La Versione di Banfi

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Tutu, l'uomo del perdono

alessandrobanfi.substack.com

Tutu, l'uomo del perdono

Scompare il Vescovo sudafricano che riconciliò il Paese dopo l'apartheid. Covid, via ai nuovi divieti. Dopo l'Est, crollo dei contagi anche in Germania. Corsa al Colle: è il momento di Letta Zio

Alessandro Banfi
Dec 27, 2021
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Tutu, l'uomo del perdono

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Ciò che gli scienziati stanno notando è che questa ultima ondata da variante Omicron colpisce in grande quantità e più velocemente. E tuttavia tende anche a calare drasticamente, in modo veloce. E soprattutto che le sue conseguenze sono meno gravi della Delta. In Israele si è deciso di non procedere alla quarta dose. A stupire, già qualche giorno fa, erano stati i dati di un crollo rapido del contagio nell’Est Europa. Ieri le notizie sul drastico calo in Germania, certamente dovuto anche al lockdown dei No Vax. A proposito, la domanda è: i No Vax possono essere responsabili nel mantenere la loro linea di rifiuto della vaccinazione e rinunciare a circolare? Eppure è successo in Germania, un Paese dove proteste e manifestazioni sono state in passato durissime. Colpisce stamattina, in negativo, il racconto di Chiara Galeazzi sul Foglio (lo trovate nei pdf). È una lettura istruttiva: la giornalista è stata ricoverata per un’emorragia cerebrale, ha condiviso la circostanza sui social e ha dovuto subire uno tsunami di commenti No Vax. Nel migliore di casi le spiegano che è colpa del vaccino, nel peggiore le augurano direttamente la morte. Da notare che in Germania i vaccinati sono solo il 70 per cento, da noi il 90% degli over 12. Da oggi e fino a febbraio scattano nuovi divieti. Particolarmente importante quello sulle FFP2 da indossare sui mezzi pubblici. Vedremo se sarà rispettato.

Migranti. La stampa di destra stamattina grida all’invasione di Natale. In realtà i giorni di festa sono stati segnati dal naufragio nel mare Egeo di almeno due barconi di profughi. Interessante l’approfondimento che propone oggi il Corriere della Sera sul decreto flussi voluto dal governo. Ci sono almeno 70 mila contratti di lavoro, soprattutto nel Nord Italia, che aspettano manodopera.

Per la corsa al Quirinale si apre una fase decisiva, perché se la scorsa settimana è stato Mario Draghi a pronunciarsi, venerdì, nel tradizionale discorso della sera di San Silvestro, parlerà Sergio Mattarella. Dovrebbe essere il suo ultimo discorso da Presidente della Repubblica. Qualunque cosa dirà, influenzerà gli eventi. Oggi sui giornali è il giorno di Letta (Gianni, lo zio): a lui tocca la moral suasion nei confronti di Silvio Berlusconi. Deve convincerlo che se il Cav non avrà i voti, può diventare il king maker di Mario Draghi e salvare i destini del Paese. Mieli insiste sul Corriere in questo concetto: non possiamo permetterci di perdere l’attuale premier.   

È morto Desmond Tutu, una delle figure più significative della storia recente. Come scrive Quirico sulla Stampa, un uomo che insieme a Mandela e De Klerk ha “realizzato uno dei pochi miracoli del feroce ventesimo secolo, aver cioè traghettato il Paese della bestemmia bianca dell'apartheid, senza vendette, nell'età dei diritti e dell'eguaglianza razziale”. Su Repubblica c’è un bel ricordo personale del cardinal Zuppi. In Afghanistan nuovi divieti per le donne, nella sua Lettera da Kabul il medico italiano della Croce Rossa Alberto Cairo, stampata da Repubblica, racconta che non ha avuto il coraggio di dire agli afghani di come in Occidente non si pensi più al loro Paese. Per non togliere loro un po’ di speranza.

Qual è il significato del Natale? Comunque la pensiate, è la memoria di un dono, di una nascita, di una vita data per gli altri. L’invito che vi faccio è allora tornare ad ascoltare, in questi giorni più tranquilli e familiari di festa e di riposo, il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Simone Weil nel suo libro La persona e il sacro scrive: “Dalla prima infanzia sino alla tomba, qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini, compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”. Il Natale conta su questo cuore. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Il ritorno dopo la pausa natalizia vede i giornali in ordine sparso, quanto ai temi di apertura. Anche se la pandemia domina sempre. Il Corriere della Sera punta su un’intervista al generale Figliuolo: «Varianti, ecco il mio piano». Il Mattino intervista il virologo dell’Oms Walter Ricciardi: «Covid, il picco a gennaio centomila casi al giorno». Stessa intervista del Messaggero che però sottolinea un altro passaggio: «Le tre varianti del virus nate in Paesi meno vigili». Libero si lamenta di quella che chiama: La quarantena dei sani. Stessa idea in fondo anche per La Repubblica: Prigionieri del virus. Il Quotidiano Nazionale però nota i dati record della diffusione del virus: Tutti contagiati. La Stampa riflette i gravi problemi di ritardo della Regione Piemonte: Tamponi e terze dosi, caos di fine d’anno. Di migranti si occupa la stampa di destra con toni allarmistici. Con Il Giornale: Invasione di Natale. E La Verità: Con Lamorgese sbarchi sestuplicati e l’Ue s’è presa un clandestino su 100. Di Quirinale si occupa Domani, con una foto di Gianni Letta: Le mosse di Letta sul Colle. Il Fatto attacca la ministra della Giustizia per via di una delega al sottosegretario Sisto: Cartabia piazza l’avvocato di B. a giudicare i magistrati. Il Sole 24 Ore torna sulla manovra: Addio Irap (e liti): chi guadagna e chi no.

QUANDO E COME: LE NUOVE REGOLE E I DIVIETI

Ecco il punto su regole e divieti, quando e come si cambia. Da subito: stretta per consumare nei bar e nei ristoranti e mascherina FFP2 sui mezzi. Da febbraio il Green pass durerà solo sei mesi. Sarzanini e Guerzoni per il Corriere.

«Con la riapertura delle attività scattano le regole e i divieti previsti dal nuovo decreto per contenere i contagi da Covid- 19. Ecco tutte le nuove scadenze sulla base del doppio sistema previsto per le certificazioni: il green pass rafforzato è rilasciato a guariti e vaccinati, il green pass base si ottiene con tampone molecolare che ha validità 72 ore oppure antigenico che ha validità 48 ore.

OGGI Green pass Il green pass rafforzato è obbligatorio per: - ristoranti al chiuso e bar per la consumazione al bancone; - cinema e teatri; - stadi; - eventi sportivi; - cerimonie pubbliche. Il green pass base è obbligatorio per: - palestre e piscine; - centri sportivi; - spogliatoi per l'attività sportiva; - alberghi; - aerei, treni, navi; - autobus, tram, metropolitane.

MASCHERINE Obbligo di mascherina all'aperto anche in zona bianca fino al 31 gennaio 2022. Obbligo di indossare le Ffp2 fino al 31 marzo per: - spettacoli aperti al pubblico che si svolgono all'aperto e al chiuso in teatri, sale da concerto, cinema, locali di intrattenimento e musica dal vivo (e altri locali assimilati); - eventi e competizioni sportive che si svolgono al chiuso o all'aperto; Divieto di consumare cibi e bevande in tutti questi luoghi. Obbligo di Ffp2 anche: - su tutti i mezzi di trasporto a lunga percorrenza, aerei, navi, treni; - su tutti i mezzi di trasporto pubblico, autobus, tram, metropolitane.

FESTE Chiusura delle discoteche fino al 31 gennaio 2022. Divieto di feste nei locali pubblici fino al 31 gennaio 2022. Avvio della campagna vaccinale per il richiamo per la fascia d'età 12/17 anni.

30 DICEMBRE Obbligo di green pass rafforzato per le strutture residenziali e socio sanitarie. Chi ha effettuato la seconda dose è obbligato a esibire l'esito negativo di un tampone antigenico o molecolare. 10 GENNAIO Il green pass rafforzato sarà obbligatorio anche per: - al chiuso, per piscine, palestre e sport di squadra; - musei e mostre; - al chiuso, per i centri benessere; - centri termali (salvo che per livelli essenziali di assistenza e attività riabilitative o terapeutiche); - parchi tematici e di divertimento; - al chiuso, per centri culturali, centri sociali e ricreativi (esclusi i centri educativi per l'infanzia); - sale gioco, sale scommesse, sale bingo e casinò; - corsi di formazione in presenza.

1 FEBBRAIO Il green pass rafforzato avrà validità sei mesi a partire dall'ultima somministrazione vaccinale.

31 MARZO Scade lo stato di emergenza per la pandemia da Covid-19».

I gestori sono in rivolta: "Le nostre discoteche sono sicure, senza Capodanno siamo destinati a fallire". Viola Giannoli per Repubblica.

«È durata un battito la speranza di Capodanno. Precipitata, subito dopo, in protesta. Dopo 20 mesi di chiusura - tra l'8 marzo 2020 e l'11 ottobre 2021 con una piccola pausa sotto cassa l'estate scorsa - le discoteche di tutta Italia avevano programmato serate, eventi, dj set per la notte del 31. Quell'unica data in grado, secondo i gestori, di fatturare il 15 per cento dell'incasso di tutto l'anno. E invece, dal 25 sera, almeno 1.500 locali hanno spento di nuovo la musica, annullato gli eventi e iniziato pure a rimborsare i biglietti. «Ci risiamo, il decreto legge Festività ha richiuso discoteche e sale da ballo senza nessuna spiegazione logica. Nei due mesi di apertura abbiamo registrato zero contagi eppure il nostro è l'unico settore penalizzato, nel periodo dell'anno più importante, senza neanche ristori», si sfogano dal Duel Club di Napoli, considerata una delle migliori discoteche del Paese. Solo loro hanno 32 dipendenti diretti e 29 di società esterne, più altre 50 persone tra comunicazione e pubbliche relazioni in un settore che in tutto ne conta 100 mila, secondo il sindacato dei locali da ballo (Silb). «Avevamo già investito come altri imprenditori migliaia di euro. E invece lo Stato ha chiuso il Capodanno che per molte società era forse l'unico spiraglio di salvezza dopo due anni di chiusura forzata », dice anche Davide Bornigia, vicepresidente del Piper di Roma, figlio del patron Giancarlo. La protesta non ha città, nonostante i 30-40-50 mila contagi al giorno. Ed è l'unica, No Vax a parte, che si leva forte dopo l'ultimo decreto, oltre alle richieste di calmierare i prezzi delle mascherine Ffp2, oggi vendute online a 50 centesimi al pezzo ma in farmacia pure a 2 euro. A Firenze, al Tenax, altro tempio del ballo, si respira aria pesante: «Ancora una volta ci troviamo a far fronte a un pesante danno economico causato dalla scarsa considerazione per il nostro settore». Più su, al Cocoricò di Riccione, si parla, con poca stima, di «ennesima sorpresa del governo ». I gestori dei locali non sono mai scesi in piazza, al contrario di ristoratori o musicisti, colpiti dalle chiusure delle prime ondate. Ma ora, spiega Gianni Indino, presidente del Silb Emilia-Romagna, «la base dei nostri associati chiede un'azione forte, una protesta decisa, plateale ». Indino è «amareggiato e deluso dal nuovo duro colpo alle sale da ballo, sull'orlo del fallimento». Sui social girano i post, si ricondividono sfoghi. Tra deejay e cubiste c'è anche chi «accetta pur senza condividere » le nuove regole, si sente «un capro espiatorio», si augura che «la misura riduca i contagi» ma, dice, «non siamo più pericolosi di altri». Il timore, e la beffa, «è che la gente si assembri in altri luoghi pubblici e privati: ristoranti, ville, piazze». La stessa paura di Stefano Bonaccini, presidente dell'Emilia Romagna, terra di night club, che prevede «il proliferare, come è stato quest' estate, di feste private incontrollabili. È l'unico punto (quello delle discoteche, ndr ) su cui avevo suggerito di utilizzare il Super Green Pass e i tamponi». Così era previsto dalla bozza di decreto del 23 dicembre, una possibilità che si era affacciata in cabina di regia, poi sparita in corsa al Consiglio dei ministri».

IL CASO GERMANIA: LOCKDOWN PER I NO VAX E GIÙ IL CONTAGIO

Berlino e Vienna invertono la curva dei contagi grazie ai divieti imposti ai soli No Vax. Ieri il crollo dei nuovi infetti. Tonia Mastrobuoni per Repubblica.

«La Germania e l'Austria sembrano aver spezzato la quarta ondata da coronavirus, che aveva travolto i due Paesi in autunno soprattutto per l'effetto della variante Delta. I dati più recenti vanno interpretati con la dovuta cautela, perché nei giorni di Natale molte amministrazioni locali non li trasmettono in tempo e in Austria il numero dei tamponi è sceso significativamente. Ma in Germania i nuovi infetti sono crollati ieri a 10.100, un quinto rispetto all'inizio di dicembre, quando viaggiavano al ritmo di 50mila al giorno. Mentre in Austria i positivi registrati a Natale sono 1.717 - un mese e mezzo fa sfioravano quota 15mila. La tendenza al ribasso si osserva in entrambi i Paesi da settimane. E la discesa è cominciata da quando sono entrate in vigore le nuove disposizioni anti-Covid, in sostanza, con l'arrivo del "lockdown per i non vaccinati" annunciato da Berlino e Vienna a fine novembre. Per scongiurare un ritorno ai ristoranti e alle palestre chiuse, ai negozi con le saracinesche abbassate in pieno periodo natalizio, ma anche per far salire una quota di vaccinati che in Germania langue ancora attorno al 70% e in Austria poco sopra il 71%, entrambi i governi hanno deciso a novembre di escludere dalla vita pubblica i non immunizzati. Che possono andare soltanto al supermercato o in farmacia e vedersi poco in privato. Grazie alla cosiddetta regola "2G" (vaccinato o guarito), i No Vax fanno la vita che tutti facevano un anno fa, quando i vaccini non esistevano e la pandemia costringeva tutti a barricarsi in casa. Da circa un mese, appena varcano la porta di un ristorante, un grande magazzino, una palestra o un caffè, tedeschi e austriaci devono esibire il vaccino o l'attestato di guarigione. Tertium non datur: i tamponi non sono ammessi. Per Vienna il "lockdown per i non vaccinati" è stato anche un modo per scongiurare la fine prematura della stagione sciistica. È presto per cantare vittoria perché non è detto che si riesca a scongiurare una «massiccia quinta ondata », come ha avvertito anche il ministro della Salute tedesco Karl Lauterbach (Spd) che potrebbe essere provocata dal rapido diffondersi di Omicron. Per ora soltanto il 20% dei nuovi infetti in Germania è attribuibile all'ultima mutazione del Covid. Ma la tendenza è in forte aumento. Secondo l'Istituto Koch, «i dati raccolti finora sui sintomi fanno pensare a un decorso poco grave, nel caso di persone completamente vaccinate o che hanno fatto il richiamo ». E la buona notizia per Berlino, confermata proprio ieri dal ministro- epidemiologo, è che una percentuale alta di tedeschi è già corsa a fare il booster. L'obiettivo dell'esecutivo di 30 milioni di persone tri-vaccinate entro la fine dell'anno, ossia oltre un terzo della popolazione, è stato raggiunto. L'Austria è ferma a 3,5 milioni di terze dosi. Ma Vienna inizia un altro esperimento inedito da febbraio, quando entrerà in vigore l'obbligo vaccinale. Chi terrà duro nei prossimi due anni dovrà prepararsi a sborsare 4.800 euro per il rifiuto di immunizzarsi. E continuerà a uscire molto poco di casa».

BASTA TAMPONIFICIO, LIBERATE I VACCINATI”

Libero rilancia a modo suo l’esempio tedesco. «Basta tamponificio liberiamo i vaccinati o il Paese si ferma». Alessandro Giuli.

«I dati pandemici di ieri ci dicono che la riduzione dei contagi giornalieri (24.883) è commisurata al calo dei tamponi e anzi oltre un tampone su 10 risulta positivo (11,5 per cento). Ma basta guardare al numero indipendente dei deceduti (81: in deciso calo, al netto di eventuali riconteggi) per comprendere che forse ci stiamo perdendo in una psicosi da tracciamento disordinato. Di questo passo, con una situazione sanitaria che appare sotto controllo, l'Italia rischia invece di trasformarsi in un tamponificio d'emergenza che ci consegnerà tutti agli arresti domiciliari. Anche soltanto il buon senso suggerirebbe più cautela, sia nel ricorrere al test come unico indicatore dell'impatto pandemico sia nel tracciamento fai-da-te al quale gli italiani si stanno dedicando forsennatamente in questo periodo di feste. Con il risultato che, fra molecolari e antigenici e salivari da bancone in farmacia, la quantità dei falsi positivi cresce in forma esponenziale e diventa un moltiplicatore di altri carotaggi nasali. Bisognerebbe ascoltare il parere di esperti al di sopra d'ogni sospetto, per esempio il popolarissimo Matteo Bassetti del San Matteo di Genova (direttore del reparto di Infettivologia): «Se continuiamo con queste regole, per ogni persona risultata positiva al Covid-19 ci sono 50 persone che devono stare a casa ma ormai, per l'ampia diffusione del virus, il tracciamento non ha più senso». Bassetti utilizza una metafora calzante: «Dobbiamo smettere di pensare che se qualcuno ha il tampone positivo pensa di essere appena uscito dal reattore nucleare di Chernobyl; perché non è così». Ci stiamo insomma avvitando su noi stessi, stiamo abusando di uno strumento che implica l'immediata attivazione di un protocollo d'isolamento rigidissimo e ancora collegato alla forza impattante del Covid-19 in versione originaria o nella più scorbutica variante Delta. «Se continuiamo in questo modo a "tamponarci" tutti - prosegue Bassetti - anche chi non ha sintomi o magari ha un raffreddore, cosa potrebbe accadere il 25 gennaio con magari 1,5 milioni di persone contagiate? Vorrebbe dire avere 10 milioni di persone ferme e in quarantena. In quel caso chi va a fare il pane, chi guida l'autobus, chi va a insegnare a scuola? Chi garantirà la sicurezza? Chi batterà lo scontrino al supermercato? Chi lavorerà in ospedale? Si rischia di avere un Paese ingessato». Non è un allarme da poco, e dopotutto è un fenomeno che chiama in causa le responsabilità del circo mediatico alle prese con la necessità di trovare un punto di equilibrio tra informazione e infodemia. Sempre ieri ha preso posizione al riguardo anche Alberto Zangrillo, il medico personale di Silvio Berlusconi nonché primario Anestesia e Rianimazione al San Raffaele di Milano. Lo ha fatto con un post su Twitter in cui ha commentato con queste parole la foto di una coda fuori da una farmacia milanese che effettua tamponi rapidi in Corso Buenos Aires: «Santo Stefano, ore 10 a Milano. Duecento metri di coda per alimentare le casse delle farmacie, il terrorismo giornalistico e certificare la morte del Paese». Certo Zangrillo, che per inciso è appena stato nominato anche presidente del Genoa Calcio, rappresenta un bersaglio facile per la contronarrazione sensazionalistica formulata dagli idolatri dei tamponi: lui è quello che nel maggio del 2020 dichiarava che il Coronavirus era «clinicamente morto», salvo poi ricredersi nell'autunno successivo a causa della seconda ondata. Ma essendo appunto un medico clinico, uso quindi a giudicare l'evidenza empirica, così come non aveva tutti i torti allora - il Sars-CoV2 sembrava davvero in remissione globale - altrettanta ragione potrebbe avere adesso. Qui non si tratta di demonizzare il sistema complessivo del tracciamento quanto piuttosto di ridurre la circostanza attuale alle sue misure reali. La variante Omicron si dimostra senza dubbio estremamente contagiosa e capace di perforare gli scudi vaccinali, sebbene non al punto di mettere al tappeto i contagiati come le precedenti incarnazioni del virus cinese. La pressione ospedaliera è in relativo aumento quasi soltanto fra i no-vax e in linea generale ci troviamo prevalentemente al cospetto di vaccinati con 2-3 dosi che restano a casa con un raffreddore o una forma influenzale che dura 3-4 giorni. Se è vero, come dice sul Corriere della Sera lo scrittore-scienziato Paolo Giordano, che la piccola percentuale (ospedalizzati e morti) di un numero enorme (contagiati) resta potenzialmente un numero assai elevato; è altrettanto vero che presto potrebbe diventare realistico, oltreché indispensabile, lasciarsi alle spalle una visione del Covid come bomba biologica per derubricarla nella forma di una malattia endemica con cui convivere. Senza troppi tamponi».

MIGRANTI 1. NATALE DI MORTE NEL MEDITERRANEO

Non c’è stata solo l’emergenza Covid a segnare questi giorni di festa. È stato anche il Natale dei migranti in mare. Claudio Reale per Repubblica.

«È stato un Natale di natività e morte nel Mediterraneo, di speranza e disperazione, di salvataggi e paura. E di fiato sospeso: perché mentre fra Calabria e Sicilia sbarcano oltre 900 persone in due giorni, al largo delle coste italiane ne restano almeno altre mille a bordo di Geo-Barents e SeaWatch3, che attendono un porto sicuro con il naso rivolto al cielo e alla minaccia di una tempesta in arrivo domani. Fra Libia e Grecia, intanto, la tragedia si è compiuta: almeno 30 cadaveri sono stati individuati da giovedì al largo delle coste elleniche, mentre 28 - incluso un bambino - sono stati rinvenuti ieri nella città di Khoms, l'antica città punico-romana di Leptis Magna. L'allarme, adesso, si rivolge alle imbarcazioni ancora in mare. Seawatch3, ieri, ha soccorso un barchino con 96 persone al largo di Tripoli: su un guscio troppo piccolo si erano avventurati anche una donna al nono mese di gravidanza e un bambino di 14 giorni, che adesso cercano la via dell'Italia su una nave che dopo cinque salvataggi in tre giorni ospita 446 persone. I minorenni, in tutto, sono 156, i piccolissimi 27: fra questi c'è la neonata salvata la notte di Natale, la cui foto, una Natività nel Mediterraneo, ha fatto il giro del web nel giorno della festa-cardine della cristianità. Poco più a est, al largo di Catania, c'è invece GeoBarents, la nave di Medici senza frontiere: a bordo, dopo 8 salvataggi, ci sono 558 persone, compresi sei bambini di meno di 4 anni e tre donne incinte. «Sono persone partite dalla Libia - racconta Fulvia Conte, coordinatrice dei soccorsi a bordo dell'imbarcazione - La maggior parte di loro ha lasciato casa mesi, se non anni fa. Hanno attraversato il deserto, hanno subito violenze e torture in Libia e hanno dovuto pagare moltissimi soldi per poter affrontare il viaggio. Proprio in questi giorni dobbiamo ricordarci che essere nati da questa parte del mondo è una fortuna, un privilegio. Stiamo aspettando un porto sicuro per poter sbarcare donne incinte, minori e uomini che hanno affrontato mesi o anni di viaggio per cercare una vita migliore da un'altra parte». Una destinazione, intanto, l'hanno trovata i 490 approdati ieri nel Crotonese, i cento giunti a bordo di un veliero il giorno primo a Isola Capo Rizzuto, i 114 arrivati il giorno di Natale con la Ocean Viking a Trapani e 214 sbarcati sabato dalla Sea Eye 4 a Pozzallo, nel Ragusano. A Lampedusa, intanto, si svuota l'hotspot: a fronte di 250 posti, dopo il trasferimento di 363 persone avvenuto ieri, all'interno del centro ci sono ora solo 148 migranti. Nel Mediterraneo, però, c'è ancora tanta gente da salvare: ieri mattina Alarm Phone, la ong che segnala le imbarcazioni alla deriva, ha diramato un allerta per un barchino partito da Bengasi, in Libia, con almeno trenta persone a bordo. Fino a ieri sera l'imbarcazione si trovava in acque maltesi e non era ancora stata tratta in salvo».

MIGRANTI 2. IL DECRETO FLUSSI VOLUTO DAGLI IMPRENDITORI DEL NORD

Il Corriere della Sera propone un'inchiesta sul decreto flussi. Decreto voluto dal Governo Draghi, sotto la spinta degli imprenditori leghisti del Nord Italia, prevede per quest’anno 70 mila ingressi. Dopo 6 anni in cui sono stati meno della metà. Goffredo Buccini e Federico Fubini per il Corriere

«Se, come spiega l'Ecclesiaste, c'è un tempo per demolire e un tempo per costruire, l'Italia che dovrà ricostruirsi dopo la pandemia scopre di avere bisogno di braccia: e braccia di migranti, data la nostra demografia. Siamo un Paese di pensionati. Il decreto flussi, che regola il numero di ingressi degli stranieri per motivi di lavoro, rispecchia l'atteggiamento della comunità nazionale in proposito e uno sguardo alle sue sequenze aiuta a capirne meglio i riflessi sulla scelte della politica: tra il 2007 e il 2009, a causa delle paure derivate dalla Grande recessione, il numero d'ingressi consentito calò in fretta, da 170 mila a 80 mila; alla metà degli anni Dieci, sull'onda del terrore generato dagli attentati jihadisti e dell'ascesa dei movimenti sovranisti in un'Italia stagnante, scese ancora, a poco più di 30 mila, per stabilizzarsi a quel livello per ben sei anni di seguito. Fino al 2020, anno uno del Covid: ma proprio la pandemia sta cambiando tutto. Anche gli orientamenti di una parte vitale della base leghista, la stessa turbata non troppo tempo fa dagli sbarchi e mobilitata dall'indignazione per i molti sans papiers d'Italia. La svolta del governo La risalita nel decreto di quest' anno, ai «70 mila ingressi» annunciati da Mario Draghi martedì, segna un'inversione di tendenza. Netta: gli accessi diventano più del doppio rispetto a prima. Eppure, contrastata: perché gli imprenditori (segnatamente quelli del Nord, base elettorale della Lega e motore industriale del Paese) chiedevano uno sforzo maggiore e le prime cifre filtrate la scorsa settimana parlavano infatti di almeno 81 mila permessi programmati: per concludere l'accordo è stato invece necessario tagliarne undicimila. Anzi qualcuno di più, perché il decreto si ferma al tormentato numero finale di 69.700: una soglia psicologica oltre che politica. Sulla questione s' è consumata una sorda schermaglia che ha ritardato di una settimana la firma e ha certamente acuito le tensioni dentro la maggioranza. Draghi ha promesso per il 2022 un nuovo decreto, si intuisce non troppo in là nel tempo, in modo da venire incontro alla spinta che sale dai territori. Osserva l'industriale bergamasco dell'alluminio Paolo Agnelli che, come presidente di Confimi, rappresenta 45 mila imprese manifatturiere. «Il decreto flussi a 70 mila permessi è timido, insufficiente. Non vorrei che le forze politiche che tradizionalmente rappresentano i produttori del Nord stiano perdendo il polso dei territori». Agnelli in un passato recente aveva concesso aperture di credito alla Lega su scelte forti come Quota 100. Ma stavolta è netto: «Già a giugno le imprese della nostra associazione denunciavano difficoltà nel reperire 98 mila lavoratori. Che problema hanno a dare più permessi?», si chiede. I bisogni del Nord Non tutta la Lega è indifferente, al contrario. Roberto Marcato, fondatore della Liga Veneta, assessore allo Sviluppo economico nella giunta di Luca Zaia, non chiude a un'immigrazione ragionata. «Si tratta di gestire i flussi: gli arrivi devono essere strettamente proporzionali alla richiesta di manodopera - osserva -. Ma gli imprenditori adesso hanno bisogno di lavoratori non qualificati che in Veneto si fatica a trovare. Potremmo anche pensare a permessi a tempo, ci serve un approccio razionale». Di certo oggi la materia è una grande area grigia, un limbo in cui si impigliano i lavoratori stranieri e gli imprenditori italiani. Stefano Allievi è docente all'università di Padova e tra i massimi esperti di migrazioni e lavoro: «Il punto non è se facciamo un decreto flussi di 81 mila o di 70 mila ingressi, ma che va cambiato modello: facendo accordi con i Paesi di partenza che in cambio ti diano una mano a trattenere gli irregolari o ad accogliere i rimpatri. I migranti arriverebbero da regolari in aereo anziché dopo un anno o due di viaggi della disperazione e navigazioni precarie, coi segni fisici e mentali di violenze e torture: avremmo anche livelli di integrazione più facili ed elevati». Secondo le proiezioni (pre-pandemia) di Eurostat, l'Italia perde al 2040 quasi sei milioni di adulti in età di lavoro a causa della demografia avversa. Il problema è già così acuto che a Cartigliano, in provincia di Vicenza, la locale associazione di imprese ha lanciato il «Progetto Giano»: sostegni e aiuti alle famiglie locali perché si è notato che troppo spesso le coppie rinunciano ad avere il secondo o il terzo figlio. Ora il cambio di passo impresso da Draghi è stato sollecitato dalle associazioni di imprese dell'agricoltura, del turismo, delle costruzioni e dei trasporti. E le resistenze di chi nel centrodestra paventa la sottrazione di opportunità di impiego per i disoccupati italiani si scontra sempre più a un cambio strutturale delle aspettative dei giovani italiani. Dario Loison, un imprenditore dolciario di Vicenza, elettore della Lega nel 2018, con le sue imprese è cresciuto del 30% nel biennio pandemico esportando in 40 Paesi. Ma fatica a trovare giovani italiani da inserire in azienda: «A causa dell'uso eccessivo dei device digitali non sanno più scrivere, non riescono a ricordarsi cosa hanno fatto tre giorni fa - dice -. Dunque, abbiamo bisogno dei flussi, ovviamente di persone selezionate e capaci di integrarsi». Colpo al sovranismo Ma sta davvero cambiando l'umore delle constituency leghista e di destra nei territori, mentre le leadership a Roma restano ancorate ai temi di sempre? La stagione di Draghi sta destrutturando anche l'ultima roccaforte ideologica del sovranismo? Di certo il pragmatismo del premier trova riscontri nei territori più dinamici del Paese. Gianni Righetti ha due aziende di autotrasporto che muovono quaranta camion da container ogni giorno da Mirandola (Modena), e intanto si impegna in Fratelli d'Italia. «Allargare le maglie dell'immigrazione ha senso - riconosce -. Nel nostro mestiere i ragazzi italiani giovani, mediamente istruiti, faticano a adattarsi. Essere di destra non vuol dire essere razzisti». Certo il viaggio per il Paese nell'inverno della sua demografia resta impervio. Secondo Luigi Cannari di Banca d'Italia «nel 2060 il Pil italiano sarà sceso dell'11,5% con le attuali tendenze». I nostri permessi di lavoro concessi ci collocano appena sopra la Grecia in Europa. Il quadro è stato aggravato dai pessimi risultati della sanatoria che, varata nel 2020, ha scontato ritardi burocratici, carenze di personale, una linea non sempre nitida politicamente. A fine ottobre, dati impietosi fotografavano lo stallo nelle grandi città: a Milano con 2.317 permessi per lavoro richiesti su 25.900 domande allo sportello, a Roma con 1.112 su 16.192, a Napoli con 1.200 su 17.000. Così il ricercatore giuslavorista William Chiaromonte (dell'Università Firenze) parla di «procedura labirintica, macchinosa». Anche lui punta l'indice contro il Testo Unico sull'immigrazione: «Il sistema non funziona, tanto che si ricorre alle regolarizzazioni ex post». In linea di massima in Italia per lavorare si entra da clandestini o da finti turisti e si aspetta che succeda qualcosa. «Se Draghi regge, aspettiamo il decreto 2022», sussurra un consulente del ministero del Lavoro che in queste ore si è battuto per aumentare i flussi. Non la prima incombenza del premier, certo. Ma forse nemmeno l'ultima».

EX CONSIGLIERE CONDANNATO, SI SUICIDA

Angelo Burzi, 73 anni, ex consigliere regionale di Forza Italia in Piemonte, si è tolto la vita alla vigilia di Natale. Aveva ricevuto la pena più alta nel processo cosiddetto di “rimborsopoli”. La cronaca di Repubblica.

«Si è ucciso perché si sentiva innocente, lo ha fatto perché era innocente». Giovanna Perino ha avuto la lettera del marito che si è tolto la vita la sera della vigilia di Natale con un colpo di pistola. Un gesto che appare premeditato, organizzato nei dettagli. Burzi, 73 anni, liberale, ex assessore della giunta di Enzo Ghigo, tra i fondatori di Forza Italia, protagonista del passaggio al Pdl, fra i banchi del Consiglio regionale tra il 1995 e il 2010, il 14 dicembre era stato condannato a tre anni di reclusione in via definitiva per peculato nell'ambito dell'inchiesta Rimborsopoli: una maxi inchiesta sull'uso improprio del denaro destinato ai gruppi consiliari. Il politico, che ha incassato la pena più alta perché capogruppo, ha lasciato tre lettere, una per la moglie, la seconda per le due figlie, la terza indirizzata a cinque amici fidati, non solo compagni di partito. Un lungo messaggio di due pagine in cui ricostruisce la sua vicenda giudiziaria. «La sua è stata una condanna politica - dice la moglie per smentire le ricostruzioni che attribuirebbero alla scoperta di una malattia il gesto estremo - è stato perseguitato per quasi dieci anni». La sera della vigilia di Natale Burzi, con una scusa, è rimasto a casa, lasciando andare la moglie dai parenti a festeggiare. Poi ha chiamato i carabinieri: «Sto per suicidarmi, non voglio che sia mia moglie a trovarmi, avvisatela voi». Inutile la corsa degli uomini dell'arma nella casa di piazza Castello. «In primo grado Angelo era stato assolto - ricorda ora la moglie - chi l'aveva giudicato in quella occasione aveva analizzato con attenzione la situazione ». Nella lettera il marito ha voluto citare la giudice Silvia Bersano Begey: «Angelo la ringrazia per il lavoro fatto, molto diverso rispetto a quello di altri suoi colleghi che sono venuti dopo». La condanna gli sarebbe costato anche il taglio del vitalizio che gli spettava da consigliere regionale e assessore. «Un aspetto che viveva come l'ennesima ingiustizia. Per oltre 30 anni ha fatto politica. Era un uomo intelligente, molto intelligente. Se avesse voluto arricchirsi avrebbe trovato il modo, non certo con i buoni pasto e le cene rimborsate». L'ex-governatore del Piemonte Roberto Cota (da poco passato nelle file di Forza Italia) è stato condannato nella stessa inchiesta a un anno e sette mesi di reclusione. Ora chiede una commissione parlamentare d'inchiesta. È lui uno dei destinatari della lettera scritta a mano da Burzi: «Serve un approfondimento politico. Burzi non si dava pace per l'iniquità con cui è stata gestita Rimborsopoli, una delle pagine più incredibili della recente storia giudiziaria». L'ex presidente del Piemonte protagonista delle cronache politiche per aver messo a rimborso in costume bollato come "mutande verdi", s' infervora: «Una vicenda che tra l'altro ha portato a un'inspiegabile differenza di risultati rispetto a spese assolutamente uguali e anche a sentenze diversi su fatti analoghi». L'ex presidente del Piemonte Enzo Ghigo (1995-2005), che aveva avuto Burzi come assessore al bilancio, dice che quella lettera può essere considerata "un atto politico": «Angelo è sempre stato un fine politico. È stata una vicenda i n cui, con indubbie storture da parte di alcuni, anche politici onesti sono stati travolti, convinti in buona fede secondo le regole di allora, di non aver commesso illeciti». Qualcuno ha cercato di appannare la sua immagine, commenta nella sede di Forza Italia: «La sua tragedia deve far riflettere il mondo politico, se non vi sia qualche cosa da riformare nel sistema italiano».

QUIRINALE 1. MR. B HA UN PIANO B

La corsa al Quirinale: si apre un’altra settimana cruciale, che culminerà nel discorso di Sergio Mattarella, la sera di san Silvestro. Ecco il Fanta Colle di Antonio Polito per il Corriere.

«L'uomo di destra dice che il piano B esiste, ma si nasconde per paura del fattore B: «Perché di piani B per ora Berlusconi non vuol neanche sentir parlare. L'altro giorno al pranzo del centrodestra tutti guardavano nel piatto per evitare l'imbarazzo della situazione. Solo la Meloni si è spinta oltre l'eventuale fallimento della sua candidatura: mi assicurate a quel punto - ha chiesto - che diciamo insieme no al Mattarella bis e no Draghi al Quirinale senza scioglimento delle Camere? Per pura cortesia, le hanno tutti risposto: ma certo Il fatto è che Giorgia il piano B ce l'ha. Anzi, ne ha tre, uno per ogni possibile combinazione: centrodestra più Renzi, o più Letta, o più Conte, oppure meglio ancora più tutti e tre. Però anche lei sa che, avendo occupato la scena, Berlusconi si è già assicurato il monopolio del piano B. Per ora tiene duro sul suo nome, progetta anzi di chiedere al centrodestra di votare scheda bianca nelle prime tre votazioni, così da impedire ogni possibile accordo preventivo. Ma attenzione: se dalla quarta non ce la fa, alla fine può fare lui il beau geste e lanciare Draghi, come gli suggerisce Letta. Meglio fare un accordo con l'uomo forte del momento che con un Amato o un Casini. D'altra parte, se non fa così, rischia che a scegliere il presidente sia di nuovo il centrosinistra, con i voti dei centristi. Ma c'è anche un'altra ragione per cui i piani B stentano a venir fuori. Ed è che nessuno può fidarsi di nessuno. Nessuno controlla i suoi gruppi, forse solo la Meloni. Neanche Berlusconi può essere sicuro dei suoi. Il partito di maggioranza relativa sono i franchi tiratori. Per questo stavolta il metodo giusto è il blitz-krieg . La guerra-lampo. Candidato coperto fino all'ultimo, e tirato fuori al momento giusto, quando gli altri sono sull'orlo del baratro».

QUIRINALE 2. IL MOMENTO DI LETTA (GIANNI)

Già dalla fanta cronaca di Polito si era intuito il suo ruolo. È il momento di Letta (Gianni) anche per La Stampa. Ecco il retroscena di Ilario Lombardo.

«A ogni discorso, analisi, previsione sul Quirinale di queste ore vanno fatte due premesse. La prima: al momento non c'è un'alternativa a Mario Draghi che possa mettere d'accordo tutti i partiti o quasi. Ed è un dato di fatto che per primo Draghi conosce. La seconda: nessuna decisione avrà un valore prima del dieci gennaio. E, anche in questo caso, il premier è perfettamente consapevole della premessa. Per quella data i leader del centrodestra si dovranno rivedere attorno al tavolo con Silvio Berlusconi. Andrà presa una decisione: se sostenere il presidente di Forza Italia nel suo sogno di salire al Colle, oppure se convincerlo a desistere e a portare i voti in dote a Draghi. In un attimo Berlusconi si trasformerebbe nel king maker dell'elezione dell'attuale premier a presidente della Repubblica. In quegli stessi giorni, il segretario del Pd Enrico Letta si ritroverà con il partito per dare una risposta altrettanto importante, e altrettanto attesa a Palazzo Chigi. Letta riunirà la segreteria e poi il 13 gennaio la direzione del Pd in seduta congiunta con i gruppi parlamentari. Un'assemblea che misurerà i rapporti di forza tra la componente che arrivò in Parlamento nel 2018 al seguito dell'allora segretario Matteo Renzi, più spaventata dal rischio che Draghi al Colle possa significare il voto anticipato, e l'organismo che risponde alla nuova leadership. A triangolare i rapporti con gli ambasciatori di Palazzo Chigi è ancora una volta Gianni Letta, consigliere molto ascoltato di Berlusconi, e zio di Enrico. I leader di Fi e Pd sono i due da cui, più che dagli altri, Draghi attende una risposta. Innanzitutto, perché la candidatura dell'ex premier rappresenta un problema non da poco, e senza un suo via libera l'ex banchiere centrale potrebbe non voler buttare il suo nome nella roulette del Parlamento. Il premier - che domani rivedrà la sua maggioranza in un Cdm straordinario - sa poi benissimo che il gruppo più numeroso di Camera e Senato, il M5S, è anche il meno controllabile. Giuseppe Conte è prigioniero dei parlamentari, ostaggio del loro terrore delle elezioni. Prova ne è il fatto che l'avvocato sta passando come l'unico a non volere Draghi al Quirinale, quando invece in tanti colloqui dentro il M5S e con Letta ha sostenuto che è complicatissimo trovare un nome diverso che accomuni tutti. Certo non aiuta la confusione che regna in casa 5 Stelle. Quando Conte ha incontrato Letta e il leader di Leu Roberto Speranza per approntare una strategia comune da opporre al centrodestra, è spuntata l'idea di candidare una donna, l'ex ministra Anna Finocchiaro, nome da spendere nel caso in cui gli avversari dovessero insistere su Berlusconi. Una scelta contraddetta nemmeno 48 ore dopo da Michele Gubitosa, uno dei cinque vicepresidenti di Conte, quando, per escludere il Cavaliere, ha aperto alla possibilità di convergere su un nome di alto profilo anche di centrodestra. L'inaffidabilità dei grillini è un problema per tutti e potrebbe essere risolto solo con un solido accordo sul governo che succederà a Draghi per portare a termine la legislatura. Ed è curioso che tre giorni dopo il vertice di centrodestra sia proprio un esponente di quell'area, Osvaldo Napoli, deputato ex Fi, oggi in Coraggio Italia con Giovanni Toti, a proporre questa strada. «L'eventuale elezione di Draghi non ha altra fonte che non sia il Parlamento». Il passaggio precedente, però, dice Napoli, deve essere «un accordo politico, perché una presidenza Draghi non può intestarsi la nomina del suo successore a palazzo Chigi». È una chiamata di responsabilità che, implicitamente, ha già rivolto a tutti Draghi, durante la conferenza stampa pre-natalizia. A cui dovrà rispondere, prima di chiunque altro, Matteo Salvini che ieri ha inviato un messaggio al premier per parlare di bollette e prezzi dei tamponi, e che avrebbe già risentito Letta e Conte sul Quirinale. Il capo della Lega resta ancora tentato dall'opposizione, bramoso di capitalizzare i consensi in competizione con l'alleata di Fdi Giorgia Meloni. Ma senza quella risposta alla chiamata di Draghi è prevedibile che si arriverà allo stallo. Lo scenario preferito da chi tifa per il Mattarella bis».

QUIRINALE 3. “SENZA DRAGHI NON SI PUÒ”

Paolo Mieli sul Corriere della Sera analizza la storia delle ultime elezioni presidenziali e ricorda come i partiti si trovino sempre un po’ in sofferenza rispetto a figure istituzionali, che però poi sono necessarie.

«Per una volta la «politica» italiana è stata pressoché unanime (ha fatto parzialmente eccezione solo il segretario del Pd Enrico Letta). La «politica», ha scritto qualcuno, ora si è presa una «rivincita». Occasione per la rivalsa è stata la conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi nel corso della quale il presidente del Consiglio avrebbe lasciato intendere la propria disponibilità a farsi eleggere capo dello Stato. Anziché rendere omaggio al rito ipocrita per cui il candidato deve fingersi sorpreso e riluttante al cospetto di tale eventualità, l'ex presidente della Bce ha fatto capire che, anzi, l'approdo al Quirinale è uno degli esiti possibili del suo passaggio da Palazzo Chigi. L'altro è quello di rimanere dov' è. L'altro ancora, di tornarsene a casa propria. Nulla di ciò è stato da lui detto in modo esplicito. Anzi questi concetti, peraltro ovvi, sono stati espressi con parole garbate, a tratti ironiche, senza alcuna iattanza. Ma tanto è bastato per irritare chi fino a un attimo prima lo sollecitava a pronunciarsi, augurandosi una sua permanenza alla guida del Paese fino al 2023, al 2030 o forse anche al 2050. Così i suoi sostenitori di ieri sono stati lesti a «reagire» con toni stizziti, talvolta scortesi. Benissimo. Messaggio chiaro: i partiti, tutti, sono impegnati di qui al giorno dell'elezione del presidente della Repubblica a trovare un candidato unitario che possa raccogliere la (quasi) unanimità dei suffragi fin dal primo voto. Allo stato degli atti i nomi presi in esame sono quelli dell'ex presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia e del prossimo presidente della Consulta stessa, Giuliano Amato. Draghi, al momento, sembrerebbe fuori dalla corsa al Colle. Forse, con un piede, è fuori anche da Palazzo Chigi. Perché? In un'altra risposta ai giornalisti, nel corso della conferenza stampa di cui si è detto, il presidente del Consiglio si è pronunciato contro alcune spese assai poco virtuose che i partiti hanno preteso fossero inserite nella manovra di bilancio. Draghi ha messo agli atti - criticando implicitamente il suo stesso operato - che non gli era piaciuto essersi dovuto piegare alla conferma di alcune misure come il cosiddetto superbonus. Misure che - parole sue - creano «distorsioni», favoriscono un «aumento straordinario dei prezzi dei componenti necessari alle ristrutturazioni e all'efficientamento energetico» e, per giunta, incentivano «frodi». D'ora in poi - ha lasciato intendere - ove fosse confermato alla guida del governo, spese del genere, nient' affatto «buone», i partiti dovranno dimenticarsele. Se lui sarà ancora a Palazzo Chigi, si opporrà. Con decisione. Anche a costo di entrare in conflitto con i partiti e le Camere che gli hanno votato la fiducia. Ed eventualmente con il nuovo presidente della Repubblica se questi cedesse alla tentazione di adottare forme di «moral suasion» spendacciona per dar prova di una qualche gratitudine a partiti e Camere che lo hanno eletto. Questo per dire che siamo in prossimità di un passaggio politico-istituzionale dagli infiniti risvolti. Il nostro sistema, unico al mondo, è stato costretto ad affrontare ben tre collassi negli ultimi trent' anni. Più o meno uno per ogni decennio. E ogni volta si è dovuto chiamare in soccorso un «grande esterno». Il primo cataclisma fu nel 1993 quando - proveniente dalla Banca d'Italia - venne portato alla guida del governo Carlo Azeglio Ciampi (in sostituzione di Giuliano Amato, l'ultimo della Repubblica dei partiti). Sei anni dopo, Ciampi fu eletto presidente della Repubblica, ma non era scritto in partenza che andasse a finire in quel modo. Ciampi fu un buon presidente e difese il principio di alternanza tra centrodestra e centrosinistra, che all'epoca avevano le fattezze di Berlusconi e Prodi. Il secondo infarto fu nel 2011 e stavolta venne convocato a Palazzo Chigi Mario Monti. Contestualmente Giorgio Napolitano nominò Monti senatore a vita, forse anche per metterlo al riparo da eventuali recriminazioni dei partiti. Partiti che votarono sì a suo favore, ma presto sarebbero entrati tra loro in rotta di collisione dal momento che di lì a poco più di un anno ci sarebbero state le elezioni. Gli equivoci all'epoca furono molti. Una delle formazioni che diede la fiducia a Monti, Forza Italia, in tempi successivi sostenne addirittura d'essere stata vittima di un colpo di Stato. Adesso è la volta di Draghi che fuori dai nostri confini ha ottenuto complimenti e titoli di giornale ancora più entusiastici di quelli riservati ai suoi due predecessori. In Italia invece si è potuto constatare a fine anno quale sia l'umore reale di coloro che lo «sostengono» (l'unica ad essersi pronunciata in suo favore è stata Giorgia Meloni, leader dell'unico consistente partito d'opposizione). Tre volte in cui la «politica» è stata costretta a ricorrere a capacità e «reputazioni» costruite a distanza dell'operato dei partiti. Partiti sordamente irritati quando l'azione di questo genere di capi di governo provenienti da fuori ha avuto successo. E ansiosi di prendersi al più presto quel genere di «rivincita» di cui si è detto all'inizio. Il tutto mentre, come sostiene con parole sorprendentemente esplicite perfino Gustavo Zagrebelsky, almeno «in parte» l'istituzione presidente della Repubblica è stata via via indotta ad appropriarsi «impropriamente» di «compiti e poteri di governo». Un finale di partita non incoraggiante».

QUIRINALE 4. IL FATTORE CATTOLICO

Fabrizio d’Esposito sul Fatto, nella sua rubrica del lunedì, ragiona sul fatto che diversi candidati al Colle sono di area cattolica. Sicuramente quattro: Il “gesuita” Mario Draghi, l’avversario di papa Francesco Marcello Pera, l’impegnata nelle carceri Marta Cartabia e l’ex dc Pierferdinando Casini.

«Ci sarà un altro cattolico al Quirinale dopo Sergio Mattarella, credente "adulto" nel segno dell'antica sinistra democristiana? La probabilità è alta. La maggioranza degli aspiranti successori è infatti di rito romano a partire dal superfavorito Mario Draghi. Di formazione gesuita e introdotto come tecnico nel Palazzo negli anni '90 proprio dalla sinistra dc (Marcora, Andreatta e Prodi), il premier è un cattolico praticante, che quando è nella sua residenza umbra di Città della Pieve va alla messa domenicale delle diciotto. Di tutt' altro segno la conversione esibita e pubblica del redivivo Marcello Pera, teorico liberale dell'impunità berlusconiana e poi clericale di destra di marca ratzingeriana. Negli ultimi anni il presidente emerito del Senato si è distinto soprattutto per la sua fiera opposizione al pontificato di papa Francesco. Una battaglia condotta con monsignori e cardinali oggi no vax ideologici, laddove il Covid è considerato l'arma letale del Great Reset satanico: l'arcivescovo Carlo Maria Viganò, sua eminenza Raiymond Leo Burke (che però da quando ha preso il virus si mantiene basso sulla questione) e l'ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Gerhard Ludwig Müller. Ecco il pensiero di Pera su Francesco: "Per quello che riguarda i fondamenti della fede cattolica, questo pontificato è un oltraggio alla ragione. Però nessuno, fedeli o vescovi, dice nulla, nessuno ha il coraggio di ribellarsi, eppure sono in tanti che dubitano. Il problema è che la Chiesa è ridotta ad una specie di Ong, bada maggiormente al sociale, ha trasformato Greta in un idolo, corre dietro a visioni solidaristiche, politiche e sociali, al buonismo". Non solo, il berlusconiano diventato un fanatico teocon (nel nome della dottrina che punisce e non perdona) tifa pure per uno scisma provocato dalla Chiesa americana filotrumpiana: "Bergoglio sostituisce alla cattolicità un umanesimo secolare. Di questo passo, possiamo arrivare allo scisma. Vedo la Conferenza episcopale Americana piuttosto vivace e presto potrebbero svegliarsi altre, penso ad esempio a quella della Polonia". Immaginate quindi la scena di un papa più laico (dagli omosessuali ai diritti non negoziabili) del capo dello Stato. In teoria anche Marta Cartabia, altra candidata, è una cattolica di destra. Di matrice ciellina, la Guardasigilli ha però sbianchettato la sua militanza nel movimento fondato da don Giussani sin dal 2019, quando venne eletta presidente della Corte Costituzionale. Infine, il plotone dei candidati provenienti dalla vecchia Balena Bianca. Detto che i centristi del Pd non hanno alcuna speranza (sembra impossibile l'elezione di un altro dem dopo Mattarella), in campo c'è soprattutto Pier Ferdinando Casini, ex gregario della Prima Repubblica poi centrista trasformista nella Seconda (dalla destra fino all'ultima elezione a senatore grazie al Pd di Renzi nella rossa Bologna). Due volte divorziato e sopravvissuto a un partito morto a causa del settimo comandamento (non rubare), l'ex forlaniano Casini incarna la tipica ipocrisia dc di stampo fariseo. Un sepolcro imbiancato per dirla con il Vangelo: "Essi all'esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti"».

DESMOND TUTU, L’UOMO DEL PERDONO

Domenico Quirico per La Stampa dipinge il ritratto di Desmond Tutu, il Vescovo anglicano che demolì l'apartheid e seppe riconciliare il Sudafrica. Tutu è scomparso ieri all’età di 90 anni.

«C'era un tempo in cui, se eri bianco e volevi andare a Sharpeville o a Soweto, i ghetti neri di Johannesburg, dove era nata la resistenza contro l'apartheid, dovevi affidarti a un trucco ingegnoso: prenotare un giro turistico! Bastava cercare un tassista ovviamente nero «autorizzato»: tre ore di visita, nessun pericolo di essere ucciso, il tutto per dieci dollari. Tre ore mi sembrarono tante: ma poi riflettevi che Soweto era formata da 49 quartieri e copriva una superficie di 180 chilometri quadrati in cui erano rinchiuse quattro milioni di persone. Si infilava la circonvallazione della Golden Highway che avviluppava le vecchie miniere d'oro, lì c'erano solo case basse perché sotto correvano le infinite gallerie del Golden Rift, la vena aurifera più ricca della storia. Sulla tua sinistra sfumava svelta la azzurrina linea dei grattacieli e così la Johannesburg bianca era ormai dietro di te. Soweto si annunciava con un enorme deposito di auto rubate nel quartiere di Deep Kloop. Uno spiazzo che formicolava di vittime che cercavano di recuperare la propria auto, soprattutto Bmw, ricercatissime, nel gergo dei ladri si chiamavano «Sposami». Nel tour era meta fissa un quartiere di baracche senza acqua né servizi chiamato Mandela Squatter Camp, il posto più povero di un posto di poveri. Passammo davanti a una scuola in cui le aule erano formate da vecchi autobus arrugginiti dove i banchi erano i sedili dei passeggeri e il maestro insegnava in piedi al posto di guida. Sulla lunga recinzione un murale con un solo volto: non Mandela, non Steve Biko, il martire morto di torture in un commissariato negli anni settanta, non il rivoluzionario Malcolm X. Solo un omino con grandi occhiali che sembravano due fori d'ombra, una coppola da antico rivoluzionario ottocentesco e un grande, incontenibile, travolgente ma ispirato sorriso. «E' lui quello che adoro, è il mio, il nostro arcivescovo che ci porterà tutti in paradiso», mi gridò il tassista che smise di colpo di assordarmi con la spiegazione di quanti ricambi avesse bisogno il suo decrepito taxi. Quell'uomo, Desmond Tutu, è morto ieri a novanta anni. Era l'ultimo rimasto dei tre coraggiosi, insieme a Mandela e al boero De Klerk, che hanno realizzato uno dei pochi miracoli del feroce ventesimo secolo, aver cioè traghettato il Paese della bestemmia bianca dell'apartheid, senza vendette, nell'età dei diritti e dell'eguaglianza razziale. Al centro di Soweto c'era, in uno spiazzo, un museo dentro alcune casette in lamiera: foto, solo foto in bianco e nero scattate da un celebre fotografo e attivista Peter Magubane, immagini di neri che agonizzavano sull'asfalto, poliziotti bianchi che sparavano a cortei di donne con cartelli esigenti «libertà». Sperare sembrava follia allora, per Tutu sono stati educazione alla vita e alla fede. Il silenzio non è forse la lingua di Dio? Nel 1975 Mandela era murato vivo da sedici anni nel carcere di Rodden, l'isola del diavolo. Tutu, figlio di una famiglia povera che per studiare aveva dovuto scegliere la strada del seminario, divenne il primo nero vescovo anglicano del Sudafrica. Tutti i suoi predecessori nella cattedrale di Saint Mary erano stati bianchi. Il suo primo atto fu di rifiutare il lussuoso alloggio che gli toccava per la carica nel quartiere ricco. Era la trappola della assimilazione, diventare bianco ad honorem, il momento della dannazione. Era all'interno della contraddizione, prete nero in un regime che era razzista ma insieme cristiano. La compromissione, il peccato che incallisce il cuore, era dappertutto. Uomini di Chiesa e laici per lei si sono dati al demonio. Sfuggì alle strettoie di una devozione comoda e grama, chiusa in sé, incapace degli eccessi del Bene, delle grandi imprudenze dei magnanimi. «Ha servito il Vangelo», come ha detto il Papa. Divenne il portavoce dell'uomo che non poteva parlare, chiuso nell'isola da cui doveva, secondo i piani dei suoi carcerieri, uscire solo da morto. Lo minacciarono di espulsione, gli tolsero il passaporto. Tutto inutile. Implacabile, paradossale, irresistibile, cercava il corpo a corpo con il Potere. Erano anime che sapeva buona preda, che fossero i burocrati del potere bianco rantolante o i grandi della terra, da Blair e Bush che voleva processare per la guerra in Iraq a Israele che accusava di apartheid nei confronti dei palestinesi. Il premio Nobel della pace nel 1984 lo mise al di sopra di ogni minaccia, ma non lo consegnò alla imbalsamazione. Così, quando l'incredibile avvenne, Mandela libero, le elezioni, i neri al potere, il compito non era finito: fu lui l'anima della Commissione per la verità e la riconciliazione. Ecco qualcosa che gli apparteneva, il miracolo del perdono. Perdono per i delitti commessi durante l'apartheid, ma non in nome di una cancellazione della memoria automatica e generale, che sarebbe stata mediocre furbizia della Storia. Tutu esigeva una individuale confessione delle colpe. In cinque anni con i suoi commissari incontrò in tutto il Paese trentamila persone, ascoltò paziente racconti del Male che fanno sbiancare le giunture dell'anima, immunizzò dal desiderio di vendetta. L'arcivescovo non divenne mai un soddisfatto gerarca del nuovo Sudafrica nero, infuriò anche contro i nuovi notabili e il gran trambusto di traffici e corruzione dietro l'icona via via più immateriale di Mandela. Perché dopo l'età dei martiri e degli eroi viene sempre quella bituminosa dei ladri e dei barattieri. Il Sudafrica di oggi non gli assomiglia. Forse è vero: ciascun uomo inizia la Storia, ciascun uomo la finisce».

Sulla figura di Tutu, Repubblica ha intervistato il cardinale e arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.

«Ci ha insegnato a lottare contro tutte le apartheid e, nel farlo, a tenere insieme l'impegno per la giustizia con il perdono». Matteo Zuppi, cardinale e arcivescovo di Bologna, ha conosciuto Desmond Tutu poco dopo che era diventato Nobel per la pace nella Comunità di Sant' Egidio: a una veglia di preghiera per la pace in Santa Maria in Trastevere e, nel 1988, all'inaugurazione della Tenda di Abramo, la prima casa di accoglienza per stranieri della Comunità. Che cosa più ricorda di lui, di questo gigante che ha contribuito a forgiare il Sudafrica di Mandela? «I suoi occhi sorridenti, la sua forza: piccolino di statura, era travolgente, di enorme simpatia umana e di incredibile energia, ma anche di grande spiritualità. Era molto diretto, viveva il Vangelo non come spiritualità astratta, ma incarnato nelle vicende del suo popolo: uomo di preghiera e al tempo stesso molto attento alla storia, alle ingiustizie che contrastava. Lo ricordo combattente per la libertà di tutti, un uomo di Dio che difendeva la dignità della persona perché in tutti vedeva l'immagine di Dio. E, poi, fu arcivescovo del dialogo ecumenico». Vi siete incontrati di nuovo? «Non più, non negli ultimi anni. I contatti sono rimasti via email. Era grato per l'impegno speso per la pace in Mozambico e ci diceva: quando a Natale vi vedo coi poveri a pranzo nella basilica, Dio sorride. Fece molta amicizia con la Comunità, due cose lo colpirono tantissimo a Roma». Quali? «Si commosse alla vista del mosaico al monastero di San Tommaso sul Celio in cui Gesù libera un bianco e un nero. Ecco, era quello che lui voleva: tutti subiscono la schiavitù e hanno bisogno di essere liberati. La liberazione è interdipendente: è una delle lezioni che ci è rimasta, così come la grande indicazione che diede, e che fu esperienza importante per il Sudafrica, di non far mancare perdono e giustizia, di non permettere che la violenza continuasse con altre violenze. Una via d'uscita importantissima e intelligente che testimoniò nella Commissione Verità e Riconciliazione». Che cosa rimane della sua amata nazione arcobaleno? «Desmond Tutu ha saputo far propria l'attesa del popolo sudafricano dentro alla stagione di Mandela, che ha fondato valori di riferimento, esempio per tante situazioni di oppressione e di ingiustizie. Rimangono le contraddizioni, i problemi, anche alcune delusioni. Ma anche un Paese in cui si impara a vivere insieme, a combattere tutte le apartheid, anche quelli più invisibili che diventano pregiudizi, abitudine, che crescono nell'omologazione».

RUSSIA E USA SI GIOCANO TUTTO SULL'UCRAINA

Russia, Ucraina e Stati Uniti: Sergio Romano sul Corriere descrive una crisi che coinvolge i due grandi protagonisti della politica internazionale e che inquieta Bruxelles. Ma è l’Europa che deve essere l’ “onesto sensale” di un nuovo accordo fra Putin e Biden.

«Nel dramma ucraino i due uomini che hanno maggiori poteri per la soluzione della crisi stanno paradossalmente diventando i suoi maggiori responsabili. Il quadro, dopo gli ultimi avvenimenti, è questo. Sappiamo ormai da molto tempo che alcuni ex satelliti dell'Urss (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) sono già membri della Nato (l'organizzazione politico-militare creata il 4 aprile 1949 dal Trattato per l'Atlantico del Nord) e che il primo di una nuova ondata potrebbe essere l'Ucraina. Gli Stati Uniti sono pronti ad accoglierla e a farne un altro satellite. E sappiamo anche che per la Russia di Vladimir Putin questo allargamento di una organizzazione militare nel cuore dell'Europa e sino alle porte di casa, sarebbe un atteggiamento ostile. Lo ha ripetutamente dichiarato e ha dato una concreta prova del suo disappunto collocando sulle frontiere del suo Paese con l'Ucraina un contingente militare composto da parecchie migliaia di unità. Gli Stati Uniti hanno reagito, come in altre circostanze, imponendo sanzioni economiche e finanziarie che stanno duramente colpendo le relazioni della Russia con il resto del mondo. Non è guerra, ma potrebbe esserne la vigilia. Non sarebbe la prima occasione in cui una crisi con scambi di ostilità sfugge al controllo dei protagonisti e diventa un conflitto. Ma nessuno dei due attori sembra disposto a fare un passo indietro. Una tale strategia è razionale quando uno dei contendenti ha buoni motivi per contare sulla debolezza dell'altro. Ma in questo caso sembra che entrambi siano inamovibili. Biden teme che un atteggiamento più conciliante nuocerebbe alla sua immagine in quella parte della società americana che crede fermamente nella pericolosità della Russia; e avrebbe ripercussioni negative anche nelle numerose comunità di ucraini che vivono negli Stati Uniti, hanno spesso la doppia cittadinanza e il diritto di voto. Vladimir Putin non è il leader di un Paese altrettanto democratico, ma ha governato sinora grazie a un consenso diffuso, nella sua società, di cui non può fare a meno. Nessuno dei due sinora ha avuto il coraggio di fare un primo passo per la soluzione della crisi. Anche i russi hanno il loro orgoglio nazionale e considerano l'Ucraina una parte della loro storia, la terra di un popolo con cui, come ho scritto in un'altra occasione, hanno un rapporto di cuginanza. Non credo che l'Unione Europea possa limitarsi a essere soltanto spettatrice di una pericolosa crisi da cui dipende anche il suo futuro . Occorre un «onesto sensale», l'espressione coniata nel 1878 per il cancelliere Otto von Bismarck quando organizzò a Berlino un congresso internazionale per trovare una soluzione alle forti divergenze che esistevano allora fra Russia e Turchia. Oggi spetta all'Ue essere onesto sensale fra Russia e Stati Uniti».

DONNE AFGHANE

Afghanistan, nuovi divieti per le donne che non potranno più spostarsi da sole, per distanze superiori ai 70 chilometri. Francesca Mannocchi per La Stampa.

«Ieri le autorità taleban hanno annunciato nuove restrizioni per le donne afgane, pubblicando una raccomandazione a nome dal ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, confermata ai media dal portavoce del ministero Sadeq Akif Muhajir: i tassisti possono accettare donne a bordo del proprio veicolo solo se indossano un velo islamico e tutte le donne che intendono percorrere distanze superiori a 70 chilometri devono essere accompagnate da un familiare stretto di sesso maschile. Le indicazioni sono state poi diffuse in un opuscolo che invita i conducenti a far crescere la barba, interrompere il lavoro per la preghiera e astenersi dal riprodurre musica all'interno del veicolo. La nota arriva a distanza di poche settimane dalla richiesta del ministero alle televisioni afghane di interrompere le soap opera in cui recitano donne. Negli stessi giorni i taleban avevano distrutto ogni residuo di immagine femminile nelle pubblicità pubbliche, le poche che restavano con i volti non cancellati dalla vernice nera. Da quando hanno preso il potere in Afghanistan, lo scorso agosto, i taleban hanno velocemente limitato gli spazi pubblici destinati alle donne, così come l'accesso all'istruzione. Nella maggior parte del Paese le donne non sono state in grado di tornare al lavoro così come sono rimaste chiuse la maggior parte delle scuole secondarie per ragazze. Sollecitati dai governi stranieri, dalle agenzie delle Nazioni Unite, dalle numerose organizzazioni umanitarie, i funzionari del nuovo governo di Kabul continuano a ripetere che il destino delle donne non sarà lo stesso vissuto nella seconda metà degli anni Novanta, al tempo del primo emirato, e che sarà loro concessa una forma di istruzione e anche specializzazioni post-universitarie. Sui tempi, però, restano vaghi. Nel frattempo gli aiuti internazionali, che rappresentavano il 40% del Pil e finanziavano l'80% del budget afghani, sono congelati e il Paese, che dipendeva quasi interamente da quei fondi, è alla fame. I soldi sono la leva che la comunità internazionale prova a usare per ottenere la difesa dei diritti civili, il rispetto delle libertà delle donne e delle minoranze. Il denaro sarà sbloccato, si legge tra le righe delle tiepide negoziazioni, se il nuovo governo di Kabul dimostrerà di essere diverso dal passato e la condizione femminile è, sempre più chiaramente, il principale ostacolo che separa il governo taleban dal riconoscimento internazionale di cui ha bisogno. Non è un caso che all'inizio di dicembre i taleban abbiano emanato un «decreto sui diritti delle donne», nel tentativo di mostrarsi moderati e conquistare un po' di fiducia. La norma disciplina il matrimonio, afferma che le ragazze non debbano essere costrette a sposarsi e regola il diritto alla proprietà, sostenendo che le vedove abbiano diritto a una quota dei beni dei mariti. Il decreto non menziona, però, l'accesso all'istruzione e al lavoro. Il ministro dell'istruzione superiore Abdul Baqi Haqqani ha dichiarato che l'emirato islamico dell'Afghanistan non sia contrario all'educazione delle donne ma contrario alla «coeducazione di ragazzi e ragazze nello stesso luogo», e ha sostenuto che il governo stia «lavorando per costruire un ambiente islamico in cui le donne possano studiare ma potrebbe volerci del tempo». Potrebbe volerci del tempo, ma non ha menzionato quanto. Anche su questo i tempi restano vaghi. La fumosità delle dichiarazioni ha indotto le attiviste afghane e i gruppi di esperti a criticare aspramente le norme emanate finora, lette come segno dell'ambiguità taleban, come il volto che gli studenti di Dio vogliono mostrare alla comunità internazionale, distante da quello reale. I diritti che i taleban affermano di difendere sono già sanciti dalla legge islamica, e le norme che regolano i matrimoni valgano solo in astratto, perché anche se il matrimonio con una minore di quindici anni sarebbe da ritenersi illegale, è comunemente praticato specialmente nelle zone rurali dell'Afghanistan, ancor più dopo la fine del conflitto, il ritiro delle truppe straniere e il congelamento dei fondi, perché milioni di famiglie sono in condizioni disperate per l'aggravarsi della crisi economica. L'Afghanistan sembra essere, a quattro mesi dalla caduta di Kabul, il terreno di una partita senza vincitori: se da un lato i governi occidentali vogliono difendere i diritti dei cittadini afgani e fanno pressione sull'urgenza di denaro del governo di Kabul, dall'altro i taleban vogliono legittimità internazionale e si presentano adattabili ai cambiamenti. Questa partita continua a giocarsi da mesi sulla pelle di milioni di persone, donne soprattutto, che attraversano il rigido inverno afghano mentre il Paese sprofonda nella crisi economica, con una carestia che incombe rischiando di affamare milioni di persone. Una partita senza vincitori, con solo vinti, che è anche la lente con cui osservare un Paese che ha caratteristiche profondamente disomogenee. In alcune aree dove l'istruzione ha a lungo svolto un ruolo importante nell'emancipazione delle donne, come nelle città commerciali di Mazar-i-Sharif e Kunduz, i taleban hanno permesso alle ragazze di scuola media e superiore di tornare in aula purché coperte con un burqa. Una decisione che dimostrerebbe quanto l'Afghanistan non sia più il Paese governato dai talebani tra il 1996 e il 2001, ma i dati raccontano un'altra storia, perché meno della metà delle studentesse è tornata sui banchi. Molte famiglie sono spaventate dall'incertezza delle restrizioni, applicate in maniera non uniforme, più fermamente al Sud, e con maggiori concessioni al nord, e sono ancora in tanti a preferire le figlie a casa per paura di ritorsioni, in tanti a pensare che consentire alle giovani di sedere sui banchi non equivalga a offrire loro un dignitoso livello di istruzione. In tanti a pensare che non serva far studiare le ragazze, cosa se ne farebbero di un attestato di scuola superiore, di una laurea in un Paese in cui le opportunità di lavorare per le donne stanno sparendo? La settimana scorsa il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) ha pubblicato le Prospettive socio economiche per l'Afghanistan per il biennio 2021-22, il report sottolinea quanto le restrizioni imposte al lavoro femminile stiano aggravando lo choc economico del Paese. Da agosto è stato permesso di tornare a lavorare solo alle dipendenti pubbliche che lavorano nel campo sanitario e in quello dell'istruzione e, senza occupazione femminile, il prodotto interno lordo dell'Afghanistan rischia di ridursi ulteriormente dal 3 al 5%, cioè una perdita di ricchezza stimata tra i 600 milioni e il miliardo di dollari. Donne velate, donne cancellate dalle pubblicità, donne illetterate. Donne usate come pedine di una trattativa giocata sui loro destini. Comunque traditi. Anche tornassero a scuola, fosse pure loro concesso di tornare a lavorare, potrebbero comunque dirsi difese, le donne afghane? Difficile immaginarlo pensando che i taleban, mentre mostravano il lato accomodante all'Occidente, hanno cancellato il ministero per gli affari femminili, eliminato tutte le istituzioni che promuovevano i diritti delle donne e annullato la legge sull'eliminazione della violenza che le proteggeva dagli abusi e dal matrimonio forzato, hanno cioè abolito in pochi mesi tutti i meccanismi che le tutelavano».

Lettera di Alberto Cairo,  Responsabile del Programma di Riabilitazione Fisica del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Afghanistan, scritta da Kabul e pubblicata da Repubblica.

«Sono stato fuori dal Paese per qualche giorno. Partire e rientrare è diventato complicato come era vent' anni fa. Allora si passava dal Pakistan, ora dall'Uzbekistan. Due o tre giorni di viaggio e lunghe attese di un volo. Naturalmente il transito è possibile solo con un passaporto occidentale. Uscire è stato utile e amaro allo stesso tempo. Cambiare aria e ambiente mi era necessario, soprattutto dopo gli ultimi angosciosi mesi, i poveri sempre più numerosi, nessuna prospettiva di miglioramento. Sentire paura e incertezza è disperante, ti divora, occorre prendere distanza e rinfrancarsi. Ma è stato anche amaro al pensiero di chi avevo lasciato (tradimento?) e soprattutto, per la conferma della distanza che separa l'Afghanistan dal resto del mondo. Nei quotidiani contatti telefonici con Kabul, domanda ricorrente è stata se e quanto ancora l'Afghanistan sia nell'interesse della gente. Confesso di aver in gran parte mentito. Dire loro che non fa più notizia, cancellato da nuove storie, sarebbe stato crudele. Mi sembrava di tornare indietro agli anni Novanta, quando di Kabul si sapeva ben poco, come un altro pianeta. La gente, esausta per la guerra civile, mi chiedeva se l'Europa fosse al corrente di quanto stava loro accadendo. Ma allora i mezzi di comunicazione erano diversi, niente Internet, telefoni o tv; solo radio e gli articoli di pochi eroici giornalisti. Ricordo che ad ogni partenza mi venivano affidati pacchi di lettere da imbucare in Italia. L'incarico di telefonare a parenti e amici fuggiti all'estero mi portava via ore ed ore. I messaggi spesso erano di poche parole, un semplice "siamo vivi." Ora è diverso. I talebani non hanno sospeso le comunicazioni, immagino le controllino, ma comunicare è possibile. È l'interesse per l'Afghanistan ad essere sparito. Lo provano anche le conversazioni che ho avuto. Sebbene non pochi mi abbiano chiesto di raccontare, più spesso ho trovato stanchezza, quasi noia. Oppure domande quali «com' è che gli afghani non trovano da sé la soluzione? Perché le donne non si ribellano? Perché il governo precedente è capitolato così in fretta?». La voglia di passare ad altro argomento era evidente. Dunque ho mentito. Sarebbe stato infierire su chi è già allo stremo. Ricordo le parole di una afghana anni fa: «Dolore e fame si sopportano meglio quando sai che qualcuno, anche lontano, sta pensando a te. Ti fa credere che la penosa situazione che stai vivendo passerà, ti dà forza per aspettare quel giorno».

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