La Versione di Banfi

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Tutti pazzi per la guerra

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Tutti pazzi per la guerra

"Terza guerra mondiale" evocata a Londra, Kiev e Mosca. Ieri varata l'Alleanza anti russa nel vertice di 42 Paesi della Nato. Fallisce Guterres (Onu) con Putin. Scholz manda i panzer ma vuole il gas

Alessandro Banfi
Apr 27, 2022
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Tutti pazzi per la guerra

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In un solo giorno da tre capitali, Londra, Kiev e Mosca, è rimbalzata l’evocazione della “Terza guerra mondiale”. Sembra che il mondo sia attirato da quella che il New York Times definisce oggi in prima pagina “a risky call” una rischiosa chiamata alle armi. A Ramstein in Germania si sono riuniti, sotto la regia del capo del Pentagono il generale Lloyd Austin e del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, i rappresentanti di 42 Paesi che vogliono sostenere la resistenza ucraina con nuovi armamenti pesanti. I giornali italiani esultano: nasce l’Alleanza militare contro il Male. Come scrive Repubblica l’occasione ha «il forte valore anche simbolico della nascita di una "Nato globale" per sostenere la guerra di liberazione in Ucraina e rappresentare nel prossimo futuro l'architrave di sicurezza della sempre più necessaria Alleanza fra le Democrazie».

Ieri è apparsa purtroppo infruttuosa l’iniziativa del segretario generale dell’Onu António Guterres. Guterres ha incontrato al Cremlino Vladimir Putin, che ha confermato come ogni trattativa sia impossibile senza riconoscere l’autonomia del Donbass e della Crimea. Per gli ucraini l’integrità territoriale è invece sacra e non contendibile. Sempre ieri grande tensione tra Londra e Mosca: gli inglesi hanno rivendicato, col loro ministro della Difesa, il diritto di colpire con le proprie armi, date agli ucraini, il territorio russo, i russi hanno minacciato che potrebbero fare lo stesso coi Paesi Nato.

Sul campo bellico, dopo le parole di Putin, ci sono state nuove esplosioni in Transnistria, lo Stato filo russo della Moldavia riconosciuto solo da Mosca. Sarebbe il primo contagio della guerra fuori dai confini ucraino e russo, il che preoccupa. Gli asserragliati dell’acciaieria di Mariupol resistono, mentre nel Donbass si moltiplicano i bombardamenti.

Sul fronte economico due novità importanti: da oggi la Russia non fornirà più gas alla Polonia e alla Bulgaria, perché non avrebbero pagato le forniture in rubli. La Germania, come conferma Olaf Scholz in un’intervista pubblicata in Italia dalla Stampa, continua ad opporsi fermamente all’embargo totale del gas russo. Accetta di spedire i panzer, ma non acconsente alla richiesta di rappresaglia economica che proviene da Kiev. In sede Ue per ora slitta il sesto pacchetto di sanzioni.

E da noi? Giuseppe Conte ha  molti dubbi sull’invio di nuove armi pesanti all’Ucraina e chiede un dibattito parlamentare. La Camera ha approvato la riforma del Csm. Ora il testo passa al Senato, la ministra di Grazia e Giustizia Marta Cartabia è soddisfatta. L’Associazione nazionale Magistrati deve valutare se indire uno sciopero. È morta all’età di 100 anni la vedova Almirante, Donna Assunta, che non aveva mai accettato la svolta di Fiuggi.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae l’enorme testa dell'operaio russo caduta per terra, piegata di lato, il collo di bronzo spezzato. È stato il primo pezzo a essere demolito del monumento dedicato all’ amicizia tra Russia e Ucraina, nel pieno centro di Kiev. Il monumento alto 8 metri, costruito nel 1982, raffigurava un lavoratore russo e uno ucraino che insieme sorreggono la stella dell'Ordine sovietico dell'amicizia dei popoli. Ora è in demolizione per ordine dello Stato ucraino.

Foto Ansa/Laurence Figà Talamanca

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Le due parole che si rincorrono nei titoli dei quotidiani stamattina sono “guerra” e “minaccia”. Per il Corriere della Sera gli aiuti dell’Occidente agli ucraini scatenano Mosca: Armi a Kiev, Putin minaccia. La Repubblica attribuisce anche ai Paesi atlantici pesanti intenzioni: Nato-Russia. Minacce di guerra. La Stampa celebra il vertice militare in Germania: Occidente unito contro Mosca. Per Avvenire è la nuova pandemia mondiale: La guerra, virus che infetta. Anche il Domani ammette: Ora è davvero la nostra guerra: la Nato diventa l’arsenale dell’Ucraina. Il Giornale sintetizza così: «Colpite la Russia». Il Quotidiano Nazionale è preoccupato: Ora si parla di terza guerra mondiale. Il Manifesto avverte: Roulette russa. Il Fatto cita Londra: “Terza guerra mondiale”. Ma l’Italia con chi sta? Il Mattino attribuisce a Mosca le colpe: Putin, minacce e ricatti. La Verità denuncia: Ci portano alla guerra diretta con la Russia. Libero polemizza con i 5 Stelle: Putin ci minaccia, Grillo ci disarma. Il Messaggero dà notizia del rubinetto russo chiuso per Polonia e Bulgaria: Gas, primi blocchi da Mosca. Mentre il Sole 24 Ore mette in secondo piano il conflitto per una polemica frontale contro il ministro del Lavoro Andrea Orlando: Le imprese: no al ricatto del ministro.

VERTICE NATO A RAMSTEIN. L’ALLEANZA ANTI RUSSA

Si sono riuniti in Germania a Ramstein i ministri della Difesa di 42 Paesi attorno al generale Lloyd Austin, capo del Pentagono, e al Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. C’è euforia nelle cronache di molti giornali per la formazione di questa grande alleanza occidentale contro il Nemico Putin. Anche la Germania si è piegata: manderà i suoi panzer a Kiev. La cronaca di Cosimo Caridi e Wanda Marra per Il Fatto:

«I ministri della Difesa di oltre 40 Paesi si sono incontrati nella base militare statunitense di Ramstein, nella Germania occidentale. A fare gli onori di casa c'era Llyod Austin, segretario della Difesa Usa, accompagnato dal Segretario della Nato, Jens Stoltenberg. Ma l'incontro non si è svolto sotto il nome dell'alleanza atlantica. Erano presenti 14 Paesi non membri, tra cui Svezia, Finlandia, Israele, Giappone, Australia, Qatar, Kenya, Marocco. Lo scorso fine settimana Austin e Antony Blinken, segretario degli Esteri statunitense, sono stati a Kiev per incontrare il presidente Volodymyr Zelensky. Ad Austin è stato affidato il compito di chiedere ai 43 'volenterosi' di aumentare il supporto per la guerra in corso. "Siamo qui per aiutare l'Ucraina -ha detto il segretario della Difesa Usa - a vincere la lotta contro l'ingiusta invasione russa". Chiarendo: "Dobbiamo muoverci alla velocità della guerra". A fare capire il tenore delle richieste statunitensi ci ha pensato il generale Mark Milley, capo dello Stato Maggiore: "Penso che questo sia un conflitto prolungato. Non so se decenni, ma sicuramente degli anni". I Paesi invitati hanno risposto tutti allo stesso modo: armi. La Francia ha assicurato l'invio a Kiev di una fornitura di cannoni con gittata da 40 chilometri. Dal Regno Unito sono invece in partenza missili antiaerei. La Finlandia ha inviato tre navi da guerra a Turku dove inizieranno esercitazioni per poter lavorare con le truppe Nato. L'annuncio più importante dalla Germania. La ministra della Difesa, Christina Lambrecht, ha annunciato l'invio di armi pesanti a Kiev. Cade così l'ultimo tabù tedesco nel supporto a Zelensky. Da settimane il governo e tutto il Paese erano spaccati sulla possibilità di mandare mezzi corazzati all’ esercito ucraino. Il cancelliere Scholz si è sempre opposto, provocando frizioni con il partito dei Verdi.
Sono 50 i carri armati messi a disposizione da Berlino. E dal ministero della Difesa hanno fatto trapelare che si tratterebbe dei Gepard. Blindati entrati in funzione a metà anni 60 e che sono utilizzati per la contraerea; ieri Bild però scriveva che non ci sarebbero proiettili sufficienti.
L'Italia non ha fatto alcun annuncio. Il ministero della Difesa si è limitato a un tweet: "Il ministro Lorenzo Guerini è arrivato nella base aerea di Ramstein in Germania per partecipare al Gruppo di Consultazione per la Difesa dell'Ucraina, organizzato dal segretario alla Difesa degli Usa, Lloyd Austin". Poi in serata lo stesso Guerini ha dichiarato che il nostro Paese "continuerà a fare la propria parte sulla base delle indicazioni decise dal Parlamento italiano. Da questo punto di vista, ci sarà un nuovo invio da parte italiana di equipaggiamenti militari, indispensabili per continuare il supporto alla resistenza ucraina". Il ministro, specifica la Difesa, si riferisce al secondo decreto interministeriale in via di finalizzazione, della "stessa natura della precedente tranche di aiuti" e in "ossequio alle risoluzioni del Parlamento". Quello che però il Pentagono ha esplicitamente chiesto ai Paesi presenti a Ramstein è un salto di qualità nelle forniture di armi. Ovvero, artiglieria pesante. Che per l'Italia vuol dire cannoni, obici e semoventi. Guerini chiarisce che la riunione di Ramstein è stata "estremamente utile per coordinare al meglio le azioni in corso". Ma non si sbilancia. Fino a ieri a Palazzo Chigi si valutava un decreto sull'artiglieria pesante da presentare al Cdm forse già domani. A ora parrebbe sparito dai radar. E Guerini non ne fa menzione. Due gli ordini di problemi: l'Italia sta cercando di capire quante e quali armi pesanti ha a disposizione per poterle effettivamente mandare; i Cinque Stelle in primis sono pronti a fare le barricate. Dalla Difesa ribadiscono che il decreto interministeriale è la "fotocopia" di quello precedente e che si rende necessario perché ogni invio prevede un ulteriore stanziamento economico. Qualche dubbio - anche a livello parlamentare - rimane: sia perché la lista è secretata, sia perché teoricamente non servirebbero altri fondi, visto che il nostro Paese manda armi già in suo possesso. Di certo, Guerini si trova nella difficile condizione di essere andato ad acconsentire alle richieste degli States, senza poter dire esattamente fino a che punto possano contare sul contributo italiano. Intanto Emmanuel Macron e Olaf Scholz starebbero programmando un viaggio insieme a Kiev. Quello di Draghi continua a essere nelle intenzioni, ma non in agenda».

GUTERRES (ONU) AL CREMLINO MA PUTIN NON DÀ SPONDE

Sempre ieri a Mosca missione del segretario generale dell’Onu António Guterres che ha incontrato Vladimir Putin. Il leader russo ha aperto spiragli solo sulla collaborazione per evacuare i civili da Mariupol. Francesca Sforza per La Stampa.  

«Quello che si temeva potesse accadere è accaduto: il conflitto si è allargato. Sul territorio, con le esplosioni in Transnistria (l'enclave filorussa in cui si sono verificati gli attacchi, non è ancora chiaro se per creare tensione o per colpire obiettivi strategici) e sui tavoli diplomatici, con la svolta americana di andare a un confronto diretto (dopo averlo evitato con attenzione nelle ultime settimane) scegliendo la linea, costruita con l'appoggio di Boris Johnson, della consegna massiccia di armi. In questo quadro già piuttosto compromesso si è svolta ieri la visita in Russia del Segretario delle Nazioni Unite Guterres, che come spiegano fonti Onu ha scelto di andare prima a Mosca per incontrare Putin e successivamente a Kiev - cosa che Zelensky gli ha pubblicamente rimproverato - proprio per evitare di associare l'Onu allo sbilanciamento americano, nel tentativo di mantenere una qualche terzietà che possa essere di aiuto al dialogo tra le parti. L'incontro, che pure non ha offerto garanzie di cambiamento, poteva andare peggio. Guterres è stato ricevuto in tarda serata e Putin, pur riconoscendo «l'unicità» delle Nazioni Unite, è ritornato sul «precedente del Kosovo» per giustificare l'intervento a favore del Donbass e ha negato ogni responsabilità per i massacri di Bucha: «L'esercito russo non c'entra, ma sappiamo chi è stato, chi ha preparato questa provocazione, con quali mezzi, e che tipo di persone ci hanno lavorato». Ha poi detto che a Mariupol non ci sono più scontri, che i russi stanno aiutando la popolazione a uscire e che se c'è qualcuno che non fa evacuare i civili sono gli ucraini che li trattengono ad Azovstal». Il fatto che Putin abbia accettato, in linea di principio, la partecipazione dell'Onu all'evacuazione dello stabilimento di Azovstal, è da mettersi tra le cose positive. «L'Ucraina si è offerta di discutere le questioni della Crimea e del Donbass, ma senza un accordo non è possibile decidere sulla sua sicurezza», ha detto Putin a proposito delle trattative. Ha riconosciuto che i colloqui di Istanbul erano stati positivi, ma anche che «gli ucraini hanno cambiato posizione» e che questo ha reso difficile proseguirli. In particolare Putin trova irricevibile il fatto di rinviare a una riunione tra capi di Stato la questione della Crimea e del Donbass: «Per noi è chiaro che questi problemi se li portiamo al livello dei capi di Stato, senza prima risolverli, almeno nell'ambito della bozza di accordo, ci è chiaro che non saranno mai risolti e non lo saranno», ha detto. «Sono un messaggero di pace - ha detto Guterres nel suo incontro con il ministro degli Esteri russo Lavrov, prima di vedere Putin -. Siamo interessati a trovare i modi per creare le condizioni di un cessate il fuoco in Ucraina al più presto, dobbiamo fare tutto ciò che è possibile». Nella conferenza stampa seguita all'incontro, Lavrov ha illustrato il suo punto di vista, che poi è lo stesso di Putin, manifestando in sostanza preoccupazione per l'interventismo Usa e le alleanze «multilateraliste» che a suo avviso altro non sono che un tentativo mascherato di escludere la Russia: «Siamo ora in una fase dello sviluppo delle relazioni internazionali in cui arriva il momento della verità: o accettiamo che qualcuno, da solo o con un gruppo di suoi satelliti, decida come vivrà l'umanità, o l'umanità vivrà sulla base della Carta delle Nazioni Unite. Questa, in effetti, è una scelta molto semplice», ha detto. Alle osservazioni umanitarie di Guterres, che ha proposto l'istituzione di un gruppo di contatto formato da Russia, Ucraina e Onu per l'apertura di corridoi sicuri e per cercare di risolvere la situazione di Mariupol, Lavrov ha risposto che «nessuno vuole le guerre», e che l'Onu dovrebbe «sbarazzarsi del suo principale difetto», ovvero il dominio di un gruppo di Paesi sugli altri: «Dei 15 seggi, sei appartengono ai Paesi occidentali e ai loro alleati», ha detto. La visita di Guterres a Mosca era stata preceduta da una tappa ad Ankara. L'incontro con Erdogan si è limitato a rinnovare l'impegno per continuare a mediare. Ma è evidente che la volontà politica della Turchia - che ieri, quanto a rispetto dei diritti umani, ha fatto un ulteriore passo indietro condannando al carcere a vita l'attivista Osman Kavala, accusato di aver finanziato proteste antigovernative e di altre pretestuose imputazioni - non sia sufficiente a ricreare il clima che aveva contrassegnato i colloqui di Istanbul. «I contatti continuano a livello di gruppi di esperti in videoconferenza - ha precisato ieri il viceministro degli Esteri Rudenko -. Speriamo che prima o poi porteranno ai risultati che sono stati delineati dal presidente Putin all'inizio del lancio dell'operazione militare speciale». La missione di Guterres continua a Kiev, dove le speranze si scontreranno con un territorio segnato da massacri e un vento politico in fermento».

LONDRA E MOSCA: MINACCE ESPLICITE

Scambio durissimo fra inglesi e russi, che fa salire di un altro gradino l’escalation verso la guerra totale. Il ministro della Difesa britannico James Heappey ha detto che è pienamente legittimo usare armi occidentali per colpire il territorio russo. La portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha replicato che la Russia potrà colpire un Paese Nato. Alessandra Rizzo per La Stampa

«Pienamente legittimo» per le forze ucraine utilizzare armi occidentali per attaccare obiettivi militari sul territorio russo. La dichiarazione è del sottosegretario britannico alla Difesa, che ha rivendicato il diritto di interrompere le linee di rifornimento nemiche, come è successo per esempio con l'attacco a un deposito di carburante a Bryansk due giorni fa. Ma James Heappey ha scatenato l'immediata reazione di Mosca, che ha minacciato una «risposta commisurata» e argomentato: se questa è la logica, allora noi possiamo colpire i Paesi Nato, e in particolare le forniture di armi occidentali all'Ucraina. Il gradino delle tensioni, delle rappresaglie contro rappresaglie fra l'Alleanza e la Russia è salito di un altro step, come ha mostrato anche la chiusura, da parte di Mosca, dei rubinetti del gas a Polonia e Bulgaria. Due Paesi di quella Nato accusata di essere coinvolta in una «guerra per procura».
Le parole di Heappey, certamente non casuali in quanto ripetute per due volte ai media britannici ieri mattina, segnano un ulteriore inasprimento nella posizione del Regno Unito di Boris Johnson, già tra i Paesi occidentali più duri contro Putin. Durante un'intervista alla radio della Bbc, il sottosegretario ha argomentato: «La domanda è: è accettabile che le nostre armi vengano usate dagli ucraini contro legittimi obiettivi militari russi? In primo luogo, sono gli ucraini a decidere gli obiettivi, non chi produce o esporta le armi; in secondo luogo, è del tutto legittimo perseguire obiettivi colpendo il tuo avversario in profondità per interrompere logistica e linee di rifornimento». In un'altra intervista, ha aggiunto che certamente le armi «che la comunità internazionale sta fornendo all'Ucraina hanno la portata per poter essere utilizzate oltre i confini. Questo - ha concluso - non è necessariamente un problema». Finora il Regno Unito ha fornito missili anticarro, sistemi di difesa aerea ed esplosivi al plastico. Londra ha annunciato nelle settimane scorse un pacchetto aggiuntivo di 100 milioni di sterline in equipaggiamento militare alle forze armate ucraine, inclusi missili antiaerei. Secondo indiscrezioni non confermate a livello ufficiale, sarebbe anche pronta a consegnare lanciamissili ad alta tecnologia Stormer. E le forze speciali Sas sarebbero già in Ucraina per addestrare le truppe di Zelensky: lo scoop del Times non è stato confermato, ma sarebbe la prima volta che si ha notizia di soldati britannici nel teatro di guerra ucraino. Heappy non ha specificato quali siano gli obiettivi legittimi. Lunedì scorso si erano verificati due incendi a Bryansk, città russa a un centinaio di chilometri dal confine ucraino. Uno dei roghi era scoppiato dentro a una raffineria di carburante, l'altro dentro a una base militare usata anche come deposito per razzi e proiettili di artiglieria. L'origine degli incendi resta da chiarire.
Le dichiarazioni di Heappey hanno gettato benzina sul fuoco della retorica russa, con il ministro degli Esteri russo Lavrov che già aveva messo in guardia contro i rischi, «considerevoli e da non sottovalutare», di un'escalation nucleare. «La Nato, in sostanza, è impegnata in una guerra con la Russia per procura», aveva detto alla Tv russa. «Guerra significa guerra». (Posizione bollata a Londra come una «totale sciocchezza»). Mosca ha rincarato la dose rispondendo duramente alle parole di Heappey. Se l'uso da parte di Kiev di armi ricevute dall'Occidente per colpire le linee di rifornimento è legittimo, lo stesso vale per la Russia, ha intimato Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo. Mosca potrebbe cioè ritenere altrettanto legittimo prendere di mira «in profondità le linee di rifornimento» ucraino fin «dentro quei Paesi i quali trasferiscono all'Ucraina armi» e producono «distruzione e morte». E il ministero della Difesa ha avvertito che potrebbe colpire i «centri decisionali» della capitale, anche nel caso fossero presenti cittadini occidentali. Mosca potrebbe già aver cominciato a prendere le contromisure. Secondo fonti di informazione polacche, avrebbe sospeso le forniture di gas alla Polonia. A riportarlo è il sito locale Onet, ripreso dalla Tass, citando fonti governative e del settore energetico di Varsavia, secondo cui un'unità di crisi si è riunita presso il ministero del Clima polacco per affrontare il caso».

LO SPETTRO DELLA GUERRA FRA LA NATO E LA RUSSIA

La giornata drammatica di ieri ha suscitato diversi commenti e reazioni. Ci troviamo davvero alla vigilia della “terza guerra mondiale”, evocata ieri a Londra, Kiev e Mosca? Alberto Negri per Il Manifesto vede già uno scontro in atto fra Nato e Russia.

«Lo spettro di uno scontro diretto tra Nato e Russia si fa sempre più consistente: la guerra per procura degli ucraini contro l'invasione di Mosca tra un po' potrebbe essere combattuta senza la finzione del braccio legato dietro la schiena. L'escalation è nelle parole e nei fatti: gli eventi fanno pensare che sia da escludere la via diplomatica, almeno in tempi brevi. Mentre la Nato a Ramstein decideva ieri l'invio di nuove armi pesanti (tra cui quelle tedesche) il ministro delle forze armate britanniche, James Heappey, spiegava che gli alleati forniscono all'Ucraina armi con gittate che permettono a Kiev di colpire in territorio russo e che la Gran Bretagna considera «perfettamente legittime eventuali azioni ucraine in Russia "per "prendere di mira in profondità le linee di rifornimento». Quasi una dichiarazione di guerra: armiamo gli ucraini per colpirvi in casa, ha detto sostanzialmente Heappey. La replica di Mosca è stata immediata: Maria Zacharova, portavoce del ministero degli Esteri russo ha risposto su Facebook che la Russia, con la stessa logica, potrebbe ritenere altrettanto legittimo colpire «in profondità le linee di rifornimento ucraino nei Paesi che trasferiscono armi a Kiev». Il rischio di un allargamento del fronte di guerra è tangibile. Anche se il ministro della Difesa Shoigu ha poi corretto il tiro minacciando infatti non di attaccare il territorio di Paesi Nato - il che farebbe scattare la clausola di difesa contro l'aggressore - ma «consiglieri» presenti nei «centri decisionali» di Kiev. Finora Mosca ha colpito i convogli dell'Occidente in Ucraina solo dopo che erano entrati nel territorio di Kiev. Oltre alle parole pesano comunque i fatti. I russi denunciano nuovi attacchi nella regione di Belgorod, dove accusano gli ucraini di aver colpito più volte. Mentre in Transnistria sarebbero state abbattute due antenne usate per ritrasmettere la radio russa. Ma nei giorni scorsi sono state diffuse le immagini dell'incendio dell'Istituto per la difesa aerospaziale a Tver, a circa 150 chilometri da Mosca. Il centro ha progettato i missili Iskander e S-400 ed è anche il luogo dove sono stati ideati quelli intercontinentali. L'origine dell'incidente è dubbia ma non è mai stato smentito quanto pubblicato da "Air Force Magazine", ovvero che l'intelligence Usa e Nato stanno fornendo informazioni tattiche agli ucraini attraverso i satelliti, gli aerei Awacs, che volano su Polonia e Romania, e i droni di Sigonella. La guerra cibernetica e di hackeraggio su strutture militari è pronta a un salto di qualità. È assai probabile che vengano fuori sorprese (relative), quando finirà l'assedio dell'acciaieria di Mariupol, sul coinvolgimento diretto di contractors e soldati Nato. Nei sotterranei dell'Azovstal i russi ritengono che si trovino centinaia di stranieri, tra combattenti del reparto di ispirazione nazista Azov e consiglieri militari britannici, francesi e americani, la cui cattura metterebbe in serio imbarazzo le potenze occidentali che sostengono di non avere propri soldati sul suolo ucraino. Secondo una fonte britannica, nell'area ci sarebbero 400 uomini delle Sas, le forze speciali inglesi. Perché una difesa così strenua dell'acciaieria dove i civili sono diventati ostaggi? Mosca ritiene che vi si trovi uno dei laboratori biologici impiantati dagli Stati Uniti in Ucraina la cui esistenza è stata ammessa davanti al Congresso dal sottosegretario di stato Victoria Nuland, che non ha però specificato la natura delle ricerche. Più si va avanti e più si intuisce che l'Ucraina in questi anni era diventata una sorta di matrioska bellica, composta di scatole a sorpresa.
L'escalation tra Nato e Russia emerge sempre più evidente nelle dichiarazioni degli americani. L'obiettivo non è più soltanto la difesa dell'Ucraina ma colpire direttamente il potere di Mosca, Putin compreso. Il ministro della Difesa inglese Ben Wallace in un intervento ai Comuni ha dichiarato che finora i russi hanno perso circa 15mila soldati e tra il 20-30% degli asset militari. C'è aria d'incitamento alla vittoria nonostante gli stessi britannici ammettano l'avanzata dei russi nel Donbass. Al vertice di Ramstein il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ha affermato che «la Russia porta avanti questa guerra per le ambizioni di un uomo solo», aggiungendo che in ballo «non c'è soltanto il destino più dell'Ucraina ma di tutta l'Europa». Il nuovo linguaggio più duro di Austin riflette la decisione dell'amministrazione Biden di parlare apertamente della vittoria di Kiev. L'obiettivo è chiarire a Putin che l'avventura militare russa non ha speranze e che non è per lui sostenibile. Il messaggio del capo del Pentagono è inteso dunque a rafforzare gli ucraini, fornendo loro l'appoggio militare per conquistare sul terreno un vantaggio che possa portare nei prossimi mesi ad un cessate il fuoco con Mosca. Ma come arrivare a una tregua senza il coinvolgimento della Nato e l'esplosione di un conflitto più ampio e devastante resta un dilemma drammatico. Soprattutto se si decide di colpire la Russia all'interno. Le stesse parole di Austin rafforzano la convinzione di Putin che la guerra in Ucraina, da lui iniziata in maniera proditoria e sanguinosa, abbia adesso come obiettivo ultimo quello di destabilizzare il suo regime. I rischi sono altissimi. Il ministro degli esteri russo Serghei Lavrov - che ieri ha incontrato senza esiti apparenti il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres ha affermato che questa è ormai «essenzialmente una guerra per procura della Nato contro la Russia» e «aumenta il rischio di terza guerra mondiale». I russi continuano a parlare in Ucraina di «operazione speciale» ma ormai questo termine è diventato ingiallita propaganda».

Molto critico anche Marco Travaglio nel suo editoriale per Il Fatto di stamattina. Ecco la parte finale del suo ragionamento:

«La tecnica dell'escalation è la stessa di Mitridate: una goccia di veleno al giorno per farci accettare, senza accorgercene, una prospettiva terrificante che avremmo respinto tutta in una volta: entrare in guerra con la Nato contro la Russia. A questo portano i delirii di Johnson sulla liceità di attacchi con armi Nato in territorio russo, e quindi di attacchi russi in territori Nato. Finora si poteva discutere sull'invio di armi alla sacrosanta resistenza ucraina per difendere il suo territorio. Ora non più, perché la guerra è diventata un'altra cosa. Ora le armi servono a "indebolire la Russia fino a farle perdere capacità militare" (Blinken). Anzi, ad "attaccarla" (BoJo) in vista del regime change evocato da Biden per destabilizzare un Paese sovrano, che è pure una potenza atomica, rovesciandone il presidente eletto. Perciò Blinken ha convocato a Ramstein 40 Paesi vassalli, distribuendo liste della spesa per nuove armi e inviando pizzini mafiosi contro la missione di pace del segretario generale dell 'Onu Guterres (attaccato dall'apposito Zelensky) e le dissociazioni di Scholz (già rientrate). Quindi le armi sono un "mezzo di risoluzione delle controversie internazionali": proprio ciò che la Costituzione vieta col verbo più perentorio ("L'Italia ripudia la guerra"). Scrive Lucio Caracciolo (Stampa): "Discutere sull'oppor tunità e sulla moralità per l'Occi dente - l'impero americano - di combattere contro i russi fino all 'ultimo ucraino". E Domenico Quirico (Stampa): "Siamo a un punto di svolta. Si ammette per la prima volta che la libertà ucraina è solo una cosa fittizia di cui gli americani si servono per attuare la loro politica: l'annientamento della potenza militare russa. Non è estremamente pericoloso?". Lavrov, Zelensky e Johnson evocano in stereo la terza guerra mondiale, ma a Roma tutto tace. Vogliono gli esimi presidenti Mattarella e Draghi spiegarci dove sta l'Italia, sempreché abbia ancora un Parlamento e - absit iniuria verbis - una Costituzione?».

Molti anche i commenti soddisfatti. Per Gianni Vernetti su Repubblica il vertice di Ramstein ha rappresentato un fatto storico: in Germania ieri sarebbe infatti nata l’alleanza globale dei Paesi democratici contro la Russia.

«Dopo 62 giorni dall'inizio del conflitto scatenato da Vladimir Putin con l'invasione dell'Ucraina, la giornata di ieri ha registrato una novità di grande rilevanza politica e strategica: la nascita di una coalizione internazionale di Paesi democratici che sosterrà lo sforzo bellico dell'Ucraina di Volodymyr Zelensky. Il Gruppo di Contatto sulla Sicurezza dell'Ucraina si è riunito per la prima volta ieri nella base aerea statunitense di Ramstein in Germania, su iniziativa di Lloyd Austin, Segretario alla Difesa degli Stati Uniti. Austin ha aperto i lavori rivolgendosi direttamente al ministro della Difesa dell'Ucraina Oleksij Reznikov: «La vostra resistenza ha ispirato il mondo libero». Per poi proseguire: «Oggi siamo qui riuniti per aiutare l'Ucraina a vincere la battaglia contro la Russia. L'Ucraina ha fatto un lavoro straordinario nel difendersi dalla aggressione russa e la battaglia di Kiev entrerà nei libri di storia. Ma ora la situazione sul campo è cambiata, con l'offensiva nel Sud e nel Donbass dobbiamo capire di cosa ha bisogno l'Ucraina per combattere». Il Gruppo di Contatto fra i ministri della Difesa e i Capi di Stato Maggiore di 43 Paesi democratici si riunirà mensilmente e rappresenta già l'embrione di qualcosa di più di un semplice coordinamento fra alleati per incrementare le forniture belliche all'esercito di Kiev. E basta scorrere l'elenco degli invitati per cogliere più di una novità geo-strategica. Accanto all'Ucraina si sono riuniti i trenta Paesi membri della Nato insieme alle democrazie dell'Indo-pacifico (Giappone, Australia, Corea del Sud e Nuova Zelanda); a tre Paesi del Medio Oriente (Israele, Qatar e Giordania); a un quartetto africano composto da Kenya, Liberia, Marocco e Tunisia; e a Finlandia e Svezia, la cui d'adesione all'Alleanza Atlantica potrebbe concretizzarsi in poche settimane, come confermato nei giorni scorsi dalle due premier Sanna Marin e Magdalena Andersson. L'incontro fa seguito alla missione a Kiev di Antony Blinken e dello stesso Lloyd Austin, la prima visita statunitense di alto livello in Ucraina dall'inizio del conflitto, e ha già prodotto un primo risultato concreto: l'annuncio da parte di Christine Lambrecht, ministro della Difesa della Repubblica federale tedesca, di fornire un primo lotto di 50 mezzi pesanti Gepard, carri armati dotati di sistemi antiaerei. La scelta d'un maggiore impegno tedesco in sostegno del governo di Kiev rappresenta una prima risposta alle molte critiche rivolte nei giorni scorsi al cancelliere Olaf Scholz per la sua riluttanza a un maggiore impegno di Berlino nella crisi ucraina. La presenza di Israele e di alcuni Paesi firmatari degli Accordi di Abramo rappresenta poi una novità sostanziale: da un lato l'apertura, in particolare con il Qatar, di azioni di lungo periodo per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, dall'altro un primo segnale da parte di Gerusalemme di abbandono dell'equidistanza fra Mosca e Kiev, e una prima risposta anche al crescente avvicinamento fra Iran e Russia, sempre più coordinate nell'aggiramento delle sanzioni occidentali. La presenza dei Paesi dell'Indo-pacifico e del quartetto africano rappresenta infine un chiaro segnale nei confronti di Pechino e della sua "alleanza senza limiti" siglata fra Xi e Putin lo scorso 4 febbraio, poco prima dell'inizio del conflitto: l'alleanza fra le autocrazie non solo non è attrattiva, ma rappresenta una minaccia alla stabilità globale. Il monito che giunge da Ramstein alla Cina è chiaro: Pechino rischia un crescente isolamento internazionale se proseguirà nell'azione costante di promozione della narrativa russa sul conflitto in Ucraina e se vorrà garantire uno sbocco economico e finanziario a una Russia sempre più isolata dopo le articolate sanzioni adottate dall'Occidente. E in una giornata con una tensione crescente, scandita dall'autorizzazione britannica all'uso delle proprie armi per colpire le retrovie logistiche in territorio russo, alle minacce russe di estensione del conflitto in territorio Nato, agli attentati in Transnistria, plausibili false-flag per estendere il conflitto alla Moldavia, non sfugge il forte valore anche simbolico della nascita di una "Nato globale" per sostenere la guerra di liberazione in Ucraina e rappresentare nel prossimo futuro l'architrave di sicurezza della sempre più necessaria Alleanza fra le Democrazie».

BOMBARDAMENTO IN STILE SIRIANO

Le notizie dal campo bellico. Reportage di Lorenzo Cremonesi da Zaporizhzhia per il Corriere che racconta il trattamento «siriano» adottato del comandante russo Dvornikov: anche gli anziani lasciano le case.

«L'allarme suona alle 13 ed è la quarta volta dall'alba. La prima alle sette, quando tre missili hanno colpito le periferie nord della città, la zona industriale. Siamo svegliati dai rimbombi lontani. La municipalità di Zaporizhzhia ci dirà poi che sono stati colpiti i capannoni di una fabbrica di alluminio (non è chiaro se producesse componenti per l'industria militare), ci sarebbero almeno un morto e alcuni feriti. La politica russa degli attacchi indiscriminati sulle infrastrutture dell'intera Ucraina si fa sempre più martellante, mentre a Mosca si ribadisce l'intenzione di accelerare i tempi dell'«operazione militare speciale», quando mancano meno di due settimane alla festa nazionale del 9 maggio. Aiuti militari Dalle linee ferroviarie alle fabbriche, ma anche le strade dove potrebbero affluire gli aiuti militari occidentali. La lista delle zone colpite è lunga. Le bombe russe hanno danneggiato un ponte vitale lungo la costa a ovest di Odessa, paralizzando i treni verso la Romania. Il governatore ucraino della regione di Lugansk, Serhiy Haidai, segnala tre civili morti nei quartieri residenziali di Popasna. Quello del Donetsk, Pavolo Kyrylenko, denuncia a sua volta due morti e sei feriti. Il governatore della regione di Kharkiv, Oleh Synehubov, parla di altri tre morti e sette feriti. Zaporizhzhia è stata ieri particolarmente nel mirino. A metà mattinata ancora le sirene. «Sparano sulla centrale nucleare di Enerhodar. Si rischia il disastro atomico», denunciano i portavoce del presidente Zelensky. Vista da qui, siano solo ad una cinquantina di chilometri di distanza, la vicenda appare però diversa: la centrale era stata conquistata dalle truppe russe ai primi di marzo dopo aver bypassato la resistenza di Mariupol e collegato via terra il Donbass alla Crimea; i contingenti ucraini, proprio per evitare un incidente con fughe di materiale radioattivo, si erano allora ritirati in buon ordine. Al momento, dunque, la centrale e i suoi impianti connessi sono in mano ai russi: avrebbe poco senso per i comandi di Mosca bombardarla. Sembra invece più probabile che i missili siano stati tirati verso le linee ucraine una ventina di chilometri più a est, dove da almeno tre settimane si combatte per il controllo del territorio. Anche gli osservatori del Pentagono non parlano affatto di tiri su Enerhodar, che è la più grande centrale nucleare in Europa e viene inevitabilmente monitorata con attenzione. La sirena delle 13 fa invece preoccupare i responsabili del principale punto di assistenza cittadino, acquartierati nei grandi padiglioni del «Kozhak Center», alle migliaia di profughi in fuga dalle zone della guerra occupate dai russi nel Sudest. Qui sono assembrate lunghe code di gente, donne, bambini, anziani, c'è il rischio che i russi bombardino, come è avvenuto alla stazione ferroviaria di Kramatorsk l'8 aprile. «Via tutti, per oggi il centro chiude», avvisano con gli altoparlanti. Così, in ventina di minuti, la folla si disperde. Chi può si fa dare un ultimo materasso, qualche vestito, le scarpe per i figli. La Croce Rossa distribuisce voluminosi cartoni ricevuti dall'Onu. I profughi di Zaporizhzhia ci raccontano la geografia dei bombardamenti: sono oltre 105 mila dal 24 febbraio, in media ne giungono quotidianamente tra 1.500 e 3.000, i più recenti arrivano da Polohy, Huliaipole, Volnovakha, Vhuledar, Vasylivka, Tokma, nel Sud e poi anche dalle zone di Donetsk e Lugansk, sino a Kramatorsk. Adesso ci sono anche tanti anziani, i più restii ad abbandonare le case. «Non potevamo più restare. Ormai i russi bombardano a tappeto», dice Irina, 76, anni che era una delle poche rimaste in una frazione contadina accanto a Marinka, su cui tira l'artiglieria russa dai dintorni di Donetsk. Anche il suo viaggio per Zaporizhzhia è stato rischioso, la sfida tra droni e artiglierie paralizza le strade, blocca i ponti. Il «macellaio» Cronache che paiono confermare la fama di «macellaio» guadagnata sette anni fa in Siria dal nuovo comandante delle truppe russe in Ucraina, generale Alexander Dvornikov. Dove i soldati di Bashar Assad non riuscivano ad avanzare, arrivavano l'aviazione e l'artiglieria russa. Allora fu proprio Dvornikov, comandante in capo del contingente russo, a fare dei bombardamenti su centri abitati, strade e ospedali uno dei punti di forza della strategia volta a demoralizzare la società civile in cui si annidavano le unità nemiche. Qui, fanterie e colonne corazzate di Putin faticano ad avanzare. I successi maggiori li registrano nell'area di Izium nel nord-est. Ma i nuovi arrivi di armi pesanti occidentali renderanno lo scontro ancora più complesso».

MOLDAVIA SOTTO TIRO: OBIETTIVO TRANSNISTRIA

Il racconto di Nello Scavo per Avvenire è invece da Tiraspol, nella Transnistria, la parte “filo-russa” della Moldavia, auto proclamatasi Repubblica indipendente ma riconosciuta solo da Mosca.

«Appena finita la Messa sono venuti da me degli uomini. E si sono qualificati». Niente giri di parole: «Deve smetterla. Lei usa argomenti estremisti. Questo è il nostro ultimo avvertimento». Erano uomini del Kgb, il servizio segreto di Tiraspol, che non solo nel nome ha mantenuto i modi degli 007 dell'Unione sovietica a cui si ispirano i boss, tra affari e politica, della ribelle Transnistria. Padre Janus aveva parlato «dell'importanza della pace contro la cultura della guerra ». Troppo per chi il conflitto lo chiama «operazione speciale » e da anni propina alla popolazione che la presenza dei militari di Mosca in Transnistria è una «forza di pace» e non una occupazione mascherata. Quella domenica il parroco ha capito che la guerra era arrivata tra la sua gente, prima ancora delle tre granate lanciate due giorni fa contro la sede dei servizi segreti. E in anticipo sui sabotatori, con una certa esperienza da "guastatori", che ieri all'alba hanno abbattuto le torri che rilanciavano in Transnistria e sull'Ucraina meridionale le emittenti di stato di Mosca. Da oggi l'enclave separatista viene sigillata. I militari russi della "forza di pace" per tutto il giorno hanno installato pesanti blocchi di cemento sulle strade, mentre gli ultimi fuggiaschi provavano a lasciare l'enclave separatista filorussa in territorio della Moldavia, con il confine nord interamente esposto sulla regione ucraina di Odessa, la perla del Mar Nero che Mosca continua a bersagliare. Mai come negli ultimi due giorni si sono viste colonne di auto in uscita dalle dogane fantasma. Molte le auto con targa ucraina. Nella repubblica autoproclamata, infatti, il 40% dei 450mila abitanti sono di origine ucraina. Durante le prime settimane di guerra molti sfollati di Odessa, Mikolayv e Cherson è sembrato naturale chiedere riparo ai parenti di città transinstriane come Tiraspol e Grigoriopol. «Sappiamo che l'amministrazione locale è guidata in realtà da Putin in persona - dice una donna arrivata da qui con i due figli agli inizi di marzo -, ma non sapevo dove andare e mia cugina si è offerta di accoglierci». Ora, insieme, si preparano a scappare anche da qui. Erano quasi 25mila i profughi ucraini giunti in questa che è una fortezza della criminalità internazionale, ma la gran parte ha ripreso il viaggio per mettere quanti più chilometri tra sé e qualsiasi bandiera che sia tenuta in considerazione dalla Russia. La regione è a un passo dall'isteria. Vadim Krasnoselsky, leader della Transnistria, ha esortato il governo di Chisinau a «non cedere alle provocazioni » di chi intende trascinare il Paese in un conflitto armato. Parole che alludono a un presunto ruolo di gruppi di sabotatori filoucraini. La presidente moldava Maia Sandu ha reagito con un nuovo appello alla calma, pur ordinando l'innalzamento dell'allerta in tutto il Paese. Nelle parole pronunciate in pubblico Sandu tende a mitigare la paura. Il rischio sarebbe quello di vedere da un momento all'altro centinaia di migliaia di moldavi ammassarsi al vicino confine romeno. La presidente della Moldavia ha sostenuto che gli attacchi a Tiraspol e a nord di Grigoriopol, sono un tentativo di alcune fazioni favorevoli al conflitto per trascinare la regione nella guerra contro l'Ucraina. Il Cremlino ha reagito con toni non troppo vagamente minacciosi: «Vogliamo evitare uno scenario in cui ci si veda costretti a intervenire nella regione». Perciò i servizi di sicurezza moldavi, che negli ultimi tempi hanno ospitato un andirivieni di personale americano, sostengono che gli attacchi in Transnistria, senza morti né feriti, sono «pretesti per creare una escalation». Fino ad ora si era spesso parlato di una guarnigione russa di 1.500 uomini destinati a stabilizzare la zona. Ma in queste giorni diverse fonti hanno confermato ad Avvenire che i militari russi sono nel frattempo raddoppiati. Oltre alla "forza di pace" che reca insegne riconoscibili sulle divise, abbiamo potuto osservare decine di altri soldati russi. Proprio funzionari di Tiraspol hanno ammesso che in effetti si sono aggiunti 1.400 uomini un gigantesco deposito di armi postsovietico e assicurano «la piena efficienza dell'equipaggiamento». Parole che suonano come una velata minaccia. La presenza delle truppe russe ha sollevato il timore che Mosca possa usare Tiraspol come piattaforma di lancio per nuovi attacchi all'Ucraina, stringendo a tenaglia la provincia di Odessa. Il 23 aprile un alto funzionario militare russo ha detto che la "seconda fase" di quella che Mosca chiama «operazione militare speciale» include un piano per prendere il pieno controllo dell'Ucraina meridionale e «migliorare il suo accesso alla Transnistria». Secondo Kiev proprio Mosca potrebbe inscenare attacchi "false flag", pianificati per apparire come un attacco da attribuire ai nemici. Accusa che da Tiraspol viene respinta, sostenendo che siano degli infiltrati ucraini ad avere compiuto i due attacchi di questi giorni così da trascinare la repubblica separatista nello scontro, allo scopo di impegnare le forze russe su un fronte più ampio e destabilizzando un'area che arriva fino alla Romania, Paese Ue che aderisce alla Nato.
«Temo le provocazioni che possono partire da dentro il nostro Paese - ha detto al Sir il vescovo di Chisinau, Anton Cosa - e che rischiano di dare ai russi un pretesto in più per intervenire». La diocesi moldava comprende anche sei parrocchie della Transnistria. Come quella della Santissima Trinità di Tiraspol, che si sta attrezzando in caso di guerra. Il parroco Piotr Kuszman per tutto il giorno ha ricevuto materassi, cuscini, coperte, viveri, dolci per i bambini. «Siamo qui sotto terra e porteremo qui i bimbi che accogliamo nel centro Petruska - dice mentre ci mostra l'improvvisato rifugio -. Abbiamo anche acquistato bottiglie di acqua e cibo a lunga conservazione». Gli attentati degli ultimi due giorni, infatti "non hanno generato paura - racconta il dehoniano di origini polacche - ma vero e proprio panico». Per le strade c'è meno gente del solito. Chi è in giro dice che la guerra non arriverà mai qui. Molti si premuniscono. Chi scappando, chi valutando e non sia il caso di cambiare passaporto. Circa 220.000 hanno la cittadinanza moldava, 240.000 hanno quella russa e 130.000 quella ucraina. Tra questi due ultimi gruppi sono però cresciute le domande di cittadinanza moldava, nella speranza di poter trovare un riparo stabile fuori dalla Transnistria oppure di farsi trovare pronti se una guerra dovesse espellere le forze russe e riannettere la regione alla Moldavia. Uno scenario di guerra che molti vorrebbero scongiurare ma che nessuno si sente davvero di escludere».

IL MONDO MAI COSÌ ARMATO

Paolo Valentino per il Corriere della Sera riprende i dati provenienti da Stoccolma, di cui ieri aveva parlato Avvenire. Il mondo non è mai stato così pieno di armi.

«È un pianeta in armi, quello che fa da sfondo alla guerra in Ucraina. Per la prima volta, le spese militari nel mondo hanno superato la soglia stratosferica di 2 mila miliardi di dollari. Secondo il rapporto del Sipri, l'Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma, nel 2021 la spesa globale per la difesa è stata infatti di 2.113 miliardi di dollari, con un incremento dello 0,7% in termini reali e del 6,1% in termini monetari sull'anno precedente. I cinque Paesi che hanno speso di più sono, in ordine decrescente, gli Stati Uniti, la Cina, l'India, il Regno Unito e la Russia, che insieme rappresentano il 62% del totale dei bilanci militari della Terra. Ma dietro le cifre una tendenza emerge con chiarezza: per il settimo anno consecutivo il mondo spende di più in armamenti; neppure la crisi pandemica, che pure ha innescato una forte depressione economica globale, ha frenato la spirale del riarmo. Il rapporto consente di vedere in filigrana le posture strategiche dei diversi Paesi. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno speso 800 miliardi di dollari per la difesa, una riduzione dell'1,4% rispetto al 2020. Ma il Pentagono ha cambiato la qualità della spesa, investendo il 24% in più in ricerca e sviluppo nel decennio 2012-2021, contro il 6,4% in meno nei sistemi d'arma. «Washington - spiega Alexandra Marksteiner del Sipri - vuole mantenere il suo vantaggio tecnologico sugli avversari strategici», cioè Mosca e Pechino. Per il terzo anno consecutivo, la Russia ha aumentato le sue spese militari. Mentre ammassava forze al confine con l'Ucraina, il Cremlino ha portato nel 2021 il proprio bilancio per la difesa a 66 miliardi di dollari, il 4,1% del Pil, con un incremento del 2,9% rispetto al 2020. Gli alti proventi del gas e del petrolio hanno permesso a Mosca di spingere la spesa in armamenti, che era stata in declino tra il 2016 e il 2019. Interessante notare che la linea del cosiddetto «bilancio per la difesa nazionale», che include i fondi per i costi delle operazioni militari e delle nuove commesse e rappresenta il 75% del totale, è stato aumentato in corso d'anno del 14% rispetto alle previsioni fatte alla fine del 2020. Un preludio all'invasione dell'Ucraina, che comunque si è preparata allo scontro sin dall'annessione della Crimea nel 2014, investendo il 72% in più nella difesa negli ultimi 7 anni. Le cifre di Kiev restano comunque modeste: 5,9 miliardi di dollari nel 2021, pari al 3,2% del Pil. La Cina continua il suo trend: aumenta ininterrottamente la spesa militare da 27 anni. Nel 2021 ha speso 293 miliardi di dollari, il 4,7% in più dell'anno precedente».

PROFUGHI, ARRIVA IL CONTRIBUTO

Avvenire fa il punto sui profughi ucraini arrivati nel nostro Paese, più di centomila dall’inizio della guerra. Vincenzo R. Spagnuolo per Avvenire.

«I tecnici informatici della Protezione civile stanno ancora verificando il funzionamento dei meccanismi. Ma se non ci saranno intoppi a livello digitale, entro stasera o domani potrebbe già essere operativa la piattaforma online che consentirà ai profughi ucraini giunti in Italia e ospitati presso abitazioni private, se in possesso dei requisiti richiesti e dopo un'apposita registrazione, di poter percepire il contributo di autonoma sistemazione stabilito dal governo: 300 euro mensili per ogni adulto e 150 per minore, per un massimo di tre mesi. Lo confermano ad Avvenire fonti della stessa Protezione civile, interpellate ieri. Il contributo, viene spiegato, verrà «erogato negli uffici di Poste italiane, in contanti, a ogni profugo che si presenterà con un documento d'identità valido» (il passaporto può andar bene), sommato alla certificazione prevista (il cedolino che dimostra l'avvenuta richiesta di protezione, accordata dall'Ue e recepita dall'Italia) e alla registrazione sulla piattaforma on line. Se i test informatici daranno esito positivo, il meccanismo potrebbe partire entro la settimana e poi andare a regime ai primi di maggio. Requisiti e procedure. Per poter richiedere l'erogazione del contributo, occorre anzitutto aver richiesto nella locale questura il permesso di protezione temporanea accordato dalla direttiva Ue e recepito dall'Italia. Una volta presentata la domanda, con i dati del cedolino (codice fiscale provvisorio e altre informazioni) si può entrare nella piattaforma web, registrarsi e presentare la richiesta. Il sistema, spiegano alla Protezione civile farà alcune verifiche, compresa l'eventuale presenza del richiedente in strutture pubbliche o convenzionate (in quel caso, non si avrà diritto al contributo). Se arriverà l'ok, il profugo richiedente potrà recarsi poi presso l'ufficio postale più vicino e chiedere allo sportello il contributo di 300 euro per sé e di 150 per ogni minore a suo carico, che l'impiegato erogherà in euro contanti. La platea dei richiedenti. Al momento, su 101.204 profughi ucraini entrati in Italia dall'inizio della guerra, fa sapere il Viminale, circa 70mila hanno chiesto protezione nel nostro Paese: 65mila domande in base alla normativa Ue, le restanti invece richieste di asilo, protezione speciale o altro. La seconda condizione è non alloggiare già in strutture pubbliche o convenzionate: al momento, solo 10mila sono i rifugiati ucraini ospitati nei centri d'accoglienza straordinaria (Cas) o del Sistema accoglienza e integrazione (Sai) del ministero dell'Interno e un'altra minima quota presso realtà del Terzo settore. Gli altri 90mila alloggiano presso familiari o conoscenti. Le donne sono finora 52.308, bambini e ragazzi 36.247, gli uomini adulti 12.649. I minori non accompagnati ammontano a 3.143, di cui 2.600 vivono con familiari e altri 500 in strutture autorizzate dal Tribunale dei minorenni. Le principali città di destinazione dichiarate sono ancora Milano, Roma, Napoli e Bologna. I fondi stanziati. Per i contributi di autonoma sistemazione, il governo e la Protezione civile hanno ipotizzato un limite di spesa di 54 milioni di euro, sufficiente per erogare (per 3 mesi massimo, entro il 31 dicembre 2022) importi di 300 e 150 euro mensili a una platea stimata sulle 60mila persone. Invece, per l'accoglienza diffusa (calcolata per un massimo di 15mila persone e che verrà attuata dai Comuni e dagli enti del Terzo settore) il tetto di spesa è stato fissato sui 142 milioni di euro. I bandi per gli enti. Anche la raccolta delle manifestazioni d'interesse, da parte di enti e associazioni, è avvenuta attraverso una piattaforma della Protezione civile. Al momento, si è conclusa con 48 offerte per un totale di 26.412 posti messi a disposizione. Sarà la Commissione di valutazione, costituita dal capo Dipartimento Fabrizio Curcio, a verificare entro 9 giorni il possesso dei requisiti richiesti per le associazioni che hanno partecipato al bando. Per gli enti autorizzati, è previsto un contributo di 33 euro al giorno per ogni profugo ospitato».

LA RUSSIA CHIUDE IL GAS A POLONIA E BULGARIA

La Russia blocca l’erogazione del gas a Polonia e Bulgaria, che non lo avrebbero pagato in rubli. Il colosso di Stato Gazprom interrompe le forniture attraverso il gasdotto Yamal: il costo del metano schizza del 10%. Claudio Tito per Repubblica.

«La guerra del gas è ormai partita. Da oggi la Russia blocca uno dei gasdotti che portano il metano in Europa, lo Yamal Europe. E a farne le spese è in primo luogo la Polonia. Perchè il suo percorso attraversa la Siberia, poi la Bielorussia, quindi la Polonia per terminare in Germania. E la stessa misura è stata applicata alla Bulgaria. È stato l'operatore polacco PGNiG e il ministero dell'Energia di Sofia a diffondere la comunicazione effettuata dal colosso russo Gazprom. La decisione sembra direttamente collegata allo scontro in corso sulla richiesta del Cremlino di procedere ai pagamenti del gas in rubli. Lo stop del gruppo moscovita ha provocato una tempesta facendo scattare i prezzi del gas. La paura che questo sia solo il primo passo, infatti, ha fatto schizzare la quotazione del 10 per cento. Sfiorando di nuovo il tetto di 110 euro a megawattora. In effetti anche la tempistica non rassicura affatto: dopo il duello a distanza sulle armi e sui bombardamenti tra Putin e il fronte occidentale, la lettera di Gazprom si presenta come una ritorsione. Anche se a Bruxelles preferiscono prendere con le molle la vicenda. Per una serie di motivi. Il primo riguarda la funzionalità dello Yamal: da tempo - da prima dell'inizio del conflitto - la sua portata era stata ridotta anche per questioni tecniche tanto che nell'ultimo anno ha trasportato solo il 10 per cento di tutto il metano che la Russia vende al Vecchio Continente. Il secondo motivo è soprattutto un dubbio: ossia che la Polonia stia utilizzando questa vicenda per ingigantire la difficoltà. Varsavia, infatti, è da tempo la Capitale più decisa nell'adottare provvedimenti e sanzioni contro Mosca. E da tempo ha chiesto di introdurre l'embargo sul petrolio e sul gas russo. L'Ue su queste due misure sta temporeggiando. Soprattutto la Germania e l'Olanda. Oggi la Commissione europea avrebbe dovuto avanzare una proposta sul blocco del cosidetto "oro nero", ma alla fine ha dovuto rinviare almeno alla prossima settimana proprio per i dubbi di Berlino, Amsterdam e Budapest. E considerato che oggi si riunirà il Coreper (il comitato di tutti gli ambasciatori dei 27) per discutere della situazione in Ucraina e delle nuove sanzioni, molti degli alleati comunitari hanno il sospetto che i polacchi (che hanno sottolineato di potere fare a meno del gas trasportato dallo Yamal) stiano strumentalizzando il caso per forzare la mano già oggi. Anche se la posizione polacca non giustifica il taglio al gas per la Bulgaria. L'Italia si dichiara pronta ad ogni evenienza ma per il momento preferisce aspettare di verificare le implicazioni di questa "disattivazione". Certo, il rinvio di una scelta su uno stop ampio alle fonti energetiche russe sta diventando il vero ventre molle dell'Ue. La Germania ha fatto sapere ieri di poter presto rinunciare al petrolio russo e nello stesso tempo impone il veto di fatto sui provvedimenti. Il tutto poi accade mentre da ieri è diventata operativa la deroga europea al mercato energetico di Spagna e Portogallo. All'ultimo Consiglio europeo era stata approvata una "eccezione iberica" per poter ridurre il costo delle bollette. Una possibilità motivata dal fatto che questi due paesi ricorrono in maniera minima al gas ma il sistema delle tariffe si riflette sui prezzi pagati dei cittadini in maniera esasperata. Risultato: da ieri bollette quasi dimezzate. È evidente che la guerra in Ucraina si gioca anche sul fronte dell'economia e dell'energia. Tanto da far inseguire una serie di indiscrezioni sulle contromisure europee. Ad esempio ieri era stata ventilata l'ipotesi che il governo italiano potesse nazionalizzare uno stabilimento di raffineria a Priolo in Sicilia. Si tratta di un impianto di proprietà della russa Lukoil che raffina il 13 per cento del petrolio italiano ed è attivo anche nelle procedure di rigassificazione. Si tratta dell'ultima raffineria costruita nel nostro Paese. La nazionalizzazione, sebbene a tempo, è stata però smentita dal ministro per lo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti. Ma il nodo gordiano che lega il Vecchio Continente all'energia del Cremlino è comunque destinato ad essere tagliato. Il piano inclinato delle sanzioni non può essere raddrizzato».

PARLA SCHOLZ: “L’EMBARGO NON FA FINIRE LA GUERRA”

Intervista al Cancelliere tedesco che cede sull’invio di nuove armi ma non sull’embargo del gas russo. La Stampa riporta l’intervista ad Olaf Scholz, realizzata in Germania dal settimanale Der Spiegel. Ecco alcuni passaggi significativi (l’integrale nei pdf).  

«Signor Cancelliere, lei è un pacifista?
«No».

Perché no?
«Nel mondo in cui viviamo, è necessario garantire la propria sicurezza anche con una adeguata capacità di difesa. Come deputato e capo del governo, ho votato molte volte in modo favorevole alle missioni della Bundeswehr all'estero. Da pacifista non avrei potuto farlo».

La Spd è un partito pacifista?
«È un partito di pace, ma non è mai stato pacifista. I due grandi cancellieri socialdemocratici del Dopoguerra, Willy Brandt ed Helmut Schmidt, hanno fatto della sicurezza in Europa e della capacità di difesa della Germania i loro argomenti fondanti. La politica di distensione si basava sull'integrazione nella Nato». (…)

Esiste una sua personale linea rossa che Putin non deve superare?
«Dobbiamo confrontare ogni giorno i nostri principi con la realtà. Ma i principi non cambiano, di fondo: affrontiamo con tutti i mezzi a nostra disposizione la terribile sofferenza che la Russia sta causando all'Ucraina, senza creare però un'escalation incontrollabile che scateni un male incommensurabile in tutto il Continente, forse anche nel mondo intero».

L'uso di armi chimiche non sarebbe una linea rossa per lei?
«Ho diffidato il presidente Putin dall'usare armi biologiche e chimiche. Anche altri gli hanno trasmesso questo stesso (serio) avvertimento». (…)

Qual è il suo obiettivo ad oggi? L'Ucraina deve vincere questa guerra? La guerra deve finire il più presto possibile? O la Germania deve rimanere fuori il più possibile?
«Ci deve essere un cessate il fuoco, le truppe russe devono ritirarsi. Ci deve essere un accordo di pace che permetta all'Ucraina di difendersi autonomamente in futuro. Li equipaggeremo in modo che la loro sicurezza sia garantita. E siamo disponibili ad essere una potenza garante. Non ci sarà una pace dittatoriale, come Putin ha in mente da tempo».

Come potrebbe essere un accordo di pace?
«L'Ucraina definirà le condizioni per un accordo di pace, nessuno può farlo al posto loro. Sarebbe inappropriato».

Lei sottolinea la sovranità dell'Ucraina, ma allo stesso tempo non esaudisce il suo desiderio di un embargo immediato del gas, per paura di consequenze economiche. Così noi tedeschi continuiamo a riempire il forziere di guerra di Putin. Kiev non dovrebbe considerare le sue parole una presa in giro?
«Primo: non vedo affatto come un embargo sul gas porrebbe fine alla guerra. Se Putin fosse stato aperto ad argomenti economici, non avrebbe mai iniziato questa guerra folle. Secondo: il punto è un altro, vogliamo evitare una crisi economica drammatica, la perdita di milioni di posti di lavoro e di fabbriche che non riaprirebbero più. Questo avrebbe grandi conseguenze per il nostro Paese, e per tutta Europa, e avrebbe anche un grande impatto sul finanziamento della ricostruzione dell'Ucraina. Pertanto, è mia responsabilità dire che non possiamo permetterlo. Terzo: c'è qualcuno che sta davvero pensando alle conseguenze globali?».

Il Presidente della Germania, Frank-Walter Steinmeier, ha detto: "Non siamo riusciti a costruire una casa europea che includa la Russia". Lei è d'accordo?
«La Russia deve accettare che delle "società aperte" si sono riunite vicino ai suoi confini per formare un'Unione europea forte, che ha il più grande peso economico in una certa area del mondo. In un discorso che ho potuto fare a San Pietroburgo nel 2016 come sindaco di Amburgo, ho detto esattamente questo. Dovrebbe essere chiaro alla Russia che nessuno ha intenzione di attaccarla militarmente o di provocare un cambio di governo forzato dall'esterno».

Dopo l'invasione, dobbiamo seriamente ancora assicurare a Putin che non vogliamo fare del male al suo Paese?
«La mia risposta si riferiva al 2016. Resta tuttora vero che ci può essere sicurezza in Europa solo se riconosciamo la sovranità delle nazioni e l'inviolabilità delle frontiere. La Russia ha brutalmente violato questo principio, non ora con l'invasione, ma già con l'annessione della Crimea, con la messa in scena della rivolta nelle regioni del Donbass e in altre parti del mondo. Quando i capi di stato sfogliano i libri di storia e guardano dove erano i confini per dedurne le conseguenze dell'oggi, la pace è minacciata».

Se Mosca ha violato questo principio nel 2014, non è stato un errore continuare a costruire il gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2?
«Per quanto riguarda la dipendenza dal gas, dal petrolio e dal carbone russo, bisognava assicurarsi per tempo di poter essere forniti da altre fonti in tempi molto brevi. La Germania avrebbe dovuto finanziare terminali di gas naturale liquefatto e infrastrutture di importazione per le raffinerie di petrolio della Germania orientale, anche se non erano economicamente convenienti. Questo è il vero errore che mi preoccupa da molto tempo».

Nord Stream 2 non è mai stato essenziale per il nostro approvvigionamento energetico.
«Esatto. Il problema non è se ci sono due, tre o quattro gasdotti, ma che vengano tutti dalla Russia». (…)

Molti tedeschi fino ad ora sono stati scettici nei confronti della Bundeswehr. Sono pronti per un esercito più potente?
«Sì, anche perché sanno che una Bundeswehr equipaggiata meglio non significa un cambiamento verso una politica tedesca più aggressiva. Questa è la novità. Il nostro Paese dopo tutte le catastrofi della prima metà del XX secolo si è riposizionato come democrazia in modo che nessuno tema più una Germania militarmente (più) forte».

I DUBBI DEI 5 STELLE SULLE ARMI ITALIANE IN UCRAINA

Giuseppe Conte e i 5 Stelle vorrebbero discutere meglio delle decisioni strategiche cui l’Italia ha partecipato in queste ore. Manderemo nuovi aiuti militari in Ucraina, per combattere i russi. Quali armi e con quale obiettivo? La cronaca di Luca De Carolis per Il Fatto.

«L'avvocato si sporge un po' dal divano in tinta bordeaux e scandisce: "Il tema è l'indirizzo politico, cioè per cosa forniamo le armi e non quanto sono grandi: magari un carro armato è meno offensivo di certe armi più trasportabili, leggerezza e pesantezza non sono il criterio". Tardo pomeriggio, nella grande sede (500 metri quadri e più) del M5S a pochi passi dalla Camera. Qui Giuseppe Conte, completo blu d'ordinanza, racconta la linea dei 5Stelle sulle armi all 'Ucraina, definita un pugno di ore prima dal Consiglio nazionale, il sinedrio dei big allargato ai ministri (ma il titolare degli Esteri Luigi Di Maio non c'era, "perché in partenza per il Consiglio d'Europa a Strasburgo" spiegavano dalla Farnesina). A riunione finita, Conte scende all'ingresso e riassume: "Il M5s si oppone all'invio di aiuti militari e a controffensive che esulino dal perimetro del legittimo esercizio del diritto di difesa in base all'articolo 51 della Carta dei diritti dell'uomo". Tradotto, il punto non è quali armamenti mandare, ma per quale uso e con quale fine. "Il no all 'escalation militare è la linea del Piave del M5S" giura Conte, per poi spiegare: "Abbiamo chiesto al premier Draghi e al ministro della Difesa Guerini di riferire in Parlamento, in modo che ci sia piena condivisione e possibilità di conoscere gli interventi programmatici del governo". E se ci fosse un nuovo voto in Aula? "Voteremo conseguentemente: vogliamo che l'Italia sia protagonista di negoziati che portino ad una soluzione politica equilibrata". Saluti, poi l'ex premier sale le scale in pietra del palazzo in via Campo Marzio. Ma ha altro da dire. "Quello che ci sta a a cuore è che l'Italia contribuisca a determinare un indirizzo nelle sedi internazionali, non può essere che accade un incidente e poi assistiamo a un'escalation. Quando c'è un conflitto del genere va governato sulla base di una linea e va definito un perimetro. Dobbiamo riconoscere come legittimo l'esercizio dell 'autotutela". E devono farlo Draghi e Guerini, secondo l'avvocato: "Ma in questi giorni non ci siamo sentiti". Resta il fatto che sembra un confine labile. E Conte non lo nega: "Lo è, ma va declinato politicamente e non da generali". Va bene: ma come si tengono assieme le forze di maggioranza su questo? "Escludo che altri partiti si dissocino dal diritto all'autodifesa, nessuno ha detto il contrario. Se qualcuno invece vuole promuovere un'escalation... Chi lo vuole fare, Giorgia Meloni? Sta all'opposizione". Magari possono farlo Pd o Forza Italia, Conte... "Sarebbe un fatto nuovo. Nessuno finora ci ha detto che l'obiettivo non è difendere l'Ucraina ma distruggere la Russia". Il presidente americano Biden non sembra dire qualcosa di molto diverso, no? L'ex premier si ferma un attimo, poi replica: "E allora Draghi deve dirci quale linea e quale indirizzo faranno valere in sede internazionale". Ma scongiura questa opzione: "Sarebbe uno scenario da terza guerra mondiale, una follia. Un'eventua le controffensiva sarebbe un'altra prospettiva". E comunque, "bisogna ragionarne anche con Zelensky". Intanto resta la grana del presidente della commissione Esteri Vito Petrocelli, di cui Conte il 25 aprile ha sentenziato l'immediata espulsione dal Movimento. I 5 Stelle sono disposti a dimettersi in massa dalla commissione per farlo rimuovere?
"Se non troveremo altra strada, ci arriveremo. Siamo disponibili a ogni misura per garantire che lui non resti a presiedere. Ma non può essere una nostra iniziativa: dobbiamo deciderlo con gli altri partiti".
Nell 'attesa, "stasera (ieri, ndr) verrà espulso dal gruppo del Senato, grazie a una modifica del regolamento". Conte si alza e si raccomanda: "Non deformi il mio pensiero". Perché è questione di guerra o pace».

Alessandro Sallusti nel suo editoriale per Libero polemizza direttamente con Beppe Grillo, che ha detto: “Disarmiamoci”.

«Durante i dibattiti cui partecipo, spesso sento dire agli interlocutori che la pensano diversamente da me una frase che sta diventando un mantra: «Ma insomma, sarà possibile o no porsi delle domande?». Certo che è possibile, anzi porsi domande non solo è utile ma necessario. E infatti le mie contestazioni alle loro tesi non riguardano le domande bensì le risposte che si danno, il più delle volte strampalate, retoriche o banali teorie di buoni propositi. Per esempio la domanda che ieri si è posto Beppe Grillo su come evitare la Terza Guerra mondiale è ovviamente legittima. Ma se la risposta che lui dà è: «Disarmiamoci, aboliamo i nostri eserciti come ha fatto il Costa Rica», ecco che la tragedia assume i contorni della farsa e non penso proprio che questo sia il momento di sparare castronerie. La ricetta di Grillo è vecchia come il mondo, addirittura ci aveva pensato il buon Dio- ben prima dell'apparire dei Cinque Stelle - quando in uno slancio di malriposta fiducia nelle sue creature collocò il primo uomo, Adamo, e la prima donna, Eva, nel giardino dell'Eden perché l'umanità vivesse in armonia con se stessa e con la natura. Non aveva, il Creatore, previsto che Eva avrebbe mangiato la mela proibita e quindi la storia dell'uomo andò diversamente. Disarmare l'Italia, l'Europa, o addirittura il mondo intero, è una idea geniale che però non tiene conto del peccato originale, quindi è una stupidaggine da comico in là con gli anni. I Cinque Stelle del resto sono specialisti a dare risposte cretine a domande intelligenti. Tipo individuare nella "decrescita felice" la soluzione per le ingiustizie sociali, o nel "reddito di cittadinanza" la ricetta economica per abbattere la disoccupazione, nel "no oleodotti" la risposta immediata all'inquinamento, nel "no vaccini" l'arma per vincere la pandemia Covid. "Come mettere fine alla guerra?" è una domanda necessaria, merita risposte forti e immediate che non possono però essere rese o rinunce unilaterali né fondate sui ricatti e sulle menzogne. In attesa quindi che l'umanità rinsavisca teniamoci i nostri eserciti che non si sa mai cosa ci riserva il domani: la storia dell'uomo è disseminata di serpenti».

MORTA LA VEDOVA ALMIRANTE

Le altre notizie di oggi. È morta a 100 anni donna Assunta, moglie di Giorgio Almirante, fondatore dell’Msi. Si oppose alla Svolta di Fiuggi ed era la custode della memoria dell’estrema destra italiana. Fabio Martini per La Stampa.

«Per tutta la sua lunghissima vita, durata un secolo, donna Assunta portò il suo nome spagnolesco con gran temperamento, arrivando a dire: «Sono imperatrice madre. Il popolo missino è mio». Un'autonomina da "sacerdotessa" dell'ortodossia della destra italiana decisamente impegnativa. E tuttavia quando il suo Giorgio - capo carismatico del Movimento sociale - la lasciò (era il 1988), Raffaella Assunta Stramandinoli vedova Almirante divenne per la destra missina quel che la moglie e la figlia del Duce, Rachele Mussolini ed Edda Ciano, erano state per il fascismo: testimoni e custodi della memoria. In questo modo perpetuando una tradizione: quella delle donne volitive della destra italiana. Rachele, Edda, Assunta e, oggi, in una situazione diversa, Giorgia Meloni. Una storia italiana del Novecento, quella di Raffaella Assunta Stramandinoli. Era nata a Catanzaro il 14 luglio 1921, dunque un anno prima della marcia su Roma: con un portamento e con i lineamenti della bella ragazza meridionale, a 17 anni si sposa col marchese Federico de' Medici, un possidente agrario, di 30 anni più grande di lei. Allora si usava così, ma la ragazza ha temperamento e, contro le convenzioni dell'epoca, ribalta il suo destino, lasciandosi trascinare dalla passione. Nel 1951, in quel di Cirò Marina, Assunta conosce Giorgio Almirante, che all'epoca era sposato, ma solo con rito civile. Ha raccontato lei: «Vestiva malissimo, da vergognarsi, con la camicia alla Robespierre, i sandali e le unghie di fuori, era smunto, ma mi colpì l'eloquenza da incantatore e la bellezza. Era bellissimo». Per molti anni restarono clandestini ma poi, quando nel 1968 il marchese de' Medici muore, Almirante si fa trovare "libero": aveva divorziato. Erano anni nei quali milioni di italiani, i nostalgici del fascismo, vivevano in una sorta di apartheid politico e sociale, quasi stranieri in patria e Giorgio Almirante - anche negli incontri segretissimi con Enrico Berlinguer - cercava di evitare che la generazione più giovane della destra si bruciasse. Disse in anni recenti Assunta: «Berlinguer? Una persona splendida. Si vedevano con Giorgio, nei momenti più bui e pericolosi». Giorgio chiamava scherzosamente Assunta lo «zio Adolfo» e sino a quando fu vivo, la moglie non ebbe ruoli politici. Non li ebbe neppure dopo, ma le sue interviste si trasformavano in pagelle con promossi e bocciati. Donna Assunta era verace, fumantina, lapidaria. Alessandra Mussolini? «Che deve fare quella? Ha pure aperto una pizzeria. Non è una vera Mussolini. Lei è goliardica, non è una persona seria come il nonno. Il suo cognome non le sta addosso». Gianfranco Fini? «Anche mio marito era convinto che il partito avesse bisogno di un giovane che non avesse avuto rapporti col fascismo e che potesse portare avanti un Msi rinvigorito. Purtroppo il buon Dio ha cambiato le carte in tavola». Nel senso che quando Fini completò la storica svolta di Fiuggi, lei osteggiò lo spegnimento della fiamma missina. Donna Assunta non fu mai fascista o neo-fascista. Racconta l'ultimo portavoce di Almirante, Massimo Magliaro - «uno di famiglia», come lo definiva lei - «è stata una donna sfaccettata: era amica di Bertinotti e di Walter Chiari, di Cossiga e di Raimondo Vianello, aveva rapporti con Pertini e con Forlani e grazie alle sua comunicativa, si fece dire una battuta scherzosa anche dal generale De Gaulle: lei così bassa, io così alto!». Negli ultimi anni per chi aveva accesso nella vecchia casa al quartiere Parioli era impossibile sfuggire allo sguardo di Giorgio Almirante: le foto opache, i ricordi, le gigantografie spuntavano da ogni angolo e una volta, al cronista de La Stampa, donna Assunta lesse il testamento del marito: «È un bene che uomini come me non raggiungano il successo. Di me si deve poter dire: era fatto per i tempi duri e difficili, era fatto per seminare e non per raccogliere». E sul rapporto con la moglie: «Ti temo anche io, vivo di riflesso e il mio sole sei tu...». Diversi anni fa Giuliano Ferrara scrisse di donna Assunta: «È il tipo classico del potere carismatico: fosse vivo Max Weber, il grande sociologo della prima metà del Novecento, avrebbe studiato il suo caso».

PRIMO SÌ ALLA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

Giustizia, primo sì alla riforma della giustizia firmata da Marta Cartabia. A Montecitorio 328 voti favorevoli e 41 contrari. Ora l'intesa alla prova del Senato. Virginia Piccolillo per il Corriere.

«Credo che in questo passaggio sia la migliore riforma possibile pur consapevoli che tutto è perfettibile». È ricorsa a Leibniz la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per invocare il voto di Montecitorio sulla riforma del sistema di voto del Consiglio Superiore della Magistratura e dell'ordinamento giudiziario. Ha funzionato. Almeno per ora. Con 328 voti favorevoli e 41 contrari il disegno di legge delega passa ora al Senato per l'approvazione definitiva. Ma lì il «perfettibile» potrebbe trovare alleanze desiderose di modificarlo. E l'accordo di maggioranza potrebbe farsi più fragile. In molti già alla Camera non hanno votato la riforma, anche se a rimanere fuori dall'accordo è stata ufficialmente solo Italia viva, che come preannunciato si è astenuta. Tante le poltrone vuote. I più presenti sono stati i dem che hanno votato in 67 su 97 (il 69%, con 17 deputati non in missione ma assenti). Solo il 61% (vale a dire 95 su 154 con 28 assenti) i Cinque Stelle che hanno approvato il testo modificato della ex riforma Bonafede. Nella Lega 86 su 133 (con 31 assenti) hanno votato il ddl. E anche un terzo dei forzisti non erano presenti. «Un provvedimento molto sofferto» lo definisce Francesco Paolo Sisto, sottosegretario azzurro alla giustizia, «ragionevolmente ottimista del buon esito anche al Senato» e convinto che il presidente dell'Associazione nazionale magistrati «sappia gestire questo passaggio» e contenere la protesta delle toghe. Una sofferenza che trapela dalle dichiarazioni di molti. «Non è la nostra legge, ma grazie a noi c'è lo stop alle porte girevoli politica-magistratura», dice Valentina D'Orso rivendicando al M5S la funzione di «argine a derive che avrebbero minato l'indipendenza della magistratura». Se festeggia con un tweet il leader dem, Enrico Letta («Bel passo»), la collega Rossomando richiama gli alleati all'accordo: «Ci aspettiamo un iter rapido per una riforma che introduce lo stop alle nomine a pacchetto, la separazione tra disciplinare e nomine, il voto degli avvocati nei consigli giudiziari, più trasparenza nelle valutazioni». Esulta Pierantonio Zanettin, capogruppo forzista in commissione giustizia: «Non sarà più possibile che giudici e pm si scambino i ruoli più volte e che carriera e valutazioni proseguano, indipendentemente dagli errori giudiziari». E il calendiano Enrico Costa rimarca le «novità rivoluzionarie, come il fascicolo per la valutazione del magistrato proposto da Azione». Non la pensano così i renziani come Cosimo Ferri («Non c'è stata la minima possibilità di incidere») né tantomeno i deputati di Fratelli d'Italia: «Non c`è il sorteggio per l'elezione Csm né la separazione delle carriere. L'unica novità è il passaggio da 24 a 30 membri del Csm per consentire maggiori giochini stile Palamara: il correntismo, commosso, ringrazia», dichiara Andrea Delmastro. E Andrea Colletti, di Alternativa, ricorda che dopo il caso Palamara si voleva bloccare la «lottizzazione delle correnti» ma si risponde con una «riforma che ne aumenta il potere all'interno del Csm e non elimina il potere dei politici all'interno del Consiglio». Infine la Lega, capace di fare la differenza al Senato. La responsabile giustizia, Giulia Bongiorno, lo ha già detto e lo ripete: «Il testo della riforma del Csm presenta solo alcune novità apprezzabili ma non centra l'obiettivo di frenare le degenerazioni del correntismo».

MUSK IL PAZZO DIVENTA PADRONE DI TWITTER

Nicola Porro sul Giornale analizza la notizia bomba nel mondo dell’industria digitale: Elon Musk ha acquisito il controllo di Twitter. Ci farà tornare Donald Trump, che era stato a suo tempo bandito?

«Elon Musk è un pazzo scatenato. Sì, avete letto bene. Essere l'uomo più ricco del mondo non esclude la follia, che può essere lucida. E soprattutto non esclude la voglia di avere sempre fame, per usare i termini del mitico Steve Jobs. Per questo è un po' diverso dal John Galt, l'eroe della libertaria Ayn Rand, che in pochi in Italia conoscono, ma che molti imprenditori della Silicon Valley continua ad influenzare. Dietro la sua scalata a Twitter, il più traballante dei social network, ma il più usato dall'establishment di tutto il mondo, ci sono sicuramente ragioni finanziarie. Ha comprato valutando l'affare 44 miliardi di dollari, 54 dollari ad azione: più dei 44 delle ultime quotazioni, molto meno dei 77 che valeva solo pochi mesi fa. È un pazzo visionario che si è inventato Tesla, che è ancora una scommessa, ma che è diventato uno dei marchi più famosi del mondo. È un pazzo visionario che si è inventato Space X, per i viaggi spaziali, quando nessuno ci pensava. Un bambino bullizzato in Sudafrica che lascia Stanford dopo solo due giorni. E poi a 28 anni si inventa Paypal, la società dei pagamenti che si apre in un click. E da lì, lo spazio, l'ecologia, i trasporti, i collegamenti neurali fino a Twitter. Di sé ha detto: sono progressista sui diritti civili, conservatore su quelli fiscali. Dichiarazione molto simile a come si definiva un liberale Antonio Martino. È un ambientalista convinto, ma un distruttore del politicamente corretto. È contro il mainstream, anche se ne fa parte. La California, a cui deve molto, l'ha mollata solo un anno fa per il Texas: troppe tasse. Ha votato con i piedi. E ora arriviamo a Twitter. Quello di Musk si annuncia come un incubo dei progressisti. Musk lo vuole rendere un social libero: niente più censure. In cui tutti possano esprimere le proprie opinioni, anche le più urticanti. Alla sinistra non va giù: è il suo cortile di casa. E teme che Trump, espulso dal social, possa così ritornarci. Non è detto che l'ex presidente lo faccia. E pochi si ricordano come Musk fosse sì contrario all'espulsione di Trump, ma fosse stato anche un suo acerrimo nemico riguardo ai cambiamenti climatici. Com' è quella frasetta, erroneamente attribuita a Voltaire: «Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire». Musk è un libertario che sa fare i soldi. Il fondatore di Twitter, Jack Dorsey che vive digiunando e meditando e che si sente un eroe randiano, non poteva che apprezzare l'arrivo di Musk. La sinistra, i liberal americani, i politicamente corretti di tutto il mondo stanno invece schiumando dalla rabbia. È la rivolta di Atlante, è l'Atlas Shrugged di Ayn Rand. Adesso vedremo che sapranno fare».

ULRICH NUOVO ARCIVESCOVO DI PARIGI

Papa Francesco ha nominato il nuovo arcivescovo di Parigi: è Laurent Ulrich, 70 anni, dal 2008 vescovo di Lilla. La cronaca di Daniele Zappalà per Avvenire.

«I fedeli parigini potranno presto porgere il loro abbraccio a un nuovo arcivescovo nominato ieri da papa Francesco, monsignor Laurent Ulrich, 70 anni, che lascerà l'importante sede arcivescovile di Lilla, dov' era insediato dal 2008. Sarà dunque una figura di grande esperienza proveniente dal Nord a tendere la mano verso una diocesi ancora scossa dalle dimissioni di monsignor Michel Aupetit, nella scia del clamore sollevato da accuse di stampa circa i rapporti con una donna: un pastore «vittima del chiacchiericcio», secondo le parole di papa Francesco, che aveva accettato le dimissioni «non sull'altare della verità, ma sull'altare dell'ipocrisia». L'arcidiocesi è attualmente guidata da monsignor Georges Pontier, nominato amministratore apostolico lo scorso 2 dicembre, dopo aver già guidato la Conferenza episcopale francese fra il 2013 e il 2019. La celebrazione d'insediamento di monsignor Ulrich è prevista nel pomeriggio del 23 maggio presso la Chiesa di Saint-Sulpice, scelta per fare le veci della Cattedrale Notre-Dame, ancora inagibile dopo il drammatico rogo del 15 aprile 2019. Al nuovo arcivescovo spetterà pure questa missione di supervisione del cantiere più seguito di Francia, che dovrebbe portare in teoria alla riapertura della Cattedrale nel 2024. Al contempo, la sede arcivescovile parigina è tradizionalmente pure quella più investita nel dialogo con le autorità politiche, che vivono in queste settimane gli sgoccioli della prima legislatura guidata dal presidente Emmanuel Macron, appena rieletto e pronto presto ad inaugurare ufficialmente un nuovo mandato. Fra le qualità più spesso riconosciute a monsignor Ulrich, vi è una grande capacità di dialogo con i sacerdoti e i fedeli. Inoltre, di fronte al dramma dei migranti giunti in particolare lungo il litorale settentrionale della Manica, il pastore si è particolarmente distinto negli ultimi anni per la forza delle proprie prese di posizione a favore dell'accoglienza e del dovere di umanità. Come osservavano già ieri diversi commentatori, si tratta di una figura il cui percorso pastorale non ha mai fatto scalo nelle diocesi della regione parigina.
«Ho probabilmente avuto un po' di timore dapprima, ma credo sia stato il Signore a rasserenarmi e a permettermi di comprendere che la chiamata giungeva davvero da Lui e che Lui ha deciso che io vada con le mie qualità e le mie insufficienze per essere al vostro servizio», ha dichiarato ieri il pastore in un messaggio video indirizzato ai parigini, aggiungendo: «Non ho piani, ma sono pronto per conoscervi, per manifestarvi l'amicizia di Gesù Cristo che porto con me». A proposito degli eventi che hanno turbato i fedeli, monsignor Ulrich ha affermato: «Sarò attento ad ascoltare le pene che avete vissuto in questi ultimi mesi ed anni, con la partenza del mio predecessore e anche con questo incendio tragico della Cattedrale. Notre-Dame di Parigi occupa un tale posto nel cuore dei parigini, dei francesi e di molti altri attraverso il mondo, che so bene quanto il destino di questa Cattedrale abbia qualcosa da apportare, una testimonianza straordinaria». Nato nel 1951 a Digione e ordinato nel 1979, il pastore ha poi esercitato il suo ministero nella Borgogna natale, prima della nomina nel 2000 come arcivescovo di Chambéry (Savoia), seguita da quella a Lilla nel 2008. Attualmente, presiede il Consiglio per l'Insegnamento cattolico della Conferenza episcopale. Ai fedeli parigini recherà pure il proprio motto episcopale: "La gioia di credere"».

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Tutti pazzi per la guerra

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