Un passo per volta
Il cardinal Zuppi incontra a Washington il presidente Usa. Obiettivo umanitario verso la pace in Ucraina. Putin ammassa truppe ad Est. Patrick Zaki condannato. Meloni in via d'Amelio. Addio a Bettazzi
Se c’è una cosa che accomuna le propagande contrapposte in tempo di guerra è quella di presentare la prossima offensiva militare come risolutrice. Da quanti mesi arriva lo stesso messaggio? Offensive, controffensive, armi all’uranio impoverito, bombe a grappolo... La guerra si alimenta di questa continua narrazione e rischia di diventare “eterna”, come paventa la diplomazia vaticana. La pace invece ha bisogno di tempo, di serietà e silenzio. Un passo dopo l’altro. Ieri l’inviato di papa Francesco, il cardinal Matteo Zuppi, ne ha compiuto un altro a Washington. Prima la visita al Congresso poi il colloquio con il presidente Joe Biden alla Casa Bianca. Obiettivo minimo: dare slancio a una soluzione umanitaria per la crisi in Ucraina. È stato un colloquio cordiale, a metà del pomeriggio sulla costa Est statunitense, quando in Italia erano le 23 e oltre. Questa di Zuppi è la terza tappa di un itinerario che nel mese di giugno aveva già portato l’arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale Italiana a Kiev e a Mosca. «La visita – ha spiegato la nota della Santa Sede – si svolge nel contesto della missione intesa alla promozione della pace in Ucraina e si propone di scambiare idee e opinioni sulla tragica situazione attuale e di sostenere iniziative in ambito umanitario per alleviare le sofferenze delle persone più colpite e più fragili, in modo particolare i bambini». Le persone di nuovo al centro. Le notizie di oggi dal campo bellico raccontano di uno sforzo russo, che vorrebbe tentare un nuovo sfondamento ad Est, nel Donbass, mentre il porto di Odessa è stato bersaglio di nuovi bombardamenti, forse in ritorsione all’attacco al ponte Kerch che porta in Crimea. Ma la diplomazia continua a muoversi: a sorpresa ieri il veterano della diplomazia Usa, Henry Kissinger, si è materializzato a Pechino, per predicare la pace. A Taiwan e in Ucraina. E proprio in Cina, secondo quanto scrive Marco Impagliazzo su Avvenire, potrebbe essere la prossima tappa della missione del cardinal Zuppi.
Dopo la firma del Memorandum di Cartagine continuano le polemiche su quanto intanto sta avvenendo in Tunisia. I profughi sub-sahariani, denunciano La Stampa e il Manifesto, sarebbero stati deportati nel deserto dalla polizia di Kais Saied. Deserto nel quale ora le polizie di frontiera di Libia e Algeria starebbero pattugliando i confini per impedire a loro volta l’ingresso dei disperati. Gli sbarchi in Italia non si fermano e quasi tutti gli ultimi arrivati a Lampedusa (44 salvati da Frontex) hanno dichiarato di arrivare dal porto tunisino di Sfax. Vedremo in che termini se ne parlerà il 23 luglio a Roma.
A proposito, a quell’appuntamento dovrebbe partecipare anche l’Egitto. Ieri lo studente egiziano di Bologna Patrick Zaki è stato condannato a tre anni di reclusione. Subito arrestato e portato in prigione, dovrà scontare 14 mesi di detenzione. Alla Farnesina e a Palazzo Chigi c’è la speranza che il presidente Al Sisi intervenga personalmente con una grazia.
Oggi è l’anniversario della strage di via d’Amelio dove la mafia uccise il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Giorgia Meloni sarà stamattina alla commemorazione ufficiale di Palermo ma non parteciperà alla fiaccolata serale per evitare polemiche, come spiega in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera. Sullo sfondo l’aspra diatriba suscitata dalla proposta di Carlo Nordio di riformare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae l’intervento di un elicottero anti incendio a Mandra, in Grecia, ad ovest di Atene.
Foto Petros Giannakouris/Associated Press
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Oggi sono 31 anni dalla strage di via D’Amelio. Partono da qui Il Corriere della Sera: Borsellino, ricordo e tensioni. Il Domani: Meloni omaggia Borsellino per far dimenticare Nordio. E Il Giornale che attacca: I bulli dell’anti-mafia. La Repubblica sceglie un tema economico che divide governo e opposizione: Battaglia sul salario minimo. Così come fa La Stampa: Battaglia sul salario minimo. Schlein: vogliono gli schiavi. Il Messaggero annuncia: Superbonus per redditi bassi. Mentre il Quotidiano Nazionale tenta un bilancio: Fisco, chi perde e chi vince col condono. Il Sole 24 Ore dà spazio alla trattativa fra Banche e Governo: Mutui casa, tre mosse Abi per alleggerire il caro tassi. Il Fatto prosegue la sua campagna contro la Ministra del Turismo: Santanchè, ora si indaga pure per truffa allo Stato. Libero critica chi denuncia il cambiamento climatico: I terroristi del clima. Mentre La Verità torna sul Memorandum di Cartagine: L’Ue ci paga per tenerci i migranti. Il Manifesto correda una foto di Patrick Zaki, condannato ieri a 3 anni con questo titolo: Affari esteri. Mentre Avvenire dedica l’apertura alla missione del cardinal Zuppi a Washington: Le vie della diplomazia.
ZUPPI INCONTRA BIDEN PER CONTO DEL PAPA
Il cardinale Matteo Zuppi, inviato speciale di papa Francesco per la pace in Ucraina, ha incontrato ieri sera, ora italiana, il presidente americano Joe Biden. Nel pomeriggio c’era stata la visita al Congresso americana. Al centro del faccia a faccia col Presidente la questione umanitaria e in particolare gli sforzi per la liberazione dei bambini deportati in Russia. La cronaca di Mimmo Muolo per Avvenire.
«Un colloquio cordiale, a metà del pomeriggio sulla costa Est statunitense, quando in Italia erano le 23 e oltre. La Casa Bianca e il suo inquilino principale, il presidente Joe Biden, hanno accolto ieri la visita del cardinale Matteo Maria Zuppi, quale inviato del Papa per la pace in Ucraina. La terza tappa di un itinerario che nel mese di giugno aveva già portato l’arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale Italiana a Kiev e a Mosca. Una tappa decisamente importante, come le altre due del resto, visto il ruolo che gli Stati Uniti stanno giocando nella vicenda. E visto anche il momento, caratterizzato purtroppo dalla nuova crisi del grano (che rischia di avere ripercussioni sui Paesi poveri e non solo), dopo il nuovo stop imposto da Mosca. Difficile escludere che anche questo tema non sia entrato nello scambio di vedute tra il presidente e il cardinale. Anche se, come annunciato già lunedì dalle due parti, il focus del colloquio, definito privato, dovrebbe essere stato la questione umanitaria. Il comunicato della Santa Sede vi faceva esplicito riferimento: «La visita – spiegava la nota – si svolge nel contesto della missione intesa alla promozione della pace in Ucraina e si propone di scambiare idee e opinioni sulla tragica situazione attuale e di sostenere iniziative in ambito umanitario per alleviare le sofferenze delle persone più colpite e più fragili, in modo particolare i bambini». Dal canto suo, anche la Casa Bianca, lunedì sera aveva emesso uno statement in cui annunciava che durante il faccia a faccia tra Biden e Zuppi si sarebbe parlato della «diffusa sofferenza causata dalla brutale guerra della Russia in Ucraina e degli sforzi degli Stati Uniti e della Santa Sede per fornire aiuti umanitari alle persone colpite» nonché «del rimpatrio dei bambini ucraini deportati con la forza da Mosca». Come si ricorderà, questo era stato anche il filo conduttore della più recente delle due visite precedenti, quella a Mosca alla fine di giugno. Nella capitale russa l’inviato del Papa non aveva potuto incontrare personalmente il presidente Putin, ma solo il suo consigliere per la politica estera, Yuri Ushakov (due volte), oltre al patriarca Kirill (incontro significativo anche sul piano dei rapporti ecumenici) e a Maria Lvova-Belova, commissario presso il presidente della Federazione Russa per i diritti del bambino. Ma non era certo tornato a mani vuote. Anzi, come testimoniato dalle dichiarazioni ufficiali del Cremlino, si era registrato un «alto apprezzamento» per la posizione, definita dai russi «equilibrata e imparziale», del Vaticano, illustrata dal cardinale. Di qui la disponibilità di Mosca a discutere «ulteriori proposte se emergono». Il Vaticano, aveva aggiunto Ushakov, ha mostrato la volontà di depoliticizzare la soluzione dei problemi umanitari legati al conflitto. «Sosteniamo questa intenzione del Papa» aveva concluso il consigliere di Putin. Prima di recarsi dal presidente Biden, il cardinale Zuppi ha fatto ieri visita al Congresso americano. Nell'agenda dell'inviato di papa Francesco c'era l'incontro con alcuni parlamentari statunitensi. E proprio poco prima di questi appuntamenti, il nunzio apostolico negli States, l’arcivescovo Christophe Pierre, ha dichiarato alla Rai che lo scopo della missione è «dialogare, ascoltare ed essere ascoltato». Il presidente Joe Biden, ha aggiunto, « ha sempre avuto molta attenzione per il Santo Padre».
“LO SCOPO È ASCOLTARE ED ESSERE ASCOLTATO”
Paolo Mastrolilli per Repubblica trova nelle parole del nunzio Pierre la chiave del colloquio di Zuppi a Washington.
«Lo scopo è ascoltare ed essere ascoltato. L’obiettivo generale è contribuire alla pace, mentre quello particolare è l’assistenza umanitaria ai bambini. La speranza è che un risultato positivo su questo aspetto possa aprire la porta anche al dialogo sulla soluzione diplomatica del conflitto». Così il nunzio apostolico negli Usa Christophe Pierre, appena nominato cardinale da Francesco, spiega a Repubblica il senso della missione americana del capo della Conferenza episcopale italiana Matteo Zuppi, ricevuto ieri alla Casa Bianca dal presidente Joe Biden. L’arcivescovo di Bologna, che ha cominciato la giornata con una visita al Congresso, è vicino a lui, ma aspetta di riferire al Papa prima di fare commenti. Gli obiettivi però sono chiari. Zuppi, che nelle mediazioni diplomatiche ha un’esperienza trentennale risalente a quando era un giovane sacerdote legato alla Comunità di Sant’Egidio, è già stato a Mosca dove ha visto il patriarca Kirill, capo della chiesa ortodossa locale, e Maria Lvova-Belova, responsabile proprio del trattamento dei bambini ucraini, per cui è stata incriminata insieme al presidente Putin dalla Corte penale internazionale. Il governo di Kiev sostiene che dal febbraio del 2022 19.500 bambini sono stati deportati dai russi, ma secondo il senatore Grigory Karasin il totale è di oltre 700mila. Quindi il cardinale è andato da Zelensky, che ha chiesto al Papa di appoggiare il suo piano di pace. Altri capi di Stato e di governo fanno mesi di fila per essere ricevuti alla Casa Bianca, ma Biden ha accettato immediatamente di vedere Zuppi, un po’ per la sua devozione cattolica, e molto per quanto Francesco e il Vaticano possono fare per la fine della guerra, smentendo il presunto anti americanismo, nonostante sia nota la differenza di posizioni su temi come la recente fornitura delle bombe a grappolo. Infatti Pierre sottolinea che «il presidente Biden ha sempre avuto molta attenzione per il Santo Padre». Il nunzio spiega che la missione avviata dal cardinale continua: «Lo scopo è informare su ciò che è già avvenuto, per vedere come si può proseguire. L’idea è generalmente quella di contribuire alla pace, e più precisamente entrare sull’aspetto umanitario, in particolare per quanto riguarda i bambini. La discussione ruota intorno a questo». Quindi l’obiettivo primario immediato è facilitare il ricongiungimento dei piccoli con le famiglie: «Questo è lo scopo più specifico del cardinale, e ovviamente del Papa, anche perché è concreto. Ovviamente però l’idea è pensare alla pace, nel contesto complicato che c’è. Il cardinale è molto realista, cerchiamo di fare il possibile». La speranza è che se ci fosse un risultato positivo sul terreno umanitario, potrebbe aprire la porta al dialogo anche sul resto: «Certo, l’idea è la pace e la giustizia». Perché non c’è pace senza giustizia, come ripeteva Giovanni Paolo II: «Esattamente. Lo abbiamo sentito anche nei dialoghi avuti oggi». Il Vaticano non si fa illusioni, ma lavora: «È un primo passo. Siamo realisti, sappiamo perfettamente che la cosa non è facile. Però il Papa vuole contribuire all’attenzione verso una situazione che comunque dovrà arrivare ad un esito ». Una proposta per come costruire la pace esiste, ma non è il momento di divulgarla: «Di questo per il momento se ne parla così, in maniera generica. Poi vedremo». L’ex direttore per l’Europa alla Casa Bianca Charles Kupchan, che ad aprile aveva incontrato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a New York per una mediazione informale, sembra in linea con le aspettative di Zuppi e Pierre: «La visita del cardinale - dice a Repubblica - ha il potenziale per far avanzare la diplomazia su fronti ristretti, in particolare il ritorno dei bambini ucraini portati in Russia dopo l’invasione di Mosca. Ma è prematuro aspettarsi progressi diplomatici più ampi. Al momento la guerra è posizionata per continuare, mentre l’Ucraina cerca di reclamare il territorio occupato dalle forze russe. Entrambe le parti sono determinate a proseguire la lotta, come dimostrato dalla recente sospensione da parte di Mosca dell’accordo per l’esportazione di grano ucraino e dall’attacco al ponte di Kerch».
LA GUERRA NON PUÒ ESSERE ETERNA
Editoriale di Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, su Avvenire. Che fa intravvedere un possibile viaggio del cardinal Zuppi a Pechino. Il “Global South” è un interlocutore decisivo se si vuole tornare a concepire un mondo multilaterale.
«Un passo dopo l’altro. Con la pazienza dell’ascolto, ma anche – soprattutto – con l’emergenza umanitaria a cui rispondere, quella che ogni guerra provoca da sempre. Si sta disegnando in questo modo la missione speciale per l’Ucraina che Papa Francesco ha affidato al cardinale Matteo Zuppi. È di ieri la tappa a Washington con il presidente americano Joe Biden. Visita prevista e attesa. Gli Stati Uniti non rappresentano certamente un attore qualsiasi nel conflitto in corso. Non solo perché sono una “superpotenza” interessata a (quasi) tutto ciò che si muove nello scacchiere internazionale, ma per la loro forte implicazione collaterale nella vicenda bellica che si è sviluppata dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina. Uno scenario che riproduce per certi versi la contrapposizione esistente durante gli anni della Guerra fredda, ma in un equilibrio mondiale profondamente cambiato e con un’altra “superpotenza” in campo, come è diventata nel frattempo la Cina. Come precedente storico si può ricordare il gesto di Giovanni Paolo II, che nel tentativo estremo di evitare la guerra in Iraq, inviò il cardinale Laghi da George W. Bush. Ma la novità è che oggi la guerra è in corso e che il presidente è cattolico: ciò ha un significato particolare quando si tratta di ricevere un messaggio diretto dal Papa e un suo inviato speciale. L’incontro con il capo della più grande democrazia del mondo può offrire alla Santa Sede nuovi e significativi elementi per capire come realizzare gesti umanitari e aprire canali di dialogo che oggi sembrano chiusi. La Santa Sede è fortemente preoccupata per il rischio di “eternizzazione” della guerra e cerca in ogni modo spiragli per una soluzione. La Santa Sede, che ha uno stretto rapporto con gli Stati Uniti dalla Seconda guerra mondiale, sui conflitti ha da tempo posizioni diverse, anche perché i cattolici vivono in tutto il mondo. Inoltre sa, anche attraverso la Chiesa americana, che nell’opinione pubblica statunitense c’è preoccupazione per una escalation del conflitto e per il moltiplicarsi di armamenti sempre più letali come le cosiddette bombe a grappolo, oltre alla minaccia di un conflitto nucleare. La missione di Zuppi punta prima di tutto ad ottenere qualche gesto umanitario a vantaggio dei più fragili, come il ritorno a casa dei bambini del Donbass sottratti alle loro famiglie dai russi. Ma con la convinzione che dietro quella che, agli occhi di alcuni, può sembrare una missione velleitaria o, addirittura, un cedimento a Mosca, si possa stabilire un quadro diverso per i rapporti tra le forze in campo. E qui è necessario sottolineare che, in questo conflitto, gli attori non sono solo i russi e gli ucraini. E’ per questo che, dopo Kiev e Mosca, Zuppi si è recato a Washington. Ma per lo stesso motivo il cardinale, per proseguire la sua missione, potrà, se le condizioni lo permetteranno, recarsi anche altrove. Il pensiero ovviamente va in primo luogo alla Cina. Pechino rappresenta certamente un interlocutore rilevante, non solo per l’influenza che può avere su Mosca ma anche perché è un soggetto ineludibile degli equilibri economici e geopolitici mondiali. Del resto, nel mondo globalizzato in cui viviamo, ma – si può dire – in tutti i conflitti, anche quelli in cui si affrontano ufficialmente solo due parti, ce ne sono almeno altrettante coinvolte. Basta pensare ai Paesi confinanti e alle conseguenze che una guerra – questa più di altre – può provocare sull’economia mondiale (vedi il problema del grano riemerso in questi giorni). In altre parole i conflitti, anche quelli che coinvolgono direttamente solo due nazioni, devono sempre avere – oggi più che mai – una soluzione multilaterale. È la posizione tradizionale della Santa Sede che si esprime in un forte sostegno alle Nazioni Unite, come mostrano anche gli interventi dei papi da Paolo VI a Francesco al Palazzo di vetro a New York. U n’attenzione globale che dopo la prima tappa a Washington, non potrà ignorare (pur con modalità diverse tra loro) altri importanti attori primo tra tutti la Cina. C’è poi un grande movimento dei Paesi del Global South che più di altri stanno soffrendo per questa guerra e che già si sono fatti sentire. Per via delle ripercussioni economiche – come si è già detto – oltre che politiche e strategiche che il conflitto in corso sta producendo e che rischiamo di avere un impatto nei decenni successivi. Il Papa lo sa bene, essendo anche originario dal grande mondo del Sud. Per questo immaginiamo che la missione del cardinale non si fermerà a Washington, ma avrà sempre nei suoi passi, uno dopo l’altro – come del resto è da sempre nel dna della Santa Sede e nelle prese di posizione dei papi del Novecento di fronte alle guerre – una visione globale e multilaterale».
L’ESERCITO RUSSO AMMASSA SOLDATI NEL DONBASS
La guerra vista dal punto di vista militare. Vladimir Putin prova a rilanciare e ammassa 100mila soldati per sfondare nel Donbass. Si prepara l’assalto a Kupiansk, snodo logistico nella regione di Kharkiv. Kiev ribatte: “Sono male addestrati, ci difenderemo”. Piovono bombe sul porto di Odessa. Daniele Raineri per Repubblica.
«Putin tenta di riprendere l’iniziativa nella guerra dopo un mese orribile – che ha visto in sequenza: il quasi golpe a Mosca, la crisi dei generali nel Sud ucraino, il secondo attacco al ponte di Kerch – e ordina un’offensiva massiccia in una zona dell’Est, fra le città ucraine di Kupiansk e Liman. È la stessa zona che l’anno scorso i suoi soldati avevano perduto a causa di un’avanzata a sorpresa degli ucraini e adesso la speranza di Mosca è ripetere la scena a ruoli invertiti. Se questa manovra funzionasse potrebbe creare il caos tra la zona di Kharkiv e il Donbass e costringere gli ucraini a cambiare i loro piani e distogliere forze dalla controffensiva a Sud, che in teoria dovrebbe essere decisiva per la guerra ma per ora non ha ancora prodotto risultati significativi. Così l’esercito russo in questi giorni ha ammassato centomila soldati e un gruppo corazzato potente – circa novecento carri armati, più di cinquecento pezzi d’artiglieria e 370 lanciarazzi – sulla linea del fronte vicino a Kupiansk e sta provando lo sfondamento. Per ora è avanzato di un chilometro e mezzo, che in quella zona senza grandi fortificazioni è una distanza fisiologica: si prende in un giorno e si perde il giorno dopo, ma c’è preoccupazione. Fonti di Repubblica a Torske, in quel settore dei combattimenti, dicono che da settimane la situazione sta precipitando, i bombardamenti russi sono sempre più frequenti e i soldati russi sempre più vicini. A Liman di recente sono morti otto civili sotto i razzi. In questi giorni si era parlato della conquista di Torske da parte delle forze di Mosca, ma le fonti sul posto continuano a smentire, è ancora sotto il controllo di Kiev. Domenica la vice ministra della Difesa, Hanna Malyar, una che fatica sempre ad ammettere qualche sofferenza dal lato ucraino, aveva detto che «le cose a Est stanno andando peggio». Ieri Serghe Cherevati, portavoce del comando orientale ucraino, ha parlato alla televisione nazionale dell’offensiva russa e ha detto che Mosca in quella zona schiera le sue unità migliori. «Lo sapevamo da un mese», dice a Repubblica un analista militare ed ex comandante, Serhy Hrabsky. «Abbiamo preso alcune misure preventive per mitigare il rischio di assalti russi». Il think tank americano Isw, che pubblica ogni giorno un rapporto sull’andamento del conflitto, sostiene che in realtà i russi hanno formato questa forza offensiva raccogliendo un po’ di tutto, anche truppe di livello infimo come ex detenuti e altri, che hanno problemi di disciplina e motivazione. Inoltre i soldati ucraini stanno continuando a prendere posizioni di vantaggio attorno alla città di Bakhmut, sopra le alture che affacciano sugli edifici occupati dai russi. Entrambe le parti provano a sfruttare meglio che possono i mesi estivi, quelli più adatti ad avanzare e combattere, prima che l’attrito insostenibile, le perdite di uomini e di mezzi e i mesi freddi le costringano a rallentare. Mosca prova un’offensiva a Est perché una risposta aggressiva è la soluzione preferibile al reggere a tempo indefinito la pressione di Kiev. Dopo l’attacco con due droni navali al ponte sullo Stretto di Kerch, i russi hanno risposto con sei missili Kalibr e trentasei droni sul Sud dell’Ucraina e in particolare contro il porto di Odessa. Tutti i missili e trentuno droni sono stati abbattuti. I pianificatori di questo bombardamento di rappresaglia hanno scelto un bersaglio simbolico, i terminal del porto di Odessa, che è al centro dell’export di grano ucraino, poche ore dopo la fine dell’accordo che permette alle navi straniere di caricare il grano e di portarlo verso i Paesi clienti in tutto il mondo. Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha dichiarato in modo esplicito che l’attacco è stato un atto di rappresaglia per l’operazione ucraina a Kerch. Il patto sul grano è invece un dossier separato: si sapeva già da tempo che Mosca non avrebbe concesso il rinnovo e quindi i due droni navali ucraini esplosi sotto al ponte lunedì mattina non hanno cambiato la situazione».
KISSINGER IN VISITA A PECHINO
Il grande vecchio della diplomazia statunitense, Henry Kissinger, vola a Pechino. Dove predica la pace. L’articolo è dal Corriere.
«Henry Kissinger, a sorpresa, in visita a Pechino. Il vecchio stratega della politica estera americana ha incontrato nella capitale il ministro della Difesa cinese, mentre le relazioni tra le due superpotenze sono ai minimi storici proprio da quando lo stesso Kissinger, con la sua missione segreta 52 anni fa, diede il via al disgelo Usa-Cina, che cambiò le geometrie della Guerra Fredda tra Washington e Mosca. Una visita che arriva mentre i due Paesi cercano faticosamente di rimettere i loro rapporti sul giusto binario. Il “vecchio amico” Kissinger che arriva a Pechino — che negli ultimi mesi ha ripetuto che una guerra a Taiwan è probabile se le tensioni continueranno e che si è detto convinto che ora che la Cina è entrata nei negoziati sul conflitto in Ucraina la situazione si risolverà entro la fine dell’anno — è un segnale per cercare di ricucire legami più solidi tra i due Paesi. «Gli Usa dovrebbero esercitare un sano giudizio strategico nel trattare con la Cina», dichiara il ministro della Difesa cinese Li Shangfu. «Siamo impegnati a costruire relazioni stabili e costruttive e speriamo che gli Stati Uniti possano collaborare con la Cina per promuovere un sano sviluppo delle relazioni tra i loro due eserciti». Il dialogo militare, interrotto al momento, è proprio uno dei punti chiave che Biden chiede con forza vengano ripristinati. Questo era il senso, del resto, della missione di Blinken qui a metà giugno. Le parole di Li — sotto sanzioni americane — lasciano ben sperare. Secondo il Ministero della Difesa cinese, Kissinger avrebbe affermato che «Stati Uniti e Cina dovrebbero eliminare i malintesi, coesistere pacificamente ed evitare gli scontri. La storia e la pratica hanno continuamente dimostrato che né gli Stati Uniti né la Cina possono permettersi di trattare l’altro come un avversario. Una guerra tra i due Paesi non porterà alcun risultato significativo per i due popoli. Comprendere e gestire le relazioni tra Stati Uniti e Cina, in particolare invertire l’attuale difficile situazione, richiede un pensiero ampio e che entrambe le parti mostrino saggezza, cooperino e si sviluppino insieme».
VERTICE UE-AMERICA LATINA
Un altro appuntamento per la diplomazia è stato il vertice degli Stati Latino americani con l’Europa, svoltosi a Bruxelles. Francesca Basso per il Corriere.
«Alla fine su 60 Paesi — quelli dell’Unione più la Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi — solo il Nicaragua si è tirato indietro e non ha sottoscritto la dichiarazione finale del summit Ue-Celac a causa del paragrafo 15 (su 41), che esprime «profonda preoccupazione per la guerra in corso contro l’Ucraina, che continua a provocare immense sofferenze umane e sta esacerbando le fragilità esistenti nell’economia globale». La dichiarazione riafferma anche l’«impegno nei confronti della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale» e definisce «essenziale» il sostegno al diritto internazionale e al «sistema multilaterale che salvaguarda la pace e la stabilità». Il Nicaragua è un sostenitore del presidente Putin. La Russia però non compare mai nella dichiarazione finale, che è il risultato di un compromesso e di giorni di negoziati. La premier Giorgia Meloni nel suo intervento ha detto che «la parola pace non può essere confusa con la parola invasione» e che ritiene «non solo che la guerra in Ucraina sia una nuova guerra coloniale ma anche che sia una guerra fatta contro i più deboli e lo vediamo anche con il mancato rinnovo dell’accordo sul grano». La trattativa ha messo in luce sensibilità diverse nei confronti del conflitto ucraino e ha di fatto offuscato il significato del vertice, che ha il merito di avere riunito dopo otto anni i leader dei 60 Paesi per concordare un’agenda comune su importanti dossier a cominciare dalla lotta al cambiamento climatico. Non solo parole, come ha sottolineato in conferenza stampa il presidente pro tempore della Celac, Ralph Gonsalves, premier di Saint Vincent e Grenadine, ricordando il paragrafo 23 in cui i leader sottolineano «l’importanza di rispettare l’impegno assunto dai Paesi sviluppati di mobilitare congiuntamente 100 miliardi di dollari all’anno per il finanziamento del clima a sostegno dei Paesi in via di sviluppo e di raddoppiare i finanziamenti per l’adattamento entro il 2025». Un risultato che sarà verificato tra due anni al prossimo summit che si terrà in Colombia».
MIGRANTI AL CONFINE TRA LIBIA E TUNISIA
Il dopo Memorandum comporta anche questo: sul confine tra Tunisia e Libia agiscono pattuglie armate per fermare i «neri». Alarm Phone: centinaia di subsahariani bloccati anche alla frontiera con l’Algeria. Marina della Croce per il Manifesto.
«Non solo vittime della caccia al nero in corso da settimane in Tunisia, ma adesso i migranti deportati al confine con la Libia rischiano di diventare il pretesto di uno scontro tra i due paesi. Il ministro dell’Interno del Governo di unità nazionale di Tripoli ha infatti ordinato il pattugliamento della frontiera con la Tunisia per impedire che uomini, donne e bambini possano sconfinare entrando nel paese. Pattuglie armate sono state schierate in particolare nel tratto compreso tra Ras Jedir e Dehiba Wazen con il preciso compito di respingere ingressi non autorizzati. Una situazione che rende ancora più disperate le condizioni già difficili in cui sono costretti a sopravvivere centinaia di migranti, prima ammassati e poi abbandonati dalla polizia tunisina nel deserto senza cibo né acqua. E adesso anche senza più la speranza di poter trovare un minimo di assistenza dall’altra parte del confine. Con i dovuti distinguo, quanto sta accadendo in queste ore alla frontiera tra i due paesi nordafricani assomiglia molto alle scene viste due anni fa al confine tra Bielorussia e Polonia, con in mezzo i migranti respinti e sorvegliati dai militari di entrambi gli Stati. La differenza è che mentre in nord Europa si moriva di freddo, in Nordafrica a uccidere è il caldo. La ong Alarm Phone parla di diversi decessi e molte urgenze mediche, rese più gravi dal fatto che le autorità sia libiche che tunisine si rifiuterebbero di prestare soccorso ai migranti. E una situazione analoga si sta verificando anche al confine tra Tunisia e Algeria. Il paradosso è che sia la Tunisia che la Libia ricevono mezzi e finanziamenti dall’Unione europea per bloccare i migranti che tentano di arrivare in Europa attraverso il Mediterraneo. Solo domenica scorsa la presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen insieme alla premier Giorgia Meloni e al primo ministro olandese Mark Rutte ha firmato un Memorandum d’intesa con il presidente tunisino Kais Saied il cui scopo principale è proprio quello di mettere un argine ai viaggi verso l’Italia. Per questo Bruxelles si è impegnata a versare 105 milioni di euro alla Tunisia per la gestione delle frontiere più altri 150 milioni a sostegno del bilancio tunisino. In cambio solo un generico e vago impegno al rispetto di quanto previsto dal diritto internazionale. La tensione tra i due Stati africani stava salendo già da alcuni giorni, in particolare da quando centinaia di migranti sono stati abbandonati dalla polizia tunisina nella terra di nessuno che divide i due confini. Attraverso il direttore del valico di frontiera, il generale Abdelsalam al Omrani, la Libia aveva chiesto alle autorità tunisine di «rimuovere i rifugiati che si sono infiltrati al valico libico», mentre da Tripoli si prometteva l’invio di rinforzi per il controllo della frontiera. Sia a Ras Jadir che al confine con l’Algeria i migranti sono sorvegliati da forze armate dei vari paesi che impediscono loro ogni via di fuga. L’associazione, che da due settimane riceve richieste di aiuto da parte di quanti sono bloccati ai confini, ha anche denunciato di aver chiesto l’intervento di Unhcr e Oim - entrambe organizzazioni delle Nazioni unite - senza però ricevere alcuna risposta, mentre in alcune aree l’intervento della Mezzaluna rossa tunisina sarebbe stato subordinato all’accettazione dei rimpatri volontari. Secondo il Forum tunisino per i diritti economici e sociali tra i 100 e i 150 migranti, tra cui donne e bambini, sono ancora bloccati al confine con la Libia e altri 165 circa sono stati prelevati vicino al confine con l’Algeria. «I migranti vengono trasferiti da un luogo all’altro ha detto il portavoce del Forum, Rondane Ben Amor - mentre altri gruppi si nascondono in condizioni catastrofiche per paura di essere scoperti e subire la stessa sorte di quelli bloccati ai confini».».
TUNISIA, I SUB SAHARIANI DEPORTATI NEL DESERTO
Dei profughi provenienti dai Paesi sub sahariani, deportati nel deserto dalle autorità tunisine, scrive anche Giorgia Lunardi per La Stampa.
«Siamo stati attaccati da uomini armati. Le forze libiche ci hanno sparato, picchiato e di notte hanno violentato le donne. Sto esaurendo la batteria». Le testimonianze dai deportati nel Sahara condivise da Alarmphone hanno il tempo della carica di un telefono. Circa 150 persone sono intrappolate tra le forze militari dei due Paesi limitrofi, schierate a tenaglia per evitare che le persone tornino verso Tunisi o entrino in Libia. Teste aperte dalle mazzate, persone curve su se stesse che cercano di farsi ombra con il proprio corpo. Niente cibo, acqua, cure mediche. Nessun aiuto umanitario da Onu e grandi organizzazioni. Solo un intervento della Croce Rossa tunisina - condizionale all'accettazione del rimpatrio "volontario". Quindici cadaveri rinvenuti nel deserto tra cui una donna incinta e un bambino di tre anni. Un'altra donna ha abortito a causa delle bastonate ricevute davanti al marito, che ne porta i segni sulla schiena. Questo perché sono persone nere. La risposta europea? Un altro muro blu a stelline gialle eretto con una stretta di mano tra le due sponde del Mediterraneo, che sembra disegnare una piovra. Il Kraken della politica di esternalizzazione europea, che prima con la Turchia, poi la Libia e ora la Tunisia, sta fagocitando nell'abisso migliaia di persone abbandonate in mare, in putridi centri di detenzione libici e ora anche nel deserto tunisino. Quello con Cartagine è il terzo accordo-sigillo che appalta le responsabilità europee sull'asilo ai Paesi aldilà del "mare nostrum", coprendoli di soldi e mezzi senza pretendere in cambio il rispetto dei diritti umani - relegati a parole polverose in "occidentalese" nei trattati europei. Si chiude il cerchio, che è già un cortocircuito con pericolosi risvolti in termini di abusi e strumentalizzazione delle persone nere intrappolate in Nordafrica. Il governo di Tripoli reagisce cercando di screditare Tunisi per riaccreditarsi le attenzioni europee con operazioni propagandistiche che mostrano le autorità libiche soccorrere eroicamente i migranti cacciati nel deserto, dissetarli versando loro dell'acqua in bocca dai pick-up, e farsi chiamare "Dio in terra" per averli salvati dai violenti tunisini. Siamo al paradosso. Il potenziamento della capacità di respingimento della Tunisia - 8 le motovedette in arrivo, 17 quelle rimesse a nuovo - da un lato consentirà ai trafficanti di sfruttare le persone più volte, come già accade in Libia in conseguenza della stessa politica; dall'altro aumenterà le deportazioni alla frontiera, poiché la Tunisia non intende assumersi alcuna responsabilità sui migranti irregolari. Saied, infatti, ha esplicitato nel testo dell'accordo che la Tunisia non farà da guardiano all'Europa né diventerà un Paese di insediamento. Non si procederà all'istituzione di un'area di ricerca e soccorso come in Libia, e la Tunisia rimpatrierà solo i propri cittadini, non quelli di Paesi terzi come invece prevede l'appena riformato sistema di asilo Ue, che si rivela dunque inapplicabile sul nascere. La procedura accelerata alla frontiera e il rimpatrio in Paesi di transito previsti dalla riforma sono carta straccia senza accordi bilaterali attuativi. Resta quindi la temuta pressione sul confine meridionale europeo, mentre Meloni si affretta a ricevere altri esponenti africani a Roma il 23 luglio per correre ai ripari e trovare partner a Sud del Sahara disposti a riprendersi chi arriva in Italia. Da vedere se tra gli invitati figurerà anche l'Egitto, nonostante la condanna a tre anni nei confronti di Patrick Zacki. D'altra parte, e nonostante la denuncia contro la Tunisia arrivata ieri dall'Alto Commissariato per i diritti umani Onu, violazioni del rango di crimini internazionali come il divieto di respingimento e tortura hanno appena ricevuto la benedizione europea con la firma nero su bianco di un'intesa che sancisce ancora una volta la supremazia del bianco sul nero».
FRONTEX SALVA 44 MIGRANTI DALLA TUNISIA
Veniamo ai migranti che arrivano in Italia. È polemica sulla decisione del Governo di assegnare alla nave Geo Barents di “Medici senza frontiere” due porti per lo sbarco dei 346 sopravvissuti in 12 soccorsi. La cronaca di Avvenire.
«Nuovo naufragio davanti alle coste di Lampedusa. Per fortuna senza vittime. I 44 migranti che si trovavano su un barcone poi colato a picco sono stati tratti in salvo da una motovedetta di Frontex dopo che il mezzo è affondato. Fra loro 37 uomini, 5 donne e due minori originari di Burkina Faso, Camerun, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Liberia e Mali. Ai soccorritori hanno dichiarato di provenire da Sfax, in Tunisia. Tutti coloro che erano sulla carretta naufragata sono stati portati in salvo; non ci sono segnalazioni di dispersi, né per fortuna ci sono feriti. Intanto proseguono gli sbarchi: con l’ultimo gruppo di 19 tunisini, fra cui 3 donne e 10 minori, arrivati con un barchino in legno, sono 15 gli approdi del giorno per un totale di 540 persone sbarcate sull’isola. E dopo la raffica di sbarchi di lunedì (28 barchini con complessivamente 1.149 persone) , sono 2.608 i migranti ospiti dell’hotspot dell’isola: numeri di assoluta emergenza visto che la capienza massima non arriva nemmeno a 400. La prefettura di Agrigento, d’intesa con il Viminale, ha già disposto il trasferimento, a bordo del traghetto di linea Galaxy delle 11,30 per Porto Empedocle, di 530 persone, mentre nel pomeriggio, con una nave militare sono state trasferite altre 600. Ma è scontro per l’accoglienza, in particolare fra Regione Toscana e governo per la decisione del Viminale di dividere in due porti lo sbarco dei 346 migranti della nave Ong Geo Barents previsto oggi a Marina di Carrara e domani a Livorno. All’origine delle resistenze della Toscana ci sono anche motivi di carattere operativo. «L’accoglienza implica nell’immediato una serie di procedure per donne, minori, controlli sanitari difficili da organizzare in due posti distanti» sottolineano. Anche Medici senza frontiere punta il dito contro i due porti. «Entrambi i porti si trovano a una distanza considerevole dalla zona dei soccorsi – ricorda la Ong – Questa decisione arriva inoltre un giorno dopo la richiesta di sbarcare 116 persone a Lampedusa. In totale sono stati quindi assegnati tre diversi luoghi di sbarco per i sopravvissuti salvati tra il 15 e il 16 luglio. Abbiamo espresso la nostra preoccupazione sull’impatto che questa ulteriore attesa e i successivi spostamenti avranno sul benessere mentale e fisico dei superstiti. Tra loro ci sono molte persone che hanno immediato bisogno di assistenza medica e psicologica, accessibile solo a terra».
GB, LA DEPORTAZIONE IN RUANDA È LEGGE
Londra. Alla fine la Camera dei Lord ha ceduto, ora manca solo la firma del Re sotto la legge che prevede respingimento e deportazione dei profughi in Ruanda. Quanti attraversano la Manica saranno spediti nel Paese africano che ha accettato di accoglierli in cambio di 140 milioni di euro. Silvia Guzzetti per Avvenire.
«È arrivata nel porto di Portland, nel Dorset, sulla costa sud inglese, la “Bibby Stockholm”, una nave caserma, attrezzata come centro di detenzione per migranti illegali, che dovrebbe ospitare, nei prossimi mesi, almeno 500 richiedenti asilo. Il fatto segue solo di poche ore l'approvazione definitiva della controversa legislazione del governo britannico che prevede la deportazione in Ruanda per gli irregolari che attraversano il canale della Manica su piccole imbarcazioni. Il cosiddetto “Illegal Migration Bill”, questo il nome della legge, è stato pensato da premier Rishi Sunak, per scoraggiare gli sbarchi dei “piccoli scafi”, gestiti da gang di trafficanti. Sbarchi che hanno raggiunto livelli record nel 2022: 45.755 persone in gran parte passate dalla Francia. Oltre 12mila sono già sbarcati quest'anno, più o meno la stessa cifra raggiunta nel 2022. Si tratta di cifre relativamente limitate, se pensiamo che sono stati oltre 600mila i migranti legali lo scorso anno, ma gli sbarchi sono un grande imbarazzo per un governo conservatore che aveva promesso, durante la campagna per Brexit di blindare i confini del Paese. L'iter del provvedimento si è chiuso nella notte, dopo un lungo ping pong durato settimane, con la Camera dei Lord, che ha cercato, prima, di fermare la legge e, poi, di emendarla in modo drastico. Alla fine i Pari del Regno hanno ceduto e dato l'ok ai Comuni ai quali spetta, in ogni caso, l'ultima parola. Ora non resta che il passaggio, solo formale, del “Royal Assent”, l’ultima tappa di ogni iter legislativo, la controfirma del re Carlo III. Il programma, annunciato dall'allora premier britannico Boris Johnson, il 14 aprile 2022, prevede che il Ruanda accolga migliaia di richiedenti asilo in cambio di 120 milioni di sterline, circa 140 milioni di euro, e introduce una serie di restrizioni draconiane al diritto, da parte dei cosiddetti irregolari, di presentare, a posteriori, domanda d’asilo sull’isola e ne facilita l’espulsione verso Paesi Terzi. Ad opporsi alla legislazione sono state la Chiesa cattolica d’Inghilterra e Galles, la Chiesa d’Inghilterra e le più importanti Ong umanitarie, oltre alle Nazioni Unite, i laburisti e a una parte dello stesso partito Tory. Secondo tutte queste istituzioni la nuova legge violerebbe i diritti umani di migranti e richiedenti asilo. Fino ad oggi la legge non è mai stata applicata ovvero nessun migrante illegale, giunto nel Regno Unito, è mai stato deportato in Ruanda perché, ogni volta che il governo tentava il trasferimento, i giudici lo fermavano. L'ultimo intervento della magistratura risale alla fine di giugno, quando il Tribunale d’appello britannico, interpellato da una decina di richiedenti asilo, rappresentati dall’associazione “Asylum Aid”, ha deciso che l’“Illegal Migration Bill” violava la legislazione sui richiedenti asilo. Il braccio di ferro tra giudici e governo è destinato a continuare. Proprio la scorsa settimana, infatti, l'esecutivo è stato autorizzato a ricorrere alla Corte Suprema contro l'ultima sentenza della Corte d'Appello della fine di giugno. Se è molto contestata la legislazione per la deportazione dei richiedenti asilo in Ruanda, non meno controversa è la nave prigione arrivata, in queste ore, trascinata da un rimorchiatore, sulla costa sud inglese, dopo essere partita dal Falmouth, in Cornovaglia. I primi dei 500 richiedenti asilo ad essere ospitati dovrebbero salire a bordo alla fine di luglio anche se alcune organizzazioni umanitarie hanno espresso riserve sulle condizioni nelle quali saranno ospitati. Downing street ha difeso, fino ad oggi, l'uso di chiatte per ospitare migranti, insistendo che è un'alternativa meno costosa rispetto alle camere di hotel. Manifestanti, con cartelli con le scritte “Benvenuti rifugiati” e “No alle prigioni galleggianti” si sono radunati al porto di Portland per protestare contro l’arrivo della “Bibby Stockholm”».
ZAKI 1, CONDANNATO A TRE ANNI
Dura sentenza per Patrick Zaki, lo studente egiziano che ha studiato a Bologna, condannato a tre anni. È stato subito portato in carcere, dove dovrà scontare 14 mesi. La madre in aula: «Me l’hanno preso». Marta Serafini sul Corriere.
«Mio Dio me l’hanno preso». Urla coprendosi il viso mamma Hala, mentre le portano via di nuovo il suo Patrick. Dopo quasi quattro ore di attesa dall’inizio dell’udienza al tribunale di Mansoura, Hala e la fidanzata Remy lo vedono per l’ultima volta. Lui è in piedi, in giacca grigia e camicia bianca sbottonata sul collo, parla con i suoi avvocati. Hanno chiesto al giudice di fissare una data per la sentenza. Poi, quelle parole che pesano come macigni e che parlano di una condanna a 3 anni. E Patrick scompare, mentre il suo cellulare diventa muto. La destinazione — sarà la Eipr, la Egyptian Initiative for Personal Rights, la stessa ong con cui ha collaborato Zaki a confermarlo in un comunicato — è Gamasa, ancora più lontano dal Cairo, dove si trovano sia un commissariato di polizia che un carcere di massima sicurezza. Ma che ne sarà ora di Patrick che fino a poche ore prima, nervoso, chiedeva se lo avrebbero fatto tornare in Italia, non è affatto chiaro. «Calcolando la custodia cautelare» già scontata, «si tratta di un anno e due mesi» di carcere, spiega all’ Ansa Hazem Salah, uno degli avvocati, riferendosi ai 22 mesi già trascorsi in cella dal giovane fino al dicembre 2021. Secondo Hossam Bahgat, attivista egiziano per i diritti umani e fondatore dell’Eipr, la sentenza non è soggetta ad appello. Su Twitter il legale e attivista per i diritti umani egiziano Mai El-Sadani spiega che Patrick è stato condannato per il suo articolo del 2019 «Displacement, Killing & Harassment: A Week in the Diaries of Egypt’s Copts» e dunque per la «diffusione di notizie false», reato per cui il massimo della pena in Egitto è di cinque anni. Per Patrick il rischio è che si compia un destino comune a quello di molti altri attivisti egiziani, incarcerati, poi rilasciati e di nuovo incarcerati. La «porta girevole», come viene chiamata in gergo e che ha visto in questi anni passare nelle prigioni egiziane migliaia di prigionieri politici. Con il passare delle ore, però, si aprono degli spiragli. Sempre la Eipr sottolinea che «la legge d’emergenza stabilisce che una sentenza non diventa definitiva fino a quando non viene ratificata dal governatore militare della regione. E che il presidente della Repubblica ha il potere di approvarla, annullarla o modificarla, oltre a quello di emettere la grazia presidenziale per la pena». È tardo pomeriggio ormai quando gli avvocati di Zaki provano la strada del rilascio. Poi il segretario del Comitato per i diritti umani della Camera dei deputati egiziana e componente del Comitato per la grazia presidenziale, Mohamad Abdelaziz, spiega su Facebook come il proprio organismo «ha ricevuto rassicurazioni sul caso di Zaki e continuiamo a confidare nella volontà del presidente Al-Sisi di usare i suoi poteri costituzionali per il bene pubblico e per creare un clima democratico per il dialogo nazionale». Parole che fanno sperare e che rimandano la decisione ultima al Generale».
ZAKI 2, LA FIDUCIA DEL GOVERNO
Dalla Farnesina e da Palazzo Chigi trapela la speranza di una grazia da parte di Al-Sisi. Il punto sulla Stampa è di Antonio Bravetti.
«Il nostro impegno per una soluzione positiva non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia». Nonostante la condanna di Patrick Zaki, Giorgia Meloni mostra ottimismo. Il governo confida nel fatto che l'Egitto possa concedere la grazia allo studente. Le opposizioni, però, criticano il "silenzio" dell'esecutivo, invocano subito un'azione "forte" nei confronti del regime egiziano e invitano il ministro degli Esteri Antonio Tajani a riferire in aula. La segretaria del Pd Elly Schlein parla di «ingiustizia gravissima» e chiede «al governo di attivarsi con tutti gli strumenti possibili per intercedere con il governo egiziano affinché gli conceda la grazia». È lo «scenario peggiore», grida Amnesty davanti a un «verdetto scandaloso». Per palazzo Chigi il caso Zaki non è chiuso, a ispirare la breve dichiarazione di Meloni c'è il lavoro che la Farnesina sta portando avanti. Dal ministero degli Esteri trapela un cauto ottimismo: non sarà domani né dopodomani, ma all'orizzonte c'è «una seria possibilità» che l'Egitto possa concedere la grazia a Zaki, come decisione autonoma del governo di al-Sisi. È quello che chiedono anche le associazioni per i diritti civili egiziane. Intanto, però, il governo incassa molte critiche. «Avevamo sempre chiesto di tenere alta l'attenzione su Patrick imputato – si duole il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury – perché in Egitto imputato è sinonimo di condannato. Non finisce qui, ora tutte le possibilità per tirarlo fuori da questa situazione vanno esplorate». L'ex presidente della Camera Roberto Fico auspica «un'iniziativa politica forte», ricorda l'omicidio di Giulio Regeni e domanda: «Quando si alzerà la testa?». Maurizio Lupi, di Noi Moderati, invita invece alla cautela: «Sarebbe un grave errore alzare i toni, lasciamo lavorare il governo e la diplomazia». Mentre per i deputati di FdI, Fi e Lega in commissione Esteri «sarebbe un gesto apprezzabile se l'Egitto valutasse un atto di clemenza nei confronti del ragazzo». Le opposizioni non fanno sconti al governo. «Un orrore senza fine – sbotta Filippo Sensi, senatore del Pd – il governo italiano può essere fiero del suo silenzio, della sua assenza». Per il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni «l'Egitto è una dittatura senza scrupoli» e l'Italia dovrebbe «interrompere ogni rapporto economico, diplomatico e commerciale con l'Egitto fin quando non libererà Patrick Zaki». Giuseppe Conte si rivolge a palazzo Chigi: «Ci aspettiamo una forte azione da parte del governo italiano perché non sia questo l'atto finale di questa sconcertante vicenda». Riccardo Magi, segretario di +Europa, condanna «un accanimento senza precedenti da parte del regime egiziano che continua a calpestare i diritti umani e lo stato di diritto». Ivan Scalfarotto, senatore di Italia Viva, vede nella condanna «un'ulteriore grave lesione ai rapporti tra Italia ed Egitto. Il governo faccia sentire forte e chiara la sua indignazione». Per Carlo Calenda si tratta di una «terribile notizia» di fronte a cui «il governo deve intraprendere ogni iniziativa utile».
BORSELLINO, LETTERA DELLA PREMIER
31 anni fa la strage di via d’Amelio dove la mafia uccise il giudice Paolo Borsellino e i cinque poliziotti della sua scorta. Giorgia Meloni oggi parteciperà solo alla cerimonia ufficiale, niente fiaccolata della sera a Palermo. Ne ha scritto al Corriere della Sera in una lettera.
«Caro direttore, il 19 luglio di 31 anni fa la mafia ha ucciso il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Come ogni anno, sarò anche questa volta a Palermo per rendere omaggio alla loro memoria e rinnovare il mio impegno personale, e quello di tutto il Governo, contro le mafie. Presiederò il Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza per fare il punto sul lavoro svolto sull’attività di contrasto alle criminalità organizzata che le istituzioni, ad ogni livello, stanno portando avanti. In questi giorni è stato detto un po’ di tutto sulla mia presenza a Palermo. C’è chi ha addirittura scritto che avrei disertato le commemorazioni perché «in crisi con il mito Borsellino». È, ovviamente, falso. Così come è stucchevole il tentativo di alcuni di strumentalizzare la mia impossibilità — data da altri impegni concomitanti — di partecipare anche alla tradizionale fiaccolata di Palermo, organizzata da «Comunità ‘92» e «Forum XIX Luglio» e diventata nel tempo manifestazione apprezzata e partecipata. E alla quale ho sempre orgogliosamente preso parte. Ricordo, come se fosse ieri, il profondo e viscerale rifiuto della mafia che, da ragazza, provai di fronte alle immagini della strage di via D’Amelio. Da quel rifiuto nacque il lungo, convinto, impegno politico che mi ha portato fin qui, da semplice militante di un movimento giovanile alla presidenza del Consiglio dei ministri. Per questo, non posso che essere profondamente orgogliosa del fatto che il governo che oggi presiedo abbia avuto, dal suo primo giorno, la determinazione e il coraggio necessario ad affrontare il cancro mafioso a testa alta. Sono i fatti a dimostrarlo. Abbiamo messo in sicurezza presidi fondamentali come la restrizione dei benefici penitenziari, e se oggi boss mafiosi del calibro di Matteo Messina Denaro sono detenuti in regime di 41 bis lo si deve esattamente a questo impegno. Abbiamo sbloccato le assunzioni nelle forze dell’ordine, ci siamo schierati al fianco dei magistrati e di chi ogni giorno sul territorio conduce la battaglia contro la mafia, stiamo lavorando ad un provvedimento che dia un’interpretazione autentica di cosa si debba intendere per «reati di criminalità organizzata» e che scongiuri il rischio che gravi reati rimangano impuniti per effetto di una recente sentenza della Corte di Cassazione. C’è ancora molto da fare, ma il nostro impegno non si esaurirà mai. Semplicemente perché la lotta alla mafia è parte di noi, è un pezzo fondante della nostra identità, è la questione morale che orienta la nostra azione quotidiana. Lo dobbiamo a Paolo Borsellino, ed a tutti coloro che hanno sacrificato la vita per la giustizia e hanno reso onore all’Italia».
LA MATERNITÀ SURROGATA SPACCA IL PD
Femministe e cattolici contro l’utero in affitto, la segretaria è schierata ma ieri era assente alla discussione sul tema all’interno del Partito Democratico. Lorenzo De Cicco per Repubblica.
«La scappatoia arriva dopo ore di dibattito macerante: tutti fuori dall’Aula. Il Pd si esprimerà così – cioè non esprimendosi – sulla proposta di legalizzare la “Gpa solidale”, la gestazione per altri senza transazioni economiche. La decisione arriva al termine di un balletto iniziato sul finire della settimana scorsa, appena i dem hanno saputo che il segretario di +Europa, Riccardo Magi, avrebbe presentato un emendamento alla proposta della destra di rendere la maternità surrogata «reato universale». L’emendamento Magi chiede l’opposto: cioè che la gestazione per altri sia invece regolata e legale, a patto che sia «non a fini commerciali, altruistica e volontaria ». E che la gestante abbia «reddito superiore a un certo limite, per evitare casi di sfruttamento». Precisazioni che comunque non hanno rassicurato il fronte catto-dem, così come alcune femministe contrarie. Dunque, al Nazareno si è arrivati alla fatidica domanda: che fare? Anche perché il voto dell’emendamento era previsto ieri e solo per le lungaggini d’Aula, alla fine, è slittato, probabilmente si terrà il 25 luglio. Sia chiaro: la legalizzazione sarà cassata, anzi la destra probabilmente riuscirà a far approvare a Montecitorio il reato universale. Ma per il Pd è una questione simbolica, “etica”. Comporre le divisioni è complicato. Elly Schlein, che ieri è volata a Bruxelles per una riunione del Pse, ha delegato tutto alla capogruppo Chiara Braga. Ma era una specie di mission impossible trovare la famosa quadra. Infatti, si è visto: non è bastata una riunione fiume protratta lunedì fino all’una di notte, che si è conclusa con una proposta a metà. Astensione, concedendo magari libertà di coscienza. Tutti d’accordo? No: il fronte cattolico ha chiesto un ulteriore approfondimento. Sostenendo che l’astensione avrebbe significato «sconfessare la linea che il Pd si era dato» in una precedente riunione, quando era arrivato l’avallo a votare no al reato universale, sì alle trascrizioni dei figli delle famiglie omogenitoriali e no al cambio delle regole in Italia sulla Gpa (no alla legalizzazione, insomma). Marianna Madia ha insistito perché non fosse sconvocata l’assemblea di gruppo di ieri mattina. Visto che tanti le sono andati dietro, la riunione è stata riconvocata in tutta fretta. Voci da dentro: Lia Quartapelle e Claudio Mancini hanno chiesto di lasciare libertà di coscienza, ma la prima per dire sì, il secondo per dire no alla legalizzazione. Qualcuno come Lorenzo Guerini, a margine della riunione, ha addirittura ventilato l’ipotesi estrema: «Se c’è libertà di coscienza, allora vale per tutto, si può anche votare sì al reato universale». Debora Serracchiani e Piero Fassino hanno spinto per ribadire il no o almeno per uscire dall’Aula, ma spiegando che il Pd resta contrario alla legalizzazione. Linea che alla fine ha prevalso (anche se Schlein “personalmente” è favorevole alla Gpa). Mentre la stessa Braga duellava a distanza con Magi. «Stavamo affrontando il no al reato universale e questo emendamento non c’entra nulla – lo sfogo della capogruppo – è strumentale, per metterci in difficoltà». Replica di Magi: «Come facciamo a dire no al reato universale e farci andare bene il reato nazionale?». Qualcuno, fra i dem, gli dà ragione: «La verità è che una linea non c’è».
UNA PROPOSTA PER GLI INSEGNANTI DELLE PARITARIE
Angelo Picariello su Avvenire intervista il deputato di Fratelli d’Italia Lorenzo Malagola. Che dice: con l’abilitazione dei docenti un cambio di passo, per il governo prioritaria la libertà educativa.
«La proposta presentata in commissione Lavoro alla Camera al decreto PA - bis che punta ad abilitare gli insegnanti che hanno alle spalle servizio svolto completamente o prevalentemente presso le scuole paritarie senza passare per il cosiddetto “concorsone”, inizia il suo iter, con l’obiettivo di rendere operativa con l’avvio del prossimo anno l’importante novità. L’annuncio è del deputato di Fdi Lorenzo Malagola, segretario della Commissione Lavoro e uno dei presentatori della proposta. « È uno dei tanti passi - rivendica - che questa maggioranza sta compiendo in direzione della parità effettiva. E altri se ne annunciano in relazione all’aumento dei fondi e delle detrazioni per le famiglie».
Come nasce la proposta?
Si tratta di un’iniziativa congiunta di governo e Parlamento per sanare una condizione di ingiustizia che colpisce 15mila docenti delle scuole pubbliche paritarie e gli stessi istituti dove essi lavorano. È dal 2015 che lo Stato non promuove più i corsi abilitanti per questi docenti, che hanno quindi potuto ottenere l’abilitazione solamente attraverso i concorsi di accesso alle graduatorie per le scuole pubbliche statali. Con questo emendamento andiamo a fare tre cose: innanzitutto, riattiviamo dal prossimo settembre i corsi di abilitazione, tornando a separare il canale dell’abilitazione dall’immissione in ruolo; riconosciamo come attività formativa abilitante gli anni di insegnamento nelle scuole paritarie (ai quali andrà aggiunta solo la metà dei crediti formativi previsti per legge), segnando un punto di principio finora assente in merito all’equiparazione tra insegnamento nelle paritarie e nello Stato; consentiamo per un triennio una deroga a favore delle scuole paritarie per quanto concerne uno dei requisiti di “parificazione”, in quanto sappiamo che oggi molte scuole non impiegano docenti abilitati per la mancanza dei percorsi abilitanti e ci vorrà qualche anno perché possano mettersi in regola.
Che iter, che adesioni e che tempi si prospettano?
L’emendamento verrà votato questa settimana in commissione Lavoro e poi speriamo che il testo vada in aula già la prossima settimana per una veloce approvazione. La maggioranza è compatta e intende, con questo intervento, riporre al centro dell’agenda politica il grande tema della parità scolastica e della libertà di educazione. Non so che cosa farà la sinistra, mi auguro che non riproponga la sua vecchia posizione ideologica di contrapposizione tra scuola statale e scuola paritaria, negando la funzione pubblica di quest’ultima.
Sulla leva fiscale è ipotizzabile un aumento delle detrazioni per le rette?
Entro la pausa estiva verrà approvata la delega fiscale, che definisce l’insieme di principi e indirizzi che il governo Meloni intende seguire per una profonda riforma del nostro sistema fiscale, per renderlo più equo e finalmente a sostegno di famiglie e imprese. È in questa cornice che potremo intervenire per aumentare le detrazioni delle spese scolastiche a favore delle famiglie, facendo un ulteriore passo verso la parità scolastica. Dobbiamo mettere le famiglie in condizione di poter scegliere la scuola che ritengono migliore per i propri figli, come da dettato costituzionale.
Sarà possibile un vero cambio di prospettiva per le famiglie costrette a pagare due volte le tasse per l'istruzione?
Per rendere effettiva la parità scolastica stiamo intervenendo su più fronti. Oltre a quanto già detto in relazione all’abilitazione dei docenti e a un intervento fiscale sulle detrazioni, abbiamo reso accessibili anche alle 10mila scuole paritarie presenti in Italia gli 1,2 miliardi di euro del Pnrr destinati alla formazione degli alunni e dei docenti e, nell’ultima legge di Bilancio, abbiamo innalzato da 550 a 620 milioni i fondi per le scuole paritarie. Certo, c’è ancora molto da fare per una parità effettiva e piena ma, per quanto compiuto nei nostri primi 9 mesi di governo, abbiamo già dimostrato quanto sia una nostra priorità».
MUTUI CASA, SI CERCA UNA SOLUZIONE
Nel documento sui mutui al vaglio del Mef la possibilità di congelare la rata variabile, prestiti più lunghi e più oneri per gli interessi, opzione per la sospensione dei pagamenti. Nuove soluzioni praticabili se il mancato pagamento non supera i 90 giorni. Laura Serafini per il Sole 24 Ore.
«È in dirittura d’arrivo una nuova iniziativa dell’Abi per supportare le famiglie che fanno fatica a pagare le rate del mutuo. L’intervento segue un primo memorandum pubblicato domenica 9 luglio e contenente raccomandazioni per allungare la durata dei mutui a tasso variabile, ma in quel caso per i clienti in regola con i pagamenti delle rate. Il passo avanti, ora, riguarda le famiglie che sono già in ritardo con le scadenze. Attenzione, però, le nuove soluzioni sono possibili solo se il mancato pagamento non supera i 90 giorni, altrimenti – in linea con quanto previsto dalle regole dell’Eba – qualsiasi misura per ristrutturare il credito ne impone la riclassificazione come deteriorato. Le iniziative allo studio sono state illustrate in un incontro al ministero dell’Economia giovedì scorso e sono state poi verificate con le banche associate nel weekend. Lunedì le proposte sono state formalizzate in un documento ora al vaglio del Mef e sul quale si attende a breve riscontro finale. Si tratta del massimo che gli istituti di credito possono fare con le attuali regole Eba e nel rispetto dei vincoli antitrust. L’intervento più significativo riguarda la possibilità di bloccare l’importo della rata a tasso variabile per un determinato numero di mesi, allungando la durata temporale del mutuo e spalmando nel tempo il costo del debito. È chiaro che questa operazione comporta un aumento degli oneri per gli interessi, perché il prestito dura di più. Ma, d’altro canto, se così non fosse neanche questo sollievo potrebbe essere dato ai clienti. Le regole Eba prevedono infatti che se un’operazione di ristrutturazione di un prestito costa alla banca più dell’1% (misurato come differenza tra il valore dei flussi attualizzati della posizione originaria e il valore del valore dei flussi attualizzati della posizione ristrutturata) l’intera posizione del debitore deve essere riclassificata come deteriorata. Il punto è che se la banca deve mantenere l’equilibrio finanziario dell’operazione all’interno dell’1% il cliente deve pagare più interessi sul finanziamento; altrimenti si ricadrebbe nella riclassificazione del credito. Un cane che si morde la coda, verrebbe da dire. È per questo motivo che l’Abi chiede dal 2015 che i governi si attivino in sede europea per rivedere quelle norme. Un auspicio che viene ribadito anche ora: si ritiene opportuno avviare urgentemente l’interlocuzione con la Commissione Ue e con l’Eba per rendere la gabbia dell'1% quantomeno parametrata al livello dei tassi e alla durata dei finanziamenti. Resta il fatto che la raccomandazione principale che verrà fatta ai clienti sarà di rivolgersi alla banca subito, prima che emergano le difficoltà: finchè ci sono 60 giorni ritardo si può ancora intervenire. Oltre i 90 giorni i margini di manovra diventano praticamente nulli. Questo discorso vale anche per l’altro strumento sul tavolo: e cioè la possibilità di sospendere il pagamento delle rate avvalendosi, sempre attraverso la banca, del fondo Gasparrini. La rata viene sospesa per un periodo e gli interessi vengono versati dal fondo. I requisiti per l’accesso sono stati ampliati durante il Covid, includendo professionisti, partite Iva e lavoratori in cassa integrazione. E ancora: l’intervento dell’Abi punterà anche a estendere quanto già previsto come obbligo nell’ultima legge di bilancio. Si tratta della possibilità di convertire il mutuo da tasso variabile a fisso: in base alla norma gli istituti di credito sono tenuti a consentire, su richiesta dei clienti, il cambiamento a coloro che sono in difficoltà e hanno mutui fino a 200 mila euro e Isee a 35 mila euro. L’obiettivo è alzare il tetto Isee fino a 45 mila euro, anche se la soglia non potrà essere messa nero su bianco per motivi antitrust. «Stiamo lavorando col ministero dell’Economia per trovare delle possibilità di ampliamento delle misure che non sono solo di allungamento della scadenza dei mutui, ma sono anche di rinegoziazione e surroga, tutto il possibile nell’ambito delle rigide norme che l’autorità bancaria europea, l’Eba, ci continua a imporre», ha commentato ieri il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli. Nella sostanza si tratta di rendere organizzate e omogenee per le banche associate misure che a livello individuale in molti casi sono già state adottate. L’iniziativa è stata avviata dal direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, come auspicato dal presidente Patuelli in occasione dell'assemblea del 5 luglio dopo la richiesta del ministro Giancarlo Giorgetti. Una volta che anche il Mef avrà ritenuto esaustive le iniziative proposte, l’Abi emanerà una circolare promuovendo le misure preso le banche, le quali dovranno darne pubblicità sui loro siti. A sua volta l’Abi pubblicherà sul proprio sito l’elenco degli istituti di credito che aderiscono a questa iniziativa. «Tutto il sistema bancario sta immaginando di aiutare le famiglie – ha detto ieri il presidente di Intesa San Paolo, Gian Maria Gros Pietro- Per quanto riguarda i mutui a tasso variabile ne stiamo parlando sia con il governo sia in sede Abi e ci sono diverse soluzioni che favoriremo». Ieri, intanto, il bollettino mensile Abi (si veda anche a pag. 24) ha segnalato che il tasso medio sui prestiti è stato pari al 4,25%; per le imprese il tasso è passato dal 4,81 di maggio al 4,86% e per i mutui alle famiglie l’incremento è stato dal 4,22 al 4,27 per cento».
PNRR ALLE CAMERE IL PRIMO AGOSTO
Alla cabina di regia sul Pnrr il ministro Raffaele Fitto accelera sui tempi della proposta con la rimodulazione del Piano. La discussione alle Camere sarà il primo agosto. Cresce il pressing Ue. Dombrovskis: «Questo è l’anno chiave, no a ritardi». Gianni Trovati e Manuela Perrone per il Sole 24 Ore.
«Sulla rimodulazione del Pnrr cresce il pressing Ue, mentre nella nuova riunione della cabina di regia con imprese e parti sociali il ministro Raffaele Fitto fa trapelare l’intenzione di chiudere in fretta il cantiere delle modifiche: 10-15 giorni per completare la riscrittura del Piano e il capitolo RepowerEu, poi la formalizzazione e la discussione in Parlamento e con la Commissione europea. Il cambio di passo è indirettamente confermato anche dall’agenda delle Camere, che per il 1° agosto prevede ora sia un’informativa sulle modifiche già decise dal Governo su dieci dei 27 obiettivi della quarta rata, sia una comunicazione (con risoluzioni e voto) sulla revisione più complessiva del Pnrr. La lunga attesa per le scelte dell’Esecutivo non è solo italiana. Ieri sono infatti tornati a farsi sentire due pezzi da novanta dell’Esecutivo Ue. Il vicepresidente Valdis Dombrovskis ha voluto sottolineare che «questo dovrebbe essere il grande anno degli esborsi e quindi non dovremmo trovarci in una situazione in cui sul Pnrr ci sono arretrati e sovrapposizioni con un uso crescente dei fondi di coesione». Gli ha fatto eco il commissario al Bilancio Johannes Hahn che riferendosi direttamente all’Italia ha avvertito: «Il mio punto è sempre quello di concentrarsi sull’attuazione del Pnrr e non impegnarsi troppo in una revisione completa del Piano, che è stato redatto, negoziato, discusso e concordato. Più ci si distrae dall’implementazione, maggiore è il rischio di perdere fondi». Ma da Hahn è arrivato anche un suggerimento in linea con la strategia più volte evocata da Fitto: «Se i Paesi hanno grandi progetti pluriennali, dovrebbero suddividerli in una prima parte da finanziare con il Recovery e una parte finale da coprire con i fondi strutturali». Nelle intenzioni del Governo, in ogni caso, il ritmo della riscrittura dovrebbe aumentaredrasticamente, anche grazie all’utilizzo del metodo già sperimentato con i correttivi sulla quarta rata. L’idea è di sviluppare un confronto il più possibile preventivo sulle proposte per tagliare i tempi delle verifiche ufficiali che portano alla loro approvazione. «In due-tre mesi - ha detto Fitto in mattinata, intervenendo alla presentazione dei primi risultati del Rapporto Svimez 2023 - puntiamo ad avere un riallineamento dei diversi programmi e un quadro organico di riferimento per avviare una fase di attuazione concreta». Alle associazioni delle imprese, da Confindustria all’Ance, da Abi e Ania ai rappresentanti dell’agricoltura e dei servizi, Fitto poi ha anticipato alcuni contenuti del Repower italiano, svelando che accanto ai progetti delle partecipate per le infrastrutture strategiche e agli incentivi per il mondo produttivo, con 3-4 miliardi che potrebbero andare ai bonus per gli investimenti ora etichettati come Transizione 5.0, troverà spazio per le famiglie una spinta alle riqualificazioni energetiche degli edifici. L’obiettivo, che sarà perseguito anche in legge di bilancio con il riordino complessivo dei bonus edilizi, è quello di anticipare la sfida posta al nostro Paese dalla direttiva europea sulle case green. Fitto sarà oggi in audizione alle commissioni Bilancio e Politiche Ue di Camera e Senato, dove è in discussione la terza relazione sul Pnrr. Ieri è stato il turno degli enti territoriali. Le Regioni, in particolare, hanno sottolineato l’assenza di misure per coprire l’aumento di spesa corrente generato dagli investimenti del Piano, soprattutto in sanità e nel diritto allo studio. I Comuni sono tornati a rivendicare il loro ruolo da protagonisti sia nelle assegnazioni (già distribuito il 91% dei fondi di loro competenza) sia nelle gare (52mila, cioè il 50% del totale), rimarcando il nodo delle anticipazioni e degli inciampi di Regis. Proprio lo stato di avanzamento sembra ridurre l’impatto della riprogrammazione sugli investimenti territoriali, prospettando una continuità accolta con favore anche dai costruttori dell’Ance. «Siamo ottimisti - ha detto la presidente Federica Brancaccio - specialmente sulle piccole opere e sui Comuni che stanno correndosiamo ottimisti».
USA-CINA, LA BATTAGLIA SUI CAVI SOTTO IL MARE
Veniamo alle altre notizie dall’estero. C’è una battaglia sulle fibre digitali. Sulla struttura di 1,4 milioni di chilometri oltre il 96% del traffico internazionale di dati e voce. La sicurezza e e lo spionaggio sono al centro della Guerra fredda tecnologica. Vittorio Carlini per il Sole 24 Ore.
«I cavi sottomarini. Circa 1,4 milioni di km di fibra rivestita di metallo che fa compagnia a pesci e coralli negli oceani. Secondo TeleGeography: più di 520 sistemi e oltre 1.440 punti terrestri di approdo attivi o in via di costruzione. È la spina dorsale delle telecomunicazioni digitali, in particolare di quelle Internet. Una struttura subacquea su cui, da una parte, passa oltre il 96% del traffico internazionale di dati e voce; e che, dall’altra, è oggetto della battaglia economico-tecnologica tra Stati Uniti e Cina. Una sfida la quale rischia di spaccare il web. Anche perché, nel recente passato, lo scontro è diventato sempre più duro. La riprova? Arriva dal progetto SeMeWe 6. Cioè: il cavo sottomarino che, entro il 2025, dovrà connettere Singapore a Marsiglia, passando per l’Egitto. Una commessa da 19.200 km di fibra che, secondo Submarine Cable Networks, pareva vinta dalla cinese HMN Tech. Sennonché, dall’aprile scorso è l’americana SubCom che ha iniziato la realizzazione della struttura. Come mai? È accaduto che, nonostante il gruppo dell’ex “Regno di Mezzo” fosse arrivato ad offrire i propri servizi per circa 475 milioni di dollari, le pressioni di Washington per estrometterlo hanno prevalso. All’interno della più ampia guerra tecnologico commerciale tra Usa e Pechino, già presente sotto l’egida di Donald Trump e proseguita con maggiore violenza con Joe Biden, la Casa Bianca si è fatta sentire, permettendo la vittoria di SubCom. E questo nonostante la sua offerta fosse più costosa: 600 milioni di dollari. Ma tant’è: la ragione di Stato, con gli annessi timori su spionaggio e sicurezza, ha prevalso. Ciò detto non è solo questione di estromettere le aziende cinesi. Nel 2020 gli Stati Uniti, attraverso la “Clean Network iniziative”, hanno di fatto vietato il collegamento diretto via submarine cable tra l’America e la Cina continentale o Hong Kong. Una misura la quale, immediatamente, ha prodotto i suoi effetti. Ne sa qualcosa il Pacific Light Cable Network, in cui sono coinvolti Meta e Google. Il cavo, inizialmente, doveva congiungere Los Angeles con l’Ex colonia britannica. Il tutto, però, è stato bloccato da Washington per motivi di security. Il risultato? Dopo vari tira e molla, la banda larga sottomarina si è fermata nelle Filippine e Taiwan. Già, Taiwan. Anche qui i segnali della centralità dei submarine cable sono evidenti. Nello scorso Aprile due collegamenti tra l’Isola di Formosa e la più piccola Matsu (vicina alla costa Cinese) sono stati tranciati. Taiwan ha dato la colpa, pure senza avere prove evidenti, a due navi di Pechino. Al di là della colpevolezza, o meno, la disputa indica come, nella querelle su Taiwan, la fibra subacquea reciti un ruolo strategico. Quei cavi sottomarini rispetto ai quali l’incremento delle ostilità tra Occidente e Cina ha creato ulteriori effetti. Tra gli altri: la creazione di nuove rotte per il traffico dei dati. Un esempio? Le contese sulla sovranità nel Mare Cinese Meridionale. Queste hanno indotto diversi consorzi industriali, da Apricot ad Echo, a creare un nuovo hub dei cavi nell’isola di Guam (oceano Pacifico) controllata dagli Stati Uniti. Insomma: la battaglia è in pieno svolgimento e l’America, finora, ha limitato le mire espansionistiche di Pechino nel settore. Tanto che, secondo il Financial Times, HMN Tech è attiva solamente nel 10% dei cavi esistenti o pianificati. Sennonché la Cina non sta a guardare. «Lo scontro con Washington - spiega Giuliano Noci, prorettore Polo territoriale cinese del PoliMi – ha creato a Pechino l’ “ossessione” per l’evoluzione tecnologica». «C’è stata un’ accelerazione in quel Paese degli investimenti hi tech» fa da eco Roberto Siagri, fisico e già fondatore di Eurotech. Si tratta di un contesto dove, a ben vedere, l’ex “Regno di Mezzo” in primis sfrutta l’onda lunga della via Digitale della seta. Ne è una prova il “Peace” cable. Vale a dire: la struttura che parte dal Pakistan e, dopo vari punti d’approdo in Kenya, Gibuti ed Egitto, arriva a Marsiglia. «Un progetto - riprende Noci - dove, ad esempio, i landing point del cavo, permettono a Pechino di avviare, o consolidare, le proprie attività commerciali, d’investimento ed eventualmente militari» in aree quali l’Africa. Oppure, come nel caso del cavo “Sail” (tra Camerun e Brasile), nel continente Sudamericano. Ma non è solo questione di strutture esistenti. La Cina propone anche nuove interconnessioni. «Così – sottolinea Stephane Klecha, Managing partner di Klecha & Co. – può ricordarsi il progetto da 500 milioni di dollari chiamato Ema. Un submarine cable tra Asia ed Europa, via Medio Oriente» il cui obiettivo, evidentemente, è fare concorrenza a quelli sotto l’influenza di Washington. Lo scenario che va profilandosi, quindi, è chiaro. Un contesto tecno-geopolitico in cui diversi esperti, oltre ai problemi più in generale per le Tlc, lanciano l’allarme: il rischio è la nascita di due Internet. O, per dirla diversamente, la Grande rete si spacca. «L’ipotesi è plausibile - afferma Noci -. Potremmo arrivare ad avere due network: uno sotto l’influenza statunitense e l’altro a trazione cinese». Due reti le quali, da un lato, «hanno il backbone inaccessibile alla controparte; e, dall’altro, possiedono specifici, e controllabili, punti di contatto». «Decidere dove, quando e come costruire un cavo -riprende Klecha, che di recente ha realizzato uno studio con Rosa&Roubini proprio sulla Guerra fredda hi tech – permette di intercettare le informazioni e creare una dipendenza tecnologica». In aggiunta «i proprietari dei cables possono inserire backdoors e altri meccanismi di sorveglianza». Dal che le spinte alla separazione trovano una loro qualche razionalità. «Il contesto, in realtà - precisa Siagri-, è più complesso». Certo: va ricordato che, ad esempio, «ciò che oggi è sicuro grazie alla tradizionale crittografia, nel giro di pochi anni non lo sarà più a causa dei computer quantistici». Quindi la volontà di dividersi dagli altri, di creare barriere fisiche e virtuali per difendere i propri dati «può avere la sua giustificazione». E, tuttavia, pensare di costruire sistemi «veramente impermeabili è pura utopia». Ciò considerato, la guerra sui cavi è comunque innegabile. «La stessa attività nel settore da parte della Russia, coinvolta nella tragica guerra in Ucraina, ne è la dimostrazione» conclude Klecha».
NUOVA INDAGINE SU TRUMP
L’ex presidente Donald Trump è indagato per l'assalto a Capitol Hill e i tentativi di sovvertire il voto. Dovrà rispondere al Grand Jury. Dice: “è giustizia politicizzata”. Raduna i suoi e chiede donazioni. Alberto Simoni per La Stampa.
«Donald Trump guarda dall'alto i suoi rivali nella corsa alla nomination repubblicana, guida il plotone con oltre 25 punti in più del secondo, Ron DeSantis. Ma fra lui e il sogno Casa Bianca bis c'è Jack Smith, procuratore speciale del Dipartimento di Giustizia, che domenica sera ha recapitato a casa di Donald una «target letter» ovvero la notifica che è sotto inchiesta per l'assalto del sei gennaio 2021 a Capitol Hill. L'attendono per conferire il 20 luglio con il Grand Jury. Donald non ci andrà. Come un copione noto, a dare la notizia dell'ennesima accelerazione giudiziaria, è stato lo stesso Trump che ha scaricato in un post sul social Truth la sua rabbia: «Mi danno solo quattro giorni per presentarmi al Grand Jury, cosa che quasi sempre significa arresto e incriminazione». La target letter quasi sempre è l'anticamera dell'incriminazione. I suoi avvocati hanno confermato che la missiva è arrivata, in giornata pure fonti vicine al procuratore Smith hanno ribadito che il postino ha suonato. In meno di nove mesi il procuratore speciale ha incriminato Trump per la gestione dei documenti classificati trovati accomodati alla meno peggio a Mar-a-Lago e si appresterebbe a incriminarlo per i fatti del 6 gennaio. Sono i punti apicali delle inchieste che stanno gonfiando il dossier Donald Trump: la prima a emergere è quella legata ai pagamenti fuori bilancio per comprare il silenzio di Stormy Daniel, ex coniglietta di playboy con cui nel 2006 ebbe una relazione; poi c'è la frode fiscale della Trump Organization che ancora pende sulla sua testa; e infine l'accusa di interferenza nelle elezioni presidenziali del 2020 in Georgia. L'incriminazione è attesa entro l'estate. Donald Trump ha reagito come al solito chiedendo ai suoi non solo di fare quadrato ma anche di mettere mano al portafoglio e donare per la sua campagna elettorale. Parte di quei soldi comunque serviranno per coprire le spese legali. Sia nel caso Stormy Daniel sia in quello di Mar-a-Lago ci fu un boom sia di donazioni sia un balzo nei sondaggi. Il tycoon ha reiterato le accuse contro «il pazzo» Jack Smith che guida «una caccia alle streghe poiché è il rivale numero uno del presidente Biden». Quindi il «Dipartimento di Ingiustizia» (copyright Trump) lo colpisce per impedirgli di vincere le elezioni. La Casa Bianca si è limitata a rispondere: «Biden rispetta la giustizia». L'incriminazione è probabile, il foro sarà quello di Washington DC dove il tribunale federale indaga e sentenzia sui fatti del 6 gennaio. Luogo assai meno tenero rispetto alla Florida dove la giudice Aileen Cannon, nominata da Trump, ieri ha tenuto un'audizione con difesa e accusa sul caso Mar-a-Lago per individuare la data del processo e soprattutto come le parti potranno trattare e visionare le prove visto che si tratta di materiale altamente classificato per cui serve clearance al massimo livello. I capi di imputazione nel caso dei documenti classificati sono 37, divisi in sette capitoli, fra cui violazione dell'Espionage Act. Sulla questione 6 gennaio si possono solo fare ipotesi. Jessica Levinson, giurista della Loyola School of Law di Los Angeles ha immaginato un ventaglio di reati ascrivibili all'ex presidente: da ostruzione alla giustizia, a tentativo di sovvertire le regole democratiche, interferenze elettorali, frode sino forse incitazione all'insurrezione. «Il procuratore però deve dimostrare la regia di Trump». Sarà interessante anche capire quanto del materiale della Commissione d'inchiesta del Congresso sul 6 gennaio chiusa a fine 2022 è finito nei faldoni di Smith. Si tratta di deposizioni, audizioni, intercettazioni che hanno contribuito a costruire un castello probatorio contro Trump, privo tuttavia di potere inquisitivo. Ma, notano gli esperti, se Smith si è mosso è perché ha in mano evidenze importanti. Il mese scorso il genero di Trump Jared Kushner ha deposto al Grand Jury. E così Rudy Giuliani. Come testimone è stato sentito anche Doug Ducey, ex governatore dell'Arizona al quale Trump chiese di non certificare la vittoria di Biden. Lui non lo fece. A quando risulta al New York Times a diversi testimoni sarebbe stata rivolta la domanda se Trump «era sano di mente» e se «era consapevole che aveva perso le elezioni».
SPAGNA, DOMENICA SI VOTA
Domenica si vota in Spagna. Socialisti in rimonta ma Popolari e Vox vanno verso la vittoria e già si annuncia la fine dell’era Sanchez. Carlo Nicolato per Libero.
«Secondo gli ultimi sondaggi prima del voto di domenica i Popolari di Alberto Núñez Feijóo mantengono un vantaggio corposo sui socialisti del premier uscente, quasi 40 seggi per un totale complessivo di 152 che sommati ai 28 di Vox rappresentano la maggioranza assoluta con 4 seggi di scarto. I sondaggi per la verità sembrano piacere a pochi in Spagna, né a Sanchez che li ha vietati nell’ultima settimana di campagna, né tantomeno alla destra di Santiago Abascal, leader di Vox, che li considera ormai «uno strumento per orientare il voto» e come tale andrebbero vietati per un periodo di tempo anche superiore. L’unico che non si esprime in proposito è ovviamente il favorito Feijoo, più che altro preoccupato che tali rilevazioni non si rivelino poi fallaci come è già capitato in passato. Il leader dei popolari ha fatto ieri un appello perché il centrodestra non disperda il voto con il rischio di un «ritorno al sanchismo». In alternativa rimane comunque la più probabile maggioranza «all’andalusa», cioè appunto quell’alleanza di governo Ppe e Vox che il leader socialista ha definito «un passo indietro per la Spagna e una seria battuta d'arresto per il progetto europeo». A Sanchez in sostanza non è riuscito altro che tirar fuori la carta trita della minaccia fascista, populista anti-europea, un sicuro lasciapassare per la sconfitta, come dimostrano tutte le recenti tornate elettorali del continente. Peraltro il premier spagnolo uscente dimentica di aver governato lui stesso per anni con Podemos, partito ben più populista di Vox ma di sinistra, ispirato e finanziato dal Venezuela di Chavez prima e di Maduro poi. A sua volta dittatura tuttora sotto sanzioni da parte di quella stessa Unione Europea che Sanchez vorrebbe difendere dall'avanzata dei «fascisti». Qualora peraltro i socialisti ottenessero la maggioranza relativa sarebbero costretti a stipulare un’alleanza governativa con Sumar, ovvero con il cartello elettorale di tutte le sinistre spagnole che comprende ben 20 partiti, tra i quali lo stesso Podemos, i comunisti e vari movimenti separatisti estremisti, molti dei quali contrari alla difesa dell’Ucraina, tutto il contrario di quello che la Ue si augura. Negli ultimi sondaggi tuttavia Sumar non va oltre i 24 seggi, per nulla sufficienti a colmare il gap tra i 115 assegnati al Pse e la maggioranza assoluta. In qualche modo però Sanchez ha ragione, una vittoria del Ppe e la successiva alleanza di governo “all’andalusa” con Vox rappresenterebbe un altro colpo mortale alla Ue della finta contrapposizione Popolari-Socialisti più satelliti vari. L’ennesimo atto di un “dramma” che si colloca tra le varie vittorie elettorali della destra in Europa, compresa ovviamente quella della Meloni in Italia, e le elezioni per l’Europarlamento nel giugno del prossimo anno. Alla Spagna è toccata pure la presidenza di turno del Consiglio Ue, alla quale il prossimo anno succederà, dopo la pausa del Belgio, l’Ungheria di Orban e quindi nel 2025 la Polonia del Pis. Difficile che la Ue dei vari Von Der Leyen e Timmermans stavolta ne esca intatta».
ADDIO A BETTAZZI, UOMO DI PACE
Duomo gremito per i funerali del vescovo Luigi Bettazzi. Il rito è stato presieduto dal cardinale Arrigo Miglio. Il Messaggio del Pontefice che è stato letto ha ricordato l’ «uomo del dialogo». La cronaca da Ivrea di Chiara Genisio per Avvenire.
«Il Vangelo aperto sulla bara ornata con la bandiera della pace. Due segni potenti nella vita di Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea morto a 99 anni, ultimo protagonista italiano del Concilio Vaticano II. Sono giunti in tantissimi ieri pomeriggio ad Ivrea per i funerali. Il rito in Duomo è iniziato con la lettura da parte di Edoardo Cerrato, attuale vescovo della diocesi eporediese, del messaggio inviato dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin a nome del Papa, in cui Bettazzi è stato ricordato come «grande appassionato del Vangelo», che «si è distinto per la vicinanza ai poveri diventando profeta di giustizia e di pace in tempi particolari della storia della Chiesa ma anche un uomo di dialogo e punto di riferimento per numerosi esponenti della vita pubblica e politica del nostro Paese». In mattinata era arrivato anche il messaggio del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, impegnato nella missione di pace a Washington: « Mi dispiace non potere essere presente. Non mi è possibile solo a causa di un impegno per la pace. Sono sicuro che monsignor Bettazzi, assetato di pace e giustizia e di convinta non violenza, mi avrebbe raccomandato di fare tutto “l’impossibile”». Il racconto, con riferimenti personali, della vita e le opere di Bettazzi è continuato nelle parole del cardinale Arrigo Miglio, arcivescovo emerito di Cagliari, che fu suo successore alla guida della diocesi di Ivrea nel 1999. Nell’omelia ha rimarcato il valore per Bettazzi delle sue radici nelle Chiese di Treviso e Bologna, l’incontro con Charles de Foucauld e il deserto, il forte legame con la montagna e le sue «scalate più ardue», quelle del suo impegno per la giustizia e la pace. E poi un lungo elenco di santi e di persone importanti per Bettazzi: da Giovanni Paolo II a Helder Camara, da Oscar Romero ad Anastasio Ballestrero, da Tonino Bello a Luigi Pistoni. Alla celebrazione hanno partecipato i porporati canavesani, Giuseppe Bertello e Tarcisio Bertone, e una ventina di vescovi della Conferenza episcopale piemontese guidati dal presidente Franco Lovignana, vescovo di Aosta. Nelle prime file numerosi amministratori locali con la fascia tricolore a rendere omaggio ad un vescovo che ha costruito ponti di pace, come ha rimarcato il sindaco di Ivrea, Matteo Chiantore. Un lungo applauso ha accompagnato le parole di saluto commosso del vescovo di Altamura- Gravina-Acquaviva delle Fonti, Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi. Uno dei nipoti di Bettazzi nel ringraziare i partecipanti al funerale ha assicurato: «Ora il cardinale Zuppi nella sua missione di pace ha di fianco don Luigi».
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