La Versione di Banfi

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Usa spaccati a metà

alessandrobanfi.substack.com

Usa spaccati a metà

Camera ai repubblicani, Senato ai democratici. Due anni di Biden in un Paese diviso. Zelensky apre a Putin. Tutti a terra i migranti di Catania, una nave va a Marsiglia. San Casciano come Riace

Alessandro Banfi
Nov 9, 2022
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Usa spaccati a metà

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Elezioni americane, lo spoglio è in corso. Non c’è stata la valanga trumpiana che si temeva alla vigilia. Ma la Camera, all’85 per cento mentre scriviamo, sarà a maggioranza repubblicana. Mentre è in bilico, con una chance in più per i democratici al 65% per Biden, la maggioranza al Senato. Un testa a testa che conferma un’America spaccata in due, dove però la performance di Ron De Santis in Florida prefigura una successione a Donald Trump, fino a pochi mesi fa impensabile. I prossimi due anni per Joe Biden saranno ancora più complicati, dovrà governare con una Camera ostile, nelle mani dell’opposizione. Non è detto che per gli equlibri mondiali sia un danno. Lo capiremo dagli sviluppi delle prossime settimane. Certo colpisce che proprio a ridosso dei risultati del mid-term Volodymyr Zelensky abbia aperto, per la prima volta in modo sostanziale, ad una trattativa con Vladimir Putin per arrivare ad un cessate il fuoco. La storia dal 1945 ad oggi sta a dimostrare che in politica estera i Presidenti Usa democratici tendono ad essere più aggressivi e interventisti mentre quelli repubblicani lo sono sempre meno. L’Europa intera attende di capire se anche questa volta lo schema si ripeterà. Stefano Folli su Repubblica, a questo proposito, avanza un’interpretazione paradossale: una vittoria accentuata dei repubblicani americani non favorirebbe affatto Giorgia Meloni, ma semmai i suoi poco controllabili alleati. Vedremo.

Intanto per fortuna la vicenda dei migranti fermati sulle navi si è sbloccata. Con un doppio colpo di scena: sono scesi tutti dalle navi del porto di Catania. Anche il “carico residuale” delle persone ancora bloccate sulla Geo Barents e sulla Humanity One è stato considerato “fragile”. Così è stato dato ai migranti il permesso di toccare terra. Mentre alla Ocean Viking la Francia ha dato il permesso di approdare nel porto di Marsiglia. Nel retroscena sulla Stampa, Lombardo e Grignetti scrivono che in questo modo, grazie alla collaborazione diretta con Parigi, Giorgia Meloni è riuscita ad aggirare la forzatura prodotta da Matteo Salvini e che avrebbe portato il governo ad uno scontro inedito con la Ue. Scontro che è stato evitato. Anche grazie al colloquio diretto tra Meloni e Macron, che ha cambiato la partita in corso.

A proposito di Europa, Tonia Mastrobuoni su Repubblica spiega quanto l’asse Italia-Francia oggi sia indispensabile visto che ormai si profila uno scontro duro sul Patto di stabilità: Germania e Olanda attaccano il piano di Paolo Gentiloni. La partita è ormai concertano su questo tema, mentre l’emergenza gas e i finanziamenti comunitari all’Ucraina slittano nel tempo e nelle priorità. Ieri Meloni ha fatto anche il punto sull’attuazione del Pnrr, alla prima riunione della cabina di regia: incassata la terza tranche di 21 miliardi, ci restano gli ultimi due mesi dell’anno, i più difficili, ci sono 55 progetti da varare e si è accumulato un forte ritardo, responsabilità anche del governo Draghi.     

Dal fronte bellico trapela la testimonianza attraverso una lettera (autentica?) dei combattenti di un battaglione russo mandato al massacro in Ucraina. Vera o falsa che sia, è indubbio che anche il ministro della Difesa russo, il tuvano Sergej Shoigu abbia proseguito nella strategia di ammassare le truppe della “mobilitazione generale”, puntando sulla quantità più che sulla qualità dell’intervento militare.  

La politica italiana, governo e migranti a parte, è concentrata sulle decisioni che il centro sinistra deve prendere in vista delle elezioni regionali: Giuseppe Conte rompe ufficialmente col Pd nel Lazio, mentre in Lombardia la sinistra è agitata dalla candidatura di Letizia Moratti. Per tutti la vice presidente uscente ed ex ministra avrebbe chance di vittoria, ma al segretario del Pd Enrico Letta non piace. Da parte sua Carlo Cottarelli si è sfilato dalla corsa, pur auspicando un’alleanza fra dem e Terzo polo. Giuliano Ferrara sul Foglio analizza la situazione e accusa i dirigenti della sinistra di non saper vincere alle elezioni.

Eccezionale ritrovamento di statue di bronzo di 2300 anni fa a san Casciano dei Bagni, in provincia di Siena. Opere etrusche e romane, conservate dal fango e solo ora tornate alla luce. Euforico il nuovo ministro dei beni culturali Gennaro Sangiuliano, che inneggia alle bellezze italiane.

È arrivato un nuovo episodio, il sesto, della serie podcast Maestre e maestri d’Italia, ideata da Riccardo Bonacina e da me realizzata con Chora media per Vita.it, grazie al sostegno della fondazione Cariplo. Si intitola LA SCUOLA DI STRADA A NAPOLI ed è il racconto della scuola paritaria chiamata “Dalla parte dei bambini” organizzata e diretta da Rachele Furfaro. 320 allievi animano le classi di asilo nido, scuola d’infanzia e scuola elementare all’interno della Foqus, Fondazione quartieri spagnoli, in una delle zone più fragili di Napoli. Racconta Furfaro: «I nostri allievi sono quasi tutti provenienti dai bassi. Però avevamo una certezza: non potevamo creare un altro ghetto qui dentro. È stato questo il motivo per cui ci siamo rivolti e ci siamo avvalsi delle competenze insieme alle nostre scuole che da sempre collaborano con il gruppo di Reggio Children, abbiamo accompagnato queste ragazze formandole ad utilizzare un progetto educativo di altissima qualità. Perché? Perché l'altro elemento su cui volevamo fare leva, era creare una contaminazione sociale, quindi fare in modo che il nido non fosse frequentato solo dai bambini che provenivano da questo quartiere fragile, ma anche da bambini che provenissero da tutta Napoli. E questa, insomma, è stata una buona intuizione». Nell’episodio interviene poi Marco Rossi Doria, primo maestro di strada nella città partenopea e anche lui abitante dei quartieri spagnoli. Per questo episodio cercate questa cover del podcast…

Trovate Maestre e maestri d’Italia su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate qui sul link di Spreaker per ascoltare il sesto episodio. Da far girare anche in whatsapp!

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae la notte elettorale americana vissuta a Mundelein in Illinois. I democratici hanno conquistato la maggioranza al Congresso. Ancora in bilico quella al Senato.

Foto Todd Heisler per il New York Times

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Avvenire oggi fa un titolo stile Manifesto: Tutti giù per terra. Per dire quello che il Corriere della Sera riporta in modo anglosassone: Migranti, sbarcano tutti. Il Manifesto, quello vero, punta invece sui francesi che aprono Marsiglia alla Ocean Viking: Porto franco. Per La Repubblica Meloni è stata costretta da Bruxelles: La Ue piega il governo. Per Il Giornale è una soluzione all’italiana: Sbarcano tutti in Italia con il certificato medico. Il Quotidiano Nazionale spiega: Italia e Francia si dividono i migranti. La Stampa è sulla linea della sconfitta del governo: Migranti, Meloni si arrende. Mentre Libero si abbandona alla propaganda: Aereo, bus, barcone: I tour operator libici. Il Mattino è concentrato sulla decima vittoria consecutiva del Napoli calcio in serie A: Troppo bello. Il Messaggero pensa alla previdenza: Pensioni, quota 41 per un anno. Il Sole 24 Ore rilancia un appello del presidente di Confindustria: Bonomi, piano decennale per il Sud. La Verità racconta: L’Inps blocca le pensioni a Repubblica. Il Domani denuncia: Il sottosegretario voleva premiare gli agenti del pestaggio in carcere. Mentre Il Fatto sottolinea lo splendido isolamento dei grillozzi: Commissioni e Lazio: Pd con Calenda e Renzi.

MIGRANTI, SCENDONO TUTTI DALLE NAVI

Catania, dalle due navi scendono tutti i migranti mentre la Ocean Viking va a Marsiglia. L'ok arriva dopo l'ispezione medica sulle condizioni dei naufraghi. La Francia dice no a sbarchi selettivi. Marta Serafini per il Corriere della Sera.

«Salvataggio completato, sono tutti a terra». Dopo una giornata di attesa, è ormai buio quando un urlo di gioia si alza dal porto di Catania, «My life is back, my life is back, ho riavuto la mia vita, ora chiamerò mia madre per dirglielo non la sento da 9 mesi», grida Abir, 22 anni, del Bangladesh, mentre scende dalla scaletta della Geo Barents. Al polso, come tutti gli altri 212, ha un braccialetto giallo con segnato scritto in pennarello un numero. I pullman che porteranno i migranti nei centri di prima accoglienza si avvicinano anche alla Humanity 1 sul molo di Levante. Arriva il via libera anche per i 35 che erano rimasti su. «Ci siamo, ci siamo» dice con la voce incrinata per l'emozione Petra Krischok, la portavoce della Ong Sos Humanity. La giornata inizia presto, con la notizia che alla Rise Above della Ong tedesca Mission Lifeline ha attraccato a Reggio Calabria. Primo colpo di scena. Scendono tutti gli 89, in un unico momento. Niente decreto con l'ordine di sbarcare solo i più fragili per l'imbarcazione battente bandiera tedesca. «Il governo italiano dice che abbiamo chiesto lo stato di emergenza e per questo ci ha fatto attraccare ma non abbiamo mai fatto una richiesta simile», spiega Hermine Poschmann, portavoce della Ong. La spiegazione allora è che la Rise Above è stata «graziata» perché l'evento Sar - ossia il soccorso - è avvenuto sotto coordinamento delle autorità italiane. E la nave se ne riparte vuota. Niente sequestro e niente multa. Aspetta intanto Catania mentre al molo la tensione sale. Da Geo Barents, la nave di Medici Senza Frontiere, arrivata in porto domenica con 572 persone a bordo, e che ieri contava a bordo ancora oltre 212 migranti, viene evacuato un 14enne del Bangladesh. «Non aveva spiegato di essere minorenne, o forse nessuno gliel'ha chiesto», commenta il senatore del Pd Antonio Nicita. «L'hanno portato via perché abbiamo denunciato il fatto», gli fa eco il coportavoce di Europa verde e deputato di Alleanza Verdi di Sinistra, Angelo Bonelli. Poco dopo sarà la volta di Ahmed, siriano: ha 39 di febbre, dopo essersi tuffato in mare assieme ad un connazionale e aver trascorso, in segno di protesta, la notte sul molo. Poi, colpo di scena. Sulla Geo Barents, raggiunta dal decreto che le impone lo sbarco solo per minori e soggetti fragili, tornano gli ispettori sanitari Usmaf (Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera) accompagnati dai medici dell'Asp etnea, questa volta. Devono valutare soprattutto le condizioni psicologiche dei naufraghi e il rischio di malattie infettive. Una nuova ispezione ordinata dopo le accuse arrivate da più parti di una selezione affrettata dei casi più vulnerabili. Ci metteranno almeno otto ore, prima di salire a bordo e dare il via libera anche alla Humanity 1, pure lei ferma sul molo di Levante e anche lei raggiunta dal decreto e dall'ordine di lasciare il porto una volta finite le operazioni di sbarco dei soggetti più deboli. Nel tardo pomeriggio un altro colpo di scena arriva da Parigi: Ocean Viking, l'ultima nave rimasta al largo sul limitare delle acque territoriali italiane con a bordo 234 persone, potrà sbarcare a Marsiglia. «In Francia non ci saranno sbarchi selettivi. Li facciamo scendere tutti». È la volta di Alessandro Porro, presidente di Sos Mediterranee, mentre la nave della Ong fa rotta verso la Corsica prima e poi verso Marsiglia dove arriverà probabilmente dopo altri due giorni di navigazione, spiegare il perché di questa scelta: «Abbiamo deciso di chiedere un porto alla Francia perché l'Italia non è più un place of safety (un posto sicuro, ndr ), lo sbarco selettivo è contrario a ogni norma di diritto internazionale. L'Italia si sta comportando come uno Stato canaglia». Cala la notte. Un gruppo di attivisti si raccoglie all'ingresso della banchina. «La nostra città dà il benvenuto a questi sopravvissuti», dicono. In pochi giorni sulle coste della Sicilia sono sbarcati in più di mille».

PER MELONI PREMIATA LA LINEA DURA

Il governo accusa il colpo ma rivendica la soluzione della crisi, cantando vittoria: “Parigi ha collaborato,. quindi la linea dura paga”. La premier torna ad assicurare: “I cittadini ci hanno chiesto di difendere i confini e non li tradiremo”. Il retroscena su Repubblica è di Tommaso Ciriaco e Alessandra Ziniti.

«Alla fine, come sempre è stato, tranne i 230 che verranno accolti Oltralpe per il "buon cuore" della Francia, sono scesi tutti in Italia. Perché, che il governo voglia o meno, le persone soccorse nel Mediterraneo da qualsiasi nave non possono essere tenute all'infinito in mare, non possono essere respinte e - come ha ribadito ieri la Ue - hanno diritto a sbarcare e a chiedere asilo nel porto sicuro più vicino. Due settimane di pugno duro del governo Meloni contro le Ong hanno partorito un pasticcio normativo (su cui si pronunceranno nelle prossime ore i giudici del Tar del Lazio e quelli del tribunale civile di Catania), un richiamo all'Italia da parte dell'Europa sul rispetto degli obblighi di legge, un'alzata di scudi delle agenzie dell'Onu, delle associazioni umanitarie, della Chiesa oltre che un inutile allungamento delle sofferenze di 1.000 migranti. Ma il governo Meloni tiene il punto, considera una vittoria della linea dura l'offerta del porto da parte della Francia (anche se accompagnata da un duro atto d'accusa contro l'Italia). Palazzo Chigi esprime «sentito apprezzamento » per la scelta dell'Eliseo, un gancio per ribadire la necessità di «una soluzione condivisa e comune» in Ue, perché l'emergenza finora è rimasta «sulle spalle dell'Italia e pochi altri». Di più. «I cittadini ci hanno chiesto di difendere i confini italiani e questo governo non tradirà la parola data - promette Giorgia Meloni sui social - Negli ultimi anni abbiamo assistito a una gestione inadeguata, con grandi disagi». Nessuna de-escalation , dunque, sul dossier immigrazione. Per Giorgia Meloni, l'Italia potrà dirsi soddisfatta soltanto se e quando avrà ottenuto un meccanismo di condivisione obbligatoria dei migranti tra Stati membri. Roma non permetterà a nuove navi Ong di attraccare nel Paese. L'Italia, è il messaggio, non è il porto del mondo. L'esecutivo continua a considerare lo sbarco selettivo un'opzione ragionevole anche per il futuro. E tutto questo perché la premier registra la mossa francese di aprire il porto di Marsiglia - sia pure autonoma e non concordata - e ritiene di aver portato a casa una prima vittoria. Un risultato possibile solo grazie alla linea dura. Eppure, la partita è assai più complessa. E i ragionamenti di queste ore assomigliano pericolosamente a quelli che portarono Matteo Salvini a tirare la corda, fino a spezzarla. I continui strappi decisi dal ministro dell'Interno Matteo Piantedosi - dietro la regia di Palazzo Chigi - hanno e avranno un prezzo. Di certo non avvicinano un successo nella battaglia per un sistema che obblighi i Ventisette ad accogliere una quota di migranti. Quando la settimana scorsa Meloni ha sollevato il problema con Ursula von der Leyen, durante la missione a Bruxelles, ha ricevuto un secco no. Che suonava più o meno così: «Milioni di ucraini attendono in Polonia, davvero volete aprire questo capitolo? ». Neanche Emmanuel Macron, a margine della Cop 27 di Sharm El-Sheikh, si è mostrato sensibile: un conto sono gesti solidali da parte dei partner, altro una soluzione strutturale che possa essere accettata anche dai Paesi del Nord Europa. E così, la scelta di Parigi di aprire il porto di Marsiglia ha il sapore agrodolce che accompagna questa battaglia. Perché certo, la destra di governo può sostenere che qualcosa si è mosso, che la pressione produce risultati, che anche il Quirinale e addirittura il Pontefice hanno reclamato una maggiore solidarietà europea. Ma poi c'è da decidere sulla carne viva dei migranti: come si comporterà il Viminale con la prossima nave di una Ong? Il rischio è perpetuare lo schema dello sbarco selettivo che fa inorridire Bruxelles. Piantedosi sembra voler tirare dritto proprio considerando l'offerta del porto di Marsiglia «un passo significativo verso il nostro obiettivo di un sistema europeo strutturato: adesso - dice - dovremo verificare che si prosegua su questa strada». Nessun segno di ripensamento, nonostante le contestazioni. «Ci sono ricorsi in atto, si deciderà nelle sedi competenti. L'Italia rispetta le regole », rivendica il ministro. Non abbozza neanche davanti alle critiche per lo sbarco selettivo. «Se vi volete fermare all'esegesi di espressioni burocratiche, fate pure ma non accettiamo lezioni sul rispetto dei diritti». Le prossime mosse del governo saranno naturalmente condizionate dal verdetto dei giudici del Tar ma è facile prevedere che, così come accaduto anche con il precedente governo, rigorose ispezioni della Capitaneria di porto di Catania dopo lo sbarco di tutti i migranti potrebbero portare ad un lungo fermo amministrativo per la Humanity 1 e la Geo Barents, decimando la flotta umanitaria (già priva da mesi della Sea Watch 3 bloccata a Reggio Calabria) e lasciando sguarnito il Mediterraneo dove al momento non c'è più nessuna nave Ong».

SOLO UNO SU 10 ARRIVA CON LE ONG

Stefano Vergine per Il Fatto fa però notare, dati alla mano, che solo un migrante su 10 arriva in Italia con le navi delle Ong, contro le quali si concentra il governo.

«"Un primo significativo passo per tornare a difendere confini e frontiere del nostro Paese". "Fermare le partenze illegali spezzando il traffico di esseri umani nel Mediterraneo". "Difendere l'Italia non è un reato bensì un dovere". Con questi toni, vari esponenti del governo hanno commentato in questi giorni la prima iniziativa adottata dall'esecutivo in tema di migrazione: non far sbarcare nei porti le persone salvate in mare dalle ong. Ma sul totale degli arrivi via mare, sono molto pochi i migranti che giungono grazie all'aiuto delle organizzazioni non governative. Dunque, bloccare le ong potrebbe rivelarsi una mossa tanto utile per la propaganda di governo quanto inutile per ridurre in modo rilevante il numero degli sbarchi. I dati pubblicati sul sito del Viminale raccontano che dall'inizio del 2022 all'8 novembre sono giunti in Italia via mare 88.670 migranti. Quanti di questi sono arrivati grazie all'aiuto delle ong? I numeri pubblicati dall'Ispi - Istituto per gli studi di politica internazionale, finanziato da diversi enti pubblici e società controllate dallo Stato italiano - permettono di calcolare che, grazie alle organizzazioni non governative, ne sono sbarcati dall'inizio dell'anno 9.486. In percentuale, solo il 10,7% degli arrivi via mare è da attribuire quest' anno alle ong, mentre tutti gli altri sono giunti o da soli autonomamente, oppure sono stati soccorsi da Guardia di finanza, Guardia costiera, pescherecci o mercantili. Seppur con qualche differenza, la tendenza è la stessa registrata degli anni scorsi. Nel 2021, su oltre 67 mila persone sbarcate, sono state 10 mila quelle giunte con le ong. Nel 2020, su 34 mila sbarchi quelli appannaggio delle organizzazioni non governative sono stati 3.400. "Proprio perché i migranti soccorsi dalle ong sono una piccola parte del tutto - ha scritto Matteo Villa, responsabile del Datalab di Ispi - ottenerne il ricollocamento non contribuisce a sollevare pressione dall'Italia. Ci abbiamo provato nel 2018-2019. Risultato: 6% ricollocati, 94% rimasti in Italia". In altre parole, se anche l'Italia riuscisse a ottenere dalle altre nazioni dell'Unione europea il ricollocamento dei richiedenti asilo giunti su navi di ong battenti bandiere straniere (come è il caso di quelle che attualmente stanno ancora aspettando l'ok dall'Italia per sbarcare), il numero di migranti in arrivo sul territorio italiano non cambierebbe di molto. Di sicuro c'è poi un fatto: le persone che continuano a morire cercando di raggiungere l'Europa via mare. Secondo l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dall'inizio di quest' anno sono 1.762 i migranti scomparsi nel Mediterraneo, di cui 1.295 nel Mediterraneo centrale, la rotta migratoria più pericolosa del mondo, proprio quella che porta in Italia. Nel frattempo, ieri, Caritas e Fondazione Migrantes hanno pubblicato i dati sugli italiani che emigrano ogni anno, con un risultato paradossale per chi crede che sia in corso una "invasione" di stranieri. Gli italiani all'estero superano infatti di gran lunga gli stranieri residenti in Italia. Il rapporto di Caritas e Migrantes dice che da noi l'8,8% dei cittadini regolarmente residenti ha cittadinanza straniera, pari a 5,2 milioni di persone. Di contro, gli italiani che risiedono all'estero sono 5,8 milioni, cioè il 9,8% della popolazione. Come noto, a partire sono soprattutto i giovani: oltre 2 milioni gli espatriati under 35, soprattutto da Lombardia e Veneto. Il rapporto spiega che quella italiana è una popolazione che spesso parte spinta dalla disoccupazione. E non ritorna. Dal 2006 la presenza di italiani all'estero è infatti quasi raddoppiata, passando da 3,1 milioni a oltre 5,8 milioni. Intanto la Penisola ha perso nell'ultimo anno lo 0,5% di popolazione residente, l'1,1 % se la differenza si calcola a partire dal 2020. "Il nostro Paese, che ha una lunga storia di emigrazione, deve aprire una adeguata riflessione sulle cause di questo fenomeno e sulle possibili opportunità che la Repubblica ha il compito di offrire ai cittadini che intendono rimanere a vivere o desiderano tornare in Italia", ha detto il presidente Sergio Mattarella, in un messaggio inviato alla Fondazione Migra».

MA LA DIFESA DEL SACRO SUOLO È UNA FINZIONE

Commento polemico di Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa: quella dai migranti non è la difesa di un sacro suolo minacciato dall’invasore straniero.

«Presentare come un atto di umanità quello che è solo un atto di rassegnazione al diritto, alla legge, alla giustizia, è solo l'ultima delle mistificazioni operate dal governo in queste ore di buio e vergogna. I profughi salvati nel Mediterraneo non sono una minaccia per il nostro Paese. Un nemico davanti al quale è necessario "difendere i confini", come recita l'ultimo post della presidente del Consiglio. Lo spietato spettacolo messo in scena negli ultimi giorni, con medici saliti sulle navi a ispezionare i corpi dei naufraghi decidendo chi salvare e chi no, chi è davvero fragile e chi non merita speranza, non si è concluso perché - a bordo - erano tutti fragili. Ma perché non si può fare: viola le convenzioni internazionali, la legge del mare, la Costituzione. Viola i più elementari principi di umanità. Come sia stato possibile è una domanda che ci tormenterà a lungo. Visto che in quelle ispezioni non ci si è accorti che a bordo della Geo Barents c'era un'epidemia di scabbia, o che uno dei respinti era un minore: ha provato a dirlo, lui, ma non c'erano mediatori culturali, non lo capivano, l'hanno lasciato a bordo una notte ancora. Sappiamo già quel che accadrà adesso perché è quel che abbiamo visto con Matteo Salvini al Viminale: l'attuale ministro dell'Interno era il suo capo di gabinetto. Ora sembra la sua controfigura. Il governo dirà che la sua prova di forza è servita a far capire all'Europa che deve aiutarci: "Vedete, l'Ocean Viking è andata in Francia, abbiamo vinto!". Poi dirà: "Abbiamo dimostrato al mondo che l'Italia non è un colabrodo, vedrete come diminuiranno le partenze". O ancora: "Adesso le Ong la smetteranno di fare i taxi tra l'Africa e il nostro Paese". Spoiler: nessuna di queste affermazioni è vera. Non si fermano migrazioni epocali con un insensato atto di forza di tre giorni. Non si costringe l'Europa a dimostrarsi più solidale con una violazione palese delle sue leggi. Le Ong non smetteranno di salvare vite in mare perché non sono taxi, si sono semplicemente assunte un compito che l'Europa ha deciso di non svolgere. Salvare più persone possibili in un Mediterraneo che è diventato il cimitero di troppe vite spezzate e della nostra coscienza. La creazione di un'emergenza che non c'è è funzionale alla difficoltà di affrontare quelle che ci sono: le bollette del gas, il caro-vita, il lavoro. Prima i rave, ora i migranti: la faccia feroce serve a nascondere i passi incerti del governo davanti a una manovra di Bilancio tutta da costruire, perché le promesse in campagna elettorale sono state tante e non disattenderle è una missione praticamente impossibile. Ma forzare le regole giocando con la vita dei naufraghi non si può, a patto di non voler essere indagati per sequestro di persona com' è accaduto proprio a Salvini, ancora sotto processo a Palermo per aver impedito lo sbarco di 147 migranti dalla Open Arms nel 2019. In più, non serve che alla propaganda. I numeri dimostrano come la situazione sia tutt' altro che fuori controllo, se si vogliono applicare politiche serie di redistribuzione e di integrazione. Dall'inizio del 2022 sono sbarcati 88670 migranti. Dallo scoppio della guerra in Ucraina, il nostro Paese ha accolto senza problemi 171mila profughi. C'è però la questione europea che non va elusa. Quella Francia che fa sapere di aprire il porto di Marsiglia alla Ocean Viking senza avere intenzione di operare sbarchi selettivi, è la stessa Francia che respinge senza pietà i migranti che camminano scalzi nella neve a Ventimiglia. La redistribuzione "su base volontaria" dei Paesi Ue è un principio che non può funzionare. La riforma del regolamento di Dublino - quello che decide che è il primo Paese di sbarco a doversi far carico della richiesta d'asilo - è urgente perché un fenomeno epocale va affrontato con un doveroso principio di solidarietà. Solo che Meloni e Salvini - forse in disaccordo, sulla decisione di non forzare ancora con i salvataggi selettivi - fingono in ogni loro discorso pubblico di non sapere che a frenare quelle modifiche alle regole europee che aiuterebbero Italia, Grecia, Malta, Cipro, sono i loro compagni di strada: i sovranisti del blocco di Visegrad. L'amico Orban che non ha mancato di complimentarsi con la premier italiana non appena ha visto le navi ferme nei porti, l'equivalente del suo muro, ma che a parte gioire davanti alla disperazione di chi non ha niente non ha alcuna intenzione di aiutare Giorgia e Matteo. Quando si tratta di fare un post di propaganda, è tutto semplice. Quel che i sovranisti non sanno e non vogliono fare, a tutte le latitudini, è risolvere davvero i problemi. Non tanto per quel che costerebbe loro, quanto perché alimentare le false emergenze è alla base del loro consenso».

MELONI CON MACRON AGGIRA SALVINI

Niente scontro con la Ue sui migranti. Francesco Grignetti e Ilario Lombardo, sempre sulla Stampa, propongono una lettura diversa: grazie al rapporto con Macron, Meloni ha evitato l’angolo in cui la metteva Salvini.

«Serve un doppio colpo di scena per sbloccare la crisi dei migranti di Catania. Da una parte c'è la Francia che apre i porti a una nave umanitaria, la "Ocean Viking", gestita da una Ong transalpina, la Sos Méditerranée. C'era stato un colloquio tra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron, lunedì sera, che ha cambiato la partita in corso. Dall'altra, con l'escamotage di mandare nuovamente i medici a bordo delle due navi, i migranti che erano ristretti sulla "Humanity 1" e sulla "Geo Barents" diventano improvvisamente tutti «fragili» e quindi tutti meritevoli di sbarco. Il braccio di ferro con l'Europa finisce qui, un passo prima dello scontro. Il governo può sentirsi soddisfatto: la mossa di Parigi ha rotto un fronte diplomatico che pareva inossidabile. E puntualmente arriva in serata una nota ufficiale all'insegna della gratitudine: «Esprimiamo il nostro sentito apprezzamento per la decisione della Francia di condividere la responsabilità dell'emergenza migratoria, fino ad oggi rimasta sulle spalle dell'Italia e di pochi altri stati del Mediterraneo». E' importante - annota palazzo Chigi - proseguire in questa linea di collaborazione europea con gli Stati più esposti per la loro collocazione geografica «così da trovare una soluzione condivisa e comune, per fermare la tratta degli esseri umani e gestire in modo legale ed equilibrato il fenomeno migratorio che ha assunto dimensioni epocali. L'emergenza immigrazione è un tema europeo e come tale deve essere affrontato, nel pieno rispetto dei diritti umani e del principio di legalità». Ma siccome la contromossa di rinunciare alla fermezza va spiegata agli italiani, innanzitutto a quelli con il cuore che batte a destra, Giorgia Meloni si precipita ad annunciare: «Il nostro obiettivo è difendere la legalità, la sicurezza e la dignità di ogni persona. Per questo vogliamo mettere un freno all'immigrazione clandestina. I cittadini ci hanno chiesto di difendere i confini italiani e questo Governo non tradirà la parola data». E che parlasse soprattutto ai suoi elettori, è chiaro da questo passaggio: «In tema di sicurezza e contrasto all'immigrazione illegale, gli italiani si sono espressi alle urne, scegliendo il nostro programma e la nostra visione». Un conto, però, è difendere la posizione politica pubblicamente su Facebook; altro è trattare per una soluzione che non trascini l'Italia in un conflitto con l'Europa nel pieno dei negoziati economici. Giorgia Meloni così si è attivata personalmente per evitare forzature con Bruxelles e allo stesso tempo di farsi cannibalizzare dalla dottrina Salvini, che prevede di lasciare i migranti in mare sine die, fino a quando qualche Paese se ne fa carico o arriva la magistratura a notificare le indagini per sequestro di persona. L'Europa per tre giorni di fila aveva richiamato l'Italia alle sue responsabilità sui salvataggi in mare. Richiami che sono suonati come un campanello d'allarme per Meloni, impegnata ad accreditarsi tra le istituzioni e le cancellerie europee.
La svolta, secondo fonti del ministero dell'Interno francese, è avvenuta a Sharm el-Sheik, dove la premier ha avuto un breve colloquio con il presidente francese. Il confronto ha sbloccato lo stallo e, ventiquattr' ore dopo, l'imbarcazione con 243 migranti a bordo si è diretta a Marsiglia, Francia. È stata la seconda volta in pochi giorni che il governo Macron ha mostrato disponibilità verso l'Italia e la sua battaglia per rendere più condivisa la gestione dei migranti a livello europeo. In cambio, Meloni ha scelto un profilo basso, come aveva fatto anche domenica, preferendo restare in silenzio, mentre cresceva la polemica sull'orribile espressione del «carico residuale» di migranti oggetto di selezione. È vero, su Facebook la presidente del Consiglio è tornata a rivendicare le proprie idee sui profughi. Ma lo ha fatto mentre, dall'altra parte - lo confermano fonti dell'esecutivo - chiedeva al ministro Piantedosi una via d'uscita che non rendesse gli sbarchi selettivi un caso in Europa. Una scelta che Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture, ma con il cuore sempre al Viminale, non avrebbe apprezzato. Tanto che il segretario del Carroccio preferisce ignorare quanto avviene a Catania e invece di esultare per lo sblocco di Parigi twitta: «Bene così. L'aria è cambiata». Il leghista, come fece nel 2019, avrebbe volentieri continuato le trattative sulla pelle dei migranti in mare. Meloni la pragmatica, invece, ha bisogno di Bruxelles e degli alleati, a partire dalla Francia, fondamentale per i negoziati su Patto di stabilità e tetto al prezzo del gas. Un'escalation per un numero di profughi che davvero non può far gridare all'invasione sarebbe stata controproducente, secondo la premier. Anche a costo di scontentare, come è puntualmente avvenuto, Salvini. La svolta di Parigi è accolta da Matteo Piantedosi con distacco olimpico. Adesso è soddisfatto? «No - risponde a La Stampa - . Nel senso che non ho motivi né di essere soddisfatto né insoddisfatto. Quello che mi premeva è affermare il principio giuridico che abbiamo sollevato in Europa». Cioè la responsabilità dei Paesi per le Ong. Sotto questo profilo, domani è davvero un altro giorno».

ELEZIONI USA, LE CONSEGUENZE DEL TRUMPISMO

I giornali non potevano ancora avere, stamane, i risultati delle elezioni Usa. Ma la presa del Congresso da parte dei repubblicani era ampiamente prevista. Con il voto di midterm c’è un rischio di cambiamento nell'agenda politica americana. Le elezioni, con la vittoria dell'opposizione, aprono una fase di tensioni. I repubblicani hanno già detto che non firmeranno assegni in bianco a Kiev. Marco Valsania per il Sole 24 Ore.

«Ai repubblicani ieri non era ancora dato sapere con precisione l'esito delle elezioni di Midterm, con i risultati in arrivo a cominciare dalla notte e possibili ritardi e riconteggi. Ma, con la scommessa su un successo al Congresso, il partito d'opposizione ha articolato un'agenda di economia e di politica estera pronta ai blocchi di partenza e che promette una stagione di grandi tensioni con la Casa Bianca di Joe Biden. Sul fronte interno, ha delineato spinte a deregulation e controlli nella spesa con al centro l'energia, la produzione domestica di petrolio e gas, in risposta al caro-carburante e all'allarme inflazione. Su quello internazionale ha sposato maggior cautela negli aiuti rivolti all'Ucraina contro l'invasione della Russia. Svolte, in realtà, non sono automatiche. Se a spoglio ultimato, che potrebbe anche richiedere tempo, i repubblicani non avranno conquistato entrambe le camere e comunque supermaggioranze, ostruzionismi e veti presidenziali resteranno in gioco a dividere Washington. Se questo potrebbe incoraggiare alcuni compromessi, sicuramente assicurerà frizioni e spettri di paralisi. Sull'Ucraina il leader conservatore alla Camera Kevin McCarthy ha messo in dubbio quelli che ha definito nuovi "assegni in bianco" a Kiev mentre gli americani affrontano i rigori di una probabile recessione, minacciando di indebolire la mano della Casa Bianca. Ad oggi gli Usa hanno stanziato 60 miliardi e potrebbero varare un ulteriore pacchetto entro fine anno, sotto il Parlamento uscente. Altri possibili affondi in politica estera riguardano una commissione d'indagine sul ritiro di Biden dall'Afghanistan, denunciato come fallimentare dai repubblicani. La politica interna riserva numerosi attacchi conservatori: da un abbandono delle indagini sull'assalto al Congresso del 6 gennaio 2001 ad audizioni sulle inchieste su Donald Trump. Nelle crociate sociali e culturali si contano proposte di legge federale per restrizioni sull'aborto e per vietare atleti trans in sport femminili. Lotta al crimine e all'immigrazione sono in lizza per ricevere più risorse dai piani conservatori. Neppure il Big business, che con i repubblicani ha in comune sforzi contro regole e tassazioni ritenute eccessive, sarà risparmiato. Freddezza tra repubblicani e grandi aziende è emersa su questioni quali protezione del diritto di voto, delle donne e della comunità gay. Marchi tech potrebbero a loro volta invitare nuovo scrutinio da parte dei repubblicani, che li accusano di discriminare ai danni dei conservatori nonostante il sostegno ai repubblicani adesso conferito dal nuovo proprietario di Twitter Elon Musk, che ha invitato a eleggere candidati del partito. È tuttavia la strategia energetica, quando si tratta di priorità domestiche ed economiche, a fare la parte del leone. La "dottrina" repubblicana prescrive approvazione accelerata e regolamentazioni all'osso per i progetti legati a fonti fossili, con l'obiettivo di accrescere l'indipendenza statunitense nel settore e contenere l'influenza della Russia come della Cina. I democratici avevano già messo in cantiere aperture quando si tratta di estrazione e costruzione di infrastrutture energetiche, ma i conservatori li stigmatizzano come inadeguati. Puntano a ridimensionare drasticamente ogni genere di analisi e considerazione sull'impatto ambientale dei progetti. Nelle carte è una revisione dell'intera legislazione che dal 1970 regola simili iniziative, il National Environmental Policy Act. Paradossalmente una mossa approntata mentre in Egitto è in corso l'allarmata conferenza dell'Onu sul cambiamento climatico. Un occhio di riguardo, i repubblicani, lo avranno per la nascita di nuovi oleodotti e di terminali per l'export di gas naturale. Autorizzazioni facilitate, nel segno della deregolamentazione, saranno ideate anche per attività minerarie legate a materiali considerati essenziali per le nuove frontiere d'avanguardia, quali i veicoli elettrici, e per l'uranio necessario a centrali nucleari. L'insieme della spesa pubblica è un altro capitolo nel mirino conservatore. Tra le iniziative c'è una stretta supervisione e indagini di ogni voce dei progetti varati da Biden per la transizione energetica e la lotta al cambiamento climatico, raccolti nella legislazione Inflation Reduction Act che stanzia quasi 400 miliardi e si propone di abbattere le emissioni di gas da affetto serra del 40% (rispetto al 2005) entro il 2030. Tappa sulla strada di un Paese a emissioni nette zero entro metà secolo. Difficilmente però i repubblicani, anche con maggior potere, interverranno contro misure innovative e pro-business in quella stessa riforma, quali i crediti d'imposta per l'energia rinnovabile. E continua attenzione dovrebbe essere riservata alle catene di approvvigionamenti per tecnologie di importanza critica per il futuro quali le batterie».  

PER MELONI È MEGLIO BIDEN?

Stefano Folli su Repubblica avanza una considerazione quasi paradossale: a Giorgia Meloni non gioverebbe la vittoria dei repubblicani americani.

«I repubblicani americani sperano di svegliarsi stamane a cavallo di una red wave, un'onda rossa come il colore del partito. Qualcuno ieri prevedeva addirittura un red tsunami , travolgente e apocalittico. Colpi di scena a parte, tutti si aspettano un'America un po' più "trumpiana" e un'amministrazione democratica più fragile. Ma quali possono essere le conseguenze in Italia, rispetto al governo di destra-centro appena insediato? I seguaci di Giorgia Meloni da qualche giorno si compiacciono di certe voci che rimbalzano dagli Usa, secondo cui la giovane premier italiana sarebbe diventata addirittura "il modello" della destra d'oltre oceano. Sembrano non rendersi conto che questa frase, ammesso che sia autentica e sincera, non contiene una lusinga bensì una trappola. E si capisce perché. È vero che il primo e forse unico sostegno internazionale al nuovo governo di Roma è venuto da Washington. È un sostegno legato alla politica di difesa nell'ambito della Nato e sullo sfondo della guerra in Ucraina. Biden e i suoi hanno avuto all'inizio qualche difficoltà ad accettare un governo di Fratelli d'Italia, ma poi i dubbi hanno lasciato il passo alle ragioni pragmatiche, grazie al forte appoggio che Giorgia Meloni offre alle politiche atlantiche nello scontro con Putin. Anzi, per la sensibilità americana esiste una specie di simmetria tra la Polonia a Est e l'Italia a Ovest: due nazioni, si può dire, prossime più agli Stati Uniti che all'Europa. Peraltro la leader di FdI non ha mai nascosto di essere più vicina ai repubblicani che ai democratici fin da quando era una politica in ascesa. Ma ora il quadro è cambiato e non è detto che l'antica vicinanza con Trump sia utile a lei e al governo di cui è premier da qualche settimana. Tra i fatti accaduti in tempi recenti c'è l'incredibile assalto a Capitol Hill nel gennaio del 2021. E ci sono oggi i toni sempre più esasperati e intolleranti con cui l'ex presidente prepara l'annuncio della sua nuova candidatura con l'aria di chi va a riprendersi quello che è suo e che gli è stato sottratto con la frode. Inoltre c'è il sospetto di un'intesa sotterranea, o magari solo di una convergenza, fra Trump e Putin su Kiev e altri temi internazionali. Ma soprattutto è noto che i "trumpiani" diffidano dell'Unione europea e potrebbero appoggiarsi agli alleati privilegiati per indebolirla: magari Varsavia e Roma. S' intende che le elezioni di medio termine non equivalgono alle presidenziali, tuttavia cambiano gli equilibri al Congresso e possono mettere Biden in una posizione molto scomoda. Come dire la circostanza in grado di danneggiare il governo italiano nel momento in cui sta definendo la propria linea verso il mondo esterno. Se abbiamo decifrato in modo corretto le prime mosse della presidente del Consiglio, la sua intenzione consiste nel far leva sull'amicizia con gli Stati Uniti per presentarsi in Europa senza iattanza, anzi con la volontà di superare il muro della diffidenza. Per riuscirci - è paradossale ma non troppo - la repubblicana Meloni ha bisogno dei democratici, ossia di coloro che hanno tradizionalmente rapporti migliori con l'Unione. Al punto che la guerra in Ucraina ha consolidato le intese euro-atlantiche come non accadeva da molti anni. Un Trump affamato di rivincite, fuori dalla Casa Bianca ma già in grado di condizionare il Congresso, rischia invece di complicare e forse compromettere il delicato cammino della destra italiana verso l'Europa. Intanto ridarebbe voce a Salvini e a tutti i filo-Putin nostrani. Poi alimenterebbe una retorica destrorsa a cui Fratelli d'Italia e leghisti non sarebbero alla lunga indifferenti. E anche sull'altro versante un vecchio amico di Trump, "Giuseppi" Conte, troverebbe nuovi argomenti per il suo populismo anti-Pd. Per quanto possa sembrare strano, a Meloni conviene lo status quo in Usa».

IL PUNTO SUL PNRR: SIAMO INDIETRO SUI PROGETTI

A proposito di governo, ieri prima riunione di Giorgia Meloni con la cabina di regia sul Pnrr. Il Piano ha difficoltà di attuazione mentre arrivano i 21 miliardi della terza rata. La premier bacchetta Draghi. Alessandro Barbera per La Stampa.

«Fin qui è andato tutto bene. L'Italia ieri ha ricevuto la terza rata del finanziamento del Recovery plan: 21 miliardi di euro. Sommati alle prime due, fanno la bellezza di 67 miliardi, la metà di quanto fin qui erogato complessivamente ai Ventisette. Il difficile viene ora: per non perdere i successivi 20 miliardi, entro fine anno il governo deve raggiungere ben 55 obiettivi. Quello che finisce a dicembre è uno dei semestri più duri dell'intero piano. Ieri Giorgia Meloni ha riunito per la prima volta dal suo insediamento la cabina di regia ereditata da Mario Draghi. Tutte le deleghe sono in mano al ministro degli Affari comunitari Raffaele Fitto, che dovrà guidare anche il comitato politico di attuazione. Di qui in poi l'Italia avrà da affrontare ostacoli a monte e a valle del percorso. A monte ci stanno le riforme, fra cui quella della concorrenza (il cuore di questo semestre) e a valle, ovvero deve dimostrare di essere in grado di spendere i fondi che sta ricevendo. Ieri durante la riunione la Meloni ha sottolineato i numeri dell'ultima nota di aggiornamento dei conti pubblici: dei 33 miliardi complessivamente a disposizione nell'ultimo anno, l'Italia è stata in grado di spenderne solo 21. «Il piano sconta difficoltà», ammette la premier. «L'obiettivo del governo è assicurare la massima integrazione tra le diverse forme di finanziamento aggiuntivo». Detta più chiaramente, è l'atavico problema italiano, la cui burocrazia fatica sempre a intercettare i fondi comunitari. Basti qui ricordare un dato: nel periodo 2014-2020 abbiamo attinto alla metà delle risorse. Il rispetto degli obiettivi del piano per la Meloni è cruciale. Se il governo fallisse, sarebbe messo sotto pressione nella gestione dei conti pubblici e nel negoziato per la riforma del Patto di stabilità. Non è un caso se nei palazzi europei si evoca - con qualche malizia - l'adozione del modello "Recovery" per le nuove regole di bilancio. Gli obiettivi numerici del vecchio Patto lascerebbero il passo a un negoziato continuo con la Commissione. Con un però: in caso di fallimento i ministri del Paese sotto procedura per deficit eccessivo sarebbero costretti a risponderne di fronte al Parlamento di Strasburgo. La chiamano «sanzione reputazionale», una condanna peggiore di qualunque pezzo di carta firmato da un commissario europeo, magari nordico».

PATTO UE, GERMANIA E OLANDA CONTRO GENTILONI

Tonia Mastrobuoni su Repubblica descrive lo scontro in atto in Europa sulla riforma del Patto di stabilità. 

«È un attacco al cuore della proposta Gentiloni per la riforma del Patto di stabilità che sarà presentata oggi a Bruxelles. La Germania e i Paesi Bassi alzano un muro contro l'ipotesi che arriverà dal Commissario agli Affari economici di concedere ampio spazio all'esecutivo comunitario nei negoziati con i singoli Paesi per garantire finanze pubbliche sostenibili. Per la Commissione Ue, un modo per superare le attuali regole su debito e disavanzo, che raramente sono state rispettate negli ultimi decenni, e che nel 2002 vennero violate persino da Francia e Germania. Nelle intenzioni di Bruxelles, il negoziato con i singoli Paesi potrebbe ottenere risultati più realistici. Ma i maggiori poteri attribuiti alla Commissione non piacciono alla Germania, diffidente sugli spazi di flessibilità più ampi già accordati durante la presidenza "politica" di Jean-Claude Juncker. Secondo Berlino, la rivolta non rimarrà limitata a Germania e Paesi Bassi: «Se gli altri cosiddetti "frugali", ossia Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia non si sono pronunciati ancora, è solo per ragioni tattiche». «L'approccio bilaterale» come viene bollato a Berlino, cioè un futuro di trattative dirette tra paesi membri e Bruxelles per definire la traiettoria dei conti e per mandare in soffitta, in parte, le attuali regole sul deficit e debito (3% del disavanzo/ Pil e 60% del debito), non piace affatto. Berlino vuole che si tenga fede almeno al parametro del deficit strutturale (0,5%). Quanto al debito: nel 2023 è previsto che si attivi, appunto, il Fiscal compact che imporrebbe il taglio di 1/20 del debito all'anno. Nel ministero delle Finanze guidato da Christian Lindner ci si rende conto che è un obiettivo «difficile », che metterebbe in enorme difficoltà Paesi come l'Italia o la Grecia, oberati da debiti colossali. Nei primi anni sarebbero costretti a misure draconiane per raggiungere un taglio del ventesimo del debito, oltretutto in un momento di grave crisi energetica e probabile recessione. Berlino accetta di cancellare il principio del taglio del ventesimo del debito, ma insiste che ci debba comunque essere «un obiettivo numerico» e non solo un percorso di discesa di quattro o sette anni concordato tra un Paese e la Commissione Ue. I Paesi Bassi, intanto, sono usciti ufficialmente allo scoperto. In una lettera al parlamento olandese, la ministra delle Finanze Sigrid Kaag ha scritto nei giorni scorsi, a proposito della proposta Gentiloni che sarà presentata oggi, che «devono esistere meccanismi che consentano alla Commissione e ai Paesi membri di intervenire in modo deciso se i Paesi violano le regole del Patto». Il governo Rutte chiede che alla Commissione venga persino affiancato un organismo che vegli sul rispetto dei vincoli sui conti pubblici, lo European Fiscal Board. Quasi un commissariamento. Ma non è tutto: da Berlino e l'Aia arriva una vera bomba, per i negoziati che si trascinano da dieci anni sul completamento dell'Unione bancaria. La Germania e i Paesi Bassi vogliono riesumare la vecchia proposta di non considerare più neutrali i titoli di Stato a bilancio delle banche. Un'offensiva che potrebbe innervosire i mercati, ma che rischia soprattutto di essere l'ennesimo ostacolo insormontabile per arrivare alla creazione del terzo pilastro dell'Unione europea, il deposito comune. In Germania il ministro Lindner, leader della Fdp, si sta irrigidendo su posizioni rigoriste dopo una serie di batoste nelle elezioni regionali. Nelle più recenti, in Bassa Sassonia».

“MANDATI A MORIRE IN UNA BATTAGLIA INSENSATA”

Le notizie dal fronte bellico. Resa nota una lettera di un reparto russo massacrato in Ucraina: “Offensiva insensata, mandati a morire”. I soldati sopravvissuti attaccano i vertici militari di Mosca responsabili della battaglia di Pavlivka. Paolo Brera per Repubblica.

«Erano trecento giovani e sono morti come i garibaldini di Sapri, ma senza l'onore di farlo per una guerra giusta. Uccisi «in quattro giorni» nel fango di Pavlivka, tra commilitoni costretti a marciare calpestando il loro sangue, sotto il tiro preciso degli ucraini appostati come cacciatori sui palazzoni che svettano sulla pianura. Erano russi allo sbaraglio nelle campagne del Donbass insanguinato. Nel mezzo di una battaglia che qualcuno giudica strategica, altri molto meno. In una battaglia che continua anche oggi, ma da oggi è cambiato tutto. Quel che resta di loro è una lettera d'accusa ai generali che li hanno spediti al massacro in «un'offensiva insensata», una lettera firmata dai «marinai della 155esima brigata della flotta del Pacifico» e spedita al governatore di Primorye, Oleg Kozhemyako. Una lettera forse apocrifa, come commenta il governatore ritenendo che possa essere una polpetta avvelenata servitagli dall'intelligence militare ucraina. Certamente anomala, perché spezza il rigore del silenzio imposto dalle gerarchie. Ma efficace e travolgente a prescindere: batte il dente dove duole, e ha costretto l'intera piramide marziale russa a prenderne atto e a reagire. Sono intervenuti i blogger e i propagandisti russi che raccontano la guerra insieme alle forze speciali del Cremlino, dall'allineato WarGonzo al controverso GreyZone , considerato vicino alla Wagner. Per giorni la roboante propaganda pro Mosca aveva annunciato successi quotidiani verso la conquista di Pavlivka. Pareva già caduta, a sentire i filorussi. «È già in parte nostra», aveva detto il 30 ottobre il comandante del battaglione "Vostok" dei separatisti di Donetsk, Alexander Khodakovsky. Anzi, era «sotto controllo» russo, «sono solo in corso le pulizie» aveva assicurato il canale filorusso Spetsnaz Archangel . Da Kiev, invece, i bollettini ripetevano che i russi mandavano reclute al macello per conquistare pochi metri in un bagno di sangue quotidiano. Solita routine di guerra e disinformazione, ma da domenica sono iniziate a piovere sui siti filorussi le prime gocce di sangue. L'esistenza di una lettera di denuncia dei soldati russi al macello ha cominciato a scuotere le gerarchie, un piccolo terremoto che a ogni passaggio aggiungeva dettagli, accuse, nomi. Fino al testo completo: «Caro Oleg Nikolaevich (il governatore di Primorye, Kozhemyako). I Marines della 155esima Brigata si stanno rivolgendo a te». E via bordate: «Ancora una volta siamo stati lanciati in un'offensiva incomprensibile dal generale Muratov e dal suo connazionale Akhmedov », entrambi daghestani, per «ottenere medaglie e onorificenze. Noi e i marines della Kamchatka stiamo avanzando», ma «il risultato dell'offensiva 'accuratamente' pianificata dai 'grandi generali' è che abbiamo perso circa trecento persone in 4 giorni. Uccise, ferite e disperse, e questo solo nella nostra squadra». La lettera accusa «il comando del distretto » e il generale Akhmedov di «nascondere i dati ufficiali delle perdite », mentre «il nemico è lì a distruggerci tagliandoci l'evacuazione dei feriti e le munizioni». Accuse pesanti e precise anche sulla tattica, perché dai palazzi alti di Ugledar gli ucraini hanno gioco facile sui dintorni di Pavlivka. Accuse che gli esperti militari e i soldati nelle chat filorusse confermano, lamentando errori tattici e inferiorità tecnica: «Ho visto morire molti dei nostri », dice un intervento su WarGonzo , «i nostri si ammucchiano» e «quando vengono prelevati sembrano alla stazione del tram». E mentre «la precisione ucraina è impressionante, i nostri colpiscono da +500 a - 750 metri». A caso, insomma. La lettera chiede al governatore di rivolgersi «al Comandante Supremo perché mandi una commissione, ma non del ministero della Difesa in cui si proteggono tra loro: indipendente ». Lui ha incontrato i soldati e gli hanno detto che la lettera «è molto esagerata». La replica della Difesa è perentoria: «Le perdite non superano l'1%, con il 7% di feriti». Magari verrà fuori che la lettera è un fake , una mossa ucraina o una trappola interna: certo volano gli stracci».

LA LINEA DI DIALOGO USA-RUSSIA FUNZIONA

Washington conferma: ci sono contatti costanti fra Usa e Russia, che non rassicurano Zelensky. Intanto Kiev estende la legge marziale. Sabato Angieri per il Manifesto.

«I contatti tra Casa bianca e Cremlino ci sono stati. Lo ha confermato ieri alla Bbc il consigliere per la sicurezza nazionale di Washington, Jake Sullivan. La notizia era apparsa sul Wall Street Journal di lunedì: rivelava che Sullivan negli ultimi mesi ha avuto dei colloqui regolari con dei funzionari molto vicini a Vladimir Putin come Yuri Ushakov, consigliere per la politica estera, e Nikolai Patrushe, segretario del Consiglio di sicurezza russo. Ieri Sullivan ha dichiarato: «È nell'interesse degli Stati uniti mantenere i contatti con la Russia» senza specificare oltre ma sottolineando che si è parlato anche del tentativo di impedire che la guerra si allarghi e della minaccia nucleare. Di certo non una notizia rassicurante per il presidente ucraino Zelensky che ieri ha chiesto al suo parlamento l'estensione dello stato d'emergenza e della legge marziale fino al 19 febbraio prossimo. La richiesta è stata resa pubblica nello stesso giorno in cui il tenente generale statunitense Ben Godges, ex comandante delle forze di terra Usa in Europa, si è detto sicuro della riconquista della Crimea entro la prossima estate: «Quando le forze ucraine inizieranno a usare armi di precisione in ogni aeroporto e in ogni base navale in Crimea, le forze russe diventeranno molto vulnerabili». In un'intervista a Radio Liberty, emittente europea legata al Congresso americano, Godges ha anche parlato del ponte di Kerch, che gli ucraini hanno già bombardato a inizio ottobre: «Penso che gli ucraini proveranno ad attaccarlo di nuovo. E se le forze russe non possono rifornirsi via terra tramite Mariupol, allora penso che si renderanno conto che sono nei guai seri e lo stato maggiore russo dovrà decidere quanto sono disposti a perdere». La decisione di prolungare la legge marziale si lega anche agli espropri decisi lunedì dal ministro della Difesa Oleksii Danilov ai danni di cinque industrie private ucraine legate agli oligarchi Kostyantyn Zhevago, Igor Kolomoisky e Konstantin Grigorishin. Le aziende in questione operano tutte in settori strategici, vitali per la resistenza dell'Ucraina soprattutto in virtù del possibile stallo invernale: le compagnie di idrocarburi Ukrnafta e Ukrtatnafta, la fabbrica di camion AvtoKraz, il produttore di trasformatori industriali Zaporizhtransformator e la fabbrica di motori per aerei Motor Sich. A tal proposito il leader ucraino ha dichiarato che «le complesse mansioni di queste aziende possono essere svolte solo attraverso una gestione di tipo militare-statale», aggiungendo che «non esclude decisioni simili» in futuro. In altri termini, il governo ucraino si prepara a gestire le emergenze che sicuramente verranno, in particolare quelle legate ad approvvigionamento energetico e logistica, accentrando tutto nelle mani dello stato. Tuttavia, a quanto risulta, diversi uomini d'affari del Paese non hanno visto di buon occhio la scelta del governo e si sono detti «preoccupati». A proposito di produzione industriale, ieri il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato all'agenzia russa Tass che il suo Paese sta discutendo con l'India l'eventualità di una «produzione congiunta di armamenti moderni». La dichiarazione è stata fatta a Mosca a latere di un incontro con il ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar.
«Abbiamo discusso l'attuale situazione e le prospettive future della nostra cooperazione tecnico-militare, compresa la produzione congiunta di armamenti moderni», ha detto Lavrov. Nell'attesa di capire se l'accordo sarà finalizzato, il consigliere dell'ex sindaco ucraino di Mariupol, Petro Andriushchenko, ha fatto sapere che la prima nave carica di attrezzatura militare russa è entrata nel porto di Mariupol. Appena fuori dalla città, secondo l'intelligence britannica, l'amministrazione occupante filo-russa avrebbe iniziato a installare i cosiddetti «denti di drago», strutture di ferro e cemento di forma piramidale usate per impedire ai carri armati di avanzare. «Mosca sta compiendo uno sforzo significativo per preparare difese in profondità dietro l'attuale linea del fronte», si legge nella nota del ministero di Londra».

ZELENSKY APRE ALLA TRATTATIVA “VERA”

Volodymyr Zelensky apre ai colloqui di pace: “Forzare Mosca a trattare”. Il leader ucraino non esclude più contatti diretti con Vladimir Putin. L'Armata si trincera a Kherson. Lorenzo Cremonesi

«C'è una relazione diretta tra il voto americano di midterm e l'Ucraina in guerra. Preoccupato dalla prospettata buona riuscita elettorale repubblicana e dalle pressioni che comunque stanno crescendo da Washington per cercare di dare spazio al negoziato con Mosca, Volodymyr Zelensky abbandona l'opposizione di principio a trattare con Vladimir Putin e lancia un appello alla comunità internazionale affinché «costringa la Russia a veri colloqui di pace». La cautela è d'obbligo. Il presidente ucraino reitera comunque le consuete precondizioni al dialogo maturate negli ultimi mesi: ritiro russo da tutti i territori occupati (senza specificare se soltanto quelli dal 24 febbraio scorso o anche Crimea e zone autonome del Donbass prese nel 2014); riparazioni per i danni causati dall'invasione e processi per i crimini di guerra. Eppure, il dato rilevante resta che il cambiamento non è puramente cosmetico. Dimostrando una buona dose di pragmatico realismo, Zelensky torna a considerare Putin un interlocutore legittimo, non lo esclude più a priori. «Putin è un terrorista e con i terroristi non si tratta. Lo abbiamo capito dopo i massacri di Bucha e gli orrori contro i nostri civili», aveva dichiarato nell'intervista concessa al Corriere il 24 ottobre. Non va però dimenticato che, proprio nelle prime settimane di guerra, il presidente aveva personalmente invocato un «incontro a quattr' occhi con Putin». E sino almeno ai primi di maggio aveva persino lasciato intendere la possibilità di un compromesso territoriale, che «congelasse» per quindici anni lo status della Crimea e delle aree contese del Donbass. Ma, con la ripresa militare ucraina dell'estate e l'arrivo delle armi americane e dal fronte alleato, il rifiuto di Kiev nei confronti della Russia si era fatto sempre più netto. L'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata nella seconda metà di settembre, quando Putin, nonostante gli avvertimenti ucraini, ha indetto i referendum farsa nelle quattro province parzialmente occupate del sudest per poi dichiararne l'annessione alla «madre Russia». Da allora Kiev esige un radicale cambio di regime a Mosca quale premessa al negoziato. Si comprende così l'importanza delle dichiarazioni di Zelensky. Dagli Stati Uniti lasciano capire che l'invio di armi non può essere illimitato nella quantità e nel tempo. I Repubblicani sembrano meno propensi ad aiutare l'Ucraina rispetto ai Democratici. E l'eventualità del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca tra due anni preoccupa. Anche dall'Europa cresce la pressione per l'avvio di negoziati. Nel frattempo, i comandi russi sono più che mai determinati a non abbandonare la provincia di Kherson, i loro soldati indossano abiti civili e si trincerano nelle abitazioni. La vittoria, che gli ucraini davano per scontata solo tre settimane fa, adesso pare più dubbia».

CONTE ROMPE SUL LAZIO

La politica italiana. Giuseppe Conte chiude le porte al Pd sul Lazio e dice: non tratto. Enrico Letta replica: «È astio, vuole correre da solo». Il Movimento 5 Stelle attacca il sindaco di Roma Gualtieri sull'inceneritore. E sull'Ucraina: se si votasse diremmo no all'invio di armi. Maria Teresa Meli.

«Giuseppe Conte dà il benservito al Pd per le Regionali del Lazio. E lo fa platealmente, in una conferenza stampa in cui sottolinea con forza: «Lo abbiamo ripetuto più volte. Con questi vertici del Pd abbiamo difficoltà a sederci allo stesso tavolo». Solo qualche minuto prima aveva spiegato che comunque ogni alleanza con il M5S deve passare per il «no all'inceneritore». Quindi l'attacco a Gualtieri: «Mi sembra che i problemi di Roma siano rimasti tutti sul tavolo». L'ex premier omette di dire che quei «problemi di Roma» il sindaco li ha ereditati da Virginia Raggi. E in serata apre un altro fronte: «Se ci fosse consentito di votare sull'invio di armi all'Ucraina diremmo no». Sulle Regionali al Pd si aspettavano uno stop più garbato e diplomatico. Zingaretti, fautore dell'allargamento della giunta regionale al M5S, dice al Corriere : «Purtroppo ho la sensazione che Conte scarichi sul Lazio problematiche nazionali. Nessuno vuole fare ammucchiate, come non è un'ammucchiata la giunta del Lazio, dove siedono due assessori 5 Stelle, che sta affrontando alla grande il problema della green economy e della gestione dei rifiuti». Un tentativo, quello di Zingaretti, di spaccare il fronte grillino e appellarsi ai 5 Stelle che vogliono proseguire l'esperienza della giunta. Letta, dopo la conferenza stampa, è livido e con i suoi si lascia andare: «Una sceneggiata costruita a tavolino per metterci in difficoltà. Conte è ossessionato dal Pd e fa finta di non capire che l'avversario non siamo noi ma la destra a cui, con le sue scelte, sta regalando il Lazio». Per Letta quello di Conte è un «errore che si può ancora evitare». Il segretario pd lascia aperto un piccolo spiraglio, anche se non ci spera troppo: «È stato duro, rancoroso e astioso. Mi pare chiaro che lui stia puntando a una corsa solitaria e perciò non vuole cercare nessuna convergenza con noi». Anche Gualtieri replica a Conte: «Roma ha bisogno di impianti. Da quando si è chiusa la discarica di Malagrotta l'assenza di impianti consuma risorse e inquina l'ambiente mandando i suoi rifiuti in giro per l'Italia e per l'Europa». Ma è chiaro che non è veramente il termovalorizzatore l'oggetto del contendere, bensì la leadership dell'opposizione: «Vedrete che alle europee del 2024 sorpasseremo il Pd», va dicendo Conte ai suoi. Nella polemica si inserisce Calenda: «Possiamo desumere che continuare a perdere tempo con il M5S è inutile, almeno nel Lazio? Visto che c'è una persona di valore già in campo possiamo chiudere». Il riferimento è ad Alessio D'Amato. Ma i dem non sono convinti - tra le alternative, circola il nome di Andrea Riccardi - e vorrebbero le primarie a cui Calenda non parteciperebbe, anche se è pronto a dare in un momento successivo l'appoggio a D'Amato. Ma la partita non riguarda solo il Lazio. In conferenza stampa Conte stoppa anche le candidature dei dem Guerini e Borghi al Copasir: «Ci vuole discontinuità, anche io ho rifiutato». Insomma, l'ex premier vuole dare le carte in casa pd e punta a Francesco Boccia al Copasir. Ma Letta, che pure di Boccia è grande amico, non può consentirlo: «Se mettono veti sui nostri nomi - dice ai suoi - non si aspettino voti sui loro».

COTTARELLI: MI RITIRO MA SIATE UNITI

Zita Dazzi intervista Carlo Cottarelli per Repubblica.

«Carlo Cottarelli, fino a qualche giorno fa lei sembrava disposto a candidarsi alla guida della Regione Lombardia. Ha cambiato idea?
«Avevo semplicemente detto, che, se fosse stata fatta una proposta da un'alleanza ampia e con una condivisone forte di programma, io l'avrei considerata seriamente. Ma così non è stato».

Qual era l'alleanza a cui puntava?
«Quella fra liberal democratici (il Terzo polo) e social democratici (il Pd): ciò di cui ha bisogno la Lombardia e in generale l'Italia, per me. Ma al momento non ci sono le condizioni, dato che il Terzo polo ha annunciato sostegno per la Moratti».

Quindi si ritira?
«Quello di Letizia Moratti è un nome molto difficilmente accettabile, anzi, non accettabile dal Partito democratico e per validi motivi vista la sua storia politica, anche recente».

Esclude di candidarsi da solo?
«Per me era importante che ci fosse questa alleanza fra le due anime della politica italiana, anime che io non vedo bene a combattersi una contro l'altra. Sarebbe stata necessaria anche per battere la destra nazionalista e sovranista alle elezioni».

Lei avrà fatto anche un ragionamento sui numeri, Moratti rischia di portar via voti al centrosinistra e vincere col Pd da solo è difficile, in questo scenario.
«Sinceramente non ho fatto calcoli, ho solo pensato che questo combattimento fra le due anime della parte politica a cui sento di appartenere, non mi sento di farlo».

Ha parlato con Calenda prima di fare questa scelta?
«Certo, ci siamo incontrati nelle scorse settimane. Ma era prima della discesa in campo di Moratti, per cui non abbiamo parlato di lei come candidata del Terzo Polo».

Come giudica la scelta di Calenda?
«È un errore secondo me, perché un ticket fra me e Moratti così non è possibile. Forse avrebbe potuto essere considerato se il Pd, principale partito della coalizione, avesse potuto esprimere il candidato presidente, la guida politica, tenendo Moratti come vice. Ma neanche questa ipotesi è percorribile, ora».

Che cosa pensa politicamente di Letizia Moratti?
«È una ottima persona e una brava manager, ma ha sempre militato nella destra e non solo come tecnico, compreso negli ultimi due anni. Come vice presidente di Fontana, è stata criticata pesantemente sia dal Pd sia dal rappresentante di Azione per le sue decisioni politiche. Quindi non rappresenta quel rinnovamento di cui la Lombardia ha bisogno. In generale, ora sarebbe difficile spiegare all'elettorato di centro sinistra questa candidatura».

Moratti negli ultimi mesi ha preso le distanze da Fontana.
«Sì, vero. Ma è andata ancora di recente a parlare con Salvini, ha cercato fino all'ultimo di avere il sostegno della destra, e quando all'ultimo ha visto che non ci riusciva, ha cambiato interlocutore».

Solo pochi giorni fa, con Letizia Moratti, eravate sullo stesso palco all'Arco della Pace nella manifestazione per l'Ucraina.
«Siamo andati alla stessa manifestazione perché la pensiamo allo stesso modo sull'Ucraina, c'erano anche altri esponenti politici di diversi partiti, non c'era un altro lo scopo in quell'evento».

Cottarelli, forse la sua scelta dipende anche dalla levata di scudi che c'è stata a sinistra sul nome di Moratti?

«Che Moratti per il Pd non sarebbe stata accettabile, già lo sapevo. Io ho sperato in quell'alleanza che le dicevo, ma non ci sono alternative al chiamarsi fuori, se il Terzo polo propone un nome che non può essere accettato».

La discesa in campo di Letizia Moratti è un problema più per Fontana o più per la sinistra?

«Non saprei, so solo che quell'alleanza - che speravo avrebbe dovuto esserci per provare a vincere sia a livello nazionale sia in regione - purtroppo, non si è verificata».

Come andrà il voto in Lombardia?

«Con una campagna fatta bene, credo che il Pd possa vincere, anche senza Terzo polo».

È deluso, amareggiato?

«Sì, come negarlo? Però ho comunque un lavoro di grande responsabilità al Senato. E sono in ogni caso onorato che il mio nome sia stato considerato».

ZANDA: CON MORATTI VINCIAMO IN LOMBARDIA

Adriana Logroscino sul Corriere intervista Luigi Zanda.

«Con Letizia Moratti per «mettere in sicurezza l'istituzione Lombardia» e «riavviare una dialettica politica» dopo la batosta di settembre. Luigi Zanda, ex senatore e noto tessitore del Pd, è a favore dell'alleanza tra il suo partito e il Terzo polo nel nome dell'ex ministra, ex sindaca e fino a pochi giorni fa vice del presidente leghista Attilio Fontana, come candidata alla presidenza della Regione.

Senatore Zanda, il Pd dovrebbe sostenere la candidatura di Letizia Moratti?
«I sondaggi le attribuiscono ottime chance di vittoria. Ma il punto politico che mi ha colpito sono le ragioni per le quali Moratti ha rotto con la giunta Fontana: ha denunciato che il centrodestra non c'è più né in Italia né in Lombardia e che al suo posto c'è una destra estremista. È un passaggio politico che le fa onore e che sarebbe sbagliato non condividere».

Tuttavia Moratti è stata un'esponente di primo piano, e fino a pochissimi giorni fa, del centrodestra. Sostenerla non disorienterebbe l'elettorato del Pd?
«Moratti è stata per molti anni col centrodestra. E il passato è importante. Ma per tutti, non solo per lei. Il Pd, fino a pochi mesi fa, sosteneva un governo di unità nazionale con Salvini, Berlusconi e Conte. Tutti per noi, fino a quel momento, avversari assoluti. Tuttavia abbiamo governato per realismo politico. E non dobbiamo vergognarcene».

E non è anche per via di quel realismo che il Pd ha perso le elezioni politiche?
«Non credo. Abbiamo perso le elezioni perché eravamo divisi e perché non siamo riusciti a guardare oltre. A dare al Paese una prospettiva politica. Meloni l'ha data. Sbagliata ma l'ha data: con Dio, patria e famiglia offre un modello al Paese. Poi nei mesi scorsi il Pd è stato piantato in asso da due alleati. In vista delle Regionali, non facciamo come alle Politiche dove veti e attese inutili hanno determinato la sconfitta. Il nostro primo dovere è mettere al sicuro istituzioni come la Lombardia. Sostenendo il candidato con maggiori possibilità di mandare a casa Fontana e dare una lezione alla Lega».

Su Moratti però ci sono molte resistenze interne al partito. La mossa del Terzo polo non mira proprio a dividervi?

«Calenda, per me, pensa all'interesse del suo Terzo polo. Per questo mette il suo cappello su Moratti in Lombardia e su Alessio D'Amato nel Lazio prima ancora che le elezioni vengano convocate. Ma, per il risultato, determinante sarà il Pd con la sua scelta. E le decisioni politiche vanno preparate, spiegate tenendo insieme il partito».

Anche nel Lazio il Pd dovrebbe allearsi con il Terzo polo e non con i 5 Stelle?
«L'atteggiamento del M5S è di portarla per le lunghe e scaricare il Pd. Si è già visto alle Politiche. Calenda invece ha individuato il suo candidato in D'Amato che è stato un valido assessore in una giunta sostenuta sia dai 5 Stelle sia dal Terzo polo, popolare, di prestigio. Ed è un dirigente del Pd. Se esiste un profilo migliore si verifichi. Ma non si perda tempo inseguendo obiettivi irrealizzabili: trovare un candidato che piaccia a Calenda e a Conte è impossibile».

C'è anche un problema territoriale: il partito lombardo respinge l'ipotesi di candidare l'ex vice di Fontana e invoca primarie di coalizione.
«Le elezioni di Lombardia e Lazio non sono sfide soltanto regionali. Sono battaglie politiche nazionali. In quei territori, complessivamente, abitano più di 15 milioni di italiani. Considero le primarie uno strumento positivo, ma va sempre ricordato il valore nazionale di queste competizioni».

Il risultato si riverbererà sugli equilibri tra governo e opposizioni?

«Certo. Da un lato le Regionali, sfide a turno unico, si vincono con i candidati, come dimostrano Zingaretti, Bonaccini e De Luca o Fedriga e Zaia, prima ancora che con gli schieramenti. Dall'altro rappresentano un'occasione straordinaria per dare vigore all'opposizione a livello nazionale. Vincere in Lazio e Lombardia è un dovere democratico: rimetterebbe in moto una dialettica politica che il risultato elettorale ha molto appannato. Porre al sicuro, politicamente, regioni così importanti avrebbe effetti sull'elettorato, sugli equilibri istituzionali e sul sistema democratico complessivo».

SINISTRA, BISOGNA SAPER VINCERE

I misteri della politica che considera inessenziale prevalere. Le elezioni non sono un concorso di bellezza. Viva Moratti in Lombardia e D’Amato nel Lazio. Giuliano Ferrara sul Foglio.

«Non si è capito ancora per che cosa si facciano a fare le elezioni. La destra pensa che servano a vincere, non si fa troppi scrupoli, e vince. A sinistra invece quella elettorale è una gara concorrenziale tra identità, insomma un concorso di bellezza, se non di purezza. Così le elezioni si perdono a vantaggio degli avversari. Poi si protesta e si cominciano interminabili e noiosissime traversate nel deserto, a meno che non si riesca a rovesciare il risultato delle urne nelle assemblee, cosa in sé legittima ma che non sempre, come le ciambelle, riesce con il buco. Alessio D'Amato ha fatto del Lazio, in materia sanitaria, una specie di Cantone elvetico, in compagnia dei grillozzi, e ora gode dell'appoggio perfino del sesto polo. Miracolo: ti avvicini a un computer o a un centro assistenza e in un batter d'occhio il servizio vaccinale è a tua disposizione. A occhio e croce, è uno che dovrebbe vincere. Infatti è sottoposto a un vetting o a uno screening o a un esame di coscienza grottesco, quando l'acclamazione sarebbe di rigore. Letizia Moratti ha litigato con i suoi, che le avevano promesso la corsa per la Regione Lombardia, e se ne è andata sbattendo la porta, mettendosi a disposizione degli avversari per una corsa che è in grado di portare al traguardo con notevoli probabilità di successo, essendo stata ministro con Berlusconi e amministratore a vario titolo con coalizioni di centrodestra, figurando come un campione dell'establishment moderato e modernista in una regione affluente, socialmente e civilmente ambiziosa: ci si poteva aspettare un abbraccio corale, senza troppi indugi, visto che non c'è una candidatura di centrosinistra alternativa e con caratteristiche competitive, invece viene sequestrata in una coalizione riformista attivista ma relativamente piccola e respinta, proprio per le ragioni per cui dovrebbe essere accolta senza sussiego, dal pezzo più grosso della cordata, il Pd. Vince sempre un ottuso moralismo perdente. L'occasione di dividere e sfrondare di una quota di consenso decisiva il blocco di potere dominante in una terra che fa un bel pezzo del pil italiano è considerata più o meno un tradimento dell'identità, vogliamo un candidato più bello e più commestibile dal nostro elettorato, di allargarlo (l'elettorato) e portarlo al governo della Lombardia non se ne parla nemmeno. Certo è un peccato che non ci sia una candidatura forte e promettente che renda assurdo il mettersi al seguito della ex vicepresidente di Attilio Fontana, è un peccato che non ci si sia pensato prima e che non si sia in grado di sbarrare la strada alla disinvolta piroetta di una solida amministratrice milanese che ha fatto il salto della quaglia. Ma stiamo parlando appunto di qualità amministrative solide, e il salto non è nel buio, è verso un recupero di area moderata con incorporata una determinante spinta di sinistra riformista variamente declinata, una cosa non molto diversa da quella che ha portato alla formazione di un governo Bisconte e ai notevoli risultati seguenti, in più stavolta c'è una battaglia aperta di programma e contenuti da fare davanti agli elettori con una buona prospettiva di vittoria. Niente da fare. Prevale il concorso di bellezza e purezza, si ripercorre la strada delle buone intenzioni che ha spalancato le porte, prova di accoglienza totale, a Piantedosi e alla allegra combriccola dei destri di governo. Sono i misteri della politica che cede il passo al moralismo piccino e considera inessenziale prevalere. Infatti prevalgono gli altri. Avanti così».

COP27, LE ACCUSE DEI PAESI POVERI

Prosegue a Sharm el Sheik, in Egitto, la Cop27. I Paesi poveri e in via di sviluppo accusano governi e compagnie petrolifere: “Enormi profitti a nostre spese”. Monica Perosino per La Stampa.

«C'è un tempo per la diplomazia e c'è un tempo per lo scontro. Ieri, alla conferenza sul clima di Sharm el-Sheikh la frustrazione dei Paesi poveri e in via di sviluppo è esplosa sulla questione che più infiamma la Cop27, il risarcimento per i danni causati al clima dalle prime economie mondiali agli Stati che più ne subiscono gli effetti. I Paesi vulnerabili e poveri, che hanno fatto poco per causare la crisi climatica, sono arrivati con la determinazione di ottenere un impegno dai Paesi ricchi di risarcirli per questo danno. Chi rompe paga. Il 97% delle persone colpite da eventi climatici estremi risiede in Paesi in via di sviluppo, e sono in 189 milioni ogni anno. I Paesi sviluppati sono invece i primi responsabili per l'aumento delle emissioni di gas serra che accelerano il riscaldamento globale. Dall'inizio della rivoluzione industriale il Nord America, l'Europa e l'Australia sono responsabili del 63% delle emissioni di CO2, contro il 3% per il continente africano e lo 0,28% per il Pakistan. Ieri i piccoli Stati insulari colpiti da tempeste oceaniche sempre più violente e dall'innalzamento del livello del mare hanno invitato le compagnie petrolifere a sborsare parte dei loro enormi profitti, mentre gli Stati africani in via di sviluppo hanno chiesto più fondi internazionali per far fronte alla crisi. «L'industria del petrolio e del gas continua a guadagnare quasi 3 miliardi di dollari di profitti», ha detto Gaston Browne, primo ministro di Antigua, parlando a nome dell'Alleanza degli Stati insulari. «È giunto il momento che queste società siano costrette a pagare una carbon tax globale sui loro profitti come fonte di finanziamento per perdite e danni». Nei fatti la Conferenza in corso in Egitto, presentata come la Cop africana, si preannuncia quindi come un braccio di ferro diplomatico tra due gruppi di nazioni. Da un lato i Paesi in via di sviluppo, per lo più del Sud del mondo, che tentano di ottenere misure concrete, tra cui meccanismi di risarcimento proprio per le perdite e i danni subiti, dall'altro i Paesi sviluppati, più ricchi, cercheranno di bloccare passi avanti significativi sul dossier. E mentre l'inviato statunitense per il clima John Kerry passeggiava per le sale del centro conferenze, il dito puntava proprio su di lui, con gli scienziati del clima del Climate Action Network che accusano gli Stati Uniti di «bloccare deliberatamente e in mala fede il processo dei risarcimenti. Il presidente dello Sri Lanka, Ranil Wickremesinghe, ha affermato che i governi occidentali sono stati pronti a dirottare miliardi di dollari per la guerra in Ucraina, ma sono stati lenti a spendere per il cambiamento climatico: «Molte nazioni sviluppate ritengono opportuno sospendere i propri contributi finanziari per il clima, ma non a spendere soldi per la guerra».

SALVINI VUOLE IL PONTE SULLO STRETTO

Sullo Stretto di Messina Matteo Salvini vuole applicare il “modello Genova”. Pronto il piano. Il leader della Lega dice: «Dopo 54 anni vogliamo riavviare il progetto». E oggi incontra Zaia e Fugatti per le opere del Nord. Fabio Rubini su Libero.

«Dai che questa è la volta buona». È di buon umore Roberto Occhiuto, governatore della Calabria, subito dopo l'incontro con il suo omologo siciliano Renato Schifani e il ministro alle Infrastrutture Matteo Salvini. Tema della riunione - e del suo ottimismo il Ponte sullo Stretto. Quello che, per dirla con le parole del leader della Lega, «dopo 54 anni di di ritardi, chiacchiere e mancate promesse, vediamo se riusciamo ad avviare il progetto». Anche perché «sbloccare questo e tanti altri cantieri può creare subito più di 100mila posti di lavoro». Le cose emerse dal vertice di ieri sono parecchie. Intanto che quella del ponte per collegare la Sicilia col resto d'Italia «è una priorità di questo governo». Tanto che molto presto è previsto «un vertice istituzionale con Rfi che ha avuto l'incarico dal precedente esecutivo di organizzare un ulteriore studio di fattibilità». Del Ponte sullo Stretto ha parlato anche Renato Schifani, che ha rivelato come «è emerso dal tavolo la certezza che quest' opera si farà, perché è una priorità sia per il governo sia per le regioni coinvolte». E ancora: «Valutiamo l'adozione o meno del modello Genova per velocizzare quei lavori che con quel modello hanno dato ottimi risultati. Il clima è perfetto e ottimo, credo che ci siano tutti i presupposti». Resta il nodo dei finanziamenti, ma anche qui l'ottimismo si respira a pieni polmoni. Se il sottosegretario ai Rapporti col Parlamento, Matilde Siracusano, suggerisce di «usare i 50 milioni stanziati da Draghi per approntare le modifiche ai progetti esistenti, invece di spenderli per un nuovo progetto di fattibilità» come avrebbe voluto il vecchio esecutivo; Occhiuto rilancia di farsi cofinanziare una parte dell'opera dall'Unione Europea che, come ricorda il presidente della Calabria «considera il ponte più strategico di quanto faccia l'Italia, tanto da averlo inserito nei corridoi». Per questo «governo e Ue concordino gli strumenti adatti per questo investimento». Poi auspica: «Sarebbe bello se i lavori iniziassero già nel 2023». Il ponte da solo, però, non può bastare a far ripartire il Mezzogiorno («che può diventare il grande hub d'Europa», ha ricordato Occhiuto). Per questo fonti del ministero hanno rivelato che ieri è stato deciso di istituire una «regia permanente» con le regioni. Al tavolo, infatti, si è discusso anche di «progetti significativi, come la Statale Jonica in Calabria, l'Alta velocità e la ferrovia Palermo-Catania» e di tutte quelle opere commissariate che «Salvini è determinato a sbloccare». Anche perché, ha fatto notare Occhiuto «Nel Pnrr non c'è traccia di alcun intervento strategico in Calabria». L'attenzione del vicepremier Salvini, però, non è rivolta solo al Sud. Oggi la sua agenda ha in previsione l'incontro con il presidente del Trentino Alto Adige Maurizio Fugatti, l'assessore regionale ai trasporti dell'Emilia Romagna Andrea Corsini e il presidente della provincia autonoma di Bolzano Arno Kompatscher, per parlare della situazione della A22 Brennero-Modena. Sempre oggi la ministero di Porta Pia arriverà anche il governatore del Veneto Luca Zaia. All'ordine del giorno infrastrutture, portualità e mobilità. In particolare Salvini ha fatto sapere che presto effettuerà alcuni sopralluoghi per visionare il sistema di dighe del Mose. Infine il ministro ha contattato personalmente alcuni sindaci «con l'obiettivo di rispondere ad alcune sollecitazioni da parte dei sindaci». Tra questi sono stati resi noti i colloqui coi primi cittadini di Vicenza e Treviso in Veneto e Vigevano in Lombardia. In quest' ultimo caso oggetto della telefonata col sindaco Andrea Ceffa e il presidente della provincia di Pavia Giovanni Palli, è stato la risoluzione dell'annosa questione del reperimento dei fondi per concludere il ponte sul Ticino».

RATZINGER SI DIFENDE IN TRIBUNALE

Il Foglio racconta che il papa emerito Joseph Ratzinger si difenderà in Tribunale dalle ingiuste accuse rivoltegli.

«Lo scorso gennaio il nome di Joseph Ratzinger era finito nel rapporto indipendente sugli abusi compiuti nella diocesi di Monaco di Baviera. Su un totale di 497 casi d'abuso accertati, a Ratzinger veniva imputata "l'inazione" in quattro, tra il 1977 e il 1982. L'allora arcivescovo bavarese avrebbe infatti autorizzato il sacerdote Peter Hullermann (riconosciuto colpevole di abusi plurimi) a operare nella diocesi di Monaco benché fosse acclarato fin dal 1980 che questi fosse affetto da "disturbo narcisistico con pedofilia ed esibizionismo". In un primo tempo, i legali di Benedetto XVI avevano negato che Ratzinger fosse presente alla riunione del 1981 in cui era stato dato il placet all'attività di Hullermann in diocesi. Immediatamente, il Papa emerito aveva provveduto a rispondere per iscritto al rapporto, sottolineando che lui invece era presente a quell'incontro e che i legali erano incappati in una semplice svista. In una lettera diffusa dal Vaticano, poi, il Papa emerito si era detto "profondamente colpito che la svista sia stata utilizzata per dubitare della mia veridicità e addirittura per presentarmi come bugiardo". Anche perché la sua presenza alla riunione incriminata è certificata dalla biografia curata da Peter Seewald. Adesso, un ulteriore passo: il Papa emerito non ha alcuna intenzione di farsi mettere alla gogna, ma intende difendersi in tribunale. Nessun insabbiamento né trattativa separata, bensì tutto in pubblico e con la massima trasparenza. Come del resto ha fatto in qualità di prefetto per la Dottrina della fede prima e di Pontefice poi. Non si può dimenticare che lui, scriveva all'inizio dell'anno Vatican News, "ha promulgato norme durissime contro gli abusatori clericali, vere e proprie leggi speciali per contrastare la pedofilia". Ora lo dimostrerà in tribunale, per sua volontà».

SAN CASCIANO, CAPOLAVORI DI 2300 ANNI FA

Clamoroso ritrovamento archelogico a San Casciano dei Bagni, in provincia di Siena. La cronaca è di Marco Gasperetti per il Corriere.

«La prima statua di bronzo ad uscire dal fango bollente, 2.300 anni dopo, è stato un putto in bronzo. Piccolo, bello e immutato, come se il tempo invece di dissolverlo lo avesse accarezzato. Non era solo. Dentro la vasca sacra, sotto una coltre di melma e stratificazioni secolari, c'era molto di più: il tesoro degli Etruschi e dei Romani che a quel tempo, siamo tra il secondo e il primo secolo avanti Cristo, in questi luoghi vivevano insieme nella tolleranza. Il team di giovani archeologi dell'Università degli Stranieri di Siena, per lo più ventenni, insieme agli esperti della Sovrintendenza e grazie al contributo del Comune, hanno esplorato per tre anni le profondità dimenticate del santuario, tra i resti di piscine, fontane, terrazze digradanti, una meraviglia sulfurea rimasta attiva sino al V secolo e poi coperta in epoca cristiana. Hanno affondato braccia e mani sino a tre metri di profondità, quasi scottandosi per l'acqua termale. E hanno scoperto l'inimmaginabile. Dal cuore sacro del tempio sono usciti capolavori paragonabili ai Bronzi di Riace: 24 statue di circa un metro di altezza, un'ottantina di piccoli bronzi di rara bellezza e ancora seimila monete d'oro, argento e bronzo che raccontano un'altra storia, forse tutta da riscrivere. «Come la convivenza pacifica, multiculturale e plurilinguistica tra Etruschi e Romani in un'epoca di grandi conflitti, scoperta millenni dopo anche da giovani professori, ricercatori e studenti di mezzo mondo, quelli del nostro ateneo», spiega Tomaso Montanari, rettore dell'Università degli Stranieri di Siena. E tutto questo in un tempio immerso nelle terme, nel quale si univano preghiera, bellezza e beatitudine. Lo scavo di San Casciano, che diventerà un museo con le terme ancora oggi in funzione, ha regalato molte sorprese. «Come il ritrovamento della statua bronzea più grande che raffigura Igea, moglie o figlia di Esculapio, il dio romano della medicina - racconta Jacopo Tabolli, 38 anni, professore di Etruscologia all'ateneo per Stranieri di Siena e direttore degli scavi -. Una grande emozione disseppellire la rappresentazione della medicina unita alla bellezza e alle terme». Dalla melma millenaria sono riemerse in queste settimane divinità, effigi di Igea e di Apollo. E un bronzo che sembra assomigliare al celebre Arringatore. E ancora, come raccontano gli archeologi, nelle iscrizioni si leggono nomi di potenti famiglie etrusche. Entusiasta il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che ha visitato il sito. «Dobbiamo avere la consapevolezza che in campo culturale siamo la prima superpotenza del pianeta».

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