La Versione di Banfi

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Un nonno e due poltrone

alessandrobanfi.substack.com

Un nonno e due poltrone

Il premier si definisce "un nonno al servizio delle istituzioni" e si candida per il Quirinale. Partiti e leader spiazzati. Mr. B gelido. Ma Draghi resterà fra Chigi e Colle. In Libia non si vota

Alessandro Banfi
Dec 23, 2021
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Un nonno e due poltrone

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L’esplosione di Omicron anche in Italia è il primo dato numerico che sarà sul tavolo questa mattina alla riunione della cabina di regia. Il governo deve stabilire le nuove regole anti Covid per questi ultimi giorni del 2021. I numeri sono preoccupanti: più 30 per cento in Lombardia in pochissimo tempo. L’Organizzazione mondiale della sanità, come nota Gramellini sul Corriere, usa sempre immagini catastrofiste e ieri ha sentenziato: “Omicron sarà una tempesta sull’Europa”. Vedremo se prevarrà la linea delle mascherine FFP2 obbligatorie in certe situazioni e se si arriverà ad un cambio di validità del Green pass. La buona notizia che viene dagli scienziati è che la terza dose dovrebbe essere uno scudo efficace. Ma la dura verità è che tutte le occasioni sociali delle Feste natalizie sono a rischio.

Le parole di Mario Draghi ieri alla tradizionale Conferenza stampa di fine d’anno, «Sono un nonno al servizio delle istituzioni», sono suonate come il vero fischio d’inizio della partita sul Colle. A giudicare dai giornali stamattina, la discreta auto candidatura del premier ha messo tutti in movimento. Gli stessi leader e partiti che avevano ripetuto alla nausea: “Draghi ci dica che cosa vuole fare” adesso sono preoccupati dalla sua aperta dichiarazione d’intenti. Il più agguerrito è Silvio Berlusconi, che si sente il primo rivale di Draghi. Divertente il titolo di Libero sulla guerra fra nonno e bisnonno. Poi ci sono i tanti esponenti e consiglieri dei partiti che hanno sempre tollerato l’attuale premier come inevitabile soluzione imposta da Mattarella. E che non vedono l’ora di liberarsene. Primo fra tutti Travaglio del Fatto. A nuotare come un pesce nel nuovo mare incerto delle trattative è Matteo Renzi che cerca uno spazio per creare un’alternativa, come spiega a Repubblica. Polito sul Corriere considera i due contendenti, Draghi e Berlusconi, entrambi invisi ai grandi elettori. MF titola: “Violante sulla via di Draghi”. Ma oggi fotini, bio e nomi impazzano un po’ ovunque sulla stampa. Il Corriere della Sera elenca ben 18 nomi con immagine profilo e piccola biografia di corredo. Euforia quirinalizia.

Dall’estero: niente elezioni in Libia domani. Quirico sulla Stampa ricorda le responsabilità dell’Occidente nel caos fra le tribù di quel Paese. Sondaggio choc fra i cittadini europei: la metà vuole erigere muri per fermare i migranti. Il collasso del commercio internazionale nel dopo (?) pandemia: il Manifesto racconta che un’inondazione in Canada porta a razionare le patatine fritte ai fast food di Tokyo.

 Qual è il significato del Natale? Comunque la pensiate, è la memoria di un dono, di una nascita, di una vita data per gli altri. L’invito che vi faccio è allora tornare ad ascoltare, in questi giorni più tranquilli e familiari di festa e di riposo, il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Simone Weil nel suo libro La persona e il sacro scrive: “Dalla prima infanzia sino alla tomba, qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini, compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”. Il Natale conta su questo cuore. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Due grandi temi oggi sui giornali: le nuove misure contro la pandemia e la conferenza stampa di fine d’anno del premier. Il Messaggero per una volta fa il titolo più convincente: Mossa Draghi, partiti spiazzati. Il Corriere della Sera sceglie una frase di Draghi: «Avanti con chiunque ci sarà». Domani articola il ragionamento: O la maggioranza manda Draghi al Quirinale oppure salta tutto. La Repubblica sintetizza l’umore dei partiti: Colle, gelo su Draghi. La Stampa è didascalico: Draghi pronto alla sfida del Colle. Diversi titolisti hanno giocato sulla definizione di “nonno” che il Presidente del Consiglio ha dato di sé. Come il Fatto che spera traslochi davvero: Attenzione: nonno in fuga. Il Manifesto accosta l’immagine del premier a quella di Berlusconi per dire che c’è: La guerra dei nonni. Libero sulla stessa linea, dando la notizia che Piersilvio è diventato nonno e che quindi proprio ieri Mr. B è diventato bisnonno: Nonno contro bisnonno. Il Giornale si fa trascinare dal cattivo umore di Arcore: Tutti contro Draghi al Colle. La Verità crea un nesso fra le ambizioni del presidente del Consiglio e l’emergenza pandemia: Draghi si butta sul Quirinale per fuggire dal disastro Covid. A proposito ecco gli altri giornali. Avvenire: Feste in maschera. Il Quotidiano Nazionale annuncia: Mascherine e tamponi, oggi si cambia. Il Mattino resta sulle possibili difese: «Pronta la pillola anti Covid, ok ai vaccini per Omicron». Il Sole 24 Ore aggiorna sulla manovra: Taglio Irpef, gli sconti in busta paga partono a marzo.

IL GIORNO DEL NUOVO DECRETO ANTI PANDEMIA

Oggi sarò varato il nuovo decreto. Tamponi per feste e discoteca a chi è senza la terza dose. Il green pass rafforzato valido solo 6 mesi. Ecco tutte le scelte che potranno essere fatte. La cronaca di Guerzoni e Sarzanini sul Corriere.

«Chi è vaccinato con tre dosi non dovrà avere un tampone negativo per andare alle feste o in discoteca. Tutti gli altri dovranno farlo nelle 24 ore precedenti. È questa la mediazione che il presidente del Consiglio Mario Draghi porterà questa mattina alla cabina di regia prima dell'approvazione del decreto che introduce nuove misure per fermare la risalita della curva epidemiologica del Covid-19. La maggioranza è ancora divisa. Mentre il Pd e Forza Italia insistono sull'obbligo vaccinale, la Lega chiede meno limitazioni e il Movimento 5 Stelle vorrebbe test gratuiti. La riunione servirà a trovare un compromesso sui luoghi dove imporre controlli anche a chi ha scelto di vaccinarsi, ma sulla necessità di una stretta alla fine tutti concordano, consapevoli che l'alternativa da qui a qualche settimana sono nuove chiusure. E dunque il decreto prevederà la possibilità di prenotare la terza dose dopo quattro mesi o addirittura tre dalla seconda, un green pass rafforzato valido soltanto sei mesi e raccomandazioni forti per pranzi e cene nelle case. Omicron al 30% Il virus ha ricominciato a correre e gli scienziati hanno ribadito anche ieri che a gennaio, con l'esplosione dei casi dovuti alla variante Omicron, la situazione rischia di peggiorare in maniera molto grave. Già adesso i primi risultati della Flash survey che l'Istituto superiore di sanità completerà nei prossimi giorni, dicono che la variante sudafricana è presente in alcune regioni del nostro Paese al 30%. E secondo le stime potrebbe diventare prevalente entro metà gennaio. Il tracciamento Ecco perché - questo è il suggerimento degli esperti - sono necessarie regole e divieti che incentivino le vaccinazioni e soprattutto impediscano la circolazione delle persone positive. «Si deve potenziare il tracciamento, aumentare la protezione», hanno ribadito i vertici del Cts. Il timore forte riguarda la tenuta delle strutture sanitarie, in terapia intensiva ci sono più di 1.000 persone. Le mascherine Entra subito in vigore l'obbligo di tenere la mascherina all'aperto in tutta Italia e in alcuni luoghi particolarmente affollati verrà imposto di utilizzare la Ffp2 che garantisce maggiore protezione. Il tampone alle feste Per andare in discoteca o partecipare alle feste nei locali pubblici chi ha ricevuto soltanto due dosi dovrà sottoporsi al tampone. Nella lista dei luoghi ritenuti a rischio potrebbero essere inseriti anche gli stadi e i concerti, ma su questo la trattativa è aperta e soltanto nella cabina di regia si prenderà la decisione. La terza dose Gli ultimi studi dimostrano che la «copertura» vaccinale cala con il trascorrere del tempo e gli scienziati ritengono indispensabile accorciare la distanza tra le varie somministrazioni. Sulla base delle ultime evidenze l'opinione prevalente è che si debba ridurre l'intervallo tra seconda e terza dose a 4 mesi, ma non è escluso che si scenda fino a 3 come già accade nel Regno Unito. Entro qualche giorno l'Aifa dovrà recepire il parere dell'Ema secondo la quale «sebbene la raccomandazione finora fosse di somministrare dosi di richiamo preferibilmente a 6 mesi, i dati attualmente disponibili supportano la somministrazione sicura ed efficace di una dose di richiamo 3 mesi dopo il primo programma di vaccinazione completo». Il green pass Inevitabilmente dovrà essere ridotta anche la validità del green pass «rafforzato» - quello rilasciato a vaccinati e guariti - che scende dagli attuali 9 mesi a 6 mesi o addirittura a 5. Pranzi e cenoni Nessuna norma o divieto può essere imposto nelle abitazioni private, ma la raccomandazione contenuta nel decreto sarà «stringente» proprio per richiamare i cittadini a un rispetto delle regole di distanziamento e del divieto di assembramento che è comunque valido anche nei luoghi privati. La cabina di regia potrebbe anche decidere di suggerire un numero massimo di persone da ospitare e qui il nodo politico è se limitarsi alla zona gialla o chiedere un sacrificio anche a chi vive in bianca. Stando attenti alla salute dei più piccoli visto che nelle ultime settimane il numero dei positivi tra bimbi e ragazzi ha avuto una forte impennata. Controlli a scuola La possibilità di prolungare di due settimane le vacanze natalizie non è sul tavolo del governo. La linea rimane quella di evitare il più possibile la Dad e soprattutto incrementare le vaccinazioni. Oggi il generale Francesco Paolo Figliuolo dovrà consegnare al premier Draghi un piano di interventi per rafforzare lo screening degli studenti e creare nuovi hub dove poter vaccinare i ragazzi. Rimane da risolvere il problema che riguarda la fascia 12-17 anni perché, come sottolinea l'assessore alla Sanità del Lazio Alessio D'Amato, «hanno completato le prime due dosi ormai da oltre 150 giorni, ma Ema e Aifa non hanno dato indicazioni su cosa fare».

OMICRON “È ESPLOSA”: AL 30% IN LOMBARDIA

Gli ultimi dati del contagio Covid in Italia, che verranno consegnati al governo prima della cabina di regia di stamattina, sono inequivocabili: Omicron è esplosa. Michele Bocci per Repubblica.

«Omicron è esplosa». Non usa mezzi termini, il tecnico del ministero della Salute, per descrivere cosa sta facendo la variante nel nostro Paese. Nella prima "flash survey", cioè indagine rapida, che risale al 6 dicembre rappresentava una quota compresa tra lo 0,2 e lo 0,3% dei casi. Appena due settimane dopo è cresciuta enormemente, di cento volte. Ieri le Regioni hanno inviato all'Istituto superiore di sanità i dati dei tamponi analizzati lunedì: ne emerge che Omicron ha una circolazione superiore al 25% e probabilmente già vicina al 30%. Sarà questo il dato che verrà portato al premier Mario Draghi oggi, prima della cabina di regia. A questi ritmi, entro la fine dell'anno Omicron diventerà la variante prevalente, cioè rappresenterà oltre la metà dei casi. In certe Regioni si scavalca anche il 30%. È il caso della più grande d'Italia e anche una delle più colpite in questo momento, la Lombardia. Qui l'aumento dei contagi degli ultimi giorni dimostra come sia proprio la variante che sta spingendo i numeri verso l'alto. Ma non lo fa da sola, perché la Delta è ancora prevalente e di sicuro sta provocando tanti contagi. «Notiamo una differenza tra la zona Nord-Ovest della Regione, dove Omicron circola di più e ci sono importanti cluster, e quella Sud-Est, dove è meno presente. Comunque, siamo sopra al 30%». A parlare è Fausto Baldanti, che dirige il laboratorio di Virologia e microbiologia del San Matteo di Pavia. «Il dato italiano - aggiunge - è legato anche al fatto che stiamo facendo tantissimi tamponi in tutto il Paese. C'è quindi una maggiore capillarità di identificazione ». Baldanti vuole smentire una affermazione che molti fanno in queste ore. «Non è vero che sequenziamo poco - dice - L'Italia è tra i Paesi che fanno più genotipizzazioni, cioè un approfondimento di screening che trova le mutazioni principali. Dopo, se necessario, si può fare una nuova ricerca con il sequenziamento, ma un primo risultato si ottiene già. La sintesi è che i nostri esami per cercare la Omicron sono tanti. Ormai diventa urgente aggiornare i vaccini esistenti includendovi la spike delle varianti maggiori». Ha avuto alcuni cluster in questi giorni la Toscana, i cui dati inviati a Roma ieri per la flash survey parlano di una Omicron al 15-20%. Nel policlinico di Careggi i casi sono saliti in tre giorni a quasi 200. «Per ora i contagiati sembrano colpiti in modo un po' meno violento - dice Mauro Pistello, direttore della Virologia di Pisa - Dobbiamo comunque cercare di limitare la diffusione, per evitare che si sviluppino le "varianti della variante"». In Emilia-Romagna i numeri sono simili a quelli toscani: anche qui la variante ci ha messo pochissimo a diffondersi. «Stimiamo una presenza del 20%, ma i casi certi sono dieci», spiega l'assessore alla Salute, Raffaele Donini. E anche altre Regioni hanno una presenza importante di Omicron, ad esempio l'Umbria. Nel Lazio invece il dato sarebbe un po' inferiore, intorno al 15%. Omicron ha accelerato la corsa in modo importante negli ultimi 5-6 giorni. Il quadro che verrà presentato oggi al premier Mario Draghi dal presidente dell'Istituto superiore di sanità non sarà del tutto completo, perché alcune Regioni a ieri sera non avevano ancora inviato i dati. La tendenza comunque è chiara: la variante corre. La flash survey è stata fatta lunedì: già adesso, di sicuro, la variante è ancora più diffusa, con numeri in crescita anche nelle zone del Paese finora meno colpite. Del resto si sta muovendo in modo davvero velocissimo».

DRAGHI SI OFFRE: “UN NONNO AL SERVIZIO DELLE ISTITUZIONI”

Di che cosa deciderà oggi il governo sulla pandemia ha parlato molto ieri anche Mario Draghi nella conferenza stampa di fine d’anno. Draghi si è anche di fatto candidato al Colle. Ecco la sintesi di ciò che ha detto nel riassunto di Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Resterà scolpita come la conferenza stampa in cui Mario Draghi racchiude in uno slogan il suo programma per il futuro: «Sono un nonno al servizio delle istituzioni». A metà strada tra la disponibilità a traslocare al Colle e un duro avvertimento ai partiti: valutate bene le prossime mosse, perché non resterò a qualunque costo. Si è aperta una nuova fase. Draghi prepara l'incontro di fine anno in modo pignolo: studia le potenziali bozze di risposte, poi si allena a rispondere, infine al mattino un rapido ripasso a Palazzo Chigi. Con in testa un obiettivo: rassicurare mercati, peones e cancellerie attorno alla stabilità dell'Italia, anche in caso di ascesa al Quirinale. Un attento slalom per non scontentare nessuno, neanche i potenziali grandi elettori. Il risultato è quello che segue. Il mio destino non conta La prima domanda coglie il punto: cosa intende fare, Colle o ancora Palazzo Chigi? E Draghi mostra di essere disposto anche a scalare il Quirinale. «Il mio destino personale non conta assolutamente niente. Non ho particolari aspirazioni di un tipo o di un altro. Sono un uomo e un nonno al servizio delle istituzioni». Governo avanti senza di me È forse il passaggio chiave. Draghi cita la campagna contro il Covid: «Siamo tra i Paesi più vaccinati del mondo ». Plaude al lavoro sul Recovery plan: «Abbiamo raggiunto tutti i 51 obiettivi, creando le condizioni perché il lavoro sul Pnrr continui». E infine sgancia la bomba, che punta a tranquillizzare i partiti spaventati dal voto anticipato: «Il governo ha creato queste condizioni indipendentemente da chi ci sarà». Deve però essere un esecutivo di salvezza nazionale. «L'importante è che sia votato da una maggioranza come quella che ha sostenuto il governo, la più ampia possibile». Nel frattempo, ringrazia i partiti, come fosse un ramoscello d'ulivo: «Hanno permesso a questo esecutivo di agire». Per il Colle maggioranza ampia Dice Draghi che un'elezione del nuovo Capo dello Stato a maggioranza ristretta rappresenta «certamente uno scenario da temere». Di più: «È immaginabile una maggioranza che si spacchi sulla elezione del presidente della Repubblica e si ricomponga nel sostegno al governo? È la domanda che dobbiamo farci». Il segnale è chiaro, rivolto a tutti. La legislatura arrivi a scadenza Per rafforzare il concetto, il premier lancia un altro segnale: «Per continuare l'azione di contrasto della pandemia, rilanciare la crescita e attuare il Pnnr, è essenziale che la legislatura vada avanti fino al termine». Non resto a qualsiasi costo È l'altra faccia della medaglia dello slogan sul «nonno al servizio delle istituzioni». Nulla delle prossime mosse è scontato, Draghi non rimarrà a qualsiasi costo. «Non immagino il mio futuro all'interno o all'esterno delle istituzioni - dice - L'importante è vivere il presente al meglio». Mattarella è un modello Per l'attuale Presidente della Repubblica c'è un messaggio «di affetto». Di più: «Ha svolto splendidamente il ruolo, con dolcezza e fermezza. È l'esempio, il modello di Capo dello Stato ». Il ruolo del Presidente, aggiunge, non è di notaio, ma di «garante». E in queste vesti «ha sostenuto e protetto il mio esecutivo al meglio possibile». Insomma, se mai dovesse restare a Palazzo Chigi, Draghi non sembra che possa prescindere da un bis del Capo dello Stato: «Questo governo comincia con la chiamata di Mattarella. Ma è il Parlamento a decidere la vita dell'esecutivo». Cauto sul "rivale" Berlusconi Gli domandano della candidatura di Berlusconi al Quirinale. E dei rischi sui mercati rispetto a questo scenario, vista la crisi dei titoli di Stato del 2011: «Non sta a me dare queste valutazioni. Neanche da presidente della Bce lo avrei fatto: esondava dal mio compito allora ed esonda oggi». Green pass a sei mesi Draghi parla molto di pandemia. E delle misure che saranno assunte oggi dall'esecutivo. La più probabile è accorciare la validità del Green Pass a sei mesi per spingere le terze dosi. «Ne discuteremo». L'obiettivo è favorire l'immunizzazione: «Invito tutti a fare la terza dose. I vaccini restano lo strumento di difesa migliore dal virus». Mascherine e tamponi Il governo deciderà le misure in base ai dati. Tra le opzioni, l'obbligo di mascherine all'aperto e il tampone ai vaccinati per svolgere alcune attività. Niente lockdown per i No-vax Non è ancora il momento di una scelta tanto drastica, dice Draghi: «Per adesso non parliamo di lockdown per i non vaccinati, ma ogni risposta è sul tavolo. Ma faccio presente che i due terzi delle terapie intensive sono occupate da non vaccinati». A scuola subito dopo le feste Draghi non ritiene che servirà prorogare la chiusura delle scuole dopo le festività, lasciando gli studenti in dad. «No, non lo allungheremo. Se serve potenzieremo il testing nelle aule. E serve la vaccinazione di tutti, anche dei bambini». Difendere l'economia Il rischio è una gelata per la quarta ondata. «Il governo resta pronto a sostenere l'economia in caso di rallentamento ». In ogni caso, l'Italia cresce nel 2021 di oltre il 6%. Ecco i paletti su Tim Draghi detta la linea anche sul nodo di Tim. Per il governo è fondamentale «la tutela di tre aspetti: l'occupazione, l'infrastruttura - cioè la rete - e la tecnologia». Mps, non sono aiuti di Stato «La pandemia ha cambiato molto le regole - ricorda Draghi - Non credo dunque che per Mps ci siano difficoltà sul fronte degli aiuti di Stato». Basta condoni Il governo non ripeterà la rottamazione delle cartelle di piccolo importo. Gas e bollette, nuove risorse «Il sostegno a imprese e famiglie per gli aumenti del gas ci sarà. E, se necessario - come sembra - sarà oltre quello che è stato già deciso». Draghi promette nuovi aiuti. E a pagare, aggiunge, dovranno essere anche i colossi del settore: «Stanno facendo profitti fantastici». Superbonus, troppe frodi Non è la prima volta, ma anche stavolta Draghi si mostra scettico sul superbonus: «Ha dato molto beneficio, ma ha anche incentivato le frodi. Stamane l'Agenzia delle Entrate mi ha segnalato il blocco di 4 miliardi di crediti». Germania, Francia e triumvirato Draghi ribadisce la necessità di rinnovare le regole del Patto di Stabilità nel 2022. Sfruttando anche l'asse con Parigi e Berlino. «Ma il fatto che i Paesi più grandi si consultino non significa che c'è un triumvirato». Cambia il Csm Per Draghi «il meccanismo di elezione del Csm verrà cambiato». Novità nello Spazio «In totale sullo spazio investiamo 4,5 miliardi», premette. Poi annuncia: «L'Italia lancerà la costellazione di satelliti per osservazione della terra in orbita bassa». Il nome della costellazione sarà proposto dai giovani con un concorso, poi sceglierà Samantha Cristoforetti. Crisi in Ucraina, torni Minsk Il dossier è scottante. «Gli accordi di Minsk non sono stati osservati da Russia e Ucraina», ricorda il premier. «Un'osservanza di tali accordi potrebbe essere il primo passo» per distendere il clima. Libia, avanti per le elezioni In Libia slittano le elezioni, ma l'Italia non si arrende. «Bisogna sperare che il dialogo tra i vari centri di potere riprenda per fissare una nuova data per le elezioni». Incidenti sul lavoro I numerosi incidenti, anche se «legati in parte al boom dell'edilizia», restano «inaccettabili». In arrivo nuove norme, insomma. Diplomatico sui temi etici Su Ius culturae e fine vita, il premier si mantiene molto cauto. E sull'eutanasia dice: «C'è una sentenza della Corte Costituzionale, a questa sentenza va data attuazione». I referendum «Il governo - annuncia l'ex banchiere centrale - non si costituirà contro l'ammissibilità dei referendum» su giustizia e cannabis. La conferenza è finita. Una nuova fase è aperta. Ora la parola ai partiti».

PARTITI SPIAZZATI, MR. B SI SCHIERA CONTRO

Presi in contropiede, tutti un po’ spiazzati, leader e partiti che pure avevano chiesto a Draghi di pronunciarsi, adesso si preoccupano. Alessandro Sallusti su Libero presenta la corsa al Quirinale come un duello fra due soli candidati: il premier e Silvio Berlusconi.

«Mario Draghi si candida di fatto a Presidente della Repubblica facendo una affermazione («questo governo può andare avanti indipendentemente da chi lo guiderà») e ricorrendo a una metafora: «Io sono un nonno al servizio delle istituzioni». E ciò accade proprio nel giorno in cui diventa pubblica la notizia, data dal settimanale Chi, che Silvio Berlusconi è diventato per la prima volta bisnonno essendo nata Olivia, figlia della figlia che Piersilvio ha avuto da una relazione giovanile. Nonno Mario contro bisnonno Silvio (al Cavaliere piace sempre stare un passo avanti a chiunque in qualsiasi campo) non è solo una divertente coincidenza di notizie parentali ma il primo nodo politico da sciogliere nella corsa al Quirinale. Perché fino a che Berlusconi rimarrà in campo, sia pure non ufficialmente, per contarsi alla quarta votazione quirinalizia a maggioranza semplice è difficile che Lega e Fratelli d'Italia convergano su Mario Draghi nei primi tre scrutini che richiedono una maggioranza dei due terzi, pena una spaccatura probabilmente irreparabile con Berlusconi e Forza Italia. Per essere ancora più chiaro, ieri sera bisnonno Berlusconi ha ribadito che a suo avviso nonno Draghi deve restare a Palazzo Chigi fino al termine della legislatura nel 2023, respingendo di fatto l'autocandidatura al Quirinale dell'attuale premier. Del resto tra i due è in corso una guerra a distanza: in mattinata Draghi, rispondendo a una domanda sulla possibilità che Berlusconi salga al Colle, aveva risposto scocciato: «Non sta a me dare valutazioni». Ci siamo, insomma. Al tavolo dove si gioca la partita per la sostituzione di Sergio Mattarella i giocatori calano le prime carte, che non sono ancora i jolly ma qualche strategia si comincia a vedere. Partita complicata perché per la prima volta nella storia della Repubblica uno dei candidato eccellenti, Mario Draghi, è anche Presidente del Consiglio in carica. Non essendo previsto il doppio incarico - osservazione stupida ma per dire che anche le emergenze hanno dei limiti invalicabili in democrazia - che ne sarà del governo Draghi dopo Draghi se Draghi dovesse traslocare? «Si può andare avanti senza di me e con la stessa maggioranza di oggi, il lavoro è ben avviato», ha minimizzato ieri il premier per tranquillizzare il Parlamento sul fatto che con lui al Colle la legislatura potrà tranquillamente continuare. Ma Draghi immagino sappia che dicendo questo la fa un po' troppo semplice, che va bene la stima e la fiducia nei suoi confronti ma che potere, ambizioni e appetiti sono altra cosa, tanto che il suo discorso è stato accolto con garbata freddezza da un po' tutti i partiti poco disposti ad accettare soluzioni preconfezionate e per di più a scatola chiusa. Nessun patto e nessun annuncio possono garantire che via Draghi da Palazzo Chigi tutto continuerà come se nulla fosse. Non dico che ciò è impossibile, penso che oggi non ci siano le condizione perché accada tante sono le tensioni e le divergenze tra i partiti che compongono la maggioranza. E poi chi dovrebbe essere il suo successore alla guida del governo? Un politico puro lo escluderei e per questo non credo alle ipotesi che circolano in queste ore sui nomi di Giorgetti o Brunetta (ma anche di chiunque altro). Un tecnico? Dopo Draghi, chiunque sarebbe una scelta al ribasso non accettabile dai partiti poco disposti a ulteriori, per di più gratuite, cessione di potere. Ed ecco che allora si torna al punto di partenza: tenere insieme le tre ipotesi care a Draghi, cioè lui al Quirinale, avanti con la stessa maggioranza e quindi niente elezioni anticipate è davvero dura. Come è dura per Matteo Salvini e Giorgia Meloni non sostenere fino in fondo, o quantomeno fino all'ultimo minuto possibile, la candidatura di Silvio Berlusconi primo presidente di centrodestra. Al momento quindi è una guerra di nervi tra nonno Mario e bisnonno Silvio. Gli altri, nipotini naturali o acquisiti, tutti a guardare e ad aspettare il primo passo falso di uno dei due».

Antonio Polito nel suo Fanta Colle per il Corriere della Sera sostiene che entrambi, Draghi e Berlusconi, sono poco graditi ai grandi elettori.

«l/la «quirinabile» (ce ne sono in giro almeno una dozzina) non crede che Draghi ce la farà. Altrimenti, del resto, non avrebbe speranze. Scommette perciò su un altro scenario. «Se hanno un briciolo di sale in zucca, il presidente stavolta lo fanno al tavolo dei partiti, prima ancora di entrare a Montecitorio per le votazioni. Nel 2022, sotto attacco Omicron, con partiti deboli e screditati, se cominciano a giocare alla prima repubblica, votando due volte al giorno per una settimana, con franchi tiratori, schede bianche e schede nulle, gli italiani si mettono a ridere. Finisce come il sorteggio di Champions League. Per cui, se sono saggi, fanno un accordo di tutti o quasi. È così fregano sia Berlusconi sia Draghi. Il primo perché nessuno lo vuole davvero. Salvini e Meloni devono solo fare un passaggio formale, per lealtà, e farsi bocciare il nome dagli altri. Ma Draghi pure non lo vuole nessuno. Con lui a Palazzo Chigi i partiti non toccano palla, non li tratta, non li vuole, non li cerca. Se va al Quirinale, non li invita neppure alla festa della Repubblica. Ne hanno paura. Nessuno metterà il veto sul suo. nome, ma nessuno lo proporrà. È così, eliminata la prima fila, verranno in campo la seconda e la terza. Stavolta tocca al centrodestra fare il nome, lo ha riconosciuto anche Renzi. Se sono capaci di trovarne uno accettabile per tutti, beninteso; cosa che non è scontata. Uno a scelta tra Cartabia, Casellati, Moratti, più Pera e Casini, i due presidenti delle Camere della legislatura berlusconiana. Anche se il Cavaliere a tutti questi preferirebbe Amato. Lo fa sentire più giovane, lo riporta ai tempi di Craxi. E forse proprio per questo non andrà bene al Pd, che pure sarebbe il suo partito. Berlusconi potrebbe spingersi fino a Gentiloni, però la Meloni e Salvini non possono accettare il terzo presidente del Pd di seguito. Meloni potrebbe spingersi fino a Violante, ma sarebbe anatema per i berlusconiani. Però, se sono furbi, se non vogliono fare un harakiri collettivo, e aprire nel paese la strada a un presidenzialismo non all’americana, ma alla sudamericana, il Capo dello Stato devono sceglierlo insieme e prima, al tavolo dei partiti».

Stefano Folli su Repubblica prova a guardare le parole di Draghi da un altro punto di vista: contengono un appello alla coesione delle forze politiche.

«Sbaglierebbe chi volesse leggere nelle parole del presidente del Consiglio solo una disponibilità a trasferirsi tra qualche settimana al Quirinale. Draghi in realtà ha detto qualcosa di più. Si è dichiarato "a disposizione delle istituzioni", sia pure con il vezzo di definirsi un semplice "nonno": il che allude al Colle, certo, ma non esclude Palazzo Chigi. A certe condizioni, da lui spiegate per la prima volta con una precisione quasi didascalica, si può immaginare che la legislatura prosegua fino al 2023, confermando l'equilibrio di cui il presidente della Repubblica è stato il garante nel passaggio tra il Conte-2 e l'attuale esecutivo tecnico-politico. Tale equilibrio poggia sulla cornice di quasi unità nazionale voluta da Mattarella a sostegno dell'esecutivo Draghi. Non c'è il partito di Giorgia Meloni, ma tutti gli altri, sì. Questa maggioranza larga riflette uno sforzo di coesione politica non banale, cementato dalle questioni sanitarie, sì, ma soprattutto dall'esigenza di non disperdere i fondi europei destinati ad alimentare la ripresa. Tale coesione sembra essere il bene prezioso da preservare. Il fatto che Draghi abbia sentito il bisogno di difenderla nel giorno in cui ha reso nota la sua "disponibilità" a restare nelle istituzioni, vuol dire parecchio. In primo luogo il premier si è reso conto che aveva poco senso il silenzio assoluto a proposito del tema Quirinale, il grande gioco collettivo intorno al quale gli italiani si dilettano da varie settimane, se non mesi. Così lo ha affrontato in maniera tutt' altro che elusiva e non senza qualche battuta di spirito utile per l'operazione simpatia. In secondo luogo il presidente del Consiglio si è speso in elogi verso i partiti della maggioranza, a cui ha attribuito buona parte del merito per i successi del governo nel '21. Quanto i complimenti fossero sinceri e quanto dettati dalla convenienza, non è dato sapere e non è poi importante. Quel che conta è l'impegno del premier per tenere il più possibile compatta la coalizione sulla base di un presupposto realistico. Vale a dire: la semi unità nazionale è stata realizzata dal binomio Mattarella-Draghi, il primo nelle vesti di architetto e garante della formula, il secondo realizzatore degli obiettivi. Oggi il problema è come mantenere questo stesso equilibrio: perché è evidente che una maggioranza sbriciolata nell'elezione del capo dello Stato è una maggioranza che non esiste più nemmeno sul piano del governo. Quindi non è Draghi che minaccia di andarsene se non salirà al Colle, come pretende la "vulgata", ma è il quadro generale che si disfa se la maggioranza non regge nei giorni del Quirinale. Al momento siamo lontani dalla convergenza sul nome dell'attuale premier. Berlusconi e la Lega si sono affrettati a chiedere "continuità", ossia che resti Draghi a Palazzo Chigi. Se coesione deve essere, è tutta da costruire. E qui sono tre i punti su cui il premier non ha dato spiegazioni, né poteva farlo. Primo, chi vuole mantenere Draghi al governo può costruire la convergenza su un altro nome destinato a svolgere lo stesso ruolo di Mattarella. Giuliano Amato avrebbe le caratteristiche. Secondo, l'eventuale intesa su Draghi deve fare i conti con l'esercito dei franchi tiratori e le loro paure da non sottovalutare. Terzo, la grande coalizione non potrebbe essere guidata "da chiunque". Senza l'attuale premier, le spinte divergenti rischiano di riemergere come il fuoco sotto la cenere».

RENZI VUOLE CONDURRE I GIOCHI

Non gode di grande simpatia, soprattutto a sinistra dov’è stato segretario del Pd, ma Matteo Renzi rappresenta comunque quel sistema dei partiti che si sente messo con le spalle al muro da Draghi. E vuole uscirne. Francesco Bei lo intervista per Repubblica:

 «Draghi dice: indipendentemente da chi sarà a palazzo Chigi, il governo ha creato le condizioni per andare avanti sia sul Covid che sul Pnrr. Eppure è appena stato rinnovato lo stato d'emergenza e i dati sui contagi preoccupano tutti gli italiani. Lei ha visto nelle parole del premier il segno di un congedo?
"Ci leggo il segno di una svolta compiuta. Un anno fa eravamo in crisi con Conte a fare le dirette Facebook di Casalino e Arcuri a disegnare primule. Con coraggio abbiamo aperto una crisi di governo difficile da spiegare allora, ma facile da capire oggi visti i risultati. Nelle parole del premier ho sentito l'orgoglio perché viviamo in un mondo totalmente diverso a quello di dodici mesi fa. Ne valeva la pena". Draghi si chiede retoricamente come fa una maggioranza che si divide sul Quirinale ad andare avanti come se niente fosse sul governo. E' un modo per far capire che sarebbe costretto a gettare la spugna?
"Nel 2015 scegliemmo Mattarella e non tutta la maggioranza di Governo fu d'accordo: alcuni partiti erano scettici o contrari. Oggi possiamo dire che aver individuato Sergio Mattarella è stato un bene per l'Italia. Ma sette anni fa la maggioranza parlamentare fu diversa dalla maggioranza presidenziale: il Quirinale fa sempre storia a sé".
Come si arriva a un'elezione di Draghi al Colle visto che tutti, tranne forse Meloni, hanno detto che sarebbe meglio che continuasse a palazzo Chigi?
"Suggerisco di abbassare i toni, riporre il pallottoliere e godersi il Natale. Questa discussione va ripresa il 10 gennaio, non prima. Io penso che Draghi sarebbe un ottimo Presidente della Repubblica come penso che sia un ottimo premier. Inserirlo nel calderone dei nomi oggi serve solo a gettare fumogeni. Fino al 24 gennaio (possibile giorno della prima votazione ndr) lasciamo che Draghi si occupi di terza dose, di Pnrr, di ripresa economica. Poi tutti insieme sceglieremo l'inquilino migliore per il Colle. Parlarne oggi è come discutere dello scudetto ad agosto. Io non partecipo al fantamercato, mi concentro sulle vere priorità".
Berlusconi punta al Colle e al quarto scrutinio, magari con i voti di Italia Viva, potrebbe farcela. Lei con il patto del Nazareno ci stava scrivendo insieme la Costituzione. Ma può un uomo con il suo passato aspirare a diventare un presidente di garanzia per tutti?
"Il patto del Nazareno era un accordo per scrivere - tutti assieme - la Costituzione. Lo rifarei domattina. Le regole si scrivono proprio con chi non la pensa come te. Quanto alla Presidenza della Repubblica, le ribadisco il concetto che vale anche per Berlusconi: non faccio totonomi, spero nel consenso più ampio. Ho letto che Meloni ha chiesto di mandare un patriota al Quirinale. L'immagine mi sembra suggestiva, a me piace. Ma per me patriota è Sergio Mattarella, come Giorgio Napolitano, come Carlo Azeglio Ciampi: noi i patrioti li abbiamo eletti al Colle senza aspettare che si svegliasse Giorgia Meloni».

IN LIBIA DOMANI NON SI VOTA

Dall’estero. Arriva la notizia ufficiale: domani non si vota in Libia. E non c’è neanche un’altra data fissata. Domenico Quirico sulla Stampa.

«Sgocciola ormai il decimo anno dell'incubo libico. Le elezioni, fissate per domani socchiudendo gli occhi su molte cose sconvenienti, non ci saranno. Adesso è ufficiale, per necroscopica e obitoriale constatazione della commissione parlamentare incaricata dell'ardua organizzazione. Non si sussurrano nemmeno date sostitutive, solo una ottimistica richiesta da parte della Commissione elettorale di resuscitarle il 24 gennaio, si dice «per dar modo di eliminare gli intralci alla tenuta delle medesime». Che si possano rabberciare precariamente in così breve tempo non lo crede nessuno. È il momento di osare una sacrosanta constatazione: meno male che è andata così. Se le elezioni, per qualche miracoloso dinamismo della Storia, si fossero tenute davvero avremmo dovuto raccontare l'ennesima sequela di un decennale caos guerresco. Immaginiamo una vittoria ad esempio del generale Haftar, dittatore mancato e candidato di Bengasi. Difficile pensare che in nome del verecondo spegnitoio elettorale lo avrebbero ben accolto a Tripoli dove non si è ancora coagulato il sangue dei suoi inutili bombardamenti. Enumeriamo i citati «intralci» alle elezioni sintetizzando l'happening: l'esistenza contemporanea di almeno due governi, due parlamenti, due banche centrali; decine di aspiranti presidenti tra cui barattieri e un paio di ricercati per crimini di guerra; venticinquemila mercenari tra cui micidiali jihadisti siriani in proficua trasferta al soldo turco e grintosi mastini della guerra targati Putin, la solita Wagner specializzata nel saccheggio di minerali; centinaia di gruppi armati ovvero dei «Bravi manzoniani» che sanno essere diabolicamente persuasivi, dediti ad attività di politica criminale tra cui il commercio di uomini; non ci sono partiti, solo decine di tribù tutte in grado di difendersi e attaccare; armi a milioni dal kalashnikov alla artiglieria anticarro; una imperialistica «canaille», dalla Russia agli Emirati, dall'Egitto alla Turchia, (noi siamo parenti poveri, mettiamo avanti, meschinelli, gli «indissolubili vincoli storici», forse la ruvida pacificazione di Graziani l'Africano) decisa ad assicurarsi a tutti i costi petrolio, influenza geopolitica, contratti di prossime o remote ricostruzioni. In più c'è il ritorno dei gheddafiani, dei nostalgici del Colonnello, e non solo per la candidatura scenografica di Saif, figlio sedicente liberista del colonnello. Sono quelli che i ribelli del 2011 chiamano con sprezzo «alghe». Gente che vuole soldi e vendetta, non conforti conversativi. La Primavera del 2011 non è stata purtroppo una faccenda di gelsomini. Non esiste in Libia un esercito nazionale che spesso nel terzo mondo unifica le disperse identità. Anche sotto Gheddafi era un misto di contingenti tribali e soprattutto di mercenari a basso costo; il Colonnello che di golpe si intendeva si fidava più di loro. Dopo il 2011 è stato sostituito dalle milizie, piccoli signori della guerra avidi e incontrollabili che amministrano città, siti petroliferi, lager di migranti, frontiere per un business fatto di esazioni e sicurezza per un potere che non ha forza. Anche quello che Haftar definisce «esercito» è formato così. Fermiamoci qui. È incredibile che fino a ieri ministri occidentali abbiano parlato di queste elezioni come di una eventualità seria. Soltanto la retorica sfacciata di una certa diplomazia, compresa quella italiana, ha fatto sì che fino alla venticinquesima ora autorevoli portavoce abbiano continuato a buccinare sulla straordinaria occasione democratica offerta al popolo libico con sforzi pazienti e ingegnosi. Dopo anni di discesa agli inferi il catechistico rito elettorale, come uno esorcismo ben riuscito, avrebbe dovuto scacciare i demoni libici. A meno che il genio di certa diplomazia insipida sia di vivacchiare proprio su questa antinomia: essere nobili e insieme furbi, restare a parole figli della luce come la Scrittura occidentale comanda e insieme operare come i più maliziosi dei figli delle tenebre. Difficile che non si sia compreso che Dbeibah, premier incaricato di portare il Paese al voto, ricevuto in gran pompa con picchetti di bersaglieri e granatieri, tra l'altro candidato illecito alle elezioni, sia uno di quelli che più hanno lavorato per renderle impossibili. Visto che solo così poteva restare al potere a Tripoli. E ora? Più che nuovi scenografici vertici, universali e acchiappatutto, restano in piedi i domestici maneggi dei capi bastone libici, segugi dal fiuto finissimo nella ricerca della preda grossa, ovvero la rendita petrolifera o i miliardi del fondo sovrano creato da Gheddafi come cassaforte personale di cui una parte è ancora congelata dall'Onu. Per questo ci si batte in Libia non per ideologie o democrazie. In fondo con chi abbiamo fatto affari petroliferi e sottoscritto vergognosi accordi ferma-migranti in questi dieci anni? Con la democrazia libica? No, con i capibanda. Viene il dubbio che, in fondo, vada bene così. Il fiasco libico di oggi ha due matrici antiche: le ipocrisie della operazione franco britannica che fece cadere Gheddafi nel 2011, decisa per abbellire lo sfuocato consenso interno di Sarkozy e Cameron e non certo per missionarismo democratico; e la fallita ricerca occidentale di un sosia del Colonnello con cui riprendere, come se nulla fosse, a fare affari. Il candidato c'era, il feldmaresciallo Haftar, un dipendente della Cia dotato di gran cipiglio che dava molte garanzie di obbedienza: peccato sia militarmente un incapace che ha perso la guerra. La Libia di questo decennio caotico è in mano a gente dura. E semplice. Anche la violenza è semplice, è fatta su misura per epoche senza pietà. Gli errori in scenari come questo nascono spesso dal farsi schiavi delle parole. Il sangue sparso in molte guerre civili, nella maggior parte dei casi, è una questione di formule. Nel caso della Libia la parola trappola è nazione. La Libia purtroppo non lo è, è un insieme di tribù, quello con la kabila è il legame prioritario. Fattori esterni, sempre violenti, il colonialismo turco e italiano e la dittatura gheddafiana, le hanno legate. L'unico tentativo di superare la kabila in uno Stato impersonale è stato lo sgangherato socialismo beduino del primo Gheddafi, le sue farneticazioni da Libretto verde. Ma lo stesso Colonnello si accorse subito che erano chiacchiere pericolose e passò a un'arte di governo fatta di repressione, corruzione con i petrodollari e mediazione tribale. Le tribù lo hanno fatto cadere, le tribù sceglieranno il successore».

MIGRANTI 1, METÀ DEGLI EUROPEI VUOLE I MURI

Sondaggio choc realizzato da YouGov in tutta Europa per un gruppo di giornali di 10 Paesi diversi della Ue: metà dei cittadini europei vorrebbe i muri per respingere i migranti. Per Repubblica Roberto Brunelli.

«Confusa, impaurita, divisa: è l'immagine dell'Europa di fronte al fenomeno dei grandi flussi migratori. Dove quasi la metà dei cittadini immagina di innalzare muri per difendersi dagli stranieri illegali ed una grande maggioranza - da nord a sud, da ovest ad est del continente - ritiene che il livello d'immigrazione sia "troppo alto" nei rispettivi Paesi (e nell'Unione europea nel suo complesso). Altrettanti sono certi del fatto che l'arrivo degli stranieri rappresenti una minaccia alla propria "identità nazionale". A sei anni dalla grande crisi migratoria del 2015, fa riflettere il quadro che emerge oggi dal sondaggio realizzato da YouGov in esclusiva per Repubblica e la Leading European Newspaper Alliance in dieci Paesi (Germania, Italia, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Svezia, Belgio, Svizzera, Polonia e Ungheria). Un dato sopra tutti: il 60% degli intervistati afferma che vi è "troppa immigrazione" nei rispettivi Paesi. È un'opinione sostanzialmente condivisa in gran parte del Vecchio Continente: in Italia cresce al 77% del campione, seguita dalla Spagna al 75% e dalla Svezia al 73%, mentre è più contenuta in Germania (al 67%), in Francia (al 66%) e nel Regno Unito (al 51%). Di contro, apparentemente è un paradosso la risposta al quesito in Polonia e in Ungheria, i cui governi spiccano per rigidissime politiche anti- migranti: qui la quota di coloro che trovano eccessiva la presenza di stranieri si riduce rispettivamente al 39% e al 34%, numeri che a detta degli analisti di YouGov si spiegano con il fatto che si tratta di Paesi più di "transito" che di permanenza. Ad uno sguardo più attento, tuttavia, si scopre che nelle stesse Polonia ed Ungheria schizza in alto il numero di cittadini che considera un'ottima soluzione la costruzione di muri per bloccare i migranti irregolari: rispettivamente sono il 58% ed il 71%. Lo scenario cambia nell'Europa centro- occidentale: in Germania i "pro-muro" sono il 48%, tra i francesi e gli spagnoli lo è solo il 36, tra belgi ed elvetici si scende al 31 e al 28%. È uno schema che si replica nelle risposte sulla "minaccia all'identità nazionale": in Ungheria è quel che pensa il 53% della popolazione, in Polonia il 46%, ma la percentuale precipita al 35% in Spagna, al 37% nel Regno Unito, ma torna a crescere al 44% in Italia e al 43% in Svizzera. Patrick English, research manager di YouGov, non ha dubbi: «Complessivamente in Europa il 45% pensa che l'immigrazione costituisca una minaccia all'identità, il 48% è convinto dell'opposto: il che riflette una forte divergenza di pensiero e la mancanza di chiarezza sul tema migranti». Differenze, come quella sui muri, che hanno anche a vedere con l'esperienza d'immigrazione dei singoli Paesi: quelli dell'est, per esempio, "scontano" il fatto di coincidere con le frontiere esterne dell'Ue. In compenso, la maggioranza degli europei è convinta che gli stranieri rifiutino di integrarsi: risponde così il 51% degli italiani, il 50% degli svedesi, il 46% dei tedeschi e il meno sorprendente 57% degli ungheresi. Per quanto riguarda le preoccupazioni suscitate dall'immigrazione, al primo posto svetta quasi ovunque in Europa il timore di un aumento del crimine: è del 47% il dato complessivo nei dieci Paesi della rilevazione, che cresce al 52% in Germania, al 53% in Italia, addirittura al 64% in Svezia. Più bassa la percezione di un rischio di "intolleranza culturale" o religiosa, con percentuali che quasi ovunque oscillano poco sopra il 30%. Sicuramente inferiore a qualche anno fa il tasso (anche questo intorno al 30%) di chi vede al primo posto "il rischio terrorismo", con la consueta eccezione delle risposte date alle latitudini di Budapest (al 54%). Sull'Italia nel sondaggio You-Gov spiccano due dati. Primo, in diversi quesiti le risposte divergono drammaticamente a seconda della affiliazione partitica: arriva infatti al 91% la quota di elettori di Lega e Fratelli d'Italia convinti che vi è "troppa immigrazione" nel Paese, contro il 63% di chi vota Pd. Secondo, mentre sul giudizio incide notevolmente il livello di reddito (in questo gruppo è il 77% a temere il numero dei migranti), si fa notare il fatto che la "minaccia immigrazione" è decisamente meno percepita al sud e nelle isole che al nord e al centro (38% contro il 47%). Sorprendente, visto da Lampedusa».

MIGRANTI 2, STORIE DI ACCOGLIENZA

Storie di accoglienza dei rifugiati in Italia: il racconto di 113 progetti attivati due anni fa in tutto il Paese. Alessia Guerrieri per Avvenire.

«Quando si entra in una famiglia che non si conosce si ha sempre paura. Ma poi la timidezza lascia spazio al calore di una normalità a cui non si era abituati. Ed è così che «queste persone non mi hanno aperto solo le porte della loro casa, dandomi una stanza tutta mia, mi hanno invece spalancato le porte del loro cuore, facendomi seguire i miei sogni e le mie aspirazioni». Zaynab Ben Said a gennaio 2020 aveva già in tasca un foglio di via dal centro di accoglienza, ma poi grazie al progetto di Refugees Welcome Italia le è stata trovata una famiglia a Roma disposta ad ospitarla. «Ora ho preso la patente, sto seguendo un corso da mediatore culturale alla comunità di Sant' Egidio e spero un giorno di poter ricambiare l'affetto ricevuto aiutando in futuro altri rifugiati». Quando infatti si è in un Paese straniero, è la prima cosa che ricorda l'iraniano Sajaad Hatami, tutto preoccupa e «siamo come dei bambini spaventati che hanno bisogno di aiuto per crescere». Anche lui da qualche anno è in una famiglia nella Capitale e sta studiando per prendere la licenza media. «Desideravo molto una famiglia come questa - aggiunge - tanto che ora chiamo mamma e papà chi mi ha accolto e ho due nuove sorelle». Ad oggi «sono 113 le convivenze attivate dal 2019 grazie al modello di accoglienza in famiglia, che è diventato un moltiplicatore di valore straordinario - sottolinea la presidente di Refugees Welcome Italia, Fabiana Musicco, presentando a Roma i risultati di tre anni dell'iniziativa - chi entra in famiglia si sente parte del contesto e per le famiglie è una chiamata alla cittadinanza il cui protagonismo però va accompagnato ». Il progetto è già stato sperimentato con successo attraverso la collaborazione con i comuni di Roma, Palermo, Bari, Ravenna e Macerata e con l'università di Tor Vergata. Proprio con l'ateneo romano è stata messa in piedi un'analisi di valutazione dell'impatto sociale. E i risultati dell'indagine - presentati dal ricercatore Luigi Corvo - hanno messo in evidenza che «per ogni euro investito nel progetto di accoglienza in famiglia sono stati generali 3 euro di beneficio sociale». Ma oltre all'impatto positivo sul rifugiato del welfare di prossimità, lo studio ha evidenziato anche «i benefici per la famiglia che accoglie, perché aumenta la condivisione delle esperienze e la coesione tra i membri del nucleo familiare». Tuttavia l'innovazione sociale del progetto, conclude, unita all'impatto sociale positivo «devono incrociare l'innovazione politica per evitare di far rimanere il progetto una sperimentazione perpetua». Nel corso dei primi tre anni, infatti, il 90% dei rifugiati accolti ha raggiunto la piena autonomia e l'associazione ha formato 140 persone tra operatori e attivisti. Finora le famiglie iscritte nei territori negli albi delle famiglie accoglienti sono 754, a dimostrazione dell'apertura da parte delle comunità a questa modalità di integrazione. Ne è un esempio Alhassane, oggi 23enne, che in una famiglia di Bari è stato accolto nel 2019. «Ora la gente mi vede come una persona, prima ero un numero che lavorava nei campi nella raccolta dei pomodori - racconta - ora ho la patente, una fidanzata, sono diplomato in servizi socio- sanitari e il mio fratello italiano si stupisce che esco anche senza di lui, una cosa impensabile all'inizio ». Tutte esperienze, aggiunge poi Ana de Vega Diez dell'Unhcr, che dimostrano come «occorra valorizzare sempre più le relazioni nell'accoglienza degli stranieri, perché sono pietra angolare per il processo di integrazione».

LA UE: FALLITO IL DIALOGO CON VARSAVIA

Nuova decisione di Bruxelles contro la Polonia di Morawiecki. La cronaca di Avvenire.

«Si allarga sempre di più la frattura tra l'Unione europea e la Polonia sul rispetto dello stato di diritto e i principi cardine fissati dai Trattato Ue. La Commissione ha deciso di aprire una procedura d'infrazione contro Varsavia in seguito al pronunciamento con cui la Corte Costituzionale polacca ha contestato il primato delle norme europee su quelle nazionali. Ponendo così le premesse per il non rispetto delle sentenze della Corte di giustizia Ue. È toccato al commissario per l'economia Paolo Gentiloni dare l'annuncio. Un'iniziativa presa alla luce delle «gravi preoccupazioni» suscitate a Bruxelles dalle mosse della Consulta polacca nei mesi scorsi, ha spiegato Gentiloni. La Polonia «ha violato i principi generali di autonomia, primazia e uniformità di applicazione delle norme Ue nonché del carattere vincolante delle sentenze della Corte di giustizia», si legge nella nota di Bruxelles. In questo modo, per la Commissione, non solo gli individui non possono essere pienamente tutelati davanti ai giudici polacchi, ma anche «la Corte Costituzionale non risponde più ai requisiti di indipendenza e imparzialità richiesta dal Trattato». L'Ue, ha poi aggiunto Gentiloni, «è una comunità di valori fondata sul diritto e i diritti degli europei devono essere protetti a prescindere da dove vivono». Prima di avviare la procedura d'infrazione «abbiamo cercato di dialogare» con Varsavia, ha poi aggiunto il commissario Ue alla giustizia Didier Reynders, «ma la situazione non è migliorata». Per questo è stato deciso di inviare una lettera dando al governo 2 mesi per rispondere. Pronta la replica delle autorità polacche che sostanzialmente hanno respinto al mittente le accuse. Il primo a far sentire la sua voce è stato il premier Mateusz Morawiecki: «La tendenza a sviluppare un centralismo burocratico da parte di Bruxelles purtroppo va avanti, bisogna fermarla». Ancora più duro il commento del vice ministro della giustizia, Sebastian Kaleta. La decisione presa a Bruxelles rappresenta «un attacco alla Costituzione polacca e alla nostra sovranità».

PIOVE IN CANADA, NIENTE PATATE FRITTE A TOKYO

Le consegne "just in time" sono in sofferenza in tutto il mondo. Una storia emblematica arriva dal Giappone: alcune inondazioni in Canada hanno messo in crisi il flusso commerciale delle patate canadesi. Che adesso mancano nei fast food di Tokyo. Marco dell’Aguzzo per il Manifesto.

«Può un'inondazione in Canada provocare una carenza di patatine fritte in un McDonald's di Tokyo? La frase originale era un po' diversa, ma questo è quello che sta succedendo davvero. Il mese scorso un «fiume atmosferico», un fenomeno meteorologico teoricamente normale, ha rilasciato quantità spaventose di acqua nella Columbia britannica, una provincia del Canada occidentale. Il suolo non era pronto ad accogliere le piogge perché impoverito dagli incendi estivi, anomali anche quelli, ennesima conseguenza dei cambiamenti climatici indotti dall'uomo. Gli allagamenti e le colate di fango hanno causato morti e hanno compromesso le vie di comunicazione da e verso il porto di Vancouver, sull'oceano Pacifico. Le ripercussioni sono state globali: non è solo il porto più grande del Canada, infatti, ma un punto di passaggio critico per il commercio asiatico e internazionale. A Vancouver, così, si è assistito a scene già viste in tante altre parti del mondo: navi in attesa di ormeggiare, accumuli di container che non si sa dove mettere, merci alla ricerca di strade alternative (poche) per giungere a destinazione. Con le autostrade Trans-Canada e Coquihalla ancora chiuse, ai camion non resta che la Highway 3: ma è una via di montagna, innevata e piena di tornanti, pericolosa per gli autisti. I mezzi pesanti che oggi la percorrono sono circa tremila ogni giorno, quattro volte più del normale. Il modello di business, peraltro, incentiva a correre rischi: molti conducenti vengono pagati a seconda di quanti chilometri percorrono; più tempo ci mettono, quindi, meno soldi ricevono. L'intoppo canadese è parte di una crisi più grande delle filiere, che per anni sono state impostate per funzionare just in time - riducendo al minimo le scorte e le attese tra la consegna dei componenti e l'avvio della produzione in fabbrica - ma che la pandemia ha stravolto. Il ritardo è diventato quasi la normalità. Qualcuno, allora, potrebbe non ricevere per tempo il suo regalo di Natale. E i giapponesi in fila ai McDonald's dovranno accontentarsi delle patatine formato «piccolo», altrimenti non basteranno per tutti: il razionamento delle scorte è una necessità, perché la materia prima proviene dal Nordamerica e arriva in Giappone passando dal porto di Vancouver. La carenza, sperano i dirigenti locali della celebre catena di fast food, dovrebbe risolversi in tempo per la vigilia di Capodanno. Ci sarebbe l'opzione del trasporto aereo, ma è costoso. Gli effetti del meteo semi-biblico del Canada occidentale si avvertiranno non solo nel Sol Levante, ma anche nei supermercati d'Italia. Ottawa è uno dei maggiori produttori ed esportatori di grano duro, ingrediente fondamentale per la pasta. Vale quasi i due terzi del commercio mondiale di questo cereale, tuttavia la siccità e i fuochi della scorsa estate hanno rovinato i raccolti. I pastifici italiani di solito si affidano al grano domestico, ma quest' anno anche la resa nazionale è stata bassa e ha reso necessaria un'integrazione dall'estero. Vista però la minore disponibilità canadese (volumi dimezzati rispetto al 2020), i prezzi del grano duro sui mercati sono saliti fino ai massimi in tredici anni. Il problema, dicono le previsioni, non si risolverà prima della fine del 2022 o anche più in là, nel 2023. Nel frattempo, i pacchi di pasta sugli scaffali potrebbero essere di meno e costare di più».

Leggi qui tutti gli articoli di giovedì 23 dicembre:

https://www.dropbox.com/s/gugcl3zjt0slx1i/Articoli%20La%20Versione%20del%2023%20dicembre.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

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Un nonno e due poltrone

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