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"Tutti contro la Cina"
Dopo il G7, il vertice Nato sancisce la nuova linea Biden: Russia e Cina i "nemici" del nuovo corso mondiale. Vaccini come in Francia, Spagna e Germania, il governo tira dritto. Addio a Livio Caputo
Il Governo tira dritto. Le stesse Regioni che, prima della morte della giovane Camilla Canepa, avevano pompato gli AstraZeneca Open day per i giovani (Liguria, Campania, Lazio in testa) adesso vorrebbero ancora fare di testa loro. Sembra incredibile ma è così. La buona notizia tutto sommato viene dal ritmo delle vaccinazioni e soprattutto dai dati epidemiologici, davvero in picchiata. Ieri i decessi per Covid sono stati 36. Finito il coprifuoco per tre quarti degli italiani. Dalle 6 di ieri mattina alle 6 di questa mattina sono state fatte 489 mila 350 vaccinazioni, poco sotto l’obiettivo giornaliero. Il che significa che per ora anche senza AstraZeneca si può cercare di raggiungere l’obiettivo dell’immunità di gregge e che la maggior parte dei cittadini sceglie di essere vaccinata. A beneficio di tutti.
“Alle gegen China” titola il tedesco Die Welt, “Tutti contro la Cina”. Ieri riunione importante della Nato, l’organismo militare che Trump aveva messo in discussione e che invece Biden ha rivitalizzato. Le conclusioni del G7 hanno avuto subito un’attuazione “pratica”. Oggi poi il presidente Biden vedrà anche il presidente Putin. Anche il turco Erdogan era presente al vertice Nato e l’ immagine di lui quasi genuflesso di fronte al Presidente Usa, che l’ha incontrato, è più eloquente di ogni commento. La competizione/collaborazione con la Turchia ci tocca da vicino perché riguarda la Libia e il Mediterraneo. La Versione offre oggi qualche contributo dai diversi commenti per comprendere meglio i profondi cambiamenti del mondo post-sovranista. Non manca quello del cardinal Bassetti sui migranti del Mediterraneo.
Il racconto della politica italiana oggi si articola attraverso le varie città in cui ci si confronta per le amministrative. A Milano il centro destra soffre ancora, manca il candidato. A Torino l’alleanza Pd- 5 Stelle è in crisi, a Bologna si confronta contro la candidata di Renzi, mentre a Napoli si stringe intorno all’ex juventino Manfredi. Oggi Conte partirà proprio dal capoluogo partenopeo nel suo tour d’Italia da neo leader. Addio a Livio Caputo, una vita per il Giornale, da Montanelli fino a ieri. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Il vertice dell’alleanza atlantica militare è il tema principale per il Corriere della Sera: La Nato avverte Cina e Russia. Stessa scelta di Avvenire: Il ritorno della Nato. La campagna vaccinale resta l’argomento che catalizza l’attenzione di Repubblica: «Il mix dà più immunità». E della Stampa che pubblica un lungo forum con il Ministro della Salute: Speranza: Italia bianca grazie ai vaccini. Per Il Fatto: Vaccini nel marasma e nessun dato su AZ. Mentre il pessimismo di Quotidiano Nazionale è sulle mutazioni del virus: Variante Delta, incubo per l’Europa. La Verità si concentra su un’invettiva di Mario Giordano: Fanno test coi vaccini, non con le cure. Mentre Il Mattino sottolinea l’opposizione del Presidente della Regione Campania: Vaccini, l’altolà a De Luca. Il Domani tiene la sua linea razionale ed anti emotiva: Seconde dosi e variante Delta. Le due sfide del piano vaccinale dopo il delirio su AstraZeneca. Tre quotidiani scelgono temi economici per la loro apertura. Lo specializzato Sole 24 Ore: Consob: minaccia criptovalute. Il Messaggero che va sul lavoro: «Reddito, stretta sugli stagionali» e Libero che invece torna sul fisco: La sinistra chic chiede più tasse. Con una foto di Letta e Conte insieme, titolo politico per il Manifesto, che vede nel capoluogo dell’Emilia-Romagna la città chiave per l’alleanza Pd-5Stelle: La Comune di Bologna.
IL GOVERNO TIRA DRITTO, REGIONI IN ORDINE SPARSO
Il Governo tira dritto sul caso AstraZeneca, dopo le decisioni prese a livello centrale. La cronaca su Repubblica di Michele Bocci.
«Ieri sera l'Aifa ha reso nota la sua decisione di domenica, con la quale si autorizza formalmente la sostituzione e dove si parla di un maggiore frequenza di effetti collaterali lievi- moderati. Ecco il testo: «A fronte di un rilevante potenziamento della risposta anticorpale ottenuta con la prima dose, suggestivo di un effetto booster, il mix vaccinale ha presentato un profilo di reattogenicità che, seppure caratterizzato da una maggiore frequenza in termini di effetti collaterali locali e sistemici di grado lieve/moderato, è apparso nel complesso accettabile e gestibile». Il ministro alla Salute Roberto Speranza ha invitato le Regioni ad allinearsi. «Sulle questioni di natura sanitaria, le evidenze scientifiche vanno rispettate da tutte le Regioni. In queste ore ci sono interlocuzioni con la Campania. Le nostre indicazioni sono di natura perentoria e devono essere seguite. Non è un dibattito politico ma quello che dicono i nostri scienziati deve essere seguito erga omnes». Ci sono però ancora vari nodi da sciogliere. Il primo è la richiesta delle Regioni, anche di quelle che non faranno problemi ad adeguarsi (come Veneto, Piemonte e Toscana), di avere più dosi di vaccini a Rna messaggero. La Campania non è l'unica Regione a sollevare problemi. Il Lazio fin da subito ha posto la questione di coloro che non vogliono cambiare vaccino, ma preferirebbero fare comunque AstraZeneca anche per la seconda dose».
La Stampa intervista il ministro Speranza nel consueto forum del direttore Giannini.
«Speranza torna sulle polemiche legate al vaccino di AstraZeneca, «sul quale le indicazioni sono cambiate per l'evoluzione delle evidenze scientifiche», e sui nuovi attriti con le Regioni, che «sul "crossing vaccinale" devono adeguarsi alle nuove disposizioni, le regole valgono a livello nazionale». L'importante è che la campagna vaccinale non rallenti, «perché da quella dipende la nostra ripartenza». Ministro, la zona bianca ormai riguarda circa 40 milioni di italiani, le chiusure e le restrizioni sono servite? «Avere due terzi del Paese in zona bianca è il frutto delle misure rigorose adottate e della campagna vaccinale che procede con numeri molto buoni. Nell'ultima settimana abbiamo registrato 11mila nuovi casi, che prima contavamo in un giorno, e i ricoveri in terapia intensiva sono un sesto rispetto a poche settimane fa. Ma è necessario continuare sulla strada della prudenza e della gradualità, su questo punto c'è un'ampia condivisione anche tra i cittadini». Meno nella maggioranza di governo, dal centrodestra l'hanno accusata di essere il leader dei "chiusuristi", che uccidono l'economia. «Ciascuno risponde alla propria coscienza, io ho giurato sulla Costituzione di garantire il diritto alla salute delle persone. Ma trovo inaccettabile la contrapposizione tra ripartenza economica e battaglia sanitaria: vincere quest' ultima è la premessa per la ripresa». Dica la verità, si è sentito sempre "coperto" dal premier Draghi? «Sempre, c'è totale sintonia tra noi, ma devo dire che, nell'ambito del governo, ho riscontrato molta condivisione: solo su un decreto la Lega ha deciso di non votare. L'ho detto anche a Salvini, la prima regola per me è non fare politica sulla pandemia, in cerca di consenso. Non ci si può mettere a litigare sul numero delle persone sedute ai tavolini, facciamoci guidare dalla scienza».
Ma gli altri Paesi europei che fanno? Dobbiamo credere agli “scienziati” del governatore De Luca o guardare a quello che Francia, Spagna e Germania hanno deciso? Il Fatto racconta le scelte dei nostri vicini.
«In Francia la vaccinazione è aperta ai maggiori di 18 anni dal 31 maggio e da oggi viene estesa alla fascia 12-17 (solo con l'autorizzazione dei due genitori). Resta aperto il dibattito sull'utilità di immunizzare i bambini, meno dell'1% dei ricoveri e dei decessi. AstraZeneca resta vietato agli under 55. Chi l'ha ricevuto come prima dose può fare il richiamo con Pfizer o Moderna. L'epidemia cala e si ipotizza la fine dell'obbligo di mascherina all'aperto, ma ogni settimana si individuano nuovi cluster di variante "indiana". Per frenarne la diffusione, Parigi ha introdotto dal 26 maggio l'obbligo di quarantena per chi arriva dal Regno Unito. In Spagna Pfizer per under 60 che hanno avuto AstraZeneca. Seconda dose di Pfizer per tutti gli under 60 che abbiano ricevuto AstraZeneca prima dello stop Ema. In Spagna il ministero della Salute ha bloccato a livello nazionale i richiami con AstraZeneca e preferito la vaccinazione eterologa. Questo anche grazie allo studio dell'Istituto Carlos III sul mix, i cui risultati, il 18 maggio, hanno confermato l'efficacia del combinato Az e Pfizer. Chiunque voglia ricevere la seconda dose dello stesso vaccino può farlo, previa domanda e consenso informato specifico. Johnson & Johnson non è bloccato. Anzi, la Nazionale di calcio è stata vaccinata proprio con Janssen prima degli Europei. Quanto ai minorenni, la Spagna, dove fino a sabato erano state vaccinate con doppia dose 12 milioni e 250 mila persone, pari al 25,8% della popolazione e il 44,2% con una dose, sta valutando la possibilità di un anticipo anche su questa fascia d'età, prevista per settembre e per questo ha avviato il secondo studio del vaccino sui minori di 12 anni. In Germania il mix funziona meglio della doppia dose: AstraZeneca è stato somministrato alla popolazione adulta finché, ad aprile scorso, un documento della Commissione vaccinazione, ne ha limitato l'uso agli over 60, salvo previa e dettagliata consultazione medica. Secondo uno studio dell'università Saarland, chi ha avuto il mix AstraZeneca e Pfizer mostra un'immunità superiore a chi ha ricevuto due dosi dello stesso vaccino. L'approvazione dei vaccini sui minori è ancora oggetto di discussione: gli esperti hanno riferito di non possedere abbastanza dati a disposizione per raccomandare di vaccinare i bambini oltre i 12 anni. "Il virus non è scomparso" ha detto Merkel, il cui governo ha deciso di allentare le restrizioni dal prossimo primo luglio per i viaggi all'estero. Rimarranno in vigore le limitazioni di spostamento verso Stati dove si diffondono varianti: seppur rara, anche in Germania è presente la variante delta».
Alessandro Sallusti su Libero cerca di riportare la questione ad un minimo di razionalità:
«I dati su base mondiale dimostrano che tutti i vaccini - assunti sia singolarmente che in mix - sono sicuri e che i rarissimi incidenti sono dovuti a circostanze eccezionali o errori umani, come la mancata presa d'atto di patologie in corso, difficilmente ripetibili. Come per le riaperture, non si può ora che procedere per «rischio calcolato». Guai a fermare le macchine aspettando che la comunità scientifica trovi una unanimità di giudizio che non potrà mai esserci, perché ormai è chiaro che gli scienziati sono come i politici, egocentrici che litigano tra di loro in continuazione e pieni di pregiudizi. Faccio un esempio. Tre giorni fa il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore della Sanità è apparso in tv alle cinque di pomeriggio per dire che va benissimo usare peril richiamo un vaccino diverso da quello usato per la prima dose. Bene, due ore dopo, ospite dalla Gruber, il professor Andrea Crisanti dell'Università di Padova ha sostenuto l'esatto contrario. Mettiamoci nei panni di Draghi, o se volete di Speranza o ancora del generale Figliuolo. A chi dovrebbero dare retta, possono aspettare che i due si mettano d'accordo? Io penso di no, credo che il loro compito sia di vaccinare il più possibile, certo attenti a ciò che accade ma non inseguendo un inesistente rischio zero. L'unica cosa che davvero conta è arrivare alla famosa immunità di gregge prima che finisca l'effetto estate che come ormai accertato ostacola di suo la diffusione del virus. Ieri nuovo record: meno di mille positivi e solo 36 morti. Aspettando verità assolute andiamo avanti così, quelle relative stanno dando ottimi risultati».
LA NATO TORNA CENTRALE: CONTRO LA CINA (E LA RUSSIA)
Nell’editoriale del Corriere della Sera Paolo Lepri sostiene che quello della Nato è un “gradito ritorno”, dopo che Trump l’aveva messa fortemente in crisi.
«La Nato serve ancora e servirà nel futuro. Né più né meno come è accaduto in un recente passato che non è passato del tutto. Ai suoi confini, infatti, c'è la «minaccia» della Russia. I «Trenta» (da ieri siede al tavolo di Bruxelles anche la Macedonia del Nord) condannano le «politiche aggressive» di Vladimir Putin, sanno benissimo che cosa si pensa al Cremlino dei rapporti Est-Ovest e del confronto tra liberalismo e autoritarismo nelle relazioni internazionali. I pericoli sono molti e la guardia deve essere alta. Ma sarebbe sbagliato fermarsi a Mosca. Un'alleanza strategica ha il compito di guardare lontano, anche molto più in là dei suoi confini, in un mondo dove si muove con determinazione un Paese come la Cina che pone «sfide alla sicurezza, alla prosperità e ai valori occidentali». Nel 2010, anno dell'ultima versione di quel «concetto strategico» che nei prossimi dodici mesi verrà riaggiornato, la Russia era citata dalla Nato come «possibile partner» e la Repubblica popolare era appena menzionata. Ora tutto è diverso. Cambiare linguaggio è già un segno di vitalità, voler difendere la nostra libertà è qualcosa di più. Con lo stesso spirito, forse, che ha animato gli anni più gloriosi di un'organizzazione che contribuì a cambiare il corso della storia. Uno spirito presente, adesso, anche nelle parole del presidente del Consiglio Mario Draghi a conclusione del vertice di ieri: «Bisogna essere pronti ad affrontare tutti coloro che non condividono il nostro attaccamento all'ordine internazionale basato sulle regole e che sono una minaccia per le nostre democrazie». Certo, ci è voluto tutto l'impegno del presidente americano, che ha messo subito in rilievo a Bruxelles la «fondamentale importanza» della Nato per gli interessi statunitensi. Joe Biden ha fatto di tutto, in queste settimane, per rimettere insieme i cocci provocati dalle intemperanze isolazioniste del suo predecessore e dalla sua viscerale antipatia nei confronti dell'Europa. Il rapporto transatlantico era stato compromesso da tensioni così forti che solo il senso di responsabilità e l'appartenenza politico-culturale ad una comunità indivisibile hanno evitato la catastrofe. Le accuse di Trump (chi non ricorda il viaggio a Bruxelles del 2017, quando «The Donald» pretese il denaro dei partner?) rischiavano di provocare una reazione a catena di lungo termine legata proprio alla percezione della stessa utilità dell'Alleanza. A quell'epoca era normale pensare che l'Europa dovesse «fare da sola». O che potesse andare ancora più in ordine sparso, al contrario, nel rapporto con i protagonisti di sfide che finivano per essere sottovalutate. Ora, come dicevamo, il rischio di gettare la spugna troppo presto, mentre Russia e Cina tentano di imporre le loro priorità, è stato in gran parte ridimensionato. L'articolo 5 sulla difesa comune (che Trump si rifiutò addirittura di sostenere e che il suo successore ha definito invece «un obbligo sacro») potrà essere allargato agli attacchi cibernetici. Nelle 45 pagine del comunicato finale, inoltre, si elencano nuove minacce da affrontare tutti insieme per preservare la deterrenza: intelligenza artificiale, disinformazione, nuove tecnologie missilistiche. Ma con tutto il rispetto per questi importanti campi d'azione dove è bene dimostrare efficienza collettiva, la Nato sembra voler dire soprattutto, tra le righe dei 79 paragrafi licenziati ieri dai capi di Stato e di governo, che non ha nessuna intenzione di diventare irrilevante».
Interessante approfondimento di Federico Fubini sempre sul Corriere a proposito della “guerra commerciale” con la Cina. Su minerali e nuove tecnologie Biden ha in mano un rapporto inquietante.
«Ci sono passaggi che non determinano un cambio d'epoca, ma lo riassumono in pochi giorni. Riletto tra qualche anno, il G7 della Cornovaglia potrebbe essere uno di quelli e non solo perché - fra mille distinguo europei - il vertice ha indicato nella Cina il nuovo avversario delle democrazie avanzate. Meno esplicita, ma più condivisa, è la fine del consenso del 1989: la certezza, trionfante alla fine della guerra fredda, che il mercato lasciato a sé stesso avrebbe garantito l'equilibrio sociale e il primato geopolitico dell'Occidente e che per questo bastava affidarsi alle scelte incontrastate delle imprese. Anche quando puntano sul basso costo e delocalizzano, non investono a sufficienza o alimentano un carosello di paradisi fiscali per arrivare a aliquote fiscali risibili. Dopo il passaggio di Joe Biden dalla Cornovaglia, quel consenso è in pezzi. E lo è in un contesto non populista, non sciovinista, ma moderato. Le conseguenze economiche di questo G7 potrebbero dunque rivelarsi profonde e del tutto volute dal presidente degli Stati Uniti anche per l'Europa (la quale in realtà sta già cercando di imboccare la stessa strada). Gli alleati lavoreranno per assicurarsi nuove catene del valore industriali - e proteggere le vecchie - limitando una dipendenza dalla Cina ormai giudicata pericolosa. Biden è arrivato sulla costa inglese pochi giorni dopo aver ricevuto un rapporto di oltre 250 pagine commissionato al suo assistente per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e al primo consigliere economico, Brian Deese. È un quadro della situazione degli Stati Uniti in quattro filiere strategiche: semiconduttori, batterie per i motori elettrici, minerali e materiali d'importanza critica (incluse le terre rare), oltre ai farmaci e ai principi attivi farmaceutici. La conclusione è che serve una strategia di governo - inclusi sussidi per oltre cento miliardi di dollari - per spezzare la dipendenza dell'Occidente dalla Cina e rivitalizzare il manifatturiero alla frontiera tecnologica. Nel rapporto la contestazione nei confronti di Pechino è diretta: «La Cina emerge per l'uso aggressivo di misure - molte delle quali ben fuori dalle pratiche commerciali accettate nel mondo - per catturare quote di mercato globale nelle catene del valore d'importanza critica». (…) A partire dal settore oggi più in tensione: i semiconduttori integrati ormai in ogni telefono, auto, sistema d'arma e nelle reti dell'intelligenza artificiale. Lo studio dei consiglieri di Biden constata che in trent' anni la quota americana del mercato dei chip è scesa dal 37% al 12%. L'America è rimasta indietro anche sulla frontiera dei chip più efficienti, quelli da sette, cinque o tre nanometri (milionesimi di millimetri) necessari agli usi più strategici. La Tsmc produce il 92% delle forniture mondiali di questi semiconduttori da Taiwan, uno Stato non riconosciuto da Pechino come indipendente e potenzialmente esposto in ogni momento a un'invasione. Costruire una sola fabbrica d'avanguardia per produrre questi chip può costa 20 miliardi di dollari, ma da 2014 la Cina sta investendo senza risparmio. Il rapporto commissionato da Biden stima sussidi pubblici del regime (formalmente) comunista per oltre 200 miliardi. (…) Preoccupata è anche l'analisi di Sullivan e Deese sui materiali e i minerali necessari in tutte le tecnologie decisive di questi anni. La Cina è il solo Paese al mondo che controlli completamente tutti gli stadi della catena del neodimio, un metallo appartenente al gruppo delle terre rare che è presente in hard disk, motori automobilistici, turbine a vento, missili teleguidati o macchine per la risonanza magnetica. Il rapporto raccomanda un'indagine federale sulle condizioni di lavoro e sui livelli di inquinamento grazie ai quali Pechino fa produrre questo materiale. La Cina però - si legge - controlla anche il 55% della capacità mondiale di estrazione delle terre rare in genere e l'85% della loro (inquinante) raffinazione. Il dominio della Cina è poi altrettanto vasto, anche nelle miniere del Congo o dello Zambia, sul cobalto necessario alle turbine a gas e nei motori degli aerei o nel litio delle batterie per auto elettriche. Qui la reazione della Casa Bianca prevede dazi contro i produttori che non rispettano gli standard ambientali. Proprio le batterie ad alta capacità, oggi in gran parte di fabbricazione cinese, sono l'altro grande tallone d'Achille. Su questo la Casa Bianca propone di investire 50 miliardi di denaro pubblico».
La collaborazione/competizione, dentro la Nato, con l’autocrate Erdogan ha riflessi strategici e diplomatici anche qui, come per la Cina, legati alle nuove tecnologie militari. In particolare ai droni. Massimo Gaggi per il Corriere.
«La Turchia è nelle mani di un autocrate; ma l'«osservata speciale» del vertice Nato di ieri è anche una potenza regionale che espande la sua influenza usando in modo spregiudicato la tecnologia. Quella dei droni, sviluppata in proprio dopo l'iniziale assistenza di Israele; e quella missilistica, ottenuta dai russi. «Usando la tecnologia dei droni che gli consente di sorvegliare, colpire, proteggere, in un'area vastissima che va dalla Libia alla Somalia, passando per Siria, Ucraina e il Nagorno-Karabakh, teatro del conflitto tra Azerbaigian e Armenia, Recep Tayyip Erdogan ha ormai ambizioni da potenza regionale», ha spiegato lo storico americano Francis Fukuyama. «E questi droni poco costosi e senza piloti che rischiano la vita, capaci di distruggere molti mezzi blindati, possono cambiare radicalmente la concezione strategica della guerra di terra così come l'introduzione delle portaerei mise fine all'era delle flotte con al loro centro le corazzate: potenti ma vulnerabili». Qualche settimana fa, in margine a un incontro a Stanford, nella sua università, per un'intervista su Biden e le incognite del dopo Trump (pubblicata allora sul Corriere), Fukuyama si era soffermato proprio sul ruolo geostrategico della Turchia. E aveva indicato nei droni, da lui studiati fin dal 2010 (prima per hobby, poi per la loro importanza militare) una novità davvero rivoluzionaria. Fukuyama, che evidentemente dispone di fonti militari, illustra la potenza di questi velivoli micidiali con un esempio: nel conflitto del Nagorno-Karabakh i robot volanti turchi hanno distrutto 200 carri armati, 182 pezzi d'artiglieria e 90 autoblindo. Ora, racconta ancora lo storico, la Turchia sta vendendo i suoi droni (costruiti in casa dopo che Israele ha smesso di vendergli i suoi) anche all'Ucraina che vuole usarli contro i ribelli filorussi. Ieri il presidente americano Joe Biden ha incontrato Erdogan a margine del vertice Nato di Bruxelles. La Turchia è finita nel mirino di Washington soprattutto per lo scarso rispetto dei diritti umani e per l'acquisto di batterie di missili russi S-400. Durissima la reazione Usa, e non solo per l'apertura di un alleato atlantico verso Mosca: il timore è che l'intelligenza artificiale con capacità predittive del sistema di guida di questi missili sofisticati venga usata dai russi per carpire i segreti dell'F-35, il caccia «invisibile» più avanzato costruito dagli americani. Timori alimentati dal fatto che la manutenzione degli S-400 turchi è fatta da tecnici russi. Washington ha così escluso Ankara dal programma F-35. Erdogan, che si è esposto troppo all'estero mentre all'interno è in difficoltà per l'impatto economico della pandemia, ha bisogno degli investimenti Usa e quindi cerca di ricucire i rapporti con la Casa Bianca».
Per noi italiani l’interlocuzione con Erdogan significa soprattutto Libia e politica nel Mediterraneo. Claudio Tito su Repubblica:
«La crisi in Libia ha implicazioni dirette per la stabilità regionale e la sicurezza di tutti gli alleati». Nel documento finale del vertice della Nato c'è un passaggio sul Paese nordafricano che segna un cambio di passo rispetto al recente passato. L'Alleanza Atlantica torna ad occuparsi di Tripoli e lo fa mettendo sul tavolo l'interesse di tutti i partner. Si tratta di un dossier fondamentale per l'Italia. Il presidente del consiglio Draghi insiste su questo punto dal suo insediamento. Lo fa per la vicinanza geografica con la Libia ma soprattutto perché quello rappresenta il principale e più gravoso corridoio migratorio verso il nostro Paese dall'Africa centrale e dal Medio Oriente. Per Palazzo Chigi, il riferimento esplicito alla situazione di Tripoli rappresenta un punto messo a segno. Non è un caso che lo stesso Segretario Generale del Patto Stoltenberg, nella conferenza stampa finale, abbia confermato esplicitamente che uno degli argomenti trattati sia stato l'emergenza nel fronte sud del Mediterraneo e nel Sahel (altra area decisiva per quanto riguarda i flussi di migranti). Nel documento finale il riferimento alla Libia non è generico, ma illumina la necessità di stabilizzare l'area, di favorire elezioni nazionali e di esplicitare l'endorsement per il governo ad in interim di Unità nazionale. Del resto la Nato sta progressivamente ampliando il suo raggio di azione. Da alleanza esclusivamente difensiva sta evolvendo in soggetto in grado di intervenire nelle gestioni delle crisi e nella sicurezza cooperativa. In questo contesto è decisivo il colloquio che si è svolto, alla fine del summit, tra il presidente americano Biden e quello turco Erdogan. La formula con cui è stato organizzato, ammette un riconoscimento da parte americana del leader di Ankara. Un colloquio faccia a faccia, senza testimoni se non gli interpreti. Ma nello stesso tempo è anche il contesto in cui si esprimono le linee più dure. Biden, infatti, aveva almeno due questioni da sottoporre al capo turco: l'acquisto dei missili russi S 400 e, appunto, l'eccesso di protagonismo in Libia e in Siria. Il primo tema è evidente: un partner della Nato che si rivolge per le armi al nemico storico. Una scelta che Washington non può certo accettare. Il secondo fa parte della nuova politica rispetto a quella adottata da Trump, in Nord Africa e Medio Oriente. Biden si è sostanzialmente fatto portavoce delle preoccupazioni europee».
MA IL PAPA RICORDA IL “CIMITERO D’EUROPA”
Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei Vescovi italiani, sulla prima pagina di Avvenire, ricorda che nessuna strategia geo-politica può dimenticare che il Mediterraneo è il cimitero d’Europa, come ha detto il Papa all’Angelus di domenica.
«Il Mediterraneo è diventato il cimitero più grande d'Europa»: le parole pronunciate dal Papa all'Angelus, con le quali ha ricordato una delle più silenziose e drammatiche realtà del nostro tempo, ci interrogano profondamente. Nel mondo d'oggi, infatti, quasi più nulla sembra scalfire l'animo umano. Persino la morte di uomini, donne e bambini al largo delle nostre coste non sembrano turbare più di tanto la quotidianità del vivere. Eppure la cerimonia svoltasi ad Augusta in Sicilia evocata da Francesco a San Pietro, in cui è stato esposto il relitto del peschereccio che il 18 aprile 2015 naufragò nel Canale di Sicilia con oltre mille migranti, ha proprio questo obiettivo: scuoterci da quell'ignavo torpore in cui la civiltà occidentale si è rifugiata per scappare da se stessa e dalle proprie responsabilità. «Questo simbolo delle tragedie», ha concluso il Papa, deve «interpellare le coscienze» e favorire «la crescita di un'umanità più solidale che abbatta il muro dell'indifferenza». Queste parole portano alla luce alcune grandi questioni. In particolar modo, la centralità del Mediterraneo nel mondo contemporaneo. Forse mai come oggi, infatti, il Mediterraneo non è più soltanto un bacino marittimo che bagna tre continenti spesso in conflitto tra loro, ma un angolo visuale fondamentale da cui guardare il mondo intero. Questo mare è solcato da navi mercantili che viaggiano in tutte le direzioni; è caratterizzato da importanti centri strategici per le risorse energetiche del pianeta; è attraversato da migliaia di chilometri di cavi sottomarini che permettono le comunicazioni; e, infine, è drammaticamente percorso da uomini e donne migranti che provengono dal Nordafrica, dall'Africa subsahariana, dal Corno d'Africa, dal Vicino Oriente e dall'Asia centrale. La centralità del Mediterraneo è segnata, dunque, da una pervasiva globalizzazione economica che si tramuta però in una dolorosa indifferenza quando il focus si sposta sui poveri e sui migranti. Questo strabismo concettuale non solo non è evangelicamente accettabile, ma è estremamente carico di incognite e di rischi per il futuro. Chiudere gli occhi davanti ai «popoli della fame» significa, prima di tutto, chiudere gli occhi a Cristo e a quell'umanità sofferente di cui da sempre si prende cura lo sguardo del Samaritano. In secondo luogo, voltare lo sguardo oggi alle migrazioni internazionali significa non affrontare concretamente una delle più grandi questioni sociali di domani: come si governa la mobilità umana? Come combattere lo sfruttamento della tratta? Come integrare queste persone nelle società d'accoglienza?»
A BOLOGNA LETTA E CONTE CONTRO RENZI
La politica italiana viaggia fra le città italiane. Ogni situazione locale rispecchia un nodo politico. Il Manifesto si sofferma su Bologna:
«Dopo il flop dell'alleanza nella Capitale e dopo il patto di Napoli tra Pd e M5S, in queste ore i due leader Letta e Conte si stiano prodigando per sostenere sotto le due torri l'assessore Matteo Lepore, candidato Pd sfidato ai gazebo dalla renziana Isabella Conti, che ha ottenuto l'appoggio di dirigenti di peso del Pd e rischia di trascinare alle primarie un pezzo di elettori di centrodestra. «Il centrodestra sta cercando di inquinare le primarie», l'allarme lanciato da Lepore. «Vedo troppi esponenti di quelle forze politiche che dicono che verranno a votare ai gazebo». La sfida di Bologna non è solo tra due persone, ma tra due proposte politiche incompatibili: Lepore ha raccolto con sé tutta la sinistra e il M5S, partiti che mai sosterrebbero Conti alle elezioni vere. La sindaca di San Lazzaro, dal canto suo, ha in mente un progetto civico, senza paletti di partito, piace a destra e, se dovesse vincere, per il Pd sarebbe molto complicato sostenerla alle elezioni. Considerato anche che in nessuna delle città al voto Italia viva è alleata del Pd, meno che mai a livello nazionale. Un pasticcio. Di fatto le primarie di Bologna sono diventate un test nazionale per la coalizione che Letta e Conte hanno in mente a livello nazionale. E la partita si è fatta così delicata che persino il leader M5S è sceso in campo con una lettera al Carlino, schierando il M5S per Lepore. «Sono fortemente convinto che a Bologna ci siano le condizioni migliori per sviluppare questo laboratorio politico basato sul dialogo e la collaborazione fra M5S, Pd, la lista Coraggiosa e le altre civiche che hanno aderito a questo progetto. Il terreno è fertile e i tempi sono maturi», scrive Conte. Secondo lui, l'unico candidato «credibile» per questa operazione è Lepore, di qui «il sostegno convinto» dopo aver fatto «un grande lavoro di avvicinamento e di confronto su importanti temi che hanno posto le basi per una solida coalizione». «Un onore il suo sostegno, Bologna contribuirà a rafforzare il campo nazionale dei progressisti e dei democratici», la reazione di Lepore. «Anomalo l'intervento di Conte, M5S non partecipa alle primarie, i bolognesi non sono cavie da laboratorio», la replica di Conti. Letta oggi sarà in città per Lepore. «La sua forza è avere fatto due cose significative: è stato un grande interprete del rilancio delle periferie, ed è stato un grande testimonial del turismo a Bologna. I due temi mettono insieme l'innovazione e la coesione sociale, sarà un ottimo sindaco», dice il leader Pd. Anche Nicola Zingaretti si schiera con Lepore: «Bologna ha bisogno di persone come te che conoscono e vivono la città da sempre e da molti anni sono impegnati per migliorarla costantemente». C'è dunque un asse di ferro Pd -5 stelle contro i renziani che riapre la ferita della caduta del governo Conte 2».
A NAPOLI CI SARÀ CONTE
Se Letta oggi sarà a Bologna, Conte sarà a Napoli. Anticipa la sua presenza attraverso un’intervista sul Mattino.
«Questa mattina Giuseppe Conte sarà a Napoli per la sua prima uscita da leader in pectore del nuovo Movimento Cinquestelle. Un debutto per sostenere la candidatura a sindaco dell'ex ministro Gaetano Manfredi, unico nome nelle grandi città al voto su cui M5S e Pd hanno trovato un accordo. Come dobbiamo chiamarla? Presidente? Avvocato? Segretario? Capo politico? «Giuseppe Conte. Io sono un cittadino in procinto di diventare leader dei Cinquestelle, ovviamente se gli iscritti lo vorranno». Perché ha scelto Napoli per il suo debutto politico da leader dei 5Stelle? «A Napoli il Movimento, insieme al PD e alle altre forze progressiste, ha saputo individuare un progetto forte per la città. Gaetano Manfredi è apprezzato e stimato da tanti. Vicino alla città e al bisogno dei napoletani. E poi chi ama l'Italia non può non amare Napoli, che deve recuperare la sua vocazione europea e il suo ruolo di grande capitale del Mediterraneo, snodo decisivo del tessuto produttivo nazionale e uno dei fiori all'occhiello del nostro patrimonio culturale e artistico». Siete riusciti a stipulare l'alleanza solo a Napoli, perché altrove, come a Roma, Torino e Milano non avete ottenuto lo stesso risultato? «Non possiamo affidarci a fusioni a freddo o a processi calati dall'alto. Le intese politiche si realizzano sui territori trovando un terreno comune e perseguendo obiettivi condivisi». In Campania ci sono forti resistenze all'alleanza anche a Benevento Caserta Salerno così come in Calabria. Non è che questo patto con il Pd convince soprattutto i vertici del Movimento (lei, Di Maio e Fico) e i rappresentanti romani mentre piace molto meno alla base e ai rappresentanti sui territori? «Le sensibilità degli attivisti territoriali vanno ascoltate, ma è tempo di mettere da parte le pregiudiziali di passate stagioni. Abbiamo il dovere di aprirci a un ascolto più ampio, a un dialogo più serrato con la società civile, uscendo da una dimensione difensiva. Dobbiamo riossigenarci scrostando vecchie ruggini e diffidenze. Ora è il momento del cambiamento, di incidere più a fondo nelle amministrazioni territoriali, senza nessuna negoziazione con i nostri principi e i nostri fondamentali valori».
A MILANO LE SPINE DEL CENTRO DESTRA
Maurizio Giannattasio sul Corriere racconta gli ultimi movimenti nel centro destra per trovare un candidato sindaco per Milano.
«In settimana ci sarà la chiusura unitaria di tutte le candidature nelle realtà al voto». I toni di Matteo Salvini sono fiduciosi ma a meno di ventiquattrore dall'ennesimo vertice annunciato ma non ancora confermato, il centrodestra non ha ancora trovato il cavallo su cui puntare per sfidare Beppe Sala. Ieri il leader della Lega insisteva sul binomio con Gabriele Albertini nel ruolo di vicesindaco e questo significa che Matteo Salvini sta ancora lavorando su una candidatura civica, visto che l'ex sindaco di Milano ha dato la sua disponibilità ad affiancare il candidato a patto che non sia il «politico» Maurizio Lupi. Antiche ruggini, mai superate. Ma è altrettanto vero che sui nomi dei civici individuati in queste settimane si addensano sempre nuove difficoltà. La corsa sembra circoscritta a due persone. In pole position Oscar di Montigny, manager e direttore marketing e comunicazione di Banca Mediolanum, nonché genero di Ennio Doris che ha dato la sua disponibilità di massima, ma vuole condividere la scelta in famiglia prima di sciogliere la riserva. Su di Montigny pesano però i dubbi di Silvio Berlusconi che se da un lato non potrebbe dire no al genero di Doris, dall'altra ritiene che una probabile sconfitta gli verrebbe ascritta direttamente. Il ticket potrebbe allora essere formato da Annarosa Racca e Albertini, con la candidatura della presidente di Federfarma lombardia, incappata però in un'indagine per diffamazione nei confronti di Marco Cossolo, il candidato che le contendeva la presidenza nazionale dell'associazione. Secondo fonti leghiste, Racca starebbe preparando una controquerela e l'inchiesta non sembra preoccupare più di tanto il centrodestra. Gli altri nomi restano sullo sfondo. (…) «Avendo chiuso su Roma con due civici - aveva detto Ignazio La Russa - non c'è più bisogno di fare la stessa scelta su Milano». E perché Lupi avrebbe sia il gradimento di Berlusconi sia il nullaosta da parte di Meloni, oltre a dei sondaggi che indicano nell'ex ministro alle Infrastrutture un candidato in grado di giocarsi la partita. Quindi, ragionano i bookmaker della politica, Salvini si trova di fronte a due opzioni, entrambe al 50 per cento. Scegliere un civico, come ribadito dai leghisti, che a oggi però sembra destinato alla sconfitta. O scegliere un politico che farebbe sì molta fatica contro Sala, ma comunque se la giocherebbe».
ROMA, LETTA VA A TORBELLA
Maria Teresa Meli racconta l’uscita di Enrico Letta nella Capitale, dove i quattro candidati sono ai blocchi di partenza:
«Enrico Letta va in trasferta. Il segretario dem ha infatti deciso di far giocare il Pd fuori casa. Cioè nelle periferie: «Dobbiamo smettere di essere il partito che va bene nelle Ztl, mentre andiamo in sofferenza negli altri quartieri». E così quando Roberto Gualtieri gli chiede di accompagnarlo a Tor Bella Monaca Letta accetta volentieri, benché ad accogliere i due non ci siano le masse, bensì una cinquantina di persone. Tutti militanti, età media quella dell'elettorato pd, cioè altina. Però il segretario, che arriva al teatro di Torbella (i romani la chiamano così) senza cravatta ma con la giacca non si scoraggia, anche perché, spiegano al Nazareno «era un incontro privato, non un comizio»: «Facile - dice - andare a fare bagni di folla o cercare gli applausi. L'unica vera strada è accettare le sfide difficili. Per riconquistare questi territori dobbiamo prima di tutto ascoltarli, esserci, senza lo sguardo dall'alto in basso di chi considera il disagio un danno collaterale dello sviluppo». I militanti salutano, si fanno i selfie e qualcuno grida: «Però poi non è che non vi fate più vedere? Per vincere a Roma dovete vincere qui». Impresa alquanto ardua dal momento che nel sesto municipio (quello che comprende Tor Bella Monaca) nelle ultime elezioni il candidato pd è arrivato terzo e non è nemmeno andato al ballottaggio. Del resto è la mission degli ultimi segretari dem quella di riconquistare le periferie perdute. Ci aveva provato il predecessore di Letta, Nicola Zingaretti, partendo da Casal Bruciato, quando venne eletto».
5 STELLE, L’EVOLUZIONE SECONDO FELTRI
Giuseppe Conte sta per presentare i caratteri del nuovo Movimento. Mattia Feltri sulla prima pagina della Stampa ironizza sull’evoluzione dei grillini.
«Pensate al Movimento cinque stelle di qualche anno fa. Non possedeva la sede, non esisteva il leader, aveva il non Statuto, uno valeva uno, era contro la Nato, era contro l'Europa, intendeva uscire dall'euro, era nemico delle banche, era no Tav, era no Tap, era no vax, le riunioni soltanto in streaming, il suo guru era Casaleggio, lanciava la piattaforma Rousseau, la finanziava con una quota degli stipendi, la utilizzava per la democrazia diretta, era il mezzo per promuovere le leggi volute dai cittadini, riteneva indegno il solo pensiero di allearsi con altri partiti, era per il limite del doppio mandato, era per l'abolizione delle auto blu, era per l'abolizione dei cambi di casacca, soprattutto aveva un garante: Beppe Grillo. Pensate ora al Movimento cinque stelle di oggi. Presto possederà una sede, ha alternato svariati leader unici o collegiali, scriverà statuti e carte etiche, uno non vale più uno, è a favore della Nato, è a favore dell'Europa, è a favore dell'euro, è al governo con l'ex presidente della Banca centrale europea, ha detto sì alla Tav, ha detto sì alla Tap, è per i vaccini, non fa riunioni in streaming da lustri, Casaleggio non c'è più, la piattaforma Rousseau non c'è più, da tempo non la finanziava, da tempo non la usava per la democrazia diretta, non ha mai promosso leggi volute dai cittadini, si è alleata con qualsiasi partito rappresentato in Parlamento (tranne F.lli d'Italia), è per la deroga al doppio mandato, viaggia solo in auto blu, ha cambiato tutte le maggioranze possibili, però continua ad avere un garante: Beppe Grillo. Come si dice? Un uomo, una garanzia… »
ADDIO A LIVIO CAPUTO
Livio Caputo, direttore ad interim del Giornale, è scomparso proprio nel giorno in cui Augusto Minzolini ha preso la direzione del quotidiano milanese. Francesco Maria Del Vigo e Marco Zucchetti lo ricordano così:
«Se ne va l'ultimo della generazione di campioni che hanno contribuito a far sorgere, e poi a rendere sempre più forte, la voce liberale e moderata dell'Italia produttiva, fieramente occidentale, geneticamente anti-comunista: questo Giornale. All'interno trovate i ricordi di chi lo ha conosciuto meglio di noi, troppo acerbi per aver condiviso con lui la vita di redazione, non per ammirarne l'innato stile, la visione internazionale, la grandezza di inviato, l'enorme amore per la sua testata. Ed è proprio questo suo senso di appartenenza che lo ha portato - già gravemente malato nel fisico ma ancora splendidamente lucido nella mente - ad accettare l'incarico di direttore responsabile ad interim del Giornale un mese fa: «Sono commosso che me lo abbiate chiesto: per me è l'ultimo onore», ci disse. In queste settimane, Livio è stata una presenza saggia che ci ha accompagnati e indirizzati al timone del Giornale. Lo scambio di opinioni con lui è stato un privilegio e - oltre alla riconoscenza per l'aiuto e il supporto - porteremo con noi una lezione: «Pensate sempre a quello che interessa davvero al lettore. Il Giornale non è solo un quotidiano, è una famiglia». Se n'è andato nel giorno in cui ha consegnato la guida del Giornale nelle mani del nuovo direttore Augusto Minzolini, che si insedierà oggi. Ci piace pensare che abbia stretto un patto con il destino affinché gli permettesse di portare a casa l'ultimo servizio. Come sempre, lo ha fatto da fuoriclasse. Grazie, direttore».
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.