. Obiettivo del governo è prevenire il boom che verrà con la bella stagione. E quindi, come da comunicato di palazzo Chigi, «la priorità è aiutare la Tunisia». È chiaro che la situazione sta per esplodere. Persino Salvini sul tema scopre la cautela e la pazienza: «È un dossier – dice alla Stampa estera – che richiede tempo, ma sono fiducioso e ottimista. Sono convinto che questi cinque anni di governo faranno fare passi in avanti all'Italia». Se però un tempo la rotta degli scafisti passava solo per la Libia nel caos, ora le rotte sono due dopo che la Tunisia è in crisi. Sulla Libia, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è stato franco: «La stabilizzazione avrà tempi medio-lunghi». L'Italia confida in elezioni generale a dicembre. Nel frattempo il governo non può far altro che sperare nella Guardia costiera, ignorando i rapporti delle Nazioni Unite che riferiscono di una situazione sempre atroce e senza margini di miglioramento. «Noi parliamo con tutti, anche con Haftar che di fatto controlla una parte della Cirenaica. Siamo stati in visita a Tripoli. Stiamo dando motovedette italiane alla guardia costiera finanziate dall'Ue. Questo per effettuare controlli e impedire le partenze, contrastare l'immigrazione illegale», ha spiegato ancora il ministro. Chi riesce a sfuggire alle motovedette libiche (regalate dall'Italia e pagate dalla Ue) qualche volta è salvato dalle navi umanitarie. La Ocean Viking, di Sos Mediterranee, ad esempio, ieri ha portato a Salerno 92 persone: «Siamo sollevati – scrivono – per il fatto che siano in salvo, ma temiamo per le altre vite a rischio nel Mediterraneo: i tentativi di fuga dalla Libia continuano senza sosta». Quanto alla Tunisia, anche qui c'è poco da fare e anzi la situazione può persino peggiorare se non arriveranno i prestiti internazionali. La Farnesina spera di avere rimesso in moto il meccanismo con il Fondo monetario internazionale, ma non è detto. Ancora Tajani: «Abbiamo sempre detto che in Tunisia le riforme andavano fatte, ma non possiamo neanche abbandonare il popolo tunisino che soffre. Dobbiamo aiutare i tunisini ad uscire da questo momento di difficoltà economica. Dobbiamo guardare all'Africa con gli occhiali africani e non con quelli europei». Il che vuol dire, fuori di metafora, che il nostro governo invita i partner occidentali a smetterla di pretendere standard democratici e di dare i soldi che l'attuale governo tunisino si aspetta. E questo Tajani spiegherà al suo omologo la settimana prossima. Una visita in cui il governo ripone le sue ultime speranze. Scrive palazzo Chigi: «Assume rilievo la visita nei prossimi giorni a Roma del ministro degli Esteri tunisino, Nabil Ammar». Quanto alle competenze del Viminale, c'è da attrezzarsi sull'emergenza già presente. L'hotspot di Lampedusa è al collasso. I traghetti non bastano perché il flusso di nuovi arrivi è continuo. E c'è fibrillazione un po' dappertutto. Matteo Biffoni, sindaco di Prato, delegato Anci per l'Immigrazione, lancia l'allarme: «Nel primo trimestre del 2023 abbiamo già fronteggiato l'arrivo di 27 mila migranti con la prospettiva di chiudere l'anno ben oltre i 100 mila. Così il sistema collassa». Il piano di Piantedosi sui rimpatri forzosi da incrementare ha anch'esso tempi lunghi ed è tutto da vedere se andrà in porto. Un tassello importante sarebbero i Centri permanenza per rimpatri (Cpr). La Lega vorrebbe riportare a 180 giorni la possibile detenzione come era ai tempi dei decreti Salvini (oggi sono 90), ma la questione pende al Senato. E poi i Cpr sono pochi rispetto alle attese del ministero. «Averne uno in ogni regione sicuramente aiuterebbe e sarebbe utile per la gestione del fenomeno», diceva il leghista ieri mattina. Replica immediata di Nicola Fratoianni, Verdi-Sinistra: «Il solito disco rotto: per avere davvero politiche migratorie giuste ed efficaci non servono nuovi Cpr, anzi bisognerebbe chiudere al più presto tutti questi mostri giuridici».
PNRR, FITTO E GIORGETTI DIALOGANO IN EUROPA
Fitto e Giorgetti incontrano il commissario Hahn e chiedono più flessibilità sui progetti del Pnrr. La cronaca di Gianni Trovati e Manuela Perrone per il Sole 24 Ore.
«Il tempo stringe e il pressing italiano sulla Commissione europea si fa più intenso, insieme al tentativo di mostrare una compattezza che lunedì era saltata esplicitamente dopo l’ipotesi avanzata dal capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, di rinunciare a una parte dei finanziamenti europei. La correzione di rotta è arrivata ieri anche dal leader della Lega Matteo Salvini: «Il mio obiettivo è spendere tutti e bene i fondi Pnrr fino all’ultimo euro in cassa». Sulla stessa linea l’altro vicepremier e titolare della Farnesina, l’azzurro Antonio Tajani: «Ritengo che tutti i progetti e tutti i soldi possano e debbano essere utilizzati». «Flessibilità» nell’uso dei fondi europei - tra quelli il programma Next Generation Eu e e la politica di coesione 2021-2027 - è stata ieri la parola d’ordine del Governo, ripetuta dai ministri Giancarlo Giorgetti (Economia) e Raffaele Fitto (Pnrr) al commissario Ue al Bilancio, Johannes Hahn, in visita nella Capitale. A precedere gli incontri erano state le nuove parole distensive del titolare degli Affari economici a Bruxelles, Paolo Gentiloni, tornato a sostenere che l’Esecutivo italiano è «convinto», al pari della Commissione, che il Pnrr sia «l’antidoto a una crescita stagnante» e che occorra «lavorare tutti insieme». È arrivata dal Mef la certificazione della sintonia tra Roma e Bruxelles. «Sono soddisfatto - ha sostenuto Giorgetti al termine del confronto con Hahn - perché entrambi abbiamo individuato nella flessibilità lo strumento per modificare e portare a termine quei progetti in difficoltà a causa di eventi straordinari». Il ministro dell’Economia ha citato la guerra in Ucraina e i costi dell’energia, ma anche le «spese legate alla gestione dell'immigrazione e dei rifugiati». Chiaro il messaggio: l’Europa non può sottovalutare «l’instabilità economica alla quale assistiamo nei Paesi nord africani , mentre sul fronte degli investimenti e dello sviluppo penso che sia importante concordare a livello europeo un sistema di garanzie pubblico e privato per rilanciare gli investimenti strategici». Anche nel faccia a faccia con Fitto la richiesta di considerare la specificità della situazione italiana è stata rilanciata con forza. « Alla luce del mutato contesto internazionale ed economico, l’Unione Europea faccia ricorso alla massima flessibilità nell’uso delle risorse disponibili», ha esortato il ministro per il Pnrr. Impegnato a rassicurare, allo stesso tempo anche le opposizioni, che lo incalzano da giorni. «Il Governo - detto - accoglie volentieri l’invito a riferire in Parlamento sullo stato di attuazione del Pnrr, intanto perché non vi è nessuna difficoltà a farlo, ma soprattutto perché la consideriamo un’opportunità». La data dell’informativa è ancora da stabilire: dipenderà dall’incrocio delle agende, ma l’attesa non dovrebbe essere lunga. Anche perché il calendario corre e si avvicina la data del 20 aprile, entro la quale i ministeri dovranno aver completato le verifiche e inviato a Palazzo Chigi i dati sui progetti a rischio. L’elenco rischia di essere lungo e spazia dall’edilizia universitaria al verde urbano, da una serie di infrastrutture ferroviarie agli asili nido. E non tutto potrà tradursi in una richiesta di rimodulazione integrale. Da lì mancheranno solo dieci giorni al 30 aprile, che rappresenta la scadenza cruciale su un doppio fronte: entro quella data, infatti, la Commissione dovrà sciogliere la riserva ed emettere il proprio sofferto verdetto sul via libera alla terza rata da 19 miliardi, mentre il Governo italiano sarà chiamato a mettere sul tavolo le carte ufficiali con la domanda di revisione del Piano. Per completarla, andrà definito anche nei dettagli l’impianto del RepowerEU candidato a rappresentare il capitolo aggiuntivo del Pnrr. Molto veloce dovrà essere anche la traduzione pratica della nuova governance disegnata dal decreto Pnrr-3 ora al Senato, e si dovranno quindi ultimare le scelte per riempire le caselle chiave. A partire dai vertici della nuova Unità di missione costruita a Palazzo Chigi».
I SOSPETTI DI MELONI SULL’EUROPA
La premier teme che gli inciampi sul Piano siano usati per indebolirla prima delle elezioni europee. Fitto riferirà in Parlamento entro metà aprile. La Lega ancora all’attacco, ora FdI non si fida di Salvini. Il retroscena è di Tommaso Ciriaco per Repubblica.
«Seduta su un vulcano chiamato Pnrr, Giorgia Meloni decide di reagire. La prima mossa è quella di spedire Raffaele Fitto in Parlamento entro metà aprile, per aggiornare le Camere e replicare alle accuse. Lo fa dopo aver unito i puntini. Che portano, riferiscono fonti a lei vicine, a una dolorosa consapevolezza, confidata a più di un ministro negli ultimi tre giorni: «Sfrutteranno i nostri errori per provare a bloccarci – è il senso dei suoi ragionamenti - Intendono farlo prima delle Europee, perché dopo le elezioni sarebbe troppo tardi». A chi le chiedeva indicazioni più precise sulla regia di questa presunta operazione ostile, la premier ha replicato sibillina: «I soliti…». Bisogna sondare cuori e menti della destra di governo, per capire meglio cosa agita la galassia meloniana. Depurare gli indizi dalla propaganda e pure dalla costante sindrome dell’assedio, che è insieme metodo politico e ossessione dei Fratelli d’Italia al potere. E dunque: Meloni si è convinta, spiegano le stesse fonti, che le grandi manovre sono partite e puntano a far deragliare il governo sovranista d’Italia sul Pnrr. Come? Basterebbe rinunciare a una parte delle risorse continentali per deludere i mercati e i partner dell’Unione, legando l’immagine della premier a un fallimento. La resa dei conti dovrebbe consumarsi nel 2023, con la rata di giugno e di dicembre. Ma c’è di più. La presidente del Consiglio teme che alcuni movimenti ostili coinvolgano Parigi e Berlino. E le rispettive leadership, preoccupate dal voto delle Europee del 2024 e dalla possibilità di spostare a destra la prossima Commissione. La presunta rigidità mostrata dagli emissari di Ursula von der Leyen, di Macron e Scholz di fronte alle richieste italiane di una maggiore flessibilità, starebbe lì a confermare i timori. L’idea di fondo è che il solido patto tra francesi e tedeschi a Bruxelles abbia messo nel mirino Roma. E che si punti a inchiodare Meloni ai colpevoli ritardi del Piano – che esistono – per renderla meno forte alla prova del voto europeo del 2024. Il presidente francese lo farebbe anche per colpire in chiave interna Marine Le Pen, considerata dalla sua opinione pubblica l’alter ego della premier italiana. Il Cancelliere punterebbe a boicottare una maggioranza senza socialisti nel 2024. Gli errori a cui fa riferimento Meloni in privato sono in realtà soprattutto lacune nei progetti e lentezza dei ministeri nel modificare gli obiettivi. Ne deriva la richiesta di «massima flessibilità» sul Piano, ribadita anche ieri da Raffaele Fitto e dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, incontrando il commissario europeo per il bilancio Johannes Hahn. L’unica strada per non disperdere risorse in opere che si considerano irrealizzabili entro il 2026. Ma anche la sola strategia possibile per provare a giustificarsi, in caso di rifiuto della Commissione, con l’argomento: «Ve l’avevamo detto, siete voi che volete farci fallire». L’allarme di Meloni, ed è qui che la questione si è fatta ancora più delicata, è scattato anche unendo altri puntini. A palazzo Chigi (dove oggi sarà ricevuto il premier spagnolo Sanchez) hanno osservato con una certa apprensione la notizia della salita al Colle di Mario Draghi, lo scorso 20 marzo. E non hanno lesinato critiche ufficiose all’intervista televisiva di Francesco Giavazzi, grande amico dell’ex premier. E ancora, la tensione è salita alle stelle di fronte alle ultime mosse della Lega – di Matteo Salvini, per chiamare le cose con il loro nome – dopo le elezioni in Friuli. Ufficialmente i meloniani smorzano le polemiche, ma in privato ritengono che il vicepremier abbia iniziato l’operazione per indebolire Meloni. Anche lui avrebbe interesse a farlo prima delle Europee, per non consentire l’accordo tra FdI e FI, un’annessione di fatto tenuta a battesimo dall’eventuale accordo tra Ppe e Conservatori in Europa. Partirebbero dunque da un ordine ufficioso del segretario gli attacchi leghisti sul Pnrr degli ultimi due giorni. Ieri Riccardo Molinari ha chiesto di nuovo di rinunciare ad alcune risorse europee del Piano, senza una rinegoziazione degli obiettivi: «Se Meloni dice che riusciremo a spenderli e a ricontrattare, evviva. Stappiamo lo spumante». Parole affilate, seguite da un fuoco di fila salviniano. Prima Claudio Borghi: «La parte a debito del Pnrr va valutata bene rispetto ad altre forme di finanziamento». Poi Alberto Bagnai: «Rivendichiamo di poter criticare l’impostazione del Piano anche in sede europea». E il fatto che Salvini abbia ridimensionato, dopo le proteste di Palazzo Chigi, – «il mio obiettivo è spendere tutti i fondi» – non chiude la partita. Il contrattacco di Meloni, dunque. Passa anche dalla decisione di incontrare ieri i sindaci di Firenze e Venezia per verificare se sarà possibile convincere l’Europa a finanziare con il Pnrr gli stadi cittadini (magari utilizzandoli anche, come propone l’azzurro Roberto Pella, da luoghi di aggregazione giovanile). Solo una battaglia: la guerra durerà per l’intero 2023».
PNRR, PENSIONATI RICHIAMATI NELLA PA?
Slitta il decreto assunzioni, che in bozza riapriva ai pensionati nella Pubblica amministrazione e agli stipendi negli enti locali. Stop di Palazzo Chigi al piano. Gianni Trovati per Il Sole 24 Ore.
«Sarà la demografia, che in Italia è fra le più fredde del mondo, o saranno più probabilmente specifici ma diffusi gruppi di interesse. Fatto sta che ultimamente non passa settimana senza che il governo apra una nuova crepa nel muro che dal 2012 permetteva ai pensionati di ottenere dalle pubbliche amministrazioni solo incarichi annuali a titolo gratuito. Muro che, di fatto, fra qualche giorno potrebbe non esistere più. Il primo colpo è stato portato a fine febbraio dal decreto Pnrr-3, che ha permesso la retribuzione per gli incarichi ai vertici di enti e istituti di carattere nazionale per i quali serve il parere parlamentare preventivo. L’elenco è lungo, e va dall’Istat all’Inps, dall’Anpal a Sport e Salute, ma evidentemente non basta. Per questo un emendamento governativo allo stesso decreto è piombato ieri in commissione Bilancio al Senato per precisare che la deroga va applicata anche alle nomine che hanno bisogno della semplice informativa al Parlamento, senza dover ottenere il parere. Il campo, in sostanza, si allarga a tutti gli incarichi di punta degli enti e delle istituzioni nazionali, per i quali il governo propone i nomi come prevede l’articolo 3 della legge 400 del 1998. Come molte altre norme degli ultimi tempi, anche questa deroga procede sotto il cappello del Pnrr, come mostra l’arco temporale che ne prevede l’applicazione fino a tutto il 2026. Lo stesso calendario caratterizza la terza mossa, che era attesa oggi in consiglio dei ministri prima dello stop di Palazzo Chigi al decreto Pa. La bozza, anticipata nei giorni scorsi sul Sole 24 Ore, oltre a spargere circa 3.250 assunzioni fra enti centrali e forze dell’ordine, contiene una serie di norme eterogenee, da interventi su misura dei singoli ministeri a previsioni più ampie come quella che riapre agli amministratori locali la possibilità di farsi pagare per contratti a tempo negli uffici di staff dei loro colleghi. Sul testo schiacciato dalle più varie richieste ministeriali, ha fatto sapere nel pomeriggio di ieri Palazzo Chigi, «è in corso un approfondimento e una verifica di fattibilità di sistema e di copertura finanziaria» che porterà a un «forte ridimensionamento» delle proposte. Resta da capire quale sarà la sorte in questo esame della norma che nei fatti cancella completamente l’obbligo degli incarichi gratuiti ai pensionati. L’idea è di permettere a tutte le Pa, centrali e locali, di «conferire incarichi dirigenziali o direttivi retribuiti» ai pensionati. In questo caso, però, l’incarico potrà durare al massimo due anni. A Ministeri e Palazzo Chigi la bozza aggiunge la possibilità di trattenere in servizio segretari generali e dirigenti apicali, a patto però che abbiano «specifiche professionalità».
PRODI: IL PNRR DIPENDE DA BAGNINI E TASSISTI
Il Quotidiano Nazionale intervista Romano Prodi, già presidente del Consiglio e commissario Ue.
«A quasi due anni dal varo del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza è stato speso il 6% di risorse e solo l’1% dei progetti finanziati e attuati è completato.
Presidente Romano Prodi, è un problema di regole da derogare e di rinegoziazione con l’Ue o sono stati inseriti progetti di difficile realizzazione, quando non impossibili?
«Entrambe le cose. Il PNRR è un esercizio complicato per cui occorre oliare tutte le macchine per poter andare avanti. La prima fase è stata “tenuta insieme“ con fatica. Nella seconda parte, il governo attuale ha inserito novità che complicano ulteriormente le cose. Tutto questo ha reso meno fluidi i rapporti con Bruxelles. Bisogna decidere subito su capitoli che sembrano marginali, ma che hanno un’importanza politica enorme perché il PNRR vada in porto».
A cosa allude?
«Ai bagnini, ai tassisti. Il tema della concorrenza è esemplare perché il problema della spesa è condizionata, secondo l’Europa, proprio ai cambiamenti che permettono l’aumento di produttività del nostro sistema, obiettivo principale del PNRR. E deve essere il governo Meloni a chiudere il rapporto con categorie che danno noia a Bruxelles».
Meloni ha dato la colpa anche a Draghi. Lei a chi imputa la principale responsabilità del ritardo italiano?
«È naturale che Meloni lo faccia, ma il cammino iniziale del piano non andava interrotto. Non so se saremo in grado di utilizzare tutte le risorse, ma si può accelerare, purché si faccia meno dottrina e più concretezza».
Il 65% dei progetti è in capo ai Comuni, i quali dicono che non hanno i tecnici per la “messa a terra“ dei piani.
«Bisogna concentrare di più gli obiettivi. Vedo che si afferma sempre di più la necessità di affidarsi ai consulenti, contro i quali non ho nulla, ma questo non è il modo per migliorare la nostra burocrazia e la nostra capacità decisionale, anch’esse obiettivi del miracoloso PNRR, a cui sembra sia stato dato il compito di risolvere tutti i mali. Non credo che lo spargere i denari in mille rivoli aumenti la produttività».
Il Pd e l’opposizione come dovrebbero comportarsi?
«Il Pd non può nemmeno sapere a cosa opporsi perché non si conoscono le proposte precise del governo. Su alcuni punti, auspico che si possa anche trovare il necessario accordo».
FELTRI: “LA SINISTRA NON SA SPENDERE”
Vittorio Feltri nell’editoriale di Libero sostiene che i governi precedenti non hanno saputo investire e spendere.
«In questi giorni l’argomento più dibattuto (a capocchia) riguarda il famoso Pnrr, che è poi un cospicuo finanziamento dato dall’Europa all’Italia e ad altri Paesi membri dell’Unione. Si tratta di un pacco di miliardi da investire per ammodernare le strutture e le infrastrutture delle nazioni. Questo stanziamento considerevole di quattrini è in ballo da alcuni anni e finora nessuno dei nostri addetti alla pubblica amministrazione ha saputo come investirli. I governi da cui dipende la nostra asfittica macchina pubblica, che pure vanta (si fa per dire) uno tra i più alti debiti del mondo, non sono stati capaci di spendere un euro di quelli messi a nostra disposizione da Bruxelles. Dovremmo vergognarci tutti, a cominciare dagli esecutivi che hanno menato per anni il torrone, cioè fino allo scorso settembre. Essi però, invece di fare il mea culpa per non essere stati in grado di realizzare un piano di interventi importanti durante la loro gestione, danno addosso alla povera Giorgia Meloni che a Palazzo Chigi risiede da pochi mesi e ha già dovuto affrontare mille grane. Ora sulle spalle della prima donna premier grava l’onere di preparare in fretta e furia una organizzazione finalizzata a trasformare il denaro disponibile in opere concrete. Insomma, siamo alle solite. Il centrosinistra ha perso tempo in dibattiti sterili quando ha avuto in mano il pallino, e oggi attribuisce la ritardata presentazione dei progetti al centro destra che si è appena insediato e ha già dovuto dedicarsi a varie questioni, incluso quella della immigrazione crescente di cui la sinistra si è sempre completamente disinteressata. Vada sé che la polemica politica è il sale della democrazia, ciò tuttavia non autorizza il Pd e compagnia cantante a scaricare su Giorgia responsabilità che sono soltanto della attuale opposizione, la quale quando le toccava provvedere a sciogliere i nodi italiani in realtà perdeva tempo coi diritti degli omosessuali, le gravidanze surrogate, i matrimoni tra lesbiche, tutta roba che interessa un’esile minoranza di compatrioti. Insomma, siamo alle solite: la sinistra è capace solo di andare in piazza, appoggia i deficienti che imbrattano i monumenti, giustifica le violenze commesse quotidianamente dagli extracomunitari, alle cui esigenze non ha neppure pensato, ma se si tratta di affrontare le grane degli italiani se ne frega altamente e scarica ogni onere sul groppone di chi ha vinto le elezioni. I progressisti sono bravi a fare casino ma quando è il momento di concludere qualcosa vanno in bambola, non sanno fare altro che alzare la voce per farci capire quanto sono stolti, come se non lo sapessimo già da lungo tempo».
TREMONTI: “DOBBIAMO ESSERE CAPACI DI AMMINISTRARE”
Parla Giulio Tremonti: «Sulla gestione dei fondi Ue in Italia ci sono difficoltà strutturali, il governo ora esprima la capacità amministrativa». Enrico Marro per il Corriere.
«Da Parigi, dove Giulio Tremonti partecipa all’Assemblea parlamentare dell’Ocse su economia e lavoro, l’Italia e i suoi problemi appaiono, all’ex ministro del Tesoro e ora presidente della commissione Esteri della Camera, in una prospettiva più ampia di quella del dibattito politico nostrano. E le soluzioni cui pensare hanno a che fare col superamento di antichi ostacoli strutturali.
Professor Tremonti, il Piano nazionale di ripresa e resilienza rischia di impantanarsi. Che sta succedendo?
«Il Pnrr è stato e può essere uno straordinario successo dell’Italia. È stato un successo del governo Conte sulla quantità di fondi ottenuti dal nostro Paese, più di 191 miliardi di euro, anche se è appena il caso di ricordare che il meccanismo del Recovery plan deriva dalla proposta di Eurobond avanzata dall’Italia nel 2003. È stato anche un successo del governo Draghi, che ha riorganizzato il piano stesso. Quello che deve e può fare adesso il governo Meloni è esprimere capacità amministrativa, che certamente mancava ai due governi precedenti. Da questo punto di vista è certamente positiva l’esperienza che ha il ministro Raffaele Fitto».
Rischiamo però di perdere le prossime rate di finanziamento.
«Cominciamo col dire che la struttura fisica del Pnrr è fatta da un blocco di documenti e allegati vari che, messi uno sull’altro, raggiungono un’altezza di 23 centimetri. Una mole di pagine e numeri che intrecciano linguaggio giuridico ed economico, italiano ed europeo, non esente da una generosa componente palingenetica, con l’ambizione di rifare non solo l’Italia ma anche gli italiani. Rispetto a tutto ciò il punto essenziale è che rispetto ad altri Paesi europei l’Italia ha una strutturale difficoltà nella gestione dei fondi europei. Difficoltà talmente chiara che si vede perfino sulle pareti dei corridoi della commissione europea a Bruxelles».
In che senso?
«Da ex ministro ricordo i poster delle grandi opere europee messi in bella mostra. Purtroppo, tra questi non ce n’erano che raffigurassero opere italiane. Noi infatti facciamo soprattutto micro interventi».
Allora non c’è niente da fare?
«No, non è così. Intanto, c’è la legge Obiettivo del 2001 che era ipersemplice. In qualche modo è stata applicata per il ponte di Genova. Il modello da recuperare è quello. E in questo senso mi pare che la riforma del codice degli appalti appena presentata dal governo vada nella direzione giusta».
Se l’attuazione del Pnrr dovesse rallentare ne risentirebbe la crescita.
«Guardi, la situazione rimane comunque estremamente incerta. Tanto che al meeting dell’Ocse gira una barzelletta».
Quale?
«Uno chiede di essere assunto in una banca centrale. Gli dicono: devi fare un esame. Su cosa? Sull’inflazione. Non ne so niente. Sei assunto!».
Perché siamo in questa situazione?
«Quello che viene fuori da tutti i discorsi qui a Parigi è che la crisi del 2008 non è stata ancora superata. La scelta di produrre liquidità all’infinito non ha funzionato. La combinazione di tassi sottozero e inflazione molto sopra lo zero, insieme col perdurare della guerra, produce crescenti effetti economici e sociali negativi. La crescita, di conseguenza, resta in generale nella dimensione dei prefissi telefonici, cioè zero virgola. Detto questo l’Italia non va peggio di altri, ma meglio, e vedo che c’è fiducia nel nostro Paese».
Pesa però la politica monetaria restrittiva della Banca centrale europea. I tassi continuano a salire…
«Veniamo da una decina di anni molto strani. Siamo passati da una struttura culturale e politica basata sull’ austerity a una basata sulla liquidity . Ora quest’ultima avrebbe avuto senso come pronto soccorso, cioè come un intervento temporaneo. Invece, la creazione sconfinata di moneta dal nulla per molti anni produce effetti negativi. È difficile adesso dire se il rialzo dei tassi sia giusto o sbagliato, ma si inserisce in un contesto di scelte molto discutibili».
Una spinta alla crescita, secondo il governo, arriverà dalla riforma del fisco. Condivide?
«L’impianto della proposta è positivo. Si recupera l’impostazione di base della riforma del 2001-2003. Adesso si punta su tre aliquote Irpef anziché due, ma la direzione è giusta» .
Nella proposta del governo ci sono però a monte misure di «tregua fiscale», come le chiama la maggioranza, o di «condono» come le chiama l’opposizione.
«Nel sistema fiscale inglese vige l’ assessment , in quello tedesco la cosiddetta transazione di diritto pubblico. Sono entrambi meccanismi preventivi sistematici, quotidiani di composizione del contenzioso. Il sistema italiano non li contiene e per questa sua rigidità i governi hanno fatto periodicamente ricorso ai condoni. Nelle norme proposte con la delega vedo un allineamento ai sistemi europei con misure di composizione continua che renderebbero inutili i condoni».
ESPERTI 1. BOERI E PEROTTI: MEGLIO RINUNCIARE
Due interventi di esperti contrapposti. Gli economisti Roberto Perotti e Tito Boeri su Repubblica danno ragione a Riccardo Molinari della Lega: meglio non spendere, se non sappiamo farlo.
«Il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari ha ragione nel proporre di rinunciare a parte o a tutti i 123 miliardi presi a prestito con il Pnrr. Viene solo da chiedersi dove fosse quando il Parlamento ha deciso di chiedere tutti quei soldi alla Commissione Europea su proposta di un governo di cui il suo partito faceva parte. Il problema è che quei soldi non sappiamo come spenderli, e rischiamo di spenderli su progetti inutili o addirittura dannosi. Ecco un elenco di motivi per cui rinunciare in parte o in toto ai fondi a debito del Pnrr è una idea da valutare seriamente.
1. Il Pnrr è nato nel modo sbagliato. Invece di ragionare in modo informato su quali fossero le nostre esigenze e le nostre priorità, quali le nostre capacità di realizzarle, e decidere in conseguenza quanto prendere a prestito, il processo che ha portato al Pnrr è stato esattamente l’opposto. Si è voluto portare a casa più soldi possibile per poi porsi il problema di come spenderli. A quel punto si è chiesto alle amministrazioni pubbliche di tirare fuori i progetti che avevano nel cassetto. Poi, resisi conto che anche attuandoli tutti si sarebbe arrivati a spendere solo una minima parte dei prestiti richiesti, si è cercato di spostare sul Pnrr progetti già avviati, opere già cantierate, contro un principio basilare di addizionalità dello stesso Pnrr. E comunque anche così non si riesce a spendere tutto quello che abbiamo preso a prestito. Il risultato si vede chiaramente anche nei programmi dei partiti per le elezioni: una lista della spesa infinita con decine di proposte strampalate, perché “tanto ci sono i soldi del Pnrr”. Nessun Paese, e tantomeno l’Italia, è in grado di spendere così tanto in così poco tempo. Ci sono i tempi tecnici, e poi ci vogliono le competenze e la capacità di spesa. Il che ci porta al secondo problema.
2. Si è fatto troppo poco per migliorare la nostra capacità di spesa. Con il nuovo Codice degli Appalti si è persa l’occasione di affrontare un problema che abbiamo denunciato da mesi: ci sono troppe stazioni appaltanti e molti Comuni non sono in grado di gestire gare d’appalto e di seguire i lavori. I concorsi pubblici che avrebbero dovuto aiutare le amministrazioni locali a sopportare il peso del Pnrr sono stati avviati abbassando gli standard anziché porsi il problema di come attrarre le competenze necessarie con retribuzioni e prospettive di carriera adeguate. Il Formez non fornisce dati puntuali sul riempimento di questi concorsi, ma parla di risultati non soddisfacenti e documenta abbandoni in massa di tecnici assunti presso la Presidenza del Consiglio. Si è deciso di cambiare la governance del Pnrr spostando responsabilità dal ministero dell’Economia, l’unico ad avere sufficienti capacità gestionali e di monitoraggio, a Palazzo Chigi.
3. Le priorità sbagliate. Si è scelto di spendere decine di miliardi sulle voci più semplici e più gradite all’ideologia dominante a Bruxelles, senza chiedersi se erano le nostre vere priorità. Per esempio, se ci guardiamo indietro siamo ancora convinti che l’Italia avesse un bisogno pressante di 40 miliardi per una generica digitalizzazione, più di 1000 euro per abitante, e pochi miliardi per le periferie e la qualità della vita?
4. La fretta. Gli stadi di Firenze e Venezia di cui si è tanto parlato in questi giorni sono un esempio perfetto dei disastri causati dalla combinazione di un fiume di denaro e della fretta di spendere. Per la qualità della vita di milioni di nostri giovani è chiaro che sarebbe molto più importante un programma capillare di micro-impianti sportivi ben gestiti e ben mantenuti. Ma è molto più facile spendere soldi in fretta su mega impianti già esistenti. A Rfi che normalmente spendeva 2 miliardi all’anno per investimenti è stato chiesto di triplicare la spesa. Il risultato è che invece di attuare il già previsto miglioramento delle linee esistenti, col Pnrr si sono stanziati miliardi per l’Alta Velocità al Sud per ottenere lo stesso risultato moltiplicando i costi.
5. La trasparenza, il monitoraggio e il controllo della società civile. Con fondi così ingenti, è quasi impossibile controllare cosa fa il governo. Non ci riesce nemmeno la Corte dei Conti (si veda la relazione al Parlamento del marzo di quest’anno). È vero che finora abbiamo soddisfatto tutte le decine di obiettivi intermedi imposti ogni semestre dalla Commissione: ma sono condizioni formali, sulla sostanza sappiamo poco di quanto e come è stato effettivamente speso.
Non è vero che rinunciando ai fondi presi a prestito l’Italia farebbe una pessima figura: prendere atto della realtà è uno dei marchi dei veri statisti. Nessun Paese, neanche i meglio amministrati, potrebbe gestire utilmente ed efficientemente un tale fiume di denaro in così poco tempo. Non ha senso prendere a prestito per spendere in progetti con scarso valore per la società: anche questa sarebbe una dimostrazione di intelligenza, non di fallimento o di mancanza di capacità progettuale. Non è neanche vero che “tanto Bruxelles non ce lo permetterebbe”: è una decisione politica, le regole si cambiano, se c’è un motivo convincente. Non lo è certo l’idea del ministro Fitto di spostare progetti dal Pnrr ad altri fondi statali o ai classici programmi europei (cofinanziati dall’Italia) per guadagnare a tempo. Vorrebbe dire sostituire un debito europeo a tasso quasi zero con debito italiano a tassi molto più alti».
ESPERTI 2. GIAVAZZI: ASSURDO NON COGLIERE L’OCCASIONE
Un altro esperto economista, Francesco Giavazzi, che ha collaborato con Mario Draghi, sostiene l’opposto nell’editoriale del Corriere della Sera: i fondi europei aiutano la crescita italiana, sbagliato rinunciare ad essi.
«Negli ultimi due anni il nostro debito pubblico è sceso, in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), di 10 punti: un risultato strabiliante in un biennio in cui i conti pubblici hanno chiuso con un rosso del 6,4 per cento del Pil. Non accadeva da quarant’anni a questa parte. La spiegazione di un risultato così sorprendente è in realtà semplice. Per far scendere il rapporto tra l’indebitamento dello Stato e la ricchezza prodotta dai cittadini e dalle imprese, cioè il Pil, serve che l’economia cresca. Il ritorno dell’inflazione nella seconda parte dello scorso anno ha un po’ aiutato. Ma non è stata (o comunque non soprattutto) la corsa dei prezzi che ha abbattuto del 10 per cento il rapporto tra debito e Pil. È questo il motivo per cui gli investitori internazionali, che possiedono poco meno di un terzo del nostro debito, seguono con apprensione il dibattito politico sul Piano di rilancio e resilienza. Forse non è un caso il fatto che lunedì sera, dopo l’invito del capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari, a valutare se rinunciare a parte dei fondi del Pnrr, il premio al rischio sul nostro debito, cioè lo spread dei Btp rispetto ai titoli di Stato tedeschi, ha fatto un saltino in su: 5 punti, pari a circa il 3 per cento in più in poche ore. E questo nonostante le rassicurazioni arrivate dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Complessivamente, il Pnrr vale più del 10 per cento del Pil. Spendere quelle risorse in quattro anni, come ci siamo impegnati a fare, significa realizzare un punto e mezzo di crescita in più quest’anno e il prossimo, e tra i 2 e i 3 punti in più nel 2025-26, secondo le stime del ministero dell’Economia costruite usando il modello econometrico Quest III disegnato per l’Italia dalla Commissione europea. A questo va aggiunta la spinta proveniente dalle riforme, che sono parte integrante del Pnrr: dal nuovo codice degli appalti, alla giustizia, alla concorrenza. Sempre il modello della Commissione, simulato dagli economisti del Mef, stima un effetto addizionale sul Pil, dovuto a queste riforme, pari a 3,5 punti nel 2026. Non sorprenderà allora se l’idea che l’Italia possa rinunciare a queste risorse, o anche solo ad una piccola parte, si sia riflesso istantaneamente in un aumento dello spread. Anche perché più crescita non si trasforma solo in più occupazione, ma anche in più entrate fiscali e quindi più risorse a disposizione per investimenti e riforme. Il piano concordato con la Commissione può essere modificato. Ma la vera domanda da porsi è se ci conviene. Dovremmo fermarci il tempo necessario per riscrivere qualche progetto o scriverne di nuovi. Vorrebbe dire ritardare investimenti previsti e a cascata incidere sulla crescita e sulle riforme. La reazione negativa dei mercati finanziari avrebbe inoltre l’effetto di aumentare i tassi di interesse. I progetti che si vorrebbe cancellare sono stati scritti un anno fa in collaborazione con il Parlamento e la Commissione europea: non saranno tutti perfetti, ma non penso siano pessimi. Anche l’osservazione che in un anno tutto è cambiato non tiene: il prezzo del gas, dopo essere esploso durante la scorsa estate, è tornato vicino ai livelli di un anno fa. Sarebbe molto meglio concentrarsi sull’attuazione del piano. Semmai sugli ostacoli e sul come eliminarli. Un esempio per tutti. I Comuni non riescono a far partire gli appalti per costruire 210 nuove scuole? Superato un certo periodo di tempo li si obblighi ad affidarsi a società pubbliche come Invitalia che ha sviluppato una grande esperienza. L’idea che ogni volta si debba ricominciare da capo, come se il nostro Paese tra difficoltà e lentezze in questi anni non abbia continuato a camminare, è quello che ha determinato, ad ogni cambio di governo, ulteriori ritardi e lentezze. Che nel caso di una priorità, se non la priorità principale, la crescita, sarebbe l’errore che non possiamo permetterci».
“UN 3 PER CENTO LAMALFIANO PER CALENDA”
Commento da intenditori di politica scritto per il Foglio da Giuliano Ferrara sui risultati ottenuti dal Terzo polo alle regionali del Friuli Venezia Giulia.
«Bisogna forse ridimensionarsi e dire addio al terzopolismo, se si voglia contare di più e fare sul serio nella politica italiana. Il vero nemico dei liberali e riformisti non è lo statalismo, l’approssimazione partitica, la abitudinaria sedentarietà culturale del sistema istituzionale, il comunismo, il fascismo eterno, o adesso i social e il talk-show o il “Grande Fratello” e altre caratteristiche della storia nazionale e del contemporaneo, il vero nemico loro è il velleitarismo. Non c’entra il Friuli elettorale, cinico e baro per i nostri amici che vogliono prendere l’Italia sul serio. Era abbastanza ovvia un’infilata di sconfitte frustranti nelle regionali, in questo Carlo Calenda non ha torto. C’entra invece la lezione di Ugo La Malfa. Ne ha date tante, quel grande e sanguigno uomo politico repubblicano, e non solo quando era il capo dell’ufficio studi della Commerciale di Raffaele Mattioli o quando inventò una linea di intervento riformista per l’economia e lo sviluppo scrivendo la Nota aggiuntiva da ministro del Bilancio di Amintore Fanfani nel 1962. La lezione principale è stata che il 3 per cento o giù di lì è una dannazione che va benissimo, l’importante è avere idee forti, farle circolare con ambizione pragmatica, intermediare le relazioni tra le grandi forze popolari, le coalizioni arruffate e i partiti vocianti e inconcludenti, o se vogliamo le chiese ideologiche. Entrare e uscire dalle più varie combinazioni del potere con carattere, con tigna, evocando per sé prestigio rispetto e operosità ma sempre ricordando di trasportare nel bordello del consenso facile e delle sue malizie l’impresa difficile di fare sul serio, come dicono gli slogan elettorali di Azione, futuro partito unico con Italia viva. Irrompendo a Roma, nello sprofondo della sindacatura di Virginia Raggi, Calenda prese il venti per cento, e questo lo ha un po’ illuso e confuso. Anche il tepore sconfittista di Enrico Letta, a fronte del quale arrivò a percentuali già meno esaltanti ma inimmaginabili un minuto prima, e anche anni prima, contribuì ad aumentare la sindrome terzopolista, l’idea che l’ora liberale è suonata, che mettendo insieme il ritorno di Giuseppe Mazzini e il novismo tecnomanageriale, i liberali potessero cominciare a fare quel che non era loro mai riuscito: trasformare in una variante competitiva del sistema politico italiano competenza, gusto per l’individualismo e la concorrenza, ricognizione delle cose e intervento puntuale su di esse, e altre qualità encomiabili ma estranee al cuore pulsante della nazione. Invece, sia detto come sempre in modo superficiale e a sproposito, che è poi l’unico modo di ragionare tra l’insania canterina nazional-balneare, i due liberali (per così dire) che contano nella storia italiana sono Giolitti e Berlusconi, un filibustiere di grido, manovratore parlamentare e prefettizio capace di barcamenarsi con la sua “malavita” tra socialisti e cattolici nella grande crisi del primo Novecento, e un mattocchio di genio ispirato nel virare la caduta dei partiti nel discredito giudiziario in un capitolo nuovo, mai veramente scritto ma entusiasmante per audacia, del nostro modo di convivere e di non prendersi troppo sul serio, intanto varando l’alternanza che non c’era mai stata. Seguo Calenda su Twitter, e non mi nego la condivisione allegra di qualche Martini balneare. Non mancano mai le sue spiegazioni. Neanche le sue soluzioni puntuali su grandi questioni come la sanità, i trasporti, il fisco, il lavoro, la tecnologia. Non mancano i suoi resoconti amabili in famiglia, compresa una gita a Delfi con tutto il cucuzzaro che fa il paio con l’indimenticabile gita a Chiasso, mai fatta dalla nostra intelligenza, evocata da Alberto Arbasino. Il suo liceo Classico, magari anche per decreto legge, supera a occhio l’Agrario made in Italy, sebbene con l’agricoltura ci sia poco da scherzare in un paese come il nostro. Sono tempestive e qualche volta ficcanti le sue reprimende, scenatacce, certi insulti ben confezionati, divertente il vernacolo a correzione parziale del suo totalitarismo pedagogico. Incantevoli le sedute teorico-spiritiche intorno a un Gin Tonic, con le luci della sera che si opacizzano, in mezzo a giovani di buona lena e di certe speranze per il loro mondo che non conosce mai l’alba. Mi sembra un peccato che tutto questo generoso e faticoso studiare, organizzare lo studio degli altri, tutto questo mettere a punto i puntini sulle “i”, sia poi convogliato in un progetto che è in sospetto di ridondanza, in una accesa ripulsa delle alleanze possibili con i somarelli, che sono tanti di più dei laureati magna cum laude, nell’idea un poco megalomane che ci sono sì gli uni e gli altri, ma valgono poco, e un terzo è pronto a farsi strada tra di loro e a batterli in breccia sul loro stesso terreno. Sarebbe negli auspici un Calenda che partecipa al gioco nella sua vera dimensione, che strappa e ricuce, che si sporcifica un tanto e s’infarina, che s’infila e docet , che offre vere potenzialità e buone pratiche, mentre la moglie è in vacanza, senza soffrire troppo per la vera dimensione minoritaria, dunque eccelsa, del liberalesimo italiano. Un Calenda lamalfiano, ecco».
LE MINACCE SULLA PASQUA IN ISRAELE
In Israele, sotto l’ala protettiva del ministro fondamentalista Ben Gvir, in occasione della Pasqua ebraica, il gruppo messianico “Ritorno al Tempio” promette di uccidere un agnello sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Una miccia pronta a esplodere. Michele Giorgio per il Manifesto.
«Nel paese che ha fatto del successo delle start up e dell’high tech il suo biglietto da visita nel mondo, Rafael Morris rappresenta un altro mondo, antico, opposto alla modernità, quello degli israeliani ebrei che hanno abbracciato le profezie messianiche. Il suo ardente desiderio di accelerare la ricostruzione, dopo oltre 1900 anni, del Tempio ebraico sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme dimostra quanto i miti del passato siano radicati nelle aspettative del futuro ponendo le basi per nuove guerre e violenze. Morris, leader del gruppo Ritorno al Tempio, lunedì è stato fermato dalla polizia e interrogato. Gli succede ogni anno. Dopo qualche ora, lo hanno rimandato a casa tra gli applausi dei suoi compagni dopo aver promesso che oggi si terrà lontano dalla Spianata. La rispetterà? Ormai da alcuni anni, in occasione della Pasqua ebraica (Pesach), Morris annuncia il proposito di compiere sacrifici di agnelli sulla Spianata – l’Haram Sharif (Nobile Santuario), terzo luogo santo dell’Islam – ritenuta dalla tradizione religiosa ebraica l’area del monte dove sorgevano il Tempio di Erode e il Tempio di Salomone. Il sacrificio, simile a quello praticato nell’antichità, secondo Morris accelererà l’avvento del Messia e la ricostruzione del Tempio. In passato andava a tirar fuori Morris dalle stazioni di polizia il suprematista Itamar Ben Gvir, oggi ministro della Sicurezza nazionale del governo Netanyahu ma che fino a qualche mese fa era l’avvocato di coloni ed estremisti di destra. Ben Gvir ora non ha una piena libertà di movimento. Se in cuor suo vorrebbe dar sfogo ai suoi sentimenti messianici, da ministro non può non tenere conto della posizione della Giordania, custode delle moschee della Roccia e di Al Aqsa, che potrebbe interrompere le relazioni con Israele di fronte a violazioni dello status della Spianata concordato con Tel Aviv. A gennaio la «passeggiata» di Ben Gvir su Haram Sharif provocò reazioni in tutto il mondo islamico e anche in Occidente. Morris comunque non si arrende. Sostenuto dalle sue schiere sempre più folte, forte dell’appoggio silenzioso di non pochi deputati alla Knesset e incitato a continuare dalla moglie Aviya – un’ultranazionalista che nel 2015 scatenò un putiferio urlando «Maometto è un porco» ai palestinesi musulmani diretti alla moschea di Al Aqsa –, anche quest’anno Morris ha fatto distribuire dal suo movimento volantini nella Città Vecchia invitando gli attivisti a portare un agnello sul Monte del Tempio promettendo 2.500 shekel (700 dollari) per chiunque sarà arrestato dalla polizia e 20mila shekel (300 dollari) per chi riuscirà a compiere il sacrificio. Non solo, ha offerto una ricompensa in denaro a chiunque nel quartiere musulmano sarà disposto a prendersi cura di un agnello fino a quando non potrà essere sacrificato. Oggi e i prossimi giorni diranno se Rafael Morris e i suoi seguaci riusciranno a realizzare i loro propositi, magari approfittando della silenziosa compiacenza del ministro Ben Gvir. L’eventuale realizzazione del sacrificio in pieno mese di Ramadan provocherebbe un’ondata di violenze. Nel 1990 l’annuncio dell’«avvio della ricostruzione del Tempio» provocò scontri che si conclusero con l’uccisione di 20 palestinesi da parte della polizia. La tensione in questi giorni è già alta. (…) La spartizione della Spianata delle Moschee è perciò invocata da coloro che pianificano di realizzare a Gerusalemme la «soluzione» di Hebron dove le autorità militari israeliane, dopo la strage di 29 palestinesi nel 1994, divisero in due la Tomba dei Patriarchi assegnandone una metà ai coloni ebrei insediati nella città. Il fervore messianico coinvolge un numero crescente di fanatici, a partire dai cristiani sionisti di ogni parte del mondo divenuti tra i più accaniti sostenitori della ricostruzione del Tempio. Il regno di Dio è vicino, credono queste persone, spesso ex hippy diventati all’improvviso credenti. E la chiave per la salvezza è il Monte del Tempio di Gerusalemme. Guardano al sito anche i fondamentalisti americani, che da un lato forniscono un sostegno incessante a Israele e dall’altro attendono con impazienza un’apocalisse in cui si aspettano che gli ebrei muoiano o si convertano al cristianesimo. Gli esperti di storia delle religioni avevano pronosticato che la febbre da Armageddon dell’anno Duemila si sarebbe smorzata una volta superata la soglia del nuovo millennio. Non è stato così. E tutto si complica quando i politici cercano di incanalare queste insane passioni religiose per i propri scopi. Anni fa un’ondata di fervore messianico ha investito i religiosi nazionalisti in Israele dopo che avevano appreso che in un’azienda agricola era nata una giovenca rossa, senza peli bianchi o neri nel mantello, quindi perfetta per il sacrificio necessario per ricostruzione del Tempio. Secondo la Bibbia, le ceneri di una giovenca rossa erano usate migliaia di anni fa dai sacerdoti di Gerusalemme per purificare il popolo ebraico. Dopo averne ispezionato il colore del pelo, rosso intenso dal naso umido fin quasi alla punta della coda, due rabbini Menachem Makover e Haim Richman, stabilirono che la giovenca era quella giusta. Il quotidiano Haaretz invece vide giustamente nella giovenca rossa una «bomba a quattro zampe» potenzialmente in grado di infiammare tutta la regione. Poi, crescendo, sul mantello della giovenca spuntarono dei peli bianchi e la «bomba» fu disinnescata. L’attesa dei religiosi più nazionalisti come Rafael Morris però resta intatta assieme ai programmi di partiti e politici della destra estrema. «Siamo di fronte a gruppi di piccole dimensioni ma che con le loro azioni, specie se compiute in determinati periodi dell’anno, come la Pessah e il Ramadan, posso provocare un disastro gigantesco e gettare il Medio oriente in una nuova guerra», avverte l’analista ed esperto di nazionalismo religioso Michael Warshansky.».
IL ROGO DEL CORANO INFIAMMA LA SVEZIA
Secondo le autorità di Stoccolma cinque jihadisti, che sono stati arrestati, erano pronti a mettere in atto una «risposta» al rogo del libro sacro islamico compiuto dall’estremista di destra svedese Paludan.
«Il rogo del Corano infiamma la Svezia. Nel giorno in cui i giudici hanno definito la pratica legittima, annullando il divieto della polizia, sono stati arrestati cinque presunti estremisti con l’accusa di pianificare un attacco terroristico in risposta alle azioni del politico di estrema destra Rasmus Paludan, che a gennaio aveva bruciato una copia del Corano durante una manifestazione a Stoccolma. «L’operazione è stata condotta grazie a un lavoro intenso da parte dell’intelligence e della polizia» nelle località di Eskilstuna, Linkping e Strangnas, hanno spiegato le autorità. Queste ultime hanno aggiunto, inoltre, che «i sospettati sono legati a una rete terroristica con sede in Svezia» e che comunque «un attentato non era imminente». I servizi di sicurezza non hanno diffuso l’identità dei fermati, la cui udienza di convalida è stata fissata per domani. Il numero due del dipartimento anti-terrorismo, Susanna Trehorning, ha spiegato che la polizia è intervenuta in maniera preventiva per evitare il pericolo: «Non possiamo aspettare che avvenga un crimine prima di agire». La magistratura, inoltre, ha ordinato di annullare la decisione presa dalla polizia che, in seguito a quanto accaduto a gennaio e al moto di rabbia causato nella comunità islamica, vieta ai dimostranti di bruciare il Corano. Nuovi roghi sono stati annunciato nei prossimi giorni di fronte all’ambasciata della Turchia in segno di protesta contro Ankara. Il governo di Recep Tayyib Erdogan chiede l’arresto dei militanti curdi presenti in Svezia in cambio del proprio voto per l’entrata del Paese nella Nato. Per la Corte amministrativa d’appello, gli agenti «non avevano base sufficiente per questa decisione», tenuto conto che le minacce invocate per vietare questi gesti «non erano sufficientemente concreti o legati alle manifestazioni in questione». E ha ribadito che la Costituzione garantisce il diritto di esprimere il proprio pensiero. Ankara, però, ha immediatamente risposto che non darà il proprio assenso all’inclusione svedese della Nato fin quanto verrà permesso di bruciare il Corano».
TURCHIA, “MISTERO” RITROVA SUA MADRE
Piccolo miracolo in Turchia, due mesi dopo il terremoto. Marina Corradi per Avvenire.
«A due mesi dal sisma il Dna riunisce quel che resta di una famiglia In Turchia i media l’avevano soprannominata Gezim, Mistero. Una bambina di tre mesi e mezzo era rimasta sotto le macerie del terremoto del 6 febbraio scorso per ben 128 ore, e poi era stata recuperata dai soccorritori. Salva dopo cinque giorni nel buio, senz’acqua, senza latte, al freddo. Vetin Begdas era il vero nome della bambina, ritrovata nella provincia di Hatay. La mamma, l’avevano data per morta insieme al papà e a due fratellini. La bambina chiamata Mistero pareva rimasta sola al mondo, nella tragedia che ha fatto più di 57mila vittime tra Turchia e Siria. Ma, è accaduto qualcosa di straordinario: nel confronto del Dna della neonata con quello di una superstite ricoverata in un ospedale di Ankara, è scattato sui computer della Sanità nazionale ciò che viene detto “match”: i Dna combaciavano, la bambina aveva ritrovato sua madre. Una madre che si credeva rimasta sola al mondo, perso il marito, persi i tre figli. Invece due mesi dopo su un aereo atterrato ad Ankara c’era una bambina avvolta in una tutina rossa, in braccio a un’assistente sociale. Una grande commozione trapela dai pochi secondi di un video in lingua turca, dove tuttavia non c’è alcun bisogno di traduzione: una figlia creduta persa viene restituita alla madre, medici e infermieri attorno applaudono, la donna chiude gli occhi e si stringe la neonata addosso, in un abbraccio che vorrebbe essere infinito. Poche ore dopo un altro bambino di pochi mesi, Musa, con la stessa tecnica genetica è stato restituito alla mamma. Straordinario, pensi, che in un Paese avanzato ma non progredito come l’Occidente, colpito da un terremoto devastante, una volta estratti i superstiti, curati i feriti e seppelliti i morti, ci sia stato il tempo di analizzare il Dna dei bambini trovati fra le macerie. Di confrontarli con quelli di migliaia di donne, ricoverate in città diverse e lontane. Già quasi era incredibile che una neonata fosse sopravvissuta a cinque giorni d’inferno; che adesso sia tornata con sua madre sa, più che di mistero, di miracolo. I due mesi in ospedale di quella donna, pensate: aveva perso tutto, il suo uomo, i bambini. Di notte, in sogno, forse li vedeva ancora. Con la luce del giorno però, al risveglio, ogni mattina tornava ad affacciarsi su quella voragine di lutto. Come faceva a continuare a respirare, a mangiare, a vivere? Ma la bambina chiamata Mistero (c’è in quel soprannome l’orma di una religiosità popolare, di un chinare la testa di fronte a un disegno non nostro) è tornata. Che cos’è per una madre ritrovare una figlia perduta? «La fanciulla non è morta, ma dorme», dice Gesù a Giairo e alla madre di una bambina, che già tutti attorno piangono. A quelle parole si è attaccata l’affannata preghiera, il sogno disperato di quante madri orfane dei figli, nei millenni. E certo, si intravede un po’ di propaganda nel lungo discorso del ministro turco che celebra Gezim come «figlia di tutti noi»: intanto le macerie restano dove sono, gli sfollati affrontano il freddo nelle tende e decine di migliaia di famiglie hanno perso lavoro e ogni altro mezzo di sostentamento. Nella tragedia, tuttavia, quei due bambini sono un segno. Della ostinata volontà di vivere degli uomini, della resistenza cocciuta che oppongono alla morte – la straniera, la nemica. «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi», si legge nel libro della Sapienza. La tensione che attraversa questa vicenda sembra attingere, pure in un Paese a grande maggioranza musulmana, a tempi remoti, anteriori alla storia e alle religioni rivelate: a una volontà di vivere stampata negli uomini, dal principio. Sepolta sotto le rovine, la bambina chiamata Mistero, proprio come il suo “gemellino di terremoto” Musa, è rinata un’altra volta, quasi partorita dalla terra. E quando l’hanno rimessa fra le braccia di sua madre, per un istante, almeno in una stanza d’ospedale, in un Paese devastato qualcosa è tornato in ordine. Qualcosa almeno al suo posto: una bambina con la sua mamma – come dovrebbe essere sempre».
CHAT GPT, LA SOCIETÀ SI DIFENDE
Le discussioni sull’intelligenza artificiale. Arcangelo Rociola per La Stampa ha intervistato una manager della società bloccata in Italia dal Garante della privacy.
«Mira Murati risponde alle domande in buon italiano. «Non ho mai vissuto in Italia, ma sono albanese e come tutti gli albanesi ho imparato l'italiano dalla televisione». 34 anni, nata a Valona, dal 2018 è il capo dello sviluppo tecnologico di Open AI, la società che ha creato Chat Gpt. Lo stop all'uso dei dati imposto dal Garante per la protezione dei dati personali italiano per possibile violazione delle norme sulla tutela della privacy degli utenti ha portato la società a sospendere il servizio in Italia. «Non crediamo di violare in alcun modo le norme della la legge europea sulla privacy, ma sappiamo che buona parte dell'opinione pubblica italiana è dalla nostra parte e vogliamo arrivare a una soluzione». Un tentativo sarà fatto in serata durante un incontro in videoconferenza tra Garante e società. Murati, che a 16 anni dall'Albania si è trasferita a Victoria, in Canada, è ingegnere meccanico, ex Goldman Sachs e Tesla, e una delle menti dietro Chat Gpt, di cui ha curato il progetto fin dall'inizio.
Il Garante italiano vi accusa di non rispettare la privacy e di processare i dati personali degli utenti senza una base giuridica. È così?
«Noi crediamo di offrire i nostri servizi rispettando la privacy. Lavoriamo per ridurre la quantità di dati personali usati per l'addestramento delle nostre AI. Per noi è importante che i sistemi apprendano da testi e video. Non necessariamente dai dati di persone. Per questo riduciamo al massimo il loro uso e informiamo gli utenti il più possibile».
Un'altra accusa riguarda gli errori commessi da Chat Gpt quando si chiedono informazioni sulla biografia delle persone.
«È una tecnologia nuova e in costante evoluzione. Miglioriamo ogni giorno i servizi per renderli più utili e accurati. A volte Chat Gpt sbaglia, ma migliora grazie agli utenti. Chi la utilizza sa dei suoi limiti».
L'indagine del Garante è partita da una violazione dei dati avvenuta su Chat Gpt, che avrebbe esposto dati personali e di carte di credito. Sono stati coinvolti utenti italiani?
«Non lo sappiamo. Si è trattato di un errore nel software. È stata esposta la cronologia delle chat di un utente attivo. Quando l'abbiamo saputo abbiamo subito disattivato Chat Gpt. Questo ha messo in chiaro i dati di pagamento dell'1% degli abbonati. Ma non c'è stato alcun problema per gli utenti».
Avete un dialogo aperto col Garante?
«Sì, lavoriamo per risolvere tutto rapidamente, ma prima della loro decisione non avevamo alcun dialogo».
Lo stop crea più problemi a Open AI o all'Italia e a chi con Chat Gpt lavorava?
«Mi sembra che l'opinione pubblica italiana sia dalla nostra parte. Non vogliamo lasciare l'Italia. Speriamo che la decisione non abbia impatto a lungo termine e che si riattivi subito il servizio».
Secondo i media internazionali molti Paesi starebbero pensando a un blocco. Temete altri stop?
«Noi siamo in contatto costante con i diversi governi di tutto il mondo. Non so se ci saranno altri blocchi, ma se ci sono Paesi che hanno dei timori spero che lo facciano avviando un dialogo».
Elon Musk e altri mille accademici e esperti hanno chiesto uno stop all'allenamento di nuove AI. Due i timori: che possa andare fuori controllo e che l'impatto di queste nuove tecnologie sulla società possa essere più grave di quanto si pensi. Sono questioni fondate?
«Condividiamo molte delle preoccupazioni della lettera. Da anni parliamo delle promesse e dei rischi dell'AI. Anche noi siamo preoccupati per il rischio di una sua accelerazione. Ma ci sono due cose. Abbiamo impiegato più di sei mesi per rendere sicuro Gpt-4, prima di renderlo pubblico. E non stiamo addestrando Gpt-5, a differenza di quanto si dice nella lettera. Non abbiamo nemmeno intenzione di farlo nei prossimi sei mesi. Ma pensiamo che per rendere sicuri questi sistemi bisogna metterli a disposizione degli utenti e capire la loro reazione. Così si possono calcolare rischi e impatti».
Gli impatti più temuti al momento sono due: gli effetti sul mondo del lavoro e quello sulla disinformazione, temi entrambi cruciali per la tenuta di una democrazia. Li temete anche voi?
«Questa tecnologia è destinata a trasformare molte cose. Ma oggi Chat Gpt è uno strumento di lavoro. Come altre tecnologie penso che cambierà la natura di molte professioni, forse ne creerà altre che nemmeno possiamo immaginare. È un tema serio con cui ci confrontiamo regolarmente con i governi».
E per quanto riguarda i contenuti fake? (Murati lascia per un attimo l'italiano e risponde in inglese)
«La disinformazione è uno dei rischi dei "Large language model", i modelli linguistici di grandi dimensioni, ma penso che sia molto importante portare la società a confrontarsi con questi rischi da subito e non lavorare al chiuso di in un laboratorio per poi metterli a disposizione di tutti. È la nostra strategia».
Non è rischioso che la rivoluzione promessa dall'AI sia guidata da aziende private?
«Non credo che questo cambiamento debba essere gestito dalle società private. La tecnologia è uno strumento. Può essere un bene o un male. L'AI non fa differenza. Può fare cose grandiose per l'umanità, o cose molte pericolose. La soluzione non è fermala. Ma gestirla».
LA LEGGE GADDA CONTRO LO SPRECO ALIMENTARE
Bella iniziativa ieri alla Camera, in un’ aula dei gruppi gremita di giovani ieri per l’anteprima del film “Non morirò di fame”, con la presenza del regista Umberto Spinazzola e del presidente del Banco Alimentare Giovanni Bruno. Sono intervenuti il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e Maria Chiara Gadda, promotrice della legge anti-spreco alimentare. La cronaca è da Avvenire.
«L’esecutivo conferma l’impegno contro gli sprechi alimentari Lollobrigida: «Vogliamo spendere tutti i 500 milioni previsti» «Stiamo lavorando per investire i 500 milioni di euro del Fondo per l’acquisto di beni alimentari di prima necessità da parte degli indigenti, che stiamo cercando di aumentare anche con il contributo delle associazioni agricole e della grande distribuzione». È l’annuncio fatto dal ministro dell’Agricoltura e la Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, intervenuto ieri a un’iniziativa all’aula dei gruppi parlamentari alla Camera, dove è stato proiettato il film “Non morirò di fame” del regista Umberto Spinazzola. Il ministro ha annunciato anche che si sta lavorando «per investire entro l’anno i fondi residui che sono 111 milioni, che verranno spesi attraverso le associazioni del Terzo settore. La mia intenzione - ha precisato l’esponente di Fdi - è rinnovare questo fondo nella prossima legge di Bilancio, affinché le due cose viaggino parallelamente, ossia gli interventi di carattere diffuso, come quelli che fanno i volontari, e un intervento organizzato attraverso una spesa dello Stato, che preveda però una certificazione di coloro che prendono questo ristoro». «Gli oltre 5,5 milioni di volontari e i lavoratori del Terzo settore sono attori fondamentali nell’attuazione in questi anni della legge contro lo spreco alimentare», ha ricordato a sua volta Maria Chiara Gadda, vicepresidente della commissione Agricoltura della Camera e prima firmataria proprio di questa legge varata dal Parlamento nel 2016. «Si tratta di soggetti - ha spiegato la deputata di Italia Viva - che, con imprese, ordini professionali, cuochi che scelgono la sostenibilità, con competenza e impegno si battono contro lo spreco. Tuttavia, i protagonisti di questa legge siamo tutti noi ha concluso Gadda - che nelle nostre abitudini di acquisto e consumo possiamo fare la differenza, evitando le scelte sbagliate, come ad esempio quelle dettate solo dall’estetica».
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