La Versione di Banfi

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Vince la sinistra, ma quale?

alessandrobanfi.substack.com

Vince la sinistra, ma quale?

Va decifrato il voto tedesco dopo la vittoria dell'Spd. Ci vorrà tempo per capire quale governo. Lega sotto choc per l'arresto di Morisi. Inchiesta elettorale? A Kabul obbligo di barba. Greta a Milano

Alessandro Banfi
Sep 28, 2021
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Vince la sinistra, ma quale?

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Dunque il voto tedesco, pur nell’incertezza dell’esito finale, è un terremoto. Vince la socialdemocrazia, come se la crisi pandemica e sociale fosse comunque da addebitare agli errori dei conservatori. Non sfondano i Grünen, sebbene sia difficile ricordare un momento tanto drammatico dell’emergenza climatica ma anche energetica. Fra l’altro la Germania ha pagato un prezzo altissimo, con l’alluvione in Renania. Altra grande questione che emerge dalle urne tedesche: che cosa è oggi la destra conservatrice e di governo? Il populismo mondiale l’ha messa in crisi non poco. Se ancora esiste, è alla ricerca di una nuova identità. Romano Prodi giustamente teme i liberali al governo (che in un modo o nell’altro ci saranno): la loro posizione sull’austerità europea è per noi minacciosa.  

Ma sui giornali la politica tedesca catalizza l’attenzione molto meno dell’inchiesta penale su Luca Morisi, il guru social della Lega. Civile la sua difesa, e leale la dichiarazione di Salvini. Ma i giornali mettono insieme questi guai giudiziari ad una certa sindrome di accerchiamento del Capitano. Morisi si dimette come Durigon e dopo la defezione dell’europarlamentare No Vax Francesca Donato. Proprio mentre l’ala governista e moderata dei Presidenti di Regione e del ministro Giorgetti sembra fare il controcanto a Salvini. La Lega di lotta perde colpi in favore della Lega di governo?

A proposito di Giorgetti, la sua intervista su Draghi da eleggere in febbraio al Colle ha ufficialmente aperto le danze per il rinnovo del Quirinale, come nota Magri. È critico Folli che a suo tempo aveva caldeggiato un governo Draghi anche dopo il 2023. Ieri era stato Minzolini ad attaccare lo schema Giorgetti, come anti democratico. Conte, intervistato dalla Stampa, resta coperto ma anche lui sembra scettico. Corsa lunga e ricca di tappe.

Dall’estero arriva la notizia che in Afghanistan diventa proibito radersi per gli uomini. Chi non porta la barba sarà punito. In Inghilterra ci sono file e file alle pompe di benzina: manca il carburante, come conseguenza della Brexit. Intanto anche il prezzo del petrolio sale: 80 dollari al barile, 4 volte il prezzo del 2020. Oggi iniziano a Milano le cinque giornate per il clima. Greta è arrivata in città.  

Prima di andare sulle prime pagine dei quotidiani, due parole sulla Versione. È un mese che questa rassegna vi arriva entro le 8 di mattina e sarà sempre così dal lunedì al venerdì. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine della rassegna. Consiglio di scaricare subito quello che vi interessa perché il file resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete arretrati.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Buone notizie per il ritorno in platea. Corriere della Sera: Stadi e teatri, più spettatori. Il Messaggero: Pubblico allo stadio al 75%. Ma la notizia dell’inchiesta su Morisi eccita di più direttori e titolisti. Il Domani: Così la Lega ha dato milioni a Morisi che ora è sotto indagine per droga. Il Fatto ci aggiunge il rinvio a giudizio del padre di Renzi: La giustizia funziona: panico tra i 2 Matteo. Il Giornale ha dubbi: Inchiesta su Morisi. Qualcosa non torna. Per Libero sospetto il tempismo pre elettorale: Agguato alla Lega. Quotidiano nazionale: La droga del guru, Lega sotto choc. Per la Repubblica c’è una conseguenza politica: Morisi, “droga dello stupro”, Salvini sempre più solo. La Stampa intervista l’ex premier: Conte: con Salvini, Draghi non dura. Sul voto tedesco va il Manifesto: Soluzione Scholz. Il Mattino riporta il giudizio di Romano Prodi e lo mette tra virgolette: «Germania, i liberali un problema per la Ue». Il Sole 24 Ore si occupa di energia: Sprint del petrolio verso 80 dollari. La Verità lancia uno scoop di Panorama: Indagine su Conte e i suoi uomini. Avvenire sottolinea la denuncia di Papa Francesco: L’eutanasia è scartare.

IN GERMANIA SPD E GOVERNO DI COALIZIONE

Batosta della Cdu del dopo Merkel, vittoria relativa dell’Spd, ma anche necessità di un governo di coalizione. Con Liberali e Verdi rimessi comunque in gioco, sia nell’opzione “Giamaica” di un governo con la Cdu, sia nell’opzione rosso-verde-gialla a guida Scholz. La cronaca di Tonia Mastrobuoni da Berlino per Repubblica.

«Ormai il destino del leader della Cdu Armin Laschet è appeso a un filo. Il risultato peggiore della storia che la Cdu ha incassato alle elezioni di domenica - il 24,1% - e la vera e propria disfatta nelle regioni dell'Est ha spinto una fetta del partito ad aumentare le pressioni perché il presidente dei conservatori si dimetta. Anche dagli storici alleati, i bavaresi della Csu, è arrivato ieri un sinistro sparo di avvertimento. L'ex ministro Alexander Dobrindt ha definito il tracollo di Cdu/Csu «una delle più inutili sconfitte degli ultimi decenni». E il capogruppo dei cristiano sociali ha anche aggiunto che i colloqui con i Verdi e i Liberali per un governo Giamaica a guida Laschet non devono «piegare» il partito. Anche il leader, Markus Soeder, ha detto di non volere un accordo «a ogni costo». Il governatore della Baviera scalpita per andare all'opposizione per poter tentare la corsa alla cancelleria tra quattro anni. Qualche politico locale della Cdu come Ellen Demuth ha formulato già la richiesta di un passo indietro al suo leader: «Eviti altri danni alla Cdu e si ritiri». E l'associazione giovanile della Cdu in Sassonia gli ha chiesto di lasciare. Il governatore della regione dove l'Afd è diventata il primo partito, Michael Kretschmer, ha parlato di un «terremoto» e ha sottolineato che gli elettori non hanno incoronato Laschet: «La Cdu/Csu non è la prima scelta». Ma Laschet si aggrappa alla possibilità di riuscire a diventare cancelliere come un naufrago alla scialuppa. «È un politico che lotta sempre fino alla fine», giura chi lo conosce bene. Ed è chiaro che la lunga telefonata nella sera elettorale con il numero uno della Fdp Christian Lindner deve averlo convinto che possa avere qualche possibilità di vincere l'ultima, disperata sfida della sua carriera: formare un'alleanza di governo. Ieri, dopo una burrascosa mattinata di vertici con il partito e con i governatori, Laschet ha confermato di voler tentare di sondare liberali e verdi per un esecutivo Giamaica, pur essendo arrivato secondo. «Conta la maggioranza in Parlamento», ha sottolineato. Ma sono stati in pochi ad appoggiarlo nella riunione a porte chiuse con la presidenza della Cdu, riporta una fonte: il ministro della Salute Jens Spahn e la collega della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer. Il primo punta a diventare capogruppo, la seconda a continuare a fare la ministra. Tra i Verdi, secondo un sondaggio Forsa, appena il 7% preferirebbe entrare in un governo Giamaica. E si vocifera che l'offerta che Laschet starebbe facendo agli ambientalisti, tra l'altro, è la presidenza della Repubblica. Ragiona una fonte che «a febbraio si vota e un governo Giamaica potrebbe avere la maggioranza all'assemblea parlamentare e nominare un candidato dei Verdi». Basterà? Paradossalmente la debolezza di Laschet potrebbe convincere sia i Verdi sia i Liberali a sceglierlo come cancelliere, proprio per le concessioni maggiori che potrebbero strappare a un leader Cdu ormai pronto a tutto pur di restare in sella. Ecco perché i maggiorenti hanno cominciato a piantare vistosi paletti. Intanto c'è aria di resa dei conti anche tra i Verdi, ma più in sordina. Secondo alcuni media tedeschi il vicecancelliere di un eventuale governo partecipato dagli ambientalisti potrebbe essere essere Robert Habeck, e non l'ex spitzenkandidatin Annalena Baerbock che ha incassato un risultato - il 14,8% - al di sotto della aspettative. E il co-presidente dei Verdi, rafforzato dal mandato diretto al Bundestag in un collegio difficile, vorrebbe anche diventare ministro delle Finanze. Ma la Wilhelmstrasse è contesa dal leader della Fdp, Christian Lindner, con cui i Verdi hanno cominciato ieri dei negoziati a parte, prima ancora di vedere i candidati alla cancelleria Scholz e Laschet. Lindner ha rivelato che «abbiamo deciso di avviare le pre-esplorazioni con i Verdi». E ha aggiunto che «siamo aperti a inviti della Cdu/Csu e Spd per ulteriori colloqui », ma che lo scopo di queste prime esplorazioni, viste «le grandissime differenze nei contenuti» è quello di «verificare se vi sia un centro comune». Saranno loro, di fatto, a decidere da chi sarà governata la Germania nei prossimi anni. Ma nella riunione della Cdu, Angela Merkel ha invitato ad accorciare i tempi per le trattative. L'Europa non può fermarsi in una fase così cruciale per aspettare Berlino. Intanto Olaf Scholz ha ribadito ieri che la vittoria della Spd, che ha preso il 25,7%, significa che i cittadini «hanno detto chi deve formare il prossimo governo». Il leader dei socialdemocratici ha ribadito di puntare a una coalizione "semaforo", rosso-verde-gialla, con i Liberali e i Verdi e ha promesso un governo prima di Natale. Ma la strada è lunga». 

Interessante analisi di Marco Bascetta sul Manifesto. La sinistra socialdemocratica vince, i Grünen deludono. Soprattutto la domanda è sul futuro dei popolari conservatori nel dopo Merkel, stretti tra populismo e moderatismo.

«Prima ancora di cimentarsi nel risiko delle possibili coalizioni converrà chiedersi quale Paese e quale clima sociale rispecchi il risultato delle elezioni federali in Germania della scorsa domenica. Per quel tanto che l'espressione di un voto sia in grado di farlo. A partire dalle due sorprese che ci ha riservato. Ovverosia la miracolosa ripresa di una agonizzante socialdemocrazia e il mancato sfondamento dei Grünen, in un contesto fortemente dominato dalle loro tematiche, nonostante il raggiungimento del miglior risultato della loro storia di partito. Che il cambiamento climatico e la tutela dell'ambiente occupino i primi posti tra le preoccupazioni dei tedeschi è ormai una circostanza assodata. Ma altrettanto forte resta un timore. Il timore che un intervento radicale su questo terreno comporti un impatto negativo sulla struttura industriale e produttiva della Germania. Cosicché un governo a preponderanza verde avrebbe rischiato di attivare una fase di transizione troppo rapida e traumatica per milioni di lavoratori e lavoratrici impiegati nell'industria tradizionale. Tutto sommato la percezione della Germania come un modello di successo in grado di garantire la continuità di accettabili livelli di benessere è ancora piuttosto radicata. Di certo la crescita delle diseguaglianze sociali si è fatta sentire ed è stata messa a tema, così come le numerose falle nel sistema di Welfare. Ne è conseguita la speranza (o la credenza) che un rafforzamento della socialdemocrazia, pur logorata da anni di cogestione subalterna del potere con la Cdu-Csu, avrebbe potuto correggere senza troppi traumi queste tendenze negative. Essendosi peraltro offuscata la memoria di quella feroce riforma liberista del mercato del lavoro che proprio un governo socialdemocratico, quello di Gerhard Schröder, aveva predisposto e messo a disposizione dei futuri successi cristiano-democratici. Non è certo stata nessuna forma di paura a influire sui comportamenti elettorali: né quella dell'immigrazione, né quella delle presunte mire europee sui portafogli dei tedeschi, né quella di pericolosi squilibri geopolitici, né quella di un uso illiberale delle politiche di contenimento della pandemia e nemmeno, fino in fondo, quella della catastrofe climatica. Piuttosto una generica insofferenza e una diffusa incertezza che si sono riflesse nella accresciuta frammentazione del voto. E, soprattutto, nell'accelerazione di quel declino della Cdu in corso ormai da tempo. Che cosa sarà questo partito dopo Angela Merkel resta un'incognita. Quale forma assumerà la politica conservatrice? Quale equilibrio tra antiche certezze e bisogni di innovazione? Quali capacità di mantenere la coesione sociale? Quale bilanciamento tra interesse nazionale e impegno europeo? A questi quesiti la Cancelliera sapeva dare risposte contingenti, talvolta infelici, talaltra contraddittorie, spesso dilatorie, ma generalmente capaci di impedire conflagrazioni e di evitare vicoli ciechi. Ma senza elaborare una dottrina, una linea di condotta, un'immagine politica non personale da trasmettere a chi le sarebbe succeduto. Con destrezza era riuscita a scippare alla Spd tematiche sociali, frammenti di programma e tonalità progressiste con conseguenti travasi elettorali a proprio favore. Ma ora gli ammiratori di Angela Mekel «progressista», poco fidandosi della successione, tornano nella casa socialdemocratica. La quale rappresenta oggi la più rassicurante combinazione tra continuità e rinnovamento, tra credo liberista e correzioni sociali. La tradizione politica del moderatismo germanico è in buona parte nelle mani della Spd e le ipotesi di coalizione cui può guardare non fanno davvero paura a nessuno. Ma nemmeno suscitano grandi entusiasmi. Il vero e proprio tracollo della Linke come partito nazionale e la sua lenta erosione nelle roccaforti dell'est dimostrano una volta di più il perdente esorcismo della formula «di lotta e di governo». A maggior ragione quando la lotta langue e le concrete possibilità di governo si fanno aleatorie. Senza contare le lacerazioni che da tempo attraversano il partito contrapponendo invece l'un compito all'altro, l'identità all'incisività politica. Nei Länder orientali è la Spd ad accrescere la sua credibilità governativa e la Afd, congelata in un radicalismo condannato all'isolamento, a raccogliere la rabbia e il risentimento degli esclusi. Minaccia peraltro declinante sul piano federale dove il partito inutile dell'estrema destra, perde il suo elettorato borghese a vantaggio della Fdp, le cui posizioni in economia poggiano sulla priorità dell'interesse nazionale attraendo così anche le frange più rigoriste dell'elettorato cristiano-democratico. Più che tradursi in definite opzioni politiche, l'umore del Paese sembra limitarsi a dichiarare che «non si può andare avanti così». Uno stato d'animo che se non altro esclude la legittimità morale e la sensatezza politica di un governo guidato dallo sconfitto Armin Laschet e che, qualora vi si imbarcassero, trascinerebbe i Verdi nel più completo discredito».

Mario Ajello sul Messaggero intervista Romano Prodi. Che si mostra preoccupato della possibile influenza dei Liberali (“falchi” in politica economica) nel futuro governo.

«Professor Prodi, il voto tedesco racconta un'estrema frammentazione. Lei immaginava un quadro così? «Sì, anche se i socialisti hanno fatto più di ciò che mi aspettavo. Ma Merkel è stata costretta ad intervenire con la respirazione artificiale sul leader della Cdu e sul finale lo ha aiutato molto. Ha pesato sull'esito di queste elezioni una caratteristica della cancelliera: persona gentile, ma durissima con i suoi avversari, anche quelli interni che aveva sapientemente divisi, e ha difeso Laschet solo all'ultimo minuto. La verità è che Merkel non ha mai voluto scegliere un erede». Qual è il suo giudizio storico su Frau Angela? «Ha utilizzato tutte le riforme fatte in precedenza e le ha tradotte in decisioni politiche dando continuità e forza alla Germania, che in questi 16 anni, con la Merkel, è diventata una grande potenza mondiale». Come statista ha fatto molto bene per la Germania e meno bene per l'Europa? «Direi che abbiamo avuto una sola Merkel per quanto riguarda la politica tedesca. Per quanto riguarda il rapporto con l'Europa, invece la Merkel non è stata una sola, ma quattro». Addirittura quattro? «La prima è quella, almeno ai miei occhi, dello smarrimento. Io, che ero presidente del Consiglio, dicevo con una battuta: una gran donna, ma viene dalla luna. La seconda è stata una Merkel che non capiva l'Europa. Ne era impaurita e quasi ostile». La Merkel numero tre? «E' quella che comincia in occasione della crisi finanziaria e con la vicenda greca. Aveva un approccio rigorista, alla Schauble, e per punire la Grecia stava per far saltare l'Europa. Poi però il suo realismo - e qui siamo alla quarta Merkel - fa capire alla cancelliera che la grandezza della Germania sta solo nella grandezza dell'Europa. E allora ecco la sfida lanciata in Germania sull'accoglienza dei profughi siriani, e poi il suo appoggio alla nascita di Next Generation Ue, che è il rovesciamento della politica tedesca condotta fino ad allora». (…) Adesso si apre per la Germania uno scenario nuovo. Vede il rischio dell'instabilità al centro dell'Europa? «Non lo vedo proprio. Andrà come l'altra volta: trattative lunghissime, 200 pagine di programmi, e si troverà la quadra. Qui è la differenza con l'Italia: alle 200 pagine di programma i partiti tedeschi terranno fede per tutta la legislatura. Quando feci io 200 pagine di programma, ridevano tutti: sono troppe! E invece, non erano troppe. Il problema è che nessuno aveva intenzione di rispettarle». Crede anche lei che ora l'opzione di governo più probabile sia quella con Spd, verdi e liberali? «Tutti vedono questo scenario. Io penso che non sia facile questo accordo e che alla fine si possa tornare alla grande coalizione, a parti rovesciate. Anche per un semplice motivo. Fino a poco tempo fa si diceva che il junior partner, cioè l'Spd, sarebbe stato distrutto. Ma ora quello è il partito che ha vinto. Io la grande coalizione non l'ho mai scartata. Dopo questo risultato la ritengo non probabile, ma più possibile di prima». Professore, la vera questione che interessa l'Europa e gli italiani è questa: la Germania riproporrà per tutti la politica dell'austerità o dopo il Covid adotterà una politica più solidale e meno arcigna? «Bisognerà vedere quanto potere avranno i liberali. Sono il partito più compatto su una politica che non gioverebbe certo all'Italia. La Cdu ha ancora una grossa corrente che sostiene l'economia sociale di mercato. Perciò alla fine potrebbero fare un accordo con i socialisti. Capisco, però, che questi miei ragionamenti non tengono conto delle possibili incompatibilità personali tra Scholz e Laschet. Ammesso che quest' ultimo rimanga al suo posto».

L’INCHIESTA SUL GURU SOCIAL DELLA LEGA

Diventa un caso politico di prima grandezza l’inchiesta penale su Luca Morisi, il guru social della Lega e consulente di Matteo Salvini. Vediamo intanto i fatti giudiziari nel racconto di Sarzanini e Petronio per il Corsera.  

«È trascorso un mese e mezzo da quando i carabinieri sono entrati nella cascina di Luca Morisi e hanno trovato 2 grammi di cocaina. Ma soltanto una settimana fa il responsabile della comunicazione social del leader della Lega Matteo Salvini ha reso nota la scelta di abbandonare l'incarico. Che cosa è accaduto in queste settimane? Chi sapeva che cosa era accaduto? E soprattutto, perché dirlo soltanto adesso? Per rispondere a queste domande bisogna riprendere il filo dell'inchiesta avviata dalla Procura di Verona, individuare i tasselli che ancora mancano per ricostruire e soprattutto mettere in fila le date. Emergono infatti numerosi punti oscuri nella ricostruzione della vicenda. E novità che potrebbero emergere dall'esame dei contatti tra l'indagato e i ragazzi rumeni che hanno raccontato di aver ricevuto da lui droga liquida. È il 14 agosto quando i carabinieri entrano a palazzo Moneta nell'appartamento al primo piano della barchessa di una villa veneta, a Belfiore, paese nell'Est Veronese. È quello di Luca Morisi. Uno dei pochi a non aver affaccio sul verde. Nessun balcone, solo la vista sul parco della villa da un lato e sui filari di meli dall'altro. I vicini parlano di «una retata». In realtà quel pomeriggio di piena estate i militari effettuano un controllo nell'abitazione e poi vanno via con tre uomini: 2 giovani e un adulto di circa 50 anni. Nel verbale di sequestro annotano di aver trovato cocaina. Per Morisi scatta la segnalazione al prefetto per uso personale, ma poi sono le dichiarazioni dei due giovani ad aggravare la sua posizione facendo ipotizzare la cessione di stupefacenti. I due giovani erano stati fermati in auto poco dopo aver lasciato la casa di Morisi. La versione ufficiale parla di un controllo casuale, ma in realtà l'incrocio delle testimonianze sembra avvalorare l'ipotesi che fossero arrivati due giorni prima e questo alimenta il sospetto che in realtà il controllo fosse mirato. E che i militari li abbiano fermati perché convinti che nell'auto avrebbero trovato droga, come poi effettivamente accade. Si tratta di una quantità non elevata, loro comunque ammettono subito che è ghb, la droga liquida, e che è stato Morisi a cederla. Ecco perché si decide di effettuare la perquisizione. Quando arrivano nell'abitazione i carabinieri trovano il cinquantenne e anche lui finisce nell'elenco delle posizioni da verificare. Il primo settembre Morisi, che intanto ha deciso di nominare come difensore l'avvocato Fabio Pinelli, comunica a Salvini che lascerà l'incarico di responsabile della comunicazione social. Ufficialmente parla di «questioni personali», in realtà sembra che abbia confidato subito o appena qualche giono più tardi che cosa era davvero accaduto. Appare comunque opportuno far morire la «Bestia» o quantomeno far prendere al suo ideatore un lungo periodo di pausa. Nel verbale di sequestro non risulta che siano finiti sotto sequestro i telefoni e i computer di Morisi, ma quando viene contestata la cessione di stupefacenti vengono disposti controlli sui tabulati per verificare se il giro dei clienti possa essere più ampio. E già questo appare sufficiente per separare i destini dello stratega della comunicazione social e il Carroccio. Anche perché negli ultimi mesi l'appartamento acquistato dalla società Socec del costruttore Andrea Lieto era finito sotto osservazione per una serie di passaggi di soldi. Ma anche per quello che i vicini definiscono «un continuo viavai». E questo avvalora l'ipotesi che in realtà i controlli sui due ragazzi siano scattati dopo una soffiata relativa proprio alla cessione della droga. O forse alla ricerca di altro. Due anni fa, quando scoppia il caso dei fondi russi alla Lega, la trasmissione Report descrive Lieto come «imprenditore con aziende in paradisi fiscali e in relazione con uomini d'affari russi». E uno dei vicini di casa di Morisi, a Belfiore, è tale Sergey Martyanov. Che col guru della comunicazione di Salvini condivide anche lo stesso numero civico, l'1. Ha comprato casa lì nel 2012, Martyanv. Che risulta anche essere socio di un'azienda, la Namiana srl, che ha la sede sempre a palazzo Moneta. Morisi ha sempre negato di conoscerlo, ma il suo nome compare più volte nelle segnalazioni di operazioni sospette di Bankitalia per i fondi ricevuti proprio dal Carroccio per finanziare la «Bestia». Non è un mistero che la strategia comunicativa di Morisi, sempre molto aggressiva, fosse mal sopportata dalla parte più governista del Carroccio. La scorsa settimana, quando l'agenzia AdnKronos rivela che ha lasciato l'incarico, lui assicura che «non c'è alcun motivo politico, ma solo personale». Invece cominciano a girare indiscrezioni su un'inchiesta in corso, si parla «materiale portato via dall'appartamento». Fino alla conferma dell'indagine per droga. E il caso politico esplode».

Per Chiara Giannini del Giornale la pubblicazione della notizia sull’inchiesta penale contro Morisi è a orologeria.

«Luca Morisi, guru della comunicazione social di Matteo Salvini, indagato per droga dalla Procura di Verona, aveva in casa due grammi di cocaina, ovvero una quantità di stupefacente per uso personale. Si tratta quindi di un illecito amministrativo e non rischierebbe più di tanto. A confermarlo fonti vicine ai carabinieri, che indagano sull'accaduto. L'iscrizione nel registro degli indagati è dovuta al fatto che lo stesso è accusato da due giovani della cessione di sostanze stupefacenti. I fatti risalgono allo scorso mese, ovvero al weekend a cavallo di Ferragosto. Allora nessuna cronaca ne parlò. Guarda caso qualche giornale tira fuori la notizia a quattro giorni dal voto per le elezioni amministrative. La solita giustizia ad orologeria che fa confidare all'ex premier Matteo Renzi: «La magistratura è in crisi, non lo dice nessuno perché i politici hanno paura di beccarsi un avviso di garanzia, io non ho paura. Sta succedendo un caos dentro la magistratura. L'unico modo per affrontarlo è slegare le correnti della carriera dei magistrati, un magistrato deve fare carriera perché è bravo, perché non commette errori e non mette in galera innocenti. Valutiamolo su quello, non sulla tessera che ha in tasca». Una strategia per affossare la Lega? Chi pensa che il sequestro di pc, tablet e telefoni cellulari, possa scoperchiare il vaso di Pandora dei segreti social del leader leghista o materiale sensibile del partito, si dovrà mettere l'animo in pace, visto che questa ipotesi non potrà essere presa in considerazione perché oggetto di indagine sono solo i rapporti tra Morisi e i due che lo accusano. I ragazzi furono fermati in auto dai carabinieri, che li trovarono in possesso di una sostanza liquida. Secondo gli inquirenti si tratterebbe della «droga dello stupro» che cancella nel breve periodo la memoria di chi la assume. A dargliela sarebbe stato proprio Morisi, secondo loro. Uno dei tanti lati oscuri della vicenda: perché indicare subito il nome del presunto fornitore? Da lì la perquisizione nella sua cascina di Belfiore che ha fatto reperire i due grammi di cocaina, neanche nascosta. L'ex spin doctor di Salvini ha ammesso subito l'uso personale, parlando di un «momento di debolezza», di un «periodo difficile» della sua vita. Se si fosse trattato di un personaggio qualsiasi sarebbe rimasto uno dei tanti che assume droghe, ma il nome di colui che ha creato la Bestia, la macchina social che ha fatto la differenza nell'ascesa politica del leader leghista, ha un peso mediatico. Il procuratore della Repubblica di Verona Angela Barbaglio ha spiegato all'Agi che quello tra i due giovani e Morisi si tratterebbe di un «contatto abbastanza occasionale». Ha anche chiarito: «Non mi pare risulti altra pregressa attività di spaccio né risulti mai indicato da nessuno come ipotetico spacciatore». Riguardo al fatto che si tratti di droga dello stupro, ha quindi tenuto a dire: «Il laboratorio di analisi chimica è subissato di richieste e visto che si tratta di un processo corrente, ordinario, quindi siamo in coda cronologica perché il fatto risale a più di un mese». Che cosa rischia quindi Morisi? Se fosse accertato che ha ceduto veramente la droga ai due giovani ignoti, che gli inquirenti assicurano non essere legati alla Lega, potrebbe essere incriminato per spaccio e rischiare rischia la reclusione da 6 a vent' anni e una multa fino a 260mila euro. Se si tratta di quantità irrisorie la pena si riduce alla detenzione fino 4 anni e una multa fino a 10.329 euro. Morisi ha affidato la difesa all'avvocato Fabio Pinelli del Foro di Padova che parla di «fatto banale per quanto riguarda l'Autorità Giudiziaria».

Giacomo Salvini sul Fatto sostiene che nella Lega l’inchiesta su Morisi ha provocato un vero terremoto.

«"Sta venendo giù tutto". La voce è di un salviniano cosciente della drammaticità del momento. Sa che forse il peggio deve ancora venire. Perché Luca Morisi, il capo della Bestia social della Lega, non era solo un "nerd". Era molto di più: il suo era un sistema di potere. Dispotico - metteva ai margini chi non si adeguava alle sue regole di comunicazione - ma efficace: è stato lui a costruire la retorica anti-immigrati, l'immagine da uomo della strada di Matteo Salvini e lo stratega delle campagne elettorali del "Capitano". Venuto meno lui, anche la posizione del capo inizia a scricchiolare. Salvini ora è sempre più solo e isolato. Dicono che a Morisi chiedesse qualsiasi cosa: dall'ora in cui pubblicare un selfie ai temi su cui puntare per coprirsi a destra, contro Giorgia Meloni. Il problema è che il segretario non si è mai aperto alle varie anime del partito e la cerchia dei suoi consiglieri si è sempre più ristretta: due su tre oggi non ci sono più. Iva Garibaldi, che è andata a lavorare con Giancarlo Giorgetti al Mise, e Morisi, sono fuori. Resta Andrea Paganella, suo potente capo segreteria al Viminale e oggi suo uomo di fiducia. Ma è considerato un esterno al partito e, raccontano, non ha il polso dei gruppi parlamentari. Da qui gli errori e la confusione, anche comunicativa, di Salvini degli ultimi mesi. Il segretario parla, e decide, solo con lui e pochissimi altri. In parte perché non si fida (vedi Giorgetti), in parte perché ormai di fedelissimi ne ha pochi. Tutti fatti fuori o marginalizzati. Per scandali o perché nemici dell'ala silenziosa ma spietata di Giorgetti e dei governatori. In ordine: Armando Siri, Edoardo Rixi (dimessosi per le inchieste), Susanna Ceccardi, Lucia Borgonzoni (emarginate per le sconfitte), Claudio Durigon. E adesso Morisi. Chi ieri ha sondato gli umori dei colonnelli della segreteria della Lega ha trovato solo facce terree e incredulità. Perché il terrore è che altro possa venire fuori nei prossimi giorni e che questo sia solo l'inizio della fine. Le teorie complottistiche si sprecano: l'inchiesta a orologeria, i servizi, il processo a Palermo. "Anche con Bossi era stato così, tutto era partito con gli scandali della famiglia e del partito", drammatizza un salviniano. Lo choc nel partito è doppio perché lo scandalo arriva a 5 giorni dalle Amministrative che ora rischiano di andare malissimo. Anche perché sulla lotta alla droga e allo spaccio nelle periferie Salvini ha costruito la campagna elettorale. "Manca solo che becchino qualcuno di noi a trafficare coi migranti e siamo a posto", ironizzava ieri un parlamentare. In questo dramma si inserisce Giorgetti, che ieri ha dato una botta al segretario con un'intervista a La Stampa in cui il ministro ha sconfessato i candidati di centrodestra nelle città provocando l'ira del segretario. Per tutto il giorno, nelle chat leghiste, i salviniani romani e milanesi erano furiosi, da Durigon ai lombardi Grimoldi e Cecchetti. "È matto?", "Sleale", "A chi risponde Giancarlo?" i messaggi più duri. Il terrore del golpe dopo le elezioni è già realtà.».

Michele Serra per Repubblica ragiona sul metodo della “Bestia”, sostenendo che Morisi ha oggi bisogno di quello che non ha concesso agli altri.

«Chiede scusa, Luca Morisi, "per la debolezza e gli errori". Si congeda confessando "fragilità esistenziale" e affidandosi "a chi gli vuole bene". È sempre vile accanirsi su chi cade, o su chi sbaglia, e per giunta chi scrive questo articolo è antiproibizionista da quando Morisi e il suo capo, Matteo Salvini, andavano alle scuole elementari. Dunque per me è facile augurargli una veloce estinzione delle sue grane legali, perché chi si droga è un debole o un malato, non un delinquente; e un buon recupero della sua serenità umana, augurio sincero anche se sicuramente non sono tra quelli che gli vogliono bene. Ma è impossibile non vedere (e siamo sicuri che, ammaestrato dalla sua caduta, lo vede bene anche lui) che Luca Morisi oggi ha bisogno esattamente delle cose che non ha mai concesso agli altri, confermando che "non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" è, da sempre, il più violato dei princìpi morali. Lo staff mediatico del quale è stato l'artefice, la Bestia (che nome gentile!), ha praticato la sistematica bastonatura di chiunque dispiacesse a Salvini. Branco di soli maschi, una dozzina, e già questo è un programma, la Bestia ha azzannato senza tregua anche persone deboli, molto più deboli del suo padrone, che era potentissimo: leader e ministro. La Bestia è stata, e speriamo che di qui in poi non lo sia mai più, uno dei fenomeni più sgradevoli e violenti dello scenario politico-mediatico italiano. Zero dubbi, zero indugi, via spediti verso la liquidazione del nemico e l'esaltazione del capo. Insulti e sghignazzi per "voi", esaltazione e cameratismo per "noi", un sistema binario efficacissimo in quel mondo emotivo e poco dialettico che quelli come Morisi governano con il cinismo di quei manager per i quali conta solo l'obiettivo, crepi tutto il resto. Crepino dunque anche il dubbio, la sospensione del giudizio, il fair play verso l'avversario che crolla, crepi la pietà, che tra quei maschioni di potere, per anni in trionfale ascesa, è la virtù delle mezze cartucce. Se un nemico del Salvini fosse incappato in una storia identica a quella che oggi ha atterrato Morisi, la Bestia lo avrebbe sbranato. Luca Morisi questo lo sa benissimo, e noi speriamo che sia esattamente per questa ragione che lui e i suoi amici riescano a ripensare, ma seriamente, a tutto quello che hanno detto, fatto e scritto negli ultimi anni. Dev'essere davvero angoscioso appellarsi alla propria debolezza dopo avere trattato la debolezza degli altri (prima tra tutte quella dei migranti) con insofferenza, disprezzo, odio. Era difficile immaginare, per un luogotenente di Salvini, l'uomo che citofonava ai poveri cristi, spacciatori presunti, per sputtanarli in favore di telecamera, una nemesi più implacabile e più spietata. La prima mossa del Salvini è stata giusta, umanamente e politicamente giusta: ha detto che all'amico che sbaglia si deve garantire comunque amicizia, e non voltargli le spalle. Del tutto improbabile la seconda mossa, quella che cambierebbe, se non il mondo, almeno le modalità di comunicazione del sedicente Capitano: cambiare linguaggio e cambiare pensiero, rivolgersi con umanità e rispetto anche a chi non appartiene alla propria piccola cerchia. Oggi, fortunatamente, è una cerchia perdente, circostanza che - Morisi lo sa sicuramente, Salvini chissà - favorisce la riflessione, la maturazione, il cambiamento».

Michele Brambilla per il Quotidiano Nazionale invoca un principio: la compassione con chiunque faccia i conti con i propri limiti.

«Premessa: questo articolo non ha alcun contenuto né alcuna valutazione di tipo politico. Seconda premessa: non sono un elettore della Lega e non ho mai conosciuto, neppure per interposta persona, Luca Morisi, il creatore della "Bestia" (la macchina social di consensi pro Salvini) ora finito nei guai per un'inchiesta per cessione di stupefacenti. Terza premessa: non ho, non ho mai avuto alcuna indulgenza sul tema della droga, e credo che anche chi la consuma (non solo chi la spaccia) commetta un errore, danneggiando se stesso e le persone che gli stanno vicine. Droghe cosiddette "leggere" comprese. Tutto ciò premesso conservo un'istintiva, insuperabile compassione (etimologia: patire con) verso chiunque cada, chiunque perda, chiunque faccia i conti con il proprio limite. E le parole che ieri Luca Morisi ha reso pubbliche dopo la notizia dell'indagine nei suoi confronti mi hanno profondamente colpito. Morisi nega di avere commesso reati (cioè di avere spacciato) ma non si assolve. Scrive infatti: «Non ho commesso alcun reato ma la vicenda personale che mi riguarda rappresenta una grave caduta come uomo: chiedo innanzitutto scusa per la mia debolezza e i miei errori». In quel "ma" c'è già una grossa novità rispetto a quel che sentiamo dire solitamente da un indagato. Di solito, infatti, il "ma" viene utilizzato per giustificarsi («Ho sbagliato ma»). Morisi invece utilizza il "ma" per dire che, anche se non ha commesso reati (e su questo decideranno i giudici) è comunque responsabile di «una grave caduta umana». E poi ancora l'ammissione di «fragilità esistenziali irrisolte». Sono parole che inducono a non infierire, e a fare il tifo perché Luca Morisi possa rialzarsi. Ma sono anche parole che dovrebbero far riflettere tutti sul rischio del moralismo e sul dovere di non attaccare mai, sul piano personale, i rivali. Tutti, compresa la Bestia di Luca Morisi, che spesso sui rivali ha infierito, come ha ricordato ieri Matteo Renzi, che ha detto di non voler ricambiare con la stessa moneta. E siccome la Lega è stata durissima non solo sulla droga ma anche sui consumatori, la ministra Fabiana Dadone ha fatto bene ieri a ricordare l'ammonimento evangelico: «Scagli la prima pietra chi è senza peccato». Ciascuno di noi è un Luca Morisi: non importa se sulla droga o su altre debolezze. Chi crede di chiamarsi fuori è peggiore di qualsiasi debolezza».

IL CTS: CINEMA E TEATRI ALL’OTTANTA PER CENTO

Oggi il Consiglio dei Ministri dovrebbe rendere esecutiva la proposta del Comitato tecnico scientifico: cinema e teatri si potranno riaprire all’80 per cento. Gli stadi al 75. Il punto di Adriana Logroscino per il Corriere.

«L'allentamento, graduale, delle misure tocca anche i luoghi dello spettacolo, della cultura, dell'intrattenimento e dello sport. Il Comitato tecnico scientifico ieri, al termine di una lunga riunione, ha dato parere favorevole ad aumentare la capienza di cinema, teatri e sale da concerto, all'80% al chiuso, e al 100% all'aperto. Si potranno vendere più biglietti anche negli stadi, dove la capienza sale al 75% a patto però che si utilizzino tutti i settori, e nei palazzetti dello sport (50%). Infine per i musei cade ogni limitazione purché i flussi siano organizzati per garantire il distanziamento. Naturalmente sempre con obbligo di green pass. Nessuna data per la riapertura delle discoteche. Il mandato al Cts era arrivato in modo formale con l'ultimo decreto di estensione del green pass: prevedeva che i tecnici dell'organismo istituito dal ministero della Salute, licenziassero un parere «sulle misure di distanziamento, capienza e protezione nei luoghi nei quali si svolgono attività culturali, sportive, sociali e ricreative» in vista dei prossimi provvedimenti. L'aumento della capienza potrebbe essere disposta già domani dal Consiglio dei ministri. Una risposta alle sollecitazioni sempre più pressanti del mondo degli artisti, dello sport e fatte proprie dal ministro per la Cultura: «Se i treni sono pieni non capisco perché cinema e teatri ancora non possano tornare alla normalità», aveva dichiarato Dario Franceschini poco più di una settimana fa. Ieri anche il presidente del Coni, Giovanni Malagò ha fatto sentire la sua voce: «Il mondo dello sport reclama a pieno titolo la capienza massima all'interno degli impianti. L'alternativa sarebbe prevedere ristori». Il ragionamento generale, anche di molti popolari artisti che avevano assunto iniziative più o meno polemiche, parte da una considerazione: adeguare le regole dei luoghi della cultura a quelle di piazze (in cui si tengono le manifestazioni elettorali, per esempio) e mezzi di trasporto per effetto del green pass. Infatti, naturalmente, il Cts raccomanda anche per cinema, teatri e palazzetti la «massima vigilanza» sul rispetto dell'obbligo di indossare le mascherine in tutte le fasi degli eventi e «attenzione alla qualità degli impianti di aerazione». Intanto è stata firmata, dal direttore della Prevenzione del ministero della Salute Gianni Rezza, la circolare che avvia la somministrazione della terza dose di vaccini agli over 80, al personale e agli ospiti delle residenze per anziani, e «in un momento successivo», a chi esercita professioni sanitarie, a partire dai 60 anni, o in presenza di patologie o ancora a rischio per un'elevata esposizione all'infezione. «Diamo subito più protezione ai più fragili e a chi lavora nei presidi sanitari», riassume il ministro Speranza».

IL PATTO RESTA UN OBIETTIVO DI DRAGHI

Incontro governo sindacati ieri: al centro una serie di provvedimenti per rafforzare la sicurezza sul lavoro. Non si è parlato del patto sociale lanciato da Confindustria e fatto proprio da Draghi, ma nel retroscena di Galluzzo e Marro per il Corriere della Sera l’argomento resta cruciale.    

«Sul Patto per l'Italia, o come lo si voglia chiamare, governo e parti sociali giocano ancora a carte coperte. Certo, un po' è dovuto al fatto che l'incontro di ieri a Palazzo Chigi con i sindacati era convocato da tempo su un tema specifico, la sicurezza sul lavoro, e non per avviare un confronto più ampio. Ma la mancanza di quel calendario di incontri sui singoli temi, dalle pensioni al fisco, dagli ammortizzatori alle delocalizzazioni, indica che i tempi ancora non sono maturi per aprire le danze. Del resto, ognuno dei protagonisti ha idee diverse sul Patto. La scorsa settimana, all'assemblea della Confindustria, Draghi nemmeno voleva usare questa parola, preferendo l'espressione «Prospettiva economica condivisa», che non stringe il governo nella gabbia di una concertazione che potrebbe rasentare la cogestione. Esattamente quello cui invece aspira il leader della Cisl, Luigi Sbarra, e che all'opposto non piace affatto al leader della Cgil, Maurizio Landini, che vuole tenersi le mani libere per fare, se necessario, opposizione nelle piazze sulle singole partite, dalle pensioni al fisco. Prospettiva, questa, che preoccupa non solo il premier, impegnato con la messa a punto della manovra 2022 e l'attuazione del Pnrr, ma anche il presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, che ha fatto il massimo per spingere Draghi sulla strada del Patto, perché un clima di dialogo col sindacato aiuterebbe le imprese a massimizzare le opportunità offerte da questa fase di crescita e le potenzialità del Pnrr. Alla fine i tavoli si faranno, ma non sono ancora chiari né i tempi né i temi. Le parti, insomma, si stanno studiando. Ma Draghi un primo risultato lo ha rivendicato, ieri sera: «Abbiamo fissato un metodo». E Landini è apparso conciliante: «Finalmente ci sarà un confronto prima delle decisioni». Ma siamo appunto al metodo, non ai contenuti. Del resto, quella di ieri era la prima tappa di una fase che Draghi ha inaugurato all'assemblea di Confindustria e che nell'includere sindacati e imprese schiude una stagione nuova su cui in tanti si stanno interrogando. A Palazzo Chigi dicono solo che per ogni riforma o dossier, dal reddito di cittadinanza alle politiche attive sul lavoro, si aprirà un tavolo ad hoc. È dunque facile immaginare almeno cinque o sei tavoli, compreso il capitolo pensioni e quota 100 e quello sugli ammortizzatori sociali. Al momento, quello che ha in testa Draghi lo sanno pochissime persone, ma anche solo parlare di metodo incontra al momento lo smarrimento dei partiti: «Dovremo affrontare una mole enorme di lavoro e riforme - dicono nel Pd- ma come verremo coinvolti, e quanti attori sociali saranno ascoltati?». È probabile che il metodo Draghi sarà ancora una volta quello dell'ascolto, della registrazione delle diverse proposte e di una mediazione finale riversata nel provvedimento: un percorso che finora ha sempre funzionato, anche quando le distanze fra i partiti sembrano molto larghe. C'è da aggiungere che, includere in modo strutturale imprese e sindacati nella formulazione delle riforme chiave dell'esecutivo, significa di fatto diluire il peso specifico dei partiti. È probabile che Draghi decurterà lo stanziamento per il reddito di cittadinanza, oltre a modificare la struttura delle misure introdotte dai 5 Stelle: con l'appoggio di Confindustria avrà meno resistenze. Ma sarà così anche per altri argomenti: le politiche attive sul lavoro ad esempio. Il ministro Andrea Orlando ha lavorato ad una riforma che a giudizio dello staff del premier delega troppo alle Regioni e non risolve il gap strutturale del nostro Paese rispetto ai concorrenti europei. Anche in questo caso le eventuali resistenze del Pd saranno diluite in una consultazione che includerà altre voci in capitolo. E questo metodo, anche se è ancora da delineare in modo preciso, coinvolgerà anche gli ammortizzatori sociali, la fine di quota 100 con un probabile ampliamento dell'Ape sociale e l'aumento della lista dei lavori gravosi, il tema delle delocalizzazioni, che verrà in qualche modo «sprovincializzato» rispetto all'attuale concorrenza, chiamiamola così, fra Mise e e Ministero del Lavoro. Insomma il Patto di cui ha parlato Draghi non è ancora chiarissimo, ma è già un timore per tanti».

CASA E RIFORMA DEL FISCO

Non solo sicurezza sul lavoro o patto sociale, sul tavolo di Palazzo Chigi c’è anche il tema della riforma del fisco, catasto compreso. Oggi cabina di regia in vista del Consiglio dei Ministri. Tommaso Ciriaco di Repubblica.

«La delega fiscale nello stesso consiglio dei ministri che darà il via libera domani alla Nadef: è lo schema a cui lavora il governo in queste ore. È la svolta lasciata intuire ieri da Mario Draghi ai sindacati. Ed è considerata la soluzione logica. La "conta" delle risorse incide infatti anche sul progetto di rimodulare la tassazione ed eventuali aggiustamenti al rialzo del Pil, pure soltanto di pochissimi decimali, sarebbe benzina per alimentare il progetto del premier. Del quale farà parte con ogni probabilità - e se la politica lo consentirà - anche la revisione amministrativa del catasto e l'aggiornamento degli estimi catastali. Uno scenario avversato nettamente dal centrodestra, ma su cui il governo dovrebbe procedere comunque, forte di una circostanza: l'eventuale aggravio di spesa, per alcuni cittadini, non si concretizzerà in tempi brevi, visto che l'operazione richiederà del tempo. E dunque non ci sarà nell'immediato un aumento delle "tasse sulla casa", rispettando la promessa di non far crescere la pressione fiscale in una fase di crisi. Di contro, si porterà avanti quella che viene giudicata un'operazione di equità e trasparenza. Fino all'altro ieri, la tabella di marcia prevedeva di riunire oggi il cdm per approvare soltanto la Nadef. Alla fine, però, Palazzo Chigi decide assieme al Tesoro di rimandare di un giorno l'appuntamento con la Nota di aggiornamento al Def. Non solo per calcolare se il +6% del Pil può addirittura essere stimato in qualcosa di meglio, visto che al Mef si ipotizza informalmente qualche decimale in più (anche se ufficialmente nessuno conferma). Ma soprattutto per dare sostanza politica a questa scadenza di politica economica e di bilancio, affiancandole la riforma fiscale. Certo, conterà anche l'esito della cabina di regia che Draghi presiederà questo pomeriggio alle 17. È la sede in cui il premier illustrerà il progetto. E in cui farà i conti con la politica. Il nervosismo della vigilia descrive bene la delicatezza del momento, soprattutto per le voci che si rincorrono sulla riforma del catasto: il centrodestra teme di dover ingoiare una delusione su un dossier così sensibile, a pochi giorni dalle comunali. Resta il fatto che Draghi è intenzionato a procedere comunque. E questo perché i dati della Nota di aggiornamento al Def sono giudicati più che soddisfacenti. Il presidente del Consiglio li illustrerà mercoledì in conferenza stampa, insieme al ministro Daniele Franco. Spiegherà che si tratta di risultati ottimi, al di sopra anche delle stime di aprile. Ma dirà anche che quella annunciata nella Nadef è una performance comunque frutto di un rimbalzo, che si concretizza dopo la gelata della pandemia. Draghi ricorderà anche che l'obiettivo è rendere la crescita solida e duratura, strutturando un incremento del Pil superiore rispetto al passato. E questo per il premier significa dare in futuro all'Italia l'obiettivo di correre di un punto, un punto e mezzo in più dell'era pre-Covid, dunque tra il 2 e il 3%. Una necessità, oltre che un'ambizione, perché nei prossimi mesi bisognerà fa re i conti con l'eventuale inflazione. È uno spettro, quello dell'aumento dei prezzi, che ancora non morde in Europa, rispetto ad altre realtà mondiali. Ma di cui si scorge comunque la sagoma. Draghi ha spiegato in più occasioni di non sapere ancora se si tratti di un nodo strutturale o soltanto temporaneo. Ma ha anche aggiunto che soltanto l'aumento della produttività potrà bilanciare un'inflazione strutturale, che porta naturalmente a diminuire la competitività dell'export italiano. Non c'è modo migliore, per dare forza a questi messaggi, che accompagnarli con una prima riforma fiscale. Draghi lo sa, per questo pianifica di portarla in consiglio dei ministri già domani. Ascoltando le legittime ansie elettorali dei partiti. Ma senza congelare le scelte soltanto per assecondare chi intende mettersi di traverso».

LA CORSA AL QUIRINALE, LA MOSSA DI GIORGETTI

Su Repubblica Stefano Folli, che qualche giorno fa aveva lanciato l’idea del governo Draghi oltre il 2023, analizza l’uscita di Giancarlo Giorgetti sulla Stampa che ieri la Versione aveva segnalato. Ovviamente non ne condivide la previsione; per Folli l’ipotesi principale è un Mattarella bis.   

«Qualcosa sta cambiando nel rapporto tra la Lega e il governo Draghi. Finora Salvini era il "movimentista", impegnato a intercettare i sussulti sociali. Viceversa Giorgetti, uno dei ministri più vicini al presidente del Consiglio, interpretava il realismo di chi si fa carico del dovere di governare, rispondendo alle esigenze di un elettorato radicato nel tessuto economico. Nel tempo questo doppio registro ha permesso al Carroccio di ottenere consensi - veri o virtuali - mai immaginati in passato; alla lunga tuttavia ha mostrato la corda. Non è alle viste un "Papeete 2", un colpo di testa che Salvini non avrebbe la forza né l'interesse di realizzare, bensì qualcosa di più serio. Per averne un'idea, basta leggere la significativa intervista di Giorgetti alla Stampa . Il ministro non rinfocola le polemiche nel campo del centrodestra, salvo una critica ai candidati sindaci di Roma e Milano, Michetti e Bernardo, avviati a una disfatta annunciata. Però la sua analisi è intrisa di scetticismo circa le prospettive dell'esecutivo. Stiamo parlando dell'uomo che ha sempre difeso la scelta istituzionale della stabilità con l'argomento che i sacrifici sarebbero stati ripagati. Ora invece lascia capire che la tela politica su cui si regge Draghi è prossima a lacerarsi. L'anno venturo, via via che ci si avvicinerà alla fine della legislatura (primavera 2023), i partiti entreranno in concorrenza tra loro. Sarebbe necessario il massimo di concordia per le scadenze del piano di ripresa, ma il rischio è invece un rissoso immobilismo. A questo punto, sostiene Giorgetti, la soluzione migliore sarebbe tagliar corto. Meglio le elezioni che un crescente logoramento il cui prezzo maggiore - è solo un sottinteso, ma trasparente - verrebbe pagato da una destra divisa e in particolare da una Lega sbandata. Peraltro nelle ultime ore sono emersi altri episodi che confermano l'impressione di una certa confusione nel vertice leghista. A parte il caso Morisi, le cui implicazioni morali sono evidenti, al di là di eventuali risvolti penali, c'è la vicenda della funzionaria di polizia che parla in piazza contro il Green Pass. Un vicequestore che accusa lo Stato italiano di essere "dispotico", per cui "disobbedire è legittimo". E un ex ministro dell'Interno, votato alla campagna contro il documento sanitario, che la difende senza vedere l'assurdo di un quadro della polizia peraltro dall'ottimo curriculum - schierato contro le leggi che deve applicare. Come se fossimo nella Russia zarista pre-rivoluzionaria. Qual è allora la soluzione proposta da Giorgetti per frenare la deriva? Semplice, forse semplicistica: eleggere Draghi al Quirinale e ottenere così l'inevitabile scioglimento delle Camere. Tutto nasce, s' intuisce, dall'idea che non ci sarà il bis di Mattarella. Quindi verrà meno quel tandem che Draghi giudica essenziale proprio per controllare le tensioni del fine legislatura. Vedremo più avanti se davvero il capo dello Stato uscirà di scena. Ma per quanto riguarda Draghi, finora si è sottolineata la sua forza rispetto ai partiti deboli. Se adesso non è più vero, se il premier improvvisamente viene descritto come troppo debole per gestire i capi partito riottosi, allora egli sarà troppo debole anche per andare al Quirinale con il compito - dice Giorgetti - di sciogliere il Parlamento e di essere "il De Gaulle italiano". Vasto programma, avrebbe detto il generale. Di sicuro l'interesse di tutti consiste nell'usare la forza e il prestigio di Draghi, non di metterne in evidenza il lato debole per coprire qualche cortocircuito politico».

Giuseppe Conte è stato intervistato dal direttore della Stampa. Dice la sua sull’uscita di Giorgetti e sulle prospettive del governo Draghi.

«Il ministro Orlando ha detto che se Salvini uscisse dalla maggioranza non si strapperebbe i capelli. E lei? «È una valutazione complessa, potrebbe anche uscire, perché i numeri in Parlamento ci sono, ma credo non sia auspicabile un rafforzamento dell'opposizione in questa fase delicata, mentre attraversiamo il guado. Spero che la Lega si chiarisca le idee, non può dire una cosa e il suo contrario nella stessa giornata». In queste condizioni si può arrivare a fine legislatura? «Con questa maggioranza e questi problemi mi sembra improbabile arrivare al 2023». Quindi, come suggerisce sempre Giorgetti, Draghi al Quirinale e poi si va al voto? «Anche su questo vedo grande confusione: prima dicono Draghi fino al 2023, poi Salvini lancia Berlusconi per il Quirinale, ora Giorgetti ribalta la prospettiva. Io non partecipo al gioco della destabilizzazione, le tirate di giacca fanno male: per il Colle ci sono tante variabili da considerare e ne parleremo in prossimità della scadenza». Letta si è candidato a Siena per entrare in Parlamento e gestire la partita Quirinale, lei no. Non rischiate di non giocarla? «Mi sembra difficile, visto che siamo il partito di maggioranza relativa e abbiamo già dimostrato di saperci fare valere. Quanto a me, ho rifiutato il posto per le suppletive a Primavalle, perché non ho intenzione di andare in Parlamento, non credo che sia necessario che io sia lì». Servirà anche un accordo sulle riforme istituzionali? «Dopo questa tornata elettorale inviterò i leader dei partiti a confrontarsi: non possiamo fare una riforma completa, ma due o tre cose sono necessarie. La previsione di una sfiducia costruttiva in caso di crisi di governo, la modifica dei regolamenti parlamentari per evitare i passaggi da un gruppo all'altro nella stessa legislatura, il potere del presidente del Consiglio di revocare i ministri, serve un meccanismo di stabilizzazione della figura del premier». 

Sempre per La Stampa Ugo Magri, con la consueta arguzia, spiega che la candidatura di Draghi al Colle formulata dal ministro Giorgetti è il vero inizio della partita per il Quirinale.

«Il ministro dello Sviluppo candida Mario Draghi alla presidenza della Repubblica facendone nome e cognome, spiegando che incoronare il premier sarebbe «nell'interesse del Paese» e con la precisazione (per nulla superflua) che subito dopo torneremmo a votare, con tanti saluti al governo delle larghe intese. Fosse un'opinione qualunque, lascerebbe indifferenti; ma Giorgetti non è lì per caso; coordina i ministri della Lega; è figura pesante dentro il partito; è il terminale di mille contatti; ha tutti gli elementi in mano per formulare previsioni. Per lui Draghi è in campo. La corsa al Colle avrà in Super Mario il grande favorito. Domandarsi se lo gradisca o meno, se Giorgetti l'abbia preventivamente informato ovvero il premier sia stato lanciato a propria insaputa, è una curiosità inutile. C'è un interesse della Lega a voltare pagina in fretta. (…) La palla passa adesso a Draghi: il premier non si può nascondere. Qualunque sua mossa verrà letta nella prospettiva del Quirinale, che gli piaccia o meno (e se il premier non gradisce, tagliano corto da Giorgetti, «chissene frega»). I riflettori saranno tutti inesorabilmente su di lui. Calerà viceversa la pressione su Mattarella, con sollievo del diretto interessato. Se c'è qualcosa che sul Colle dava fastidio era quel continuo rimpallo con Draghi, la voce insistente per cui Mario resterebbe a guidare il governo, ma soltanto ed esclusivamente se Sergio gli coprisse le spalle accettando a sua volta di rimanere dov' è; magari non per tutti e sette gli anni, al massimo per un paio, giusto il tempo di tenere calda la poltrona del Quirinale. Può darsi che qualche fan del premier abbia fatto eco alle chiacchiere. Di sicuro, giurano lassù, in privato con Draghi non ne hanno mai nemmeno accennato, perché accettare un mandato a termine sarebbe poco degno per il presidente della Repubblica e per l'istituzione che rappresenta. Perché Mattarella ha già avuto e già dato. E sebbene non sia affatto stanco, diversamente da come si era dipinto con una scolaresca, conduce una vita che definire sobria è poco. Nelle apparizioni pubbliche delle ultime settimane si è colta la lieve euforia di chi sta portando a termine con onore (e buona sorte) una perigliosa missione. Se l'idea di un mandato a termine fosse stata messa in circolo per indurlo in tentazione, ha ottenuto con certezza l'effetto contrario. Cosicché adesso solo una catastrofe politica potrebbe fargli cambiare idea: se tutto andasse a rotoli e se i partiti (come fu con Giorgio Napolitano) glielo chiedessero in ginocchio. Una situazione imprevedibile e del tutto eccezionale: allora, chissà. Ma c'è di mezzo un'intera campagna presidenziale. Che con la candidatura Draghi è ufficialmente incominciata».

AFGHANISTAN, BARBIERI FUORILEGGE

In Afghanistan è vietato tagliarsi la barba: il regime mette al bando la rasatura. Mentre la Corte Penale Internazionale dell’Aja chiede la riapertura dell'inchiesta sui crimini talebani dal 2003. Luca Geronico per Avvenire.

«Barbe lunghe, per decreto, nell'Helmand e in diverse altre province dell'Afghanistan. «Nessuno ha il diritto di lamentarsi», si legge nel decreto affisso nei saloni da barbiere, perché tagliare o spuntare le barbe dei clienti è contrario alla sharia. I trasgressori dell'ordine, impartito pure nella capitale Kabul, saranno punti e i taleban potrebbero mandare degli ispettori. Il messaggio è chiaro, come pure, secondo quanto riporta la Bbc, i barbieri afghani devono «smettere di seguire lo stile americano ». Un terrore che passa di bocca in bocca e svuota le sale d'attesa: ormai nessun uomo osa radersi per non essere presi di mira, anche se nessun ordine esplicito sarebbe stato emesso dalla polizia religiosa al riguardo. Messo al bando lo "stile americano" delle acconciature, l'Afghanistan pare sempre isolato dal resto della comunità internazionale e si è ritirato dalla lista degli interventi al dibattito dell'Assemblea Generale dell'Onu. Una defezione dovuta allo stato di confusione in cui versano le istituzioni afghane. Infatti, secondo il programma, iscritto a parlare era l'ambasciatore Ghulam Isaczai, nominato dall'ex presidente Ghani. Isaczai è l'attuale ambasciatore afghano all'Onu, ma il ministro degli Esteri taleban Amir Khan Muttaqi aveva chiesto di parlare in Assemblea Generale, oltre ad aver nominato Suhail Shaheen come nuovo rappresentante. Intanto il nuovo procuratore della Corte penale internazionale dell'Aja, Karim Khan, ha chiesto che venga riaperta un'inchiesta sui crimini di guerra e contro l'umanità commessi dai taleban e dal Califfato islamico (Isis) in Afghanistan dal 2003 a oggi. La decisione è stata trasmessa ai taleban tramite l'ambasciata di Kabul all'Aja e si rifà alla possibilità della Corte penale internazionale di indagare non solo sui crimini commessi in passato, ma anche su quelli in corso. La precedente inchiesta della Corte penale internazionale (Cpi) era stata rinviata nell'aprile del 2020 accogliendo una richiesta dell'allora governo afghano di Ashraf Ghani di avere più tempo a disposizione per raccogliere prove. Ma il rinvio, ha precisato il procuratore generale Karim Khan, «non era inteso a creare un vuoto di impunità, né a sprecare l'opportunità per l'apertura di un'indagine». In Afghanistan «gli atti odiosi e criminali dovrebbero cessare immediatamente e le indagini dovrebbero iniziare quanto prima per rivendicare i principi che sono stati stabiliti 75 anni fa a Norimberga », ha dichiarato Khan. «L'attuale controllo de facto del territorio dell'Afghanistan da parte dei talebani e le sue implicazioni anche per l'applicazione della legge e l'attività giudiziaria in Afghanistan, rappresentano un cambiamento fondamentale», precisa una nota diffusa dalla Corte penale internazionale».

GB SENZA BENZINA, PETROLIO A 80 DOLLARI

Conseguenza della Brexit e della politica anti immigrazione: non ci sono più autotrasportatori in Gran Bretagna. Che si trova di colpo a secco di benzina. Lo racconta Luigi Ippolito per i lettori del Corriere.

«La Gran Bretagna è a secco: e gli inglesi sono finiti - insolitamente - nel panico più totale. Ai distributori non c'è più carburante, dopo un weekend di assalto alle pompe: il risultato sono code di veicoli per centinaia di metri, scazzottate fra automobilisti, gente che se le inventa tutte per saltare la fila (in maniera molto poco british). Il governo prova a minimizzare, ma intanto pensa a mettere in campo l'esercito. È il risultato della fuga dei camionisti dalla Gran Bretagna, per colpa del Covid e della Brexit: migliaia di autotrasportatori europei se ne sono tornati a casa a motivo della pandemia e adesso, scoraggiati dalle nuove regole sull'immigrazione, si tengono alla larga dalle strade britanniche. Si stima che ne manchino centomila all'appello: e per questo già la settimana scorsa le aziende petrolifere, dalla Bp alla Esso, non riuscivano più a far arrivare le autocisterne nei distributori. Nel weekend è scoppiato il panico e le stazioni di servizio sono state prese d'assalto: ben presto almeno la metà degli 8 mila distributori britannici è rimasta senza carburante. A Londra e nei dintorni c'erano automobilisti che giravano in pellegrinaggio - vano - da una stazione all'altra: un conducente, sfinito, si è rassegnato a passare la notte in macchina col serbatoio vuoto. Qualcuno provava a eludere la fila nascondendosi nei bagni della stazione di servizio; una donna è stata vista fare incetta di carburante riempiendo una bottiglia di plastica dopo l'altra. Tanti hanno perso la pazienza è in più di un caso si è arrivati alla rissa; un'ambulanza che cercava di evitare l'ingorgo si è schiantata contro le macchine (senza conseguenze, per fortuna). C'è allarme perché i lavoratori essenziali, in special modo quelli del servizio sanitario, rischiano di non essere in grado di arrivare al loro posto. E già si parla di un ritorno alla didattica a distanza nelle scuole, poiché molti insegnanti sono bloccati con le auto a secco in garage. Per il governo di Boris Johnson, il caos di questi giorni è fonte di grave imbarazzo: per i conservatori, cascare sul tema della competenza e della capacità di gestione è particolarmente scottante. Nel tentativo di metterci una pezza, il governo non esclude di far intervenire i soldati per guidare le autocisterne: ma non è cosa facile, perché i militari non hanno la preparazione tecnica adeguata. Allora, piuttosto, Boris ha infranto uno dei totem della Brexit, ossia la stretta sull'immigrazione europea: e ha promesso visti rapidi ai camionisti del continente. Ma si tratterebbe di permessi temporanei di sole 12 settimane, che non scatterebbero prima della metà di ottobre: e allora gli autotrasportatori europei non sembrano molto interessati. Da questa parte della Manica, c'è chi gode: i media britannici ieri sera davano grande rilievo alle dichiarazioni di Olaf Scholz, il candidato socialdemocratico vincitore delle elezioni tedesche, che in sostanza ha detto «avete voluto la Brexit, ora arrangiatevi». E da giorni sui social infuria la polemica tra quelli che dicono che è tutta colpa dell'uscita dalla Ue e quanti sostengono che le vere cause sono altre. Nel frattempo, si spera che la crisi si attenui da sola nei prossimi giorni: una volta che la gente ha riempito i serbatoi, non c'è più modo di mettere la benzina altrove e dunque la corsa ai distributori dovrebbe fermarsi. Ma c'è chi avverte che potrebbero volerci settimane prima di tornare alla normalità: e intanto Boris e il suo governo sono sempre più sulla graticola».

Davide Tabarelli, uno dei massimi esperti di energia in Italia, analizza per il Sole 24 Ore l’impennata del prezzo del petrolio che, come recita il titolo di apertura del quotidiano economico italiano, viaggia “verso gli 80 dollari” al barile. Durante la pandemia nel 2020 era sceso a 20 dollari.

«Mentre per le altre commodity energetiche è in corso un cataclisma, per il petrolio si assiste a un trend di recupero molto tranquillo. Vengono i brividi, però, a pensare che quanto accade per il gas possa contagiare anche il barile. Il Brent è risalito, per ora, verso la soglia degli 80 dollari, non toccata dall'ottobre 2018, livello quasi doppio rispetto alla media del 2020 di 42 dollari e 4 volte i minimi di 20 dollari del maggio 2020, in piena pandemia. Siamo però ancora lontani dai 100 dollari, che dal 2009 al 2014 furono la soglia di resistenza. Molto della ripresa degli ultimi giorni risiede proprio nei timori circa la scarsità che ha investito gli altri mercati, con la Cina e l'Europa in piena crisi: la prima più sul carbone, il cui prezzo è quadruplicato a quasi 200 dollari per tonnellata, la seconda sul gas, le cui quotazioni sono salite di 7 volte in un anno a 75 per Megawattora. Ci fossero ancora le centrali che consumano derivati del petrolio o lo stesso greggio per fare elettricità, allora l'impatto sarebbe stato già violento, ma oggi sono pochi i Paesi che hanno questo tipo di capacità: quelli del Medio Oriente, il Pakistan, la Corea del Sud, un po' il Giappone. Tuttavia la crisi elettrica, sulla spinta del gas e del carbone, sta diventando talmente seria da spingere molti consumatori in Cina a fare quello che avevano già fatto nel luglio del 2008, in pieno boom di domanda elettrica per le Olimpiadi, ovvero staccarsi dalla rete elettrica per avviare generatori a gasolio, soluzione diffusa nei Paesi poveri dove non arrivano le reti elettriche moderne. Questa domanda addizionale sta assorbendo volumi di distillati dalle scorte che erano rimaste alte in quanto la richiesta di cherosene, il prodotto destinato agli aerei, accusa ancora livelli di consumo inferiori di quasi un terzo rispetto al normale. È proprio agli aerei che occorre guardare, perché non appena ripartiranno, con la fine della pandemia, faranno tornare alla normalità la domanda globale di petrolio: verso i 100 milioni di barili giorno, il livello raggiunto nel 2019 prima del Covid, poi sceso a 91 milioni barili al giorno in media nel 2020, mentre quest' anno rimarremo intorno a 96 milioni. Sul lato dell'offerta per il momento ci salva l'Opec+, in particolare l'Arabia Saudita e la Russia, quella che ora consegna poco gas all'Europa. Il gruppo sta aumentando la produzione ogni mese al ritmo di 0,4 milioni barili al giorno, valore giusto per l'attuale recupero della domanda, ma sicuramente insufficiente non appena torneremo, a fine 2022, sopra i 100 milioni di barili e quando i consumi torneranno a salire al ritmo di 1 mbg in più ogni anno. Il rialzo del barile spinge sui prezzi dei carburanti: in Italia la benzina va verso 1,7 per litro e il gasolio a 1,55 , massimi anche questi che non si vedevano da fine 2018. Se non altro il sistema raffinativo e quello distributivo - del tutto dimenticati, se non ostacolati in questi anni - stanno funzionando bene, ma anche qua i segnali che vengono dalla Gran Bretagna, con le lunghe file ai distributori, dovrebbero se non altro ricordarci quanto siano importanti per la mobilità i derivati del petrolio che, da noi come nel resto del mondo, contano per oltre il 90% dei consumi energetici dei trasporti. Il rialzo alla pompa spingerà sul tasso d'inflazione e, assieme al colpo che arriverà sulle bollette, si supererà nei prossimi mesi abbondantemente il 3%, contro l'attuale 2,1%. Siamo ancora lontanissimi, per fortuna, dall'inflazione stile anni '70. Tuttavia, sarà una suggestione, ma quello che accade ricorda proprio le crisi di quegli anni: come a testimoniarci quanto poco abbiamo fatto in tutto questo tempo, distratti dall'altra suggestione, quella ecologica».

GRETA A MILANO PER IL PRE VERTICE SUL CLIMA

A proposito di ecologia, con il corteo che partirà da piazza Cairoli si aprono stamattina le cinque giornate di Milano dedicate all’emergenza climatica. In città è arrivata Greta Thunberg. La cronaca di Stefano Landi per il Corriere.

«Negli anni ha imparato a giocare a nascondino. È il destino di una ragazza diventata grande in fretta. Succede se lanci un appello, ti giri e sulle spalle ti ritrovi i ragazzi di tutto il mondo. Greta Thunberg è sbarcata ieri in Italia e stamattina aprirà le cinque giornate del clima di Milano, capitale green tra tavole rotonde, incontri e cortei. Si muove senza farsi vedere. Aiutata dall'opera di smistamento dei ragazzi del suo movimento, ormai allenati a dire una cosa, sapendo che ne farà un'altra. L'arrivo in stazione, zaino in spalla, a metà pomeriggio, da Francoforte. Greta è stanca, reduce da sette ore di treno, ma soprattutto dal tour in Germania, che l'ha vista prima sfidare la politica tedesca che si accingeva al voto, poi rincorrere altre cause aperte, con la tappa nella Ruhr, per alzare la voce nella zona delle miniere. Il lungo viaggio, come sempre con l'obbligo di non essere riconosciuta. Attenta anche a scansare, per quanto possibile, assembramenti, vista la sua nota fragilità fisica. Succederà anche a Milano, dove la Questura, preoccupata dall'idea di bagni di folla, le ha proposto una scorta. Invito declinato da Greta che come già successo in passato preferisce essere circondata (quindi protetta) solo dagli amici. Dai compagni di tante altre battaglie. La storia è antica, ma i precedenti la costringono ogni volta a scoprire che il suo approccio «orizzontale» non vale allo stesso modo in Svezia, come nel resto del mondo. A Stoccolma è abituata ad andare in giro da sola: nessuno la ferma. Poi quando si sposta, l'affetto e le attenzioni vanno oltre. Come successe a Madrid, a dicembre 2019, appena prima che la pandemia costringesse anche un movimento di massa e di piazza come Fridays for Future a lottare per il clima attraverso la tastiera di un computer. A Madrid Greta fu costretta ad abbandonare il corteo in lacrime, chiedendo l'aiuto delle forze dell'ordine, per farsi proteggere. L'attesa a Milano è enorme e qualcuno immagina che anche questa volta dovrà arrendersi alla solita evidenza. Intorno alle 10, l'icona del movimento più giovane che la storia conosca attaccherà il suo discorso d'apertura davanti ai ministri riuniti per il Youth4Climate all'ex Fiera di Milano. Ma l'attesa è soprattutto per vedere come scuoterà l'ambiente, mettendosi in testa al corteo studentesco venerdì e probabilmente anche nel prologo della manifestazione di sabato. Greta è arrivata accompagnata da alcuni amici attivisti. Perché è di loro che si fida: non a caso i portavoce sono ex compagni di scuola. Non è una strategia, nemmeno immagine. È l'idea maturata negli anni che sono gli unici che possono garantirle una vita nonostante l'etichetta di icona globale. Arrivando a Milano raccontava proprio del suo disagio di essere percepita come l'attivista impegnata e predicatrice. E invece nessuno sa che nella nuova casa, dove appena compiuti i 18 anni è andata a vivere, passa le ore con gli amici storici a guardare film e scherzare. A fare la vita di una 18enne qualunque. Quella che però in questi giorni riaccenderà la miccia della consapevolezza nel movimento sulla barricata per il futuro del pianeta. In testa al corteo che partirà alle 9.30 da piazza Cairoli. All'ultimo «sciopero», la settimana scorsa, erano (solo) 1.500 ragazzi. Questa volta, con i rinforzi in arrivo da tutta Europa, sarà onda colorata e rumorosa».

PAPA: NO ALLO SCARTO DI PASSATO E FUTURO

Papa Francesco ha parlato ai membri della Pontificia Accademia per la Vita. Gianni Cardinale su Avvenire spiega che Francesco ha denunciato con forza una cultura che scarta il futuro e il passato. Vittime soprattutto i bambini e gli anziani, questi ultimi bersaglio di un'eutanasia nascosta.

«L'aborto «è proprio un omicidio». La denuncia è forte e chiara. E Papa Francesco l'ha ribadita ieri ricevendo in udienza i membri della Pontificia Accademia per la vita (Pav), presieduta dall'arcivescovo Vincenzo Paglia. Lo ha fatto denunciando la «cultura dello scarto» che soggiace anche alla mentalità che promuove l'eutanasia esplicita e quella «nascosta» di chi priva delle medicine gli anziani o chi ne ha bisogno. Il Pontefice parte dal Covid. «Il rischio di nuove pandemie continuerà a essere una minaccia anche per il futuro », ha detto, suggerendo che la Pav «può offrire un prezioso contributo in tal senso, sentendosi compagna di strada di altre organizzazioni internazionali impegnate per questa stessa finalità». «Noi siamo vittime della cultura dello scarto», ha proseguito a braccio Francesco. Lo scarto «dei bambini che non vogliamo accogliere, con quella legge dell'aborto che li manda al mittente e li uccide direttamente». E oggi questo «è diventato un modo "normale", un'abitudine che è bruttissima, è proprio un omicidio». «È giusto eliminare, fare fuori una vita umana per risolvere il problema? È giusto affittare un sicario per risolvere il problema? Questo è l'aborto», ha insistito Francesco. «E poi dall'altra parte - ha subito aggiunto, sempre a braccio - ci sono gli anziani» che «sono un po' "materiale di scarto", perché non servono... » ma sono «le radici di saggezza della nostra società, e questa società li scarta!». Il papa quindi ha denunciato «l'eutanasia "nascosta"», quella che ci fa dire «le medicine sono care, se ne dà la metà soltanto», e questo «significa accorciare la vita degli anziani ». In questo modo, è il grido di dolore del Pontefice, «eliminiamo la speranza », la speranza «dei bimbi che ci portano la vita e che ci fanno andare avanti», e quella che «è nelle radici che ci danno gli anziani». «Stiamo attenti cultura dello scarto», è il monito di Francesco, «non è un problema di una legge o di altra, è un problema dello scarto». E in questa direzione, in questa «strada dello scarto», «le università cattoliche e gli ospedali cattolici non possono permettersi di andare». Il Papa ha osservato che «la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie procura nel mondo ogni anno milioni di morti evitabili». E «se compariamo questa realtà con la preoccupazione che la pandemia di Covid-19 ha provocato, vediamo come la percezione della gravità del problema e la corrispondente mobilitazione di energie e di risorse sia molto diversa». Per Francesco è «importante l'impegno per i vaccini», ma «in altri continenti mancano l'acqua e il pane quotidiano». «Ben venga - ha spiegato spiega - l'impegno per un'equa e universale distribuzione dei vaccini - è importante ma tenendo conto del campo più vasto in cui si esigono gli stessi criteri di giustizia, per i bisogni di salute e promozione della vita». «Non so se ridere o piangere - ha detto a braccio -, a volte piangere, quando sentiamo governanti o responsabili di comunità che consigliano agli abitanti delle baraccopoli di igienizzarsi le mani parecchie volte al giorno con acqua e sapone. Ma, caro, tu non sei stato in una baraccopoli: lì non c'è l'acqua, non conoscono il sapone. "No, non uscire di casa!": ma lì la casa è il quartiere tutto. Per favore, prendiamoci cura di queste realtà, anche quando riflettiamo della salute». La Pav è stata ricevuta in occasione dell'assemblea generale che ha a tema la salute pubblica nell'orizzonte della globalizzazione. Parlando a braccio Francesco ha anche manifestato la preoccupazione affinché tutti possano godere di un sistema sanitario gratuito. «E qui - ha detto -vorrei ripetere la mia inquietudine, perché ci sia sempre un sistema sanitario gratuito: non lo perdano i Paesi che l'hanno, per esempio l'Italia e altri, che hanno un bel sistema sanitario gratuito; non perderlo, perché altrimenti si arriverebbe a che, nella popolazione, avranno diritto alla cura della salute soltanto coloro che possono pagarla, gli altri no. E questa è una sfida molto grande. Questo aiuta a superare le disuguaglianze ». Per questo «sono da sostenere le iniziative internazionali», come quelle «recentemente promosse dal G20», volte a «creare una governance globale per la salute di tutti gli abitanti del pianeta, vale a dire un insieme di regole chiare e concertate a livello internazionale, rispettose della dignità umana». Infine il Pontefice ha ringraziato la Pav «per l'impegno e il contributo» fornito «partecipando attivamente alla Commissione Covid del Vaticano». «È bello - ha detto - vedere la cooperazione che si realizza all'interno della Curia Romana nella realizzazione di un progetto condiviso. Dobbiamo sviluppare sempre più questi processi portati avanti insieme, ai quali so che molti di voi hanno partecipato, sollecitando una maggiore attenzione alle persone più vulnerabili, come gli anziani, i disabili e i più giovani».

Leggi qui tutti gli articoli di martedì 28 settembre:

https://www.dropbox.com/s/5hcglmc1mp7uach/Articoli%20la%20Versione%20del%2028%20settembre.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana  https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

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